mercoledì 27 aprile 2011

Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 28 aprile 2011


Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…

Un murales che ricorda ''Sa die de sa Sardigna''

L’incontro di Seneghe, lo scorso 25 marzo, ha compiuto il percorso storico e logico che ci ha condotto dalla ricorrenza del 150° dell’Italia a sa die de sa Sardigna. Ha avuto inizio un confronto che si è posto quale punto di partenza per una riscossa culturale e sociale, capace di elaborare strategie di mutamento. Un cambiamento che deriva da studi, da dibattiti, da una messa a fuoco dei problemi della Sardegna, per proporre indirizzi, per alimentare una partecipazione, per unire forze disperse che nella disunione non portano a progetti di crescita. C’è bisogno di promuovere una presenza combattiva e maggiormente consapevole del proprio ruolo nel contesto attuale.

La crisi sarda è innanzitutto una crisi culturale e di forza progettuale, un ritardo nel cogliere i tempi giusti per la crescita, i modi, i tempi, i luoghi più pertinenti. Senza saperi, conoscenze, progetti, il tempo ci coglie sempre impreparati: altri sono padroni del nostro tempo.
Ci siamo lasciati ragionando di Sardegna e di unità d’Italia per incamminarci verso sa die de sa Sardigna offrendo a noi stessi, e ad altri che desiderassero avviarsi con noi nel cammino, dei nuovi appuntamenti.

Non sapevamo che il Consiglio regionale non avrebbe fatto memoria di sa die, seppure il disinteresse era già chiaro nel silenzio dei programmi e nella modestissima entità delle risorse previste. Tale insensibilità ci rattrista e offende, ma non ci stupisce. Sappiamo che fa male, a chi si pone nella subalternità, proporgli la memoria del dovere e del diritto alla libertà. Ma qui siamo di fronte all’abbandono dell’unica e più importante festa del Popolo sardo!

Con le 5 domande rivolte al re nel 1793 è iniziata la fase vertenziale della Sardegna moderna e con essa la rivoluzione della nostra contemporaneità. Tante cose ci dicono però che quella fase necessita di un’evoluzione veloce. La vertenzialità da sola è al tramonto perché rimanda ogni responsabilità all’esterno di noi. Ogni giorno le strade e le piazze della Sardegna vedono un popolo che protesta, ma le risposte restano sempre lontane, non arrivano o giungono solo nella forma utile agli interessi di altri. Così rischiamo di sprecare le dure e costose battaglie della nostra gente, mentre la frustrazione per le risposte non ricevute potrebbe presto portare allo scoramento e alla definitiva rinuncia.

Il destino della Sardegna è più che mai nelle mani dei sardi. E quindi, alimentando la consapevolezza dell’urgere di scelte importanti che proseguano l’antica aspirazione alla sovranità contenuta anche nelle “cinque domande”, a noi si dà la possibilità e l’obbligo di chiederci quali siano le domande che oggi dobbiamo porre a noi stessi per trovare le giuste risposte: al livello istituzionale, sociale, economico, culturale, politico. Come nel triennio rivoluzionario (1793 – 1796), ma apprendendo le lezioni della storia. Queste possono essere le nostre cinque domande dell’oggi, 28 aprile 2011.

1). E’ del tutto evidente la debolezza istituzionale e politica delle rappresentanze della Sardegna. Le cause non sono solamente da ricondurre ai limiti dello Statuto ma anche all’incapacità di affermare i propri diritti istituzionali. Nella prospettiva immediata non si intravvede come le forze politiche sarde possano mutare questo quadro desolante: non c’è un progetto condiviso e fermo di Statuto che risponda alle esigenze dei sardi, resta ancora tutta da costruire una forza contrattuale per sostenerlo nell’ambito del Governo e del Parlamento, l’esclusione dal Parlamento europeo è già essa stessa manifestazione ed effetto di tale debolezza. I sardi hanno perduto quella primogenitura federalista che i loro migliori uomini avevano difeso lungo tutto il Novecento, dopo che le stesse proposte erano state sconfitte nell’Ottocento a seguito della ‘fusione perfetta’ e dei modi con cui si concretizzò la formazione dello Stato italiano. Questa proposta si chiama ‘federalismo’. Quello che poche e inascoltate voci richiamano negli ultimi decenni a partire dalla grande crisi della fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Quello stesso federalismo che, riproposto oggi dalle regioni settentrionali, sembra configurarsi, invece che come una forma di condivisione della sovranità, come una forma di neocentralismo che rischia di rendere ancora più dura la dipendenza della Sardegna.

Quale la risposta a questa situazione? Dobbiamo forse prendere atto che l’impossibilità di esso a causa degli interessi settentrionali, e il sistematico boicottaggio dello Stato all’affermazione del nostro diritto alla sovranità e alla presenza in Europa, ci lasci quale unica alternativa la debacle di una nuova ‘perfetta fusione’? L’unica atto da compiere a breve non è forse quella della volontà e dell’iniziativa popolare nella forma dell’Assemblea Costituente?

2). Circa la questione sociale non mancano certamente le lotte, gli scioperi, i viaggi della protesta a Roma né le manifestazioni sindacali a Cagliari. Il fatto è che questa protesta e le risposte politiche regionali e nazionali non si misurano con obiettivi precisi di sviluppo, si vive nel contingente senza un piano preciso e dunque senza risultati, anche parziali, concreti.
Cresce nei comuni dell’interno la consapevolezza del proprio spopolamento ma tanti segnali ci manifestano i messaggi della non rassegnazione. E’ fondamentale la protesta cosciente e organizzata dei giovani come dispositivo di pressione e di orientamento politico.

Un piano B per le zone industriali deserte (Isili, Ottana tra le prime, quindi Porto Vesme e Porto Torres) e la bonifica integrale delle zone industriali, non rappresentano, oramai degli atti dovuti e delle scelte indilazionabili? Cosa ci proponiamo per il futuro dei piccoli comuni? Quale azione per verificare il significato e gli effetti dell’abnorme crescita di Cagliari e di Olbia, con la nuova spinta alla conurbazione delle coste, con lo spopolamento dei comuni dell’interno? Quale proposta per un futuro occupativo dei giovani dei paesi e delle città?

3). Le risorse locali – territoriali a vantaggio dei sardi. C’è l’urgenza di un protagonismo economico che ponga le risorse territoriali al centro della crescita: ambiente, turismo, agro-alimentazione, pastorizia, agricoltura, piccola industria, artigianato. E’ proprio il prodotto identitario che trova sbocco nel mercato mondiale.
L’eolico e il fotovoltaico sono in mano alle imprese multinazionali: alla Sardegna il degrado ambientale, i capitali a favore degli sfruttatori. Con la questione della Tirrenia permane e si aggrava la dipendenza nei trasporti.
Ma ciò che è più grave è la povertà delle risorse culturali: ultimi in Italia per livello di studio, con una grave dispersione scolastica e la crisi della scuola e dell’università.
E’ una debolezza che ci condanna sia nel campo di un moderno investimento delle risorse locali, sia per quanto riguarda gli investimenti tecnologici di imprese esterne. In questa prospettiva di crescita può darsi una risposta alla sfiducia dei giovani che non vedono orizzonti possibili e si adagiano in una condizione passiva.
Non è ormai urgente un confronto serio e propositivo che coinvolga le varie forze produttive, per dare loro uno spazio di parola e di progettualità, per formare soggettività che credono nel proprio ruolo? Non dovremmo rivalutare a fondo tutti coloro che, con il lavoro delle braccia e della mente, producono beni e ricchezza?

4). Mai come oggi nella realtà sarda è fondamentale il ruolo degli intellettuali. E’ necessaria una produzione culturale che riguardi l’economia e tutte le scienze umane e tecnologiche, riaffermando con fermezza l’importanza della lingua sarda nel processo della crescita. Una produzione culturale come produzione di senso, come informazione e formazione pubblica per una presa di coscienza. Produzione culturale come produzione materiale: scrittura, film, tv, teatro, musica, arti visive, che facciano da fermento per una presenza combattiva dell’opinione pubblica.
Oggi ogni produzione culturale è necessariamente produzione materiale e sociale, e viceversa.
Ogni prodotto materiale è un prodotto culturale: l’artigiano è un produttore di cultura materiale e simbolica. Si producono segni non oggetti, messaggi, non solo merce! Perciò la mobilitazione deve investire tutte le diverse attività produttive.
Non si impone forse un nuovo legame tra l’intellettualità delle città e quelle dei paesi, tra gli esperti dell’accademia e della scuola e le diffuse competenze, che riproponga il senso e il segno di un comune destino in questa Isola, con queste risorse umane ed economiche, con i doni della natura e quelli della nostra umanità? Non è forse giunto il tempo di fare il punto sul complessivo stato della cultura in Sardegna?


5). Noi tutti tocchiamo ogni giorno con mano i limiti della politica sarda, vediamo chiaramente che la Sardegna è abbandonata dallo Stato e mal governata. Ciò è dovuto alla modesta incidenza dei parlamentari sardi nel Governo e nel Parlamento italiano, nonché alla scarsa autorevolezza, anche personale, degli uomini politici sardi, sia nell’ambito dei diversi partiti, sia nei giuochi di potere. Per non parlare della debolezza politica della Giunta e del Consiglio regionale rispetto alle decisioni economiche e finanziarie del Governo centrale. Le responsabilità di questa situazione sono tante e vengono anche da lontano. Ma non ci interessa ora soffermarci sulle mancanze dei protagonisti della politica. Siamo pronti a riconoscere dei limiti al nostro non sufficiente operare. I discorsi che al momento ci appaiono pressanti sono i programmi e le azioni capaci di portarci al di là della presente situazione.
Potremmo porre ai Consiglieri regionali una domanda sul senso e le modalità del loro ruolo nella più importante istituzione della Sardegna. Dovremmo anche noi interrogarci se, in assenza della necessaria assunzione di impegno, non sia urgente un’azione che provenga dalla società, dalla cultura, dalle forze economiche e dagli enti locali per assumersi anche le responsabilità dolorose che una verificata insufficienza e latitanza delle rappresentanze istituzionali comporta.

Chiunque sia in grado di provare queste esigenze e di mettersi con noi in cammino sulla strada delle possibili soluzioni è un nostro compagno di viaggio. Ci incontreremo di nuovo a Seneghe, nella Casa Aragonese, sabato 21 maggio 2011, a partire dalle ore 9,30.



Sa die de sa Sardigna 2011

COMUNICATO STAMPA

Presso la Casa Aragonese del comune di Seneghe si svolgerà, sabato 21 maggio, un incontro e un dibattito sui temi più urgenti della Sardegna. Esso si pone in continuità con l’incontro del 25 marzo scorso, svolto anch’esso a Seneghe, che è stato ricco di elaborazioni storiche e di interferenze tra la ricorrenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e le questioni poste da sa Die de sa Sardigna. E’ nata così l'esigenza di proseguire la riflessione e di orientarla verso i temi più urgenti della realtà sarda nella prospettiva di approfondire l'analisi e di rinforzare sia la speranza progettuale e sia le proposte programmatiche.
In riferimento alla festa dei Sardi del 28 aprile, si è pensato di formulare cinque domande in analogia con le cinque domande rivolte al re nel 1793 che ha iniziato, per così dire, la fase vertenziale della Sardegna moderna.
Sono cinque domande che investono l'aspetto istituzionale, sociale, economico e culturale per come le questioni si presentano nell'attuale momento storico con i propri caratteri di urgenza.
Questione istituzionale che ci interroga sull'elaborazione dello statuto sardo e sulla forza contrattuale con lo Stato.
Questione sociale che pone il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile, lo spopolamento dei piccoli comuni dell'interno, la drammaticità della crisi industriale.
Una domanda fondamentale riguarda il modello di sviluppo: valorizzazione delle risorse locali, calcolato investimento nell’eolico e nel solare a beneficio dei sardi, questione dei trasporti che condiziona anche lo sviluppo turistico.
Come interrogarsi sul ruolo degli intellettuali come impegno sociale e come produzione culturale che investa l'economia e l'innovazione tecnologica delle forme produttive? E quale ruolo esercitano essi nella formazione dell'opinione pubblica e nella riformulazione radicale della scuola sarda?
La domanda conclusiva ci interroga tutti gli sulla qualità della politica sarda e sulla incidenza dei politici sardi nei confronti dello Stato a difesa degli interessi della Sardegna.
Queste sono le questioni che saranno introdotte da studi specifici e arricchite da molteplici contributi e da liberi interventi.
I sottoscritti si danno appuntamento a Seneghe, presso la Casa Aragonese del Comune, sabato 21 maggio 2011, alle ore 9,30. I cittadini sono invitati a ragionare e discutere con noi, in continuità con Sa die de sa Sardigna.

Firma: Bachisio Bandinu (antropologo, giornalista), Antonio Buluggiu (insegnante), Luciano Carta (storico, dirigente scolastico), Vittoria Casu (docente universitario, già consigliere regionale), Placido Cherchi (antropologo) , Alberto Contu (storico), Gianfranco Contu (storico) , Mario Cubeddu (storico, insegnante), Salvatore Cubeddu (sociologo), Giuseppe Doneddu (storico, docente universitario), Federico Francioni (storico, insegnante), Gianni Loy (docente universitario), Piero Marcialis (attore, insegnante), Piero Marras (cantautore,già consigliere regionale), Luciano Marrocu (storico, docente universitario), Alberto Merler (sociologo, docente universitario), Nicolò Migheli (sociologo), Maria Antonietta Mongiu (archeologo, insegnante, già assessore regionale), Giorgio Murgia (già consigliere regionale), Michela Murgia (scrittrice, insegnante), Paolo Mugoni (insegnante), Maria Lucia Piga (sociologo, docente universitario), Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore), Paolo Pillonca (giornalista, scrittore), Mario Puddu (insegnante, scrittore), Vindice Ribichesu (giornalista), Andrea Vargiu (docente universitario).

giovedì 21 aprile 2011

Minamisoma, la città simbolo della catastrofe

Colpita dal terremoto e dallo
tsunami l’11 marzo, oggi la città
costiera del Tohoku è
minacciata dalla crisi nucleare.
Intanto sulla Tepco piovono le
richieste di risarcimento
Justin McCurry
Global Post



Se c’è un posto che riassume la portata della tragedia che si è abbattuta sul Giappone quello è Minamisoma. Nel terremoto e nello tsunami dell’11 marzo questa città costiera nella prefettura di Fukushima ha perso 1.470 abitanti, e cinque settimane dopo la popolazione rimasta vive in un limbo nucleare. Una parte della città si trova infatti nella zona compresa entro i 20 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, dichiarata proibita. Nel giro di pochi giorni dall’inizio della crisi nucleare, i 70mila abitanti di Minamisoma erano diventati diecimila, trasferiti con degli autobus nei centri di accoglienza a centinaia di chilometri di distanza.

Oggi, anche se alcuni ritornano, Minamisoma è di fatto una città fantasma. L’11 aprile, l’estensione dell’area di evacuazione ad alcune zone a 40 chilometri dalla centrale ha aggravato la situazione di una comunità già tormentata. Per completare il nuovo ordine di evacuazione, che interessa decine di migliaia di persone, ci vorrà un mese. Nel frattempo il lusso degli abitanti che avevano cominciato a tornare a casa,incoraggiati dalla diminuzione della radioattività, potrebbe fermarsi.

Nonostante le rassicurazioni delle autorità circa i livelli delle radiazioni, il premier Naoto Kan ha ammesso di non sapere quando sarà possibile revocare l’allarme in posti come Minamisoma e, tramite il suo portavoce, ha ammesso che chi abitava vicino all’impianto non potrà tornare a casa prima di dieci o vent’anni. Kan ha poi ritrattato, ma ormai il danno era fatto. “È scandaloso”, ha commentato Michio Furukawa, sindaco di Kawamata, prefettura di Fukushima. “Ha idea dei sacriici che stiamo facendo?”.

Indennizzi in tempi rapidi
La decisione di estendere la zona di evacuazione è stata resa nota lo stesso giorno
in cui le autorità hanno alzato la gravità dell’incidente di Fukushima al livello 7, al pari di Cernobyl. La contaminazione causata dalla centrale giapponese è solo un decimo di quella sprigionata dal reattore sovietico, ma l’iniziale fuga radioattiva e i timori per la salute dei residenti delle zone circostanti hanno lasciato poca scelta al governo, che ha dichiarato quella di Fukushima Daiichi una “catastrofe grave”.

Una decisione che ha fatto aumentare le pressioni sulla Tokyo electric power company (Tepco) in merito ai risarcimenti. Circa 48mila famiglie nel raggio di 30 chilometri dalla centrale hanno i requisiti per ricevere un indennizzo provvisorio, pari a un milione di yen (circa 8.300 euro) per le famiglie e a 750mila yen per le persone che vivono da sole. Il totale ammonta a cinquanta miliardi di yen, senza però contare le richieste che arriveranno da agricoltori e pescatori della zona.

Anche la federazione delle cooperative agricole giapponesi, infatti, ha chiesto un
risarcimento immediato per i danni derivati dal divieto di vendita di alcuni prodotti e per la disinformazione sulla frutta e la verdura della regione, ingiustamente ritenute pericolose. “È inaccettabile”, ha dichiarato la federazione. “Nelle zone colpite è in pericolo la base stessa dell’agricoltura, con conseguenze disastrose per i coltivatori”.


Da sapere
Il 17 aprile la Tokyo elecrtic power company
(Tepco), che gestisce la centrale di Fukushima,
ha presentato un piano per risolvere la crisi
nucleare nel giro di nove mesi. In una prima
fase si cercherà di rafreddare i reattori,
portando la temperatura sotto i 100 gradi
centigradi, per poi ridurre la quantità del
materiale radioattivo nella seconda fase.

La Tepco ha precisato che non è del tutto sicura
che l’operazione avrà successo.
Il 20 aprile il governo giapponese ha preso in
considerazione la possibilità di rafforzare il
controllo delle zone contaminate rendendo
obbligatoria l’evacuazione e impedendo
tassativamente l’ingresso ai residenti sfollati e
ai giornalisti.

Otto proposte urgenti per un’altra Europa

Éric Toussaint
cadtm.org/
Tradotto da Curzio Bettio

Il CADTM, il Comitato per l’Annullamento del Debito del Terzo Mondo, fondato in Belgio il 15 marzo 1990, è una organizzazione internazionale costituita da membri e comitati locali con sede in Europa, Africa, America Latina e Asia. Agisce in coordinazione con altre organizzazioni e movimenti che lottano per il medesimo obiettivo ( “Jubilé Sud” e altre campagne operanti per l’annullamento del debito e l’abbandono delle politiche di aggiustamenti strutturali). Il suo impegno principale: l’elaborazione di alternative radicali miranti al soddisfacimento universale di bisogni, di libertà e dei diritti umani fondamentali.

La crisi scuote l’Unione Europea fino alle sue fondamenta. Per diversi paesi, il nodo scorsoio del debito pubblico li ha costretti e sono stati afferrati alla gola dai mercati finanziari.
Con la complicità attiva dei governi in carica, della Commissione europea, della Banca Centrale europea e del Fondo Monetario Internazionale, le istituzioni finanziarie all’origine della crisi si stanno arricchendo e speculano sui debiti dello Stato.

Il padronato approfitta della situazione per lanciare un’offensiva brutale contro tutta una serie di diritti economici e sociali della maggioranza della popolazione.
La riduzione dei disavanzi pubblici deve essere necessariamente attuata, però non riducendo la spesa pubblica sociale, ma attraverso maggiori entrate fiscali, combattendo la grande evasione fiscale e tassando maggiormente i capitali, le transizioni finanziarie, i patrimoni e le rendite dei grandi benestanti.

Inoltre, per ridurre il déficit, bisogna ridurre radicalmente le spese per gli armamenti, e tutte quelle altre spese socialmente inutili e pericolose per l’ambiente. Nel contempo, è indispensabile aumentare la spesa sociale, in particolare per compensare gli effetti della depressione economica. Ma al di là di tutto ciò, bisogna considerare questa crisi come una possibilità di rompere con la logica capitalista e di realizzare un cambiamento radicale della società.
La nuova logica da costruire deve rompere con il produttivismo, incorporare la distribuzione di servizi ecologici, sradicare le differenti forme di oppressione (razziale, patriarcale, ecc.) e promuovere i beni comuni.
Per questo, bisogna costruire un fronte anticrisi, tanto su scala europea che locale, in modo da riunire le energie per creare un rapporto di forza favorevole alla messa in attuazione di soluzioni radicali centrate sulla giustizia sociale e ambientale.
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Nell’agosto 2010, il CADTM ha formulato otto proposte rispetto all’attuale crisi in Europa[1].

L’elemento centrale resta la necessità di procedere all’annullamento della parte illegittima del debito pubblico. Per pervenire a questo, il CADTM raccomanda la realizzazione di una revisione del debito pubblico da effettuarsi sotto il controllo dei cittadini.
Questa revisione, in particolari circostanze, dovrà combinarsi con una sospensione unilaterale e sovrana del rimborso del debito pubblico. L’obiettivo della revisione è quello di giungere ad un annullamento/ripudio della parte illegittima del debito pubblico e ad una forte riduzione della parte residua del debito.
La riduzione radicale del debito pubblico è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per fare uscire dalla crisi i paesi dell’Unione Europea. Bisogna completare la manovra attraverso tutta una serie di misure di varie dimensioni nei diversi settori.

Realizzare una revisione del debito pubblico al fine di annullarne la parte illegittima

Una parte importante del debito pubblico degli Stati dell’Unione Europea è illegittima, in quanto risultato di politiche deliberate da governi che hanno deciso di privilegiare sistematicamente una classe sociale, la classe dei capitalisti e degli altri strati favoriti, a detrimento del resto della società. La diminuzione delle imposte sui redditi alti delle persone fisiche, sui loro patrimoni, sugli introiti delle società private ha indotto i poteri pubblici ad aumentare il debito pubblico per colmare il buco lasciato da questa riduzione fiscale.
Inoltre, i poteri pubblici hanno fortemente aumentato il carico delle imposte sui redditi delle famiglie più modeste, che costituiscono la maggioranza della popolazione.
A tutto ciò, dal 2007-2008, è andato a sommarsi il salvataggio delle istituzioni finanziarie private, responsabili dirette della crisi, che è costato molto caro alle finanze pubbliche e che ha fatto esplodere il debito pubblico.
L’abbassamento delle entrate provocato dalla crisi causata dalle istituzioni finanziarie private ha dovuto essere ancora una volta compensato da massicci prestiti.
Questo quadro generale assegna chiaramente il marchio di illegittimità ad una parte importante dei debiti pubblici.

A questo si aggiungono altre fonti evidenti di illegittimità in un certo numero di paesi soggetti al ricatto dei mercati finanziari.
I nuovi debiti contratti a partire dal 2008 si sono prodotti in un contesto in cui i banchieri (e altre istituzioni finanziarie private) hanno utilizzato ed utilizzano il denaro fornito a bassi tassi di interesse dalle banche centrali per speculare, e costringere i poteri pubblici ad aumentare le rimunerazioni che a queste banche private i governi devono versare.
Di più, nei paesi come la Grecia, l’Ungheria, la Lettonia, la Romania o l’Irlanda, i prestiti accordati dal Fondo Monetario Internazionale sono stati accompagnati da condizioni che costituiscono una violazione dei diritti economici e sociali delle popolazioni. A peggiorare le cose, queste condizioni favoriscono una volta di più i banchieri e altri istituti finanziari.
Sono anche queste le ragioni che marchiano di illegittimità le condizioni imposte.
Infine, in alcuni casi, la volontà popolare viene schernita: per esempio, quando, nel febbraio 2011, gli Irlandesi hanno votato a larga maggioranza contro i partiti che avevano fatto dei regali ai banchieri e avevano accettato le condizioni imposte dalla Commissione europea e dal Fondo Monetario Internazionale, la nuova coalizione di governo ha perseguito grosso modo la medesima politica dei precedenti governanti.

Più generalmente, in alcuni paesi si assiste ad una marginalizzazione del potere legislativo a favore di una politica dei fatti compiuti imposta dal potere esecutivo, che sottoscrive accordi con la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale. Poi, il potere esecutivo presenta al Parlamento questi accordi che hanno la caratteristica del « prendere o lasciare ». Si arriva perfino a dibattiti senza votazione, organizzati su argomenti di primaria importanza. Si rafforza la tendenza del potere esecutivo di trasformare l’organo legislativo in un ufficio del Registro.
In questo contesto estremamente inquietante, con la consapevolezza che una serie di Stati, prima o poi, dovrà confrontarsi con il rischio concreto di insolvenza per mancanza di liquidità, e che il rimborso di un debito illegittimo è per principio inaccettabile, è opportuno pronunciarsi in modo chiaro per l’annullamento dei debiti illegittimi. Annullamento, i cui costi devono essere sostenuti dai responsabili della crisi, vale a dire dalle istituzioni finanziarie private.
Per paesi come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo o alcuni paesi dell’Europa dell’Est (e per paesi come l’Islanda, esterni all’Unione Europea), vale a dire per quesi paesi sottoposti al ricatto degli speculatori, del Fondo Monetario e di altri organismi come la Commissione europea, è opportuno ricorrere ad una moratoria unilaterale del rimborso del debito pubblico.
Questa proposta assume crescente popolarità nei paesi più toccati dalla crisi.

A Dublino, alla fine di novembre 2010, in una inchietsa di opinione realizzata per telefono su un campione di 500 persone, il 57% degli Irlandesi interrogati si è pronunciato a favore di una sospensione del pagamento del debito (default, in inglese), piuttosto che ricevere l’aiuto d’urgenza da parte del Fondo Monetario Internazionale e di Bruxelles.
«Default! say the people – Default ! afferma la gente » (la gente per la sospensione del pagamento), titolava il Sunday Independent, principale quotidiano dell’isola.
Secondo il CADTM, una moratoria unilaterale di questa natura deve combinarsi con la realizzazione di una revisione dei prestiti pubblici (con la partecipazione e sotto controllo dei cittadini).
La revisione deve permettere di fornire al governo e all’opinione pubblica le prove e gli argomenti necessari all’annullamento/ripudio della parte del debito identificato come illegittimo.
Il diritto internazionale e il diritto di ogni Stato offrono una base legale per una tale azione suprema unilaterale di annullamento/ripudio.

Per i paesi che ricorrono alla sospensione del pagamento, il CADTM, data l’esperienza maturata sulla questione del debito dei paesi del Sud del mondo, mette in guardia contro una misura insufficiente, come può essere la semplice sospensione del rimborso del debito, che può rivelarsi controproducente. È necessaria una moratoria senza l’aggiunta di interessi per il ritardo sulle somme non rimborsate.
In altri paesi come la Francia, la Gran-Bretagna o la Germania, non è necessariamente obbligatorio decretare una moratoria unilaterale durante la realizzazione della revisione.
Naturalmente, anche in questi casi la revisione deve essere condotta in modo da determinare l’entità dell’annullamento/ ripudio al quale si deve procedere.
In caso del deteriorarsi della congiuntura internazionale, può venire di attualità una sospensione del pagamento anche per quei paesi che si ritengono al riparo dai ricatti dei prestatori privati.
La partecipazione dei cittadini è l’imperativa condizione per garantire l’obiettività e la trasparenza della revisione.
Nello specifico, la commissione delegata alla revisione dovrà essere composta dai rappresentanti delle istituzioni dello Stato interessate, così come da esperti della revisione delle pubbliche finanze, da economisti, da giuristi, da costituzionalisti, dai rappresentanti dei movimenti sociali…

La commissione permetterà di determinare le diverse responsabilità nei processi di indebitamento e di esigere che i responsabili nazionali ed internazionali rendano conto alla giustizia.
In caso di atteggiamento ostile del governo in carica nei confronti della revisione, diventa necessario costituire una commissione di revisione civica senza partecipazione governativa.
In ogni caso, è legittimo che le istituzioni private e le persone fisiche con redditi elevati, che detengono titoli di questi debiti, sopportino il fardello della cancellazione dei debiti sovrani illegittimi, in quanto portano in modo largo la responsabilità della crisi, da cui per di più hanno tratto largamente profitto.

Il fatto che essi debbano sopportare l’onere della cancellazione è appena un giusto ritorno verso una maggiore giustizia sociale. È importante istituire un registro dei possessori di titoli in modo da potere indennizzare fra costoro i cittadini con redditi bassi e medi.
Se la revisione dimostra l’esistenza di reati connessi all’indebitamento illegittimo, gli autori di questi crimini dovranno essere severamente condannati a pagare riparazioni e non dovranno sfuggire alle pene della carcerazione, in proporzione alla gravità delle loro azioni. Bisogna chiedere conto nei tribunali a quelle autorità che hanno lanciato i prestiti illegittimi.
Per quanto riguarda i debiti che non sono oggetto di illegittimità, sarebbe opportuno imporre uno sforzo ai creditori in termini di riduzione dei tassi di interesse su azioni e obbligazioni, accompagnando questo con uno spostamento della scadenza del rimborso.

Inoltre, sarebbe giusto effettuare una distinzione positiva in favore dei piccoli detentori di titoli del debito pubblico, che converrà rimborsare normalmente.
Inoltre, l’importo a carico del bilancio statale per il rimborso del debito dovrà essere limitato a seconda dello stato dell’economia, della capacità dei poteri pubblici a rimborsare e del carattere incomprimibile delle spese sociali.
Tutto questo sull’esempio di ciò che è stato fatto per la Germania dopo la Seconda guerra mondiale.

L’Accordo di Londra del 1953 relativo al debito tedesco, che in modo specifico consisteva nel ridurre del 62% l’ammontare del debito, stipulava che il rapporto fra il servizio del debito e le rendite dalle esportazioni non doveva andare oltre il 5 %[2].
Per meglio definire un rapporto di questa natura: l’importo destinato al rimborso del debito non può superare il 5% delle entrate statali.
Allo stesso modo, bisogna adottare un quadro di legalità, al fine di evitare il ripetersi della crisi che ha visto il suo inizio nel 2007-2008: proibizione di socializzare i debiti privati, obbligo di organizzare una revisione permanente delle politiche di indebitamento pubblico con la partecipazione della società civile, imprescrittibilità dei reati collegati con l’indebitamento illegittimo, dichiarazione di nullità dei debiti illegali…

2. Bloccare i piani di austerità, che sono ingiusti e approfondiscono la crisi.

In accordo con le esigenze del Fondo Monetario Internazionale, i governi dei paesi europei hanno fatto la scelta di imporre ai loro popoli politiche di rigorosa austerità, con tagli netti alle spese pubbliche: licenziamenti nel pubblico impiego, congelamento o riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, limitazione all’accesso a determinati servizi pubblici vitali e alla protezione sociale, innalzamento dell’età pensionabile.
Al contrario, le imprese pubbliche reclamano – e ottengono – un aumento delle loro tariffe, e nel contempo i costi per l’accesso alla sanità e all’istruzione sono rivisti verso l’alto. Il ricorso ad aumenti di imposte indirette particolarmente ingiuste, in particolare dell’IVA, è in crescita.
Le Aziende di Stato, competitive nei loro settori con le imprese private, vengono fortemente privatizzate.
Le politiche di rigore attuate sono spinte ad un livello che non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale. Gli effetti della crisi sono anche amplificati da quei pretesi rimedi, che principalmente mirano a tutelare gli interessi dei detentori del capitale.

In breve, i banchieri bevono, i popoli sono i capri espiatori!
Ma la gente sopporta sempre meno l’ingiustizia di queste riforme caratterizzate da una regressione sociale di grandi dimensioni.
In termini relativi, sono i lavoratori dipendenti, i salariati, i disoccupati e le famiglie a basso reddito che sono i più sfruttati, in modo tale che gli Stati continuino ad ingrassare i creditori.
E fra le persone più colpite, sono le donne ad occupare il primo posto, in quanto l’organizzazione attuale dell’economia e della società patriarcale fa pesare su di loro gli effetti disastrosi della precarietà, del lavoro parziale e sottopagato. Direttamente interessate dalle degradazioni dei servizi pubblici sociali, sono le donne a pagare il prezzo più alto. La lotta per imporre un’altra logica è indissociabile dalla lotta per il rispetto assoluto dei diritti delle donne.

3. Stabilire una effettiva giustizia fiscale europea e un’equa ridistribuzione della ricchezza. Impedire e vietare le transazioni con i paradisi fiscali e giudiziari. Lottare contro la fraudolenta e massiccia evasione fiscale delle grandi imprese e dei più ricchi.

Dal 1980, le imposte dirette, per i redditi più alti e per le grandi imprese, non hanno mai smesso di abbassarsi. Così, nell’Unione Europea, dal 2000 al 2008, i tassi superiori di imposta sul reddito e le imposte sulle società hanno visto una diminuzione rispettivamente di 7 e 8 punti. Quelle centinaia di miliardi di euro in sgravi fiscali sono state in gran parte orientate verso la speculazione e l’accumulazione di ricchezza per i più abbienti.
Bisogna combinare una profonda riforma della fiscalità, ai fini della giustizia sociale (riduzione dei profitti e dei patrimoni dei più ricchi per aumentare quelli della maggioranza della popolazione) con una sua armonizzazione a livello europeo per impedire il dumping, la sperequazione, fiscale[3]. L’obiettivo è un aumento delle entrate pubbliche, in particolare attraverso le imposte progressive sul reddito delle persone fisiche più ricche (il tasso marginale sulla quota più elevata dei redditi deve essere portato al 90 %[4]), attraverso l’imposta sui patrimoni a partire da un certo ammontare e l’imposta sulle società.
Questo aumento delle entrate deve andare di pari passo con una rapida riduzione del prezzo di accesso ai beni e servizi di prima necessità (alimenti di base, acqua, elettricità, riscaldamento, trasporti pubblici, materiale scolastico…), in modo particolare con una decisa riduzione dell’IVA tutta concentrata sui beni e i servizi essenziali. Allo stesso modo, si tratta di adottare una politica fiscale che favorisca la protezione dell’ambiente, tassando in maniera dissuasiva le industrie inquinanti.
L’Unione Europea deve adottare una tassa sulle transazioni finanziarie, specialmente su quelle che avvengono nel mercato dei cambi, così da aumentare le entrate dei pubblici poteri.
I diversi G20 hanno rifiutato, nonostante le loro dichiarazioni di intenti, di affrontare efficacemente le problematiche derivanti dai paradisi legali e fiscali.
Una semplice misura da adottare da ogni Parlamento per contrastare questi paradisi fiscali (che fanno perdere ogni anno ai paesi del Nord del mondo, ma questo vale anche per quelli del Sud del mondo, risorse vitali per lo sviluppo delle popolazioni) consiste nel vietare a tutte le persone fisiche e a tutte le imprese presenti sul loro territorio di mettere in atto qualsiasi transazione attraverso i paradisi fiscali, pena un’ammenda di un ammontare equivalente.
Al di là di questo, è necessario sradicare questi buchi neri della finanza, i traffici criminali, la corruzione, la criminalità in giacca e cravatta.
L’evasione fiscale priva di mezzi consistenti la collettività e gioca contro l’occupazione. Ingenti risorse pubbliche devono essere destinate a finanziare i servizi per una la lotta efficace contro queste frodi. I risultati devono essere resi pubblici e i colpevoli devono essere pesantemente sanzionati.

4. Mettere ordine nei mercati finanziari, soprattutto con la creazione di un registro dei proprietari di titoli, con la proibizione di vendite allo scoperto e di speculazioni in tutta una serie di settori. Creare un’agenzia pubblica europea di valutazione dei titoli.

La speculazione su scala mondiale rappresenta molte volte la ricchezza prodotta sul pianeta. Il montaggio sofisticato della meccanica finanziaria rende la speculazione totalmente incontrollabile. Gli ingranaggi messi in moto dalla speculazione destrutturano l’economia reale. L’opacità sulle transazioni finanziarie è la regola. Per tassare i creditori alla fonte, è necessario identificarli.
Deve cessare la dittatura dei mercati finanziari !
Deve cessare la speculazione in tutta una serie di settori. È necessario proibire la speculazione sui titoli del debito pubblico, sulle monete, sugli alimenti[5].
Allo stesso modo, devono venire vietate le vendite allo scoperto[6] e i Credit Default Swaps devono essere strettamente regolamentati.
[N.d.t. : Uno swap è un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato l’obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di copertura del rischio, e il credit default swap (cds) è in effetti come una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere sicuro del rimborso. Se il costo dovesse balzare, mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni.]
Bisogna chiudere i mercati a trattativa privata dei prodotti derivati che sono dei veri e propri buchi neri, che sfuggono a qualsiasi regolamentazione e controllo.

Il settore delle agenzie di valutazione (rating) deve essere strettamente riformato ed inquadrato. Lungi dall’essere lo strumento di una valutazione scientifica oggettiva, queste agenzie sono strutturalmente beneficiarie della mondializzazione neo-liberista e hanno scatenato a più riprese delle catastrofi sociali.
In buona sostanza, il declassamento della valutazione di un paese implica l’innalzamento dei tassi di interesse sui prestiti che vengono accordati. Quindi, la situazione economica del paese preso di mira si deteriora ancora di più. Il comportamento del gregge degli speculatori moltiplica le difficoltà riscontrate che incideranno ancor più pesantemente sulle persone.
La forte sudditanza delle agenzie di valutazione agli ambienti finanzari nord-americani rende queste agenzie di valutazione attori principali a livello internazionale, la cui responsabilità dello scatenamento e dell’evoluzione delle crisi non è proprio messo in luce dai mezzi di informazione. La stabilità economica dei paesi europei è stata posta sulle mani di queste agenzie di valutazione, senza garanzie, senza mezzi di controllo serio da parte dei pubblici poteri.
Per rompere questa situazione di imbroglio, è essenziale la creazione di una agenzia pubblica di valutazione.

5. Trasferire al settore pubblico le banche, sotto controllo dei cittadini.

Dopo decenni di abusi finanziari e di privatizzazioni, è giunto il momento di trasferire il settore bancario sotto pubblico dominio. Gli Stati devono riacquistare la loro capacità di controllo e di direzione delle attività economiche e finanziarie. Inoltre, devono disporre di strumenti per realizzare gli investimenti e finanziare la spesa pubblica, riducendo al minimo il ricorso al prestito da istituzioni private e /o da altri paesi.
È necessario espropriare senza indennizzo le banche e trasferirle al settore pubblico sotto il controllo dei cittadini.
In alcuni casi, le espropriazioni delle banche private possono rappresentare un costo per lo Stato in ragione dei debiti che queste banche hanno potuto accumulare. Il costo in questione deve essere recuperato dal patrimonio generale dei grandi azionisti. In effetti, le società private che detengono le azioni delle banche, e che le hanno condotte nel baratro realizzando comunque lauti profitti, impegnano una parte dei loro patrimoni in altri settori dell’economia. Quindi, diventa necessario un salasso sulla ricchezza patrimoniale degli azionisti. Questo, per evitare al massimo la socializzazione delle perdite. L’esempio dell’Irlanda è emblematico, la maniera con la quale è stata effettuata la nazionalizzazione della Irish Allied Bank è inaccettabile. Bisogna trarne una lezione !

6. Riportare al pubblico le numerose imprese e i servizi privatizzati dopo il 1980.

Una caratteristica di questi ultimi trent’anni è stata la privatizzazione di molte imprese e servizi pubblici. Dalle banche al settore industriale, per non parlare dei servizi postali, delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti, i governi hanno trasferito ai privati tratti interi dell’economia, e in questo passaggio hanno perso qualsiasi capacità di regolamentazione e di controllo della stessa economia. Questi beni pubblici, frutto del lavoro collettivo, devono ritornare nelle mani del dominio pubblico. Si tratterà di creare nuove imprese pubbliche e di adattare i servizi pubblici ai bisogni della popolazione, per dare risposte soprattutto alle problematiche dei cambiamenti climatici, per esempio con la creazione di una agenzia pubblica che si interessi dell’isolamento termico delle abitazioni.

7. Ridurre radicalmente l’orario di lavoro per creare occupazione e aumentare i salari e le pensioni.
Distribuire in modo diverso la ricchezza è la migliore risposta alla crisi. La quota parte della ricchezza prodotta destinata a favore dei lavoratori è diminuita significativamente da diversi decenni, mentre i creditori e le imprese hanno accresciuto i loro profitti per destinarli alla speculazione.
L’aumento dei salari non solo permette alle persone di vivere con dignità, ma rafforza anche i mezzi che servono per il finanziamento della protezione sociale e del regime pensionistico.
Riducendo l’orario di lavoro senza riduzione del salario e creando occupazione, si migliora la qualità della vita dei lavoratori e si fornisce un impiego a tutti coloro che lo cercano. Inoltre, la riduzione drastica dell’orario di lavoro offre la possibilità di mettere in pratica un diverso ritmo di vita, una maniera differente di vivere la società con il ripudio del consumismo. Il tempo guadagnato in favore di momenti di libertà consentirà l’aumento della partecipazione attiva delle persone alla vita politica, al rafforzamento della solidarietà, alle attività di volontariato e alla crescita culturale.

8. Riformare democraticamente un’altra Unione Europea, fondata sulla solidarietà.

Moltissime disposizioni dei trattati che disciplinano l’Unione Europea, la zona euro e la Banca Centrale europea devono essere abrogate. Per esempio. Occorre sopprimere gli articoli 63 e 125 del Trattato di Lisbona, che impediscono qualsiasi controllo sul movimento dei capitali e il soccorso ad uno Stato in difficoltà. Allo stesso modo, bisogna abbandonare il Patto di Stabilità e di Crescita. Inoltre, è necessario sostituire gli attuali con nuovi trattati, in un quadro di un effettivo processo costituente democratico, in modo da conseguire un Patto di Solidarietà fra i popoli in favore dell’occupazione e dell’ecologia.
Si deve rivedere completamente la politica monetaria, lo status e le pratiche della Banca Centrale europea. Risulta una limitazione molto pesante l’incapacità del potere politico di imporre alla Banca Centrale Europea la creazione di moneta. Ponendo questa Banca al di sopra dei governi, e dunque dei popoli, l’Unione Europea ha compiuto una scelta disastrosa, quella di sottomettere l’interesse delle persone all’interesse della finanza, tutto il contrario di come dovrebbe essere.
Al culmine della crisi, mentre molti movimenti sociali denunciavano le regole troppo rigide e profondamente inadeguate, la Banca Centrale europea è stata costretta a cambiare rotta, modificando con urgenza il ruolo che le era stato assegnato. Disgraziatamente, la Banca ha consentito di adeguarsi solo per ragioni opportunistiche: non per prenderei in considerazione gli interessi della gente, ma per preservare gli interessi dei creditori.

Ciò dimostra che le carte devono essere rimescolate e ridistribuite: la Banca dovrebbe agevolare il finanziamento diretto a quegli Stati interessati a conseguire obiettivi sociali ed ambientalisti, che incorporano completamente i bisogni fondamentali delle popolazioni.
Attualmente, con queste modalità, vengono finanziate invece attività economiche molto diversificate, come l’investimento nella costruzione di un complesso ospedaliero o un progetto puramente speculativo. Il potere politico deve almeno pensare di imporre costi molto diversi agli uni e agli altri: bassi tassi di interesse dovrebbero essere riservati agli investimenti socialmente giusti ed ecologicamente sostenibili, tassi molto alti, quasi proibitivi, come lo richiede la situazione, per quelle operazioni di natura speculativa, a cui comunque sarebbe opportuno imporre un divieto puro e semplice in alcuni settori.
Un'Europa fondata sulla solidarietà e la cooperazione dovrebbe voltare le spalle alla concorrenza e alla competizione, che trascinano « verso il fondo ». La logica neo-liberista ha prodotto la crisi e ha rivelato il suo fallimento. Ha spinto al ribasso gli indicatori sociali: meno protezione sociale, meno occupazione, meno servizi pubblici.
I pochi che hanno approfittato di questa crisi hanno di fatto calpestato i diritti della maggioranza.
I colpevoli hanno guadagnato, le vittime pagano!

Questa logica, che sottende a tutte le norme fondanti l’Unione Europea, Patto di Stabilità e di Crescita in testa, dovrebbe essere demolita: questa logica non è più sostenibile.
Un’altra Europa, fondata sulla cooperazione fra Stati e la solidarietà fra i popoli, deve divenire l’obiettivo prioritario. Per questo, le politiche fiscali e di bilancio non dovrebbero venire uniformate, in quanto le economie europee presentano forti disparità, ma coordinate in modo che emerga finalmente una soluzione « verso l’alto ».
Su scala europea, devono imporsi politiche globali, comprendenti massicci investimenti pubblici per la creazione di occupazione pubblica nei settori essenziali, nei servizi contigui ed affini alle energie rinnovabili, alla lotta contro il cambiamento climatico, nei settori sociali di base.

Questa diversa Europa resa democratica deve, per il CADTM, operare per imporre principi non negoziabili: rafforzamento della giustizia fiscale e sociale, scelte orientate verso l’innalzamento del livello e della qualità della vita dei suoi abitanti, disarmo e riduzione drastica delle spese militari, compreso il ritiro delle truppe europee dall’Afghanistan e lo smantellamento della NATO, scelte energetiche durevoli senza il ricorso al nucleare, rigetto degli organismi geneticamente modificati (OGM).
Infine, l’Europa deve risolutamente mettere termine alla sua politica di fortezza assediata contro i candidati all’immigrazione, per diventare un partner leale e veramente solidale nei confronti dei popoli del « Sud del mondo ».

[1]Vedi http://www.cadtm.org/Juntos-para-imponer-otra-logica In questo nuovo documento, vengono riprese queste otto proposte, attualizzandole e sviluppandole.
[2] Vedere Éric Toussaint, Banque mondiale : le Coup d’État permanent, CADTM-Syllepse-Cetim, 2006, capitolo 4.
[3] Pensiamo all’Irlanda che pratica un tasso del solo 12,5 % sui profitti delle società.
[4] Sottolineamo come questo tasso del 90 % sia stato imposto ai ricchi sotto l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt negli anni ‘30.
[5] Vedere Damien Millet e Éric Toussaint, La Crise, quelles crises ?, Aden-CADTM-Cetim, 2010, capitolo 6.
[6] Le vendite allo scoperto permettono di speculare sul ribasso di un titolo, vendendo a termine questo titolo senza disporre dello stesso. Le autorità tedesche hanno vietato le vendite allo scoperto, mentre le autorità francesi e quelle di altri paesi si sono opposte a questa misura.




Per concessione di CADTM
Fonte: http://www.cadtm.org/Huit-propositions-urgentes-pour
Data dell'articolo originale: 19/04/2011
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=4601

domenica 17 aprile 2011

Un nuovo inizio.. a Fukushima.....

Ian Buruma
The Wall Street Journal

Non è la prima volta che Shintaro Ishihara – scrittore, politico e attuale governatore di Tokyo (di fatto, il sindaco della città) – commette una gaffe. Ishihara ha definito il terremoto dell’11 marzo un “castigo divino” per l’“egoismo” dei giapponesi. È un chiodo fisso della destra giapponese l’idea che le giovani generazioni pensino solo a se stesse, siano troppo individualiste e abbiano perso il vecchio spirito collettivo dei giapponesi obbedienti e disciplinati che apparentemente hanno sempre anteposto l’interesse nazionale al loro.

Questa volta le parole del governatore non sono passate sotto silenzio. Ishihara è stato immediatamente subissato di critiche ed è stato costretto a chiedere scusa per la mancanza di solidarietà nei confronti delle innumerevoli vittime del terremoto, dello tsunami e del disastro nucleare. Non solo: i giapponesi, giovani compresi, hanno dimostrato in queste settimane quanto possano ancora essere disciplinati e altruisti.

Ishihara, nella sua insensibilità, non ha fatto altro che cedere a un’abitudine primitiva quanto diffusa nella storia dell’uomo, quella di attribuire un’intenzionalità alle forze impersonali della natura. Nell’antica Cina un terremoto o un qualsiasi altro disastro stro naturale veniva considerato un cattivo presagio, il segno che una dinastia imperiale stava per terminare. Anche in Giappone c’erano credenze simili. Tradizionalmente i terremoti venivano attribuiti ai sussulti di un pesce gatto gigante. Sempre nella tradizione, il pesce gatto era considerato come una divinità da adorare e placare.

In quale altro modo degli esseri umani indifesi possono dare un senso al fatto di vivere ai piedi di un vulcano o nel mezzo di una faglia tettonica? Un attimo prima bevono tranquillamente il tè o preparano il pranzo; e un istante dopo tutto il loro mondo può essere spazzato via da una gigantesca ondata di lava o dall’acqua. Ovviamente non c’è un perché, ma per l’uomo è diicile vivere senza dare un senso alle cose. Questo non riguarda solo i cinesi e i giapponesi. La reazione del giornalista statunitense ultraconservatore Glenn Beck al terremoto è stata altrettanto risibile di quella del governatore Ishihara: secondo lui si sarebbe trattato di un invito di Dio a seguire i dieci comandamenti.
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I giapponesi fanno da sempre i conti con la forza distruttrice della natura. In passato, tuttavia, questa forza è stata anche benevola. Quando nel 1274 una lotta di quasi sedicimila guerrieri mongoli, cinesi e coreani tentò di attaccare il Giappone, uno spaventoso tifone face naufragare le navi, scongiurando l’invasione. Di qui il termine kamikaze, vento divino. In quella circostanza la natura venne in soccorso del Giappone.

Non per niente nel 1944, quando il paese si trovò in una situazione altrettanto disperata, i piloti suicidi furono ribattezzati kamikaze. I soli sforzi militari non erano più sufficienti a evitare la sconfitta. Si invocava qualcosa di più sacro e spirituale: il sacrificio dei giovani migliori e più brillanti. Solo così le superiori forze americane si sarebbero piegate. O almeno, quella era la speranza.

C’è una terribile ironia nel fatto che il Giappone, dopo il terremoto, si trovi ad affrontare un disastro nucleare. Il Giappone, come tutti sanno, è stato il primo paese (e finora l’unico) a subire un attacco atomico.

Anche quello fu considerato da qualcuno come un castigo divino. Vedere Tokyo in fiamme sotto le ondate di bombe incendiarie dei B-29, che provocarono quasi centomila vittime in poche notti, fu terribile.

Non si conosce ancora la portata esatta della catastrofe che ha colpito il Giappone. Sicuramente il paese reagirà, come ha fatto in passato. Anzi, tornerà più forte di prima, scrive Ian Buruma in un certo senso comprensibile. Il fatto che un’intera città venisse rasa al suolo in pochi secondi da un’unica bomba, invece, era paragonabile solo a una calamità naturale.

In effetti non si trattava più di qualcosa di assimilabile a una “normale” operazione di guerra. Il nemico era invisibile. Non c’erano difese possibili. Questo, probabilmente, convinse anche i più irriducibili del comando militare nipponico a firmare la resa incondizionata. La bomba atomica, nelle parole dell’imperatore Hirohito, era “un’arma nuova e terribile” capace di portare alla “totale estinzione della civiltà umana”. Non era considerato un disonore arrendersi per salvare la civiltà umana.

Sotto l’ombra del fungo atomico Oltre ai tremendi costi umani delle esplosioni atomiche, i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki hanno avuto altre conseguenze nefaste. Hanno messo in una prospettiva distorta la questione della responsabilità giapponese nella guerra. Le bombe hanno fatto apparire l’intero disastro bellico come una calamità naturale, una specie di gigantesco terremoto, invece che una storia di follia umana di cui tutti i giapponesi erano stati complici.
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhkkEPpi2NJybawrwFEXTJwucVUHI4o71K8rpRiVNSvHrCr6qcIx_q923LXyIjVfgTfaWuwFDIKH1dTrn9riA1LECy8q0u42yX2XF3jNo0gz0FJvGt2lCtzWudV0dnTDwyt6aaEyXwySzRY/s1600/terremoto-centrale.jpg

Molti giapponesi, in buona fede, considerarono la bomba atomica come un castigo divino, una sorta di lavacro della coscienza. La descrizione più famosa del bombardamento di Nagasaki fu quella di una delle vittime, il dottor Takashi Nagai, un esperto di radiologia che poi sarebbe morto di leucemia. Ai suoi occhi la bomba fu come una benedizione, una catastrofe capace di portare l’umanità alla redenzione. Nagai era cattolico, come molti cittadini di Nagasaki. Ma tanti giapponesi hanno creduto nel suo messaggio. La casa di Nagai è diventata una specie di santuario. Proprio in quanto vittime della bomba atomica, da allora in poi i giapponesi si sarebbero trasformati in salvatori della civiltà umana, rifiutando la guerra e pregando per la pace eterna.

In questo nuovo atteggiamento pacifista, i giapponesi si sono comportati come hanno fatto sempre di fronte alle forze della natura: hanno cercato di placarle ricorrendo a formule magiche. Nel frattempo le responsabilità della seconda guerra mondiale sono state quasi completamente dimenticate. La responsabilità della sicurezza militare è stata aidata al vecchio nemico, gli Stati Uniti, e il principale garante della sicurezza è diventato l’ombrello nucleare americano.
Nagai, pur consapevole della potenza distruttiva dell’energia atomica, la considerava anche “un trionfo della fisica”, un passo da gigante nel progresso dell’umanità.

Fin dall’inizio i giapponesi hanno avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’energia nucleare. Il fatto che varie componenti dell’ombrello atomico americano entrino ed escano a piacimento dai portil’istituzione più criticata nell’ultimo disastro nucleare sia la Tokyo electric power company (Tepco), nota per aver più volte coperto le pericolose avarie dei suoi reattori nucleari. Eppure, come sappiamo, il Giappone dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro paese del mondo.

La costante consapevolezza che la calamità può colpire in qualsiasi momento ha segnato la cultura giapponese. Questo vale soprattutto per la cultura postbellica, che ha prodotto la famosa serie dei film di Godzilla. Godzilla non era stato concepito solo come una specie di King Kong gigante. Il personaggio nacque in seguito a un incidente nucleare del 1954, quando gli Stati Uniti fecero esplodere una bomba all’idrogeno e un membro dell’equipaggio di un peschereccio giapponese rimase ucciso dalle radiazioni. Godzilla, il distruttore del Giappone, veniva fatto saltare in aria da una serie di esplosioni nucleari sottomarine.

Tra l’altro, il creatore degli efetti speciali per i film di Godzilla, Eiji Tsuburaya, era stato anche l’autore degli spettacolari effetti di un altro film, Sea battle from Hawaii to Malaya (Battaglia in mare dalle Hawaii a Malaya), girato nel 1942 per festeggiare il primo anniversario della vittoria di Pearl Harbor. In Giappone, dunque, i pericoli dell’energia nucleare creata dall’uomo vengono strettamente associati alle catastrofi naturali, come è accaduto durante l’ultimo grande terremoto. Questa sensazione di pericolo costante ha lasciato il segno sulla cultura del paese. La prima religione originaria del Giappone, lo shinto, letteralmente “la via degli dei”, si basa su una serie di rituali volti a placare le forze della natura, considerate divine. Poiché la natura può essere allo stesso tempo irata e benevola, queste divinità devono essere continuamente gratificate con offerte, cerimonie e sacrifici. Gli dei shinto, a differenza del Dio cristiano o ebraico, non impongono leggi o regole morali, né dogmi. Esigono solo rispetto.

Anche il buddismo, con la sua profonda consapevolezza della natura effimera della vita e il suo ciclo di morte e rinascita, si addice particolarmente a un popolo costretto a vivere sotto la costante minaccia di una catastrofe naturale. “Fatalismo” è la parola che spesso viene usata per descrivere il tipico atteggiamento dei giapponesi. Essere rassegnati ai capricci della natura e del destino, tuttavia, non vuol dire considerare la vita priva di valore. Al contrario, può far apprezzare ancora di più il poco tempo a di morte aspirando a una sorta di immortalità: se non per se stessi, almeno per le loro opere. I monumenti all’uomo (per esempio, Manhattan o Chicago) sono costruiti per durare in eterno, almeno idealmente, e lo stesso vale per i monumenti a Dio come le grandi cattedrali europee. I giapponesi, che vivono ai piedi di vulcani e su faglie tettoniche, non costruiscono per l’eternità. L’architettura tradizionale, che utilizza materiali lessibili come carta e legno per resistere alle scosse, non è pensata per durare in eterno. Il più famoso santuario shinto in Giappone, talmente sacro che solo i membri della famiglia imperiale possono esercitarvi la funzione di alti sacerdoti, si trova a Ise, nel Giappone centrale. È stato fondato quindici secoli fa, ma in un certo senso è nuovissimo, perché viene abbattuto e ricostruito ogni vent’anni. L’unica continuità è nella discontinuità.

I fiori di Edo
Oggi a Tokyo e in altre moderne città giapponesi ci sono grattacieli di cemento e vetro progettati per resistere ai terremoti, ma si tratta di uno sviluppo recente. Anche se gli edifici non vengono più costruiti in legno (troppo costoso e difficile da mantenere), le città hanno tuttora un aspetto precario, simile a un set cinematograico, quasi fossero consapevoli della loro transitorietà. In questo, ricordano più Los Angeles che Manhattan.

In effetti, nel ventesimo secolo Tokyo è stata quasi totalmente distrutta per ben due volte: la prima durante il terribile terremoto del 1923 e la seconda nel 1945, quando fu ridotta in cenere dalle bombe incendiarie statunitensi. E per ben due volte gli abitanti di Tokyo, in modo rapido, energico e perino entusiastico, hanno ricostruito la loro capitale. Quando Tokyo era ancora chiamata Edo, prima del diciannovesimo secolo, i suoi abitanti erano orgogliosi della loro stoica accettazione di terremoti e incendi, noti come “i fiori di Edo”.


È l’altra faccia del fatalismo, la capacità di reagire al disastro ovunque esso colpisca, a Tokyo o sulla costa nordorientale. Gli osservatori stranieri hanno sottolineato la disciplina e la solidarietà dei giapponesi in quest’ultima circostanza. Niente saccheggi, niente rivolte, niente violenza. Non sempre è stato così. Subito dopo il terremoto del 1923, quando si sparse la voce che i cittadini coreani stavano avvelenando le riserve d’acqua, la folla entrò nel panico e cominciò Non stavolta. La disciplina ha tenuto.

Forse per il conformismo sociale imposto a tutti i giapponesi in dalla più tenera età, o forse per il dovere di prendersi cura delle proprie cose, o per il timore di mettere in difficoltà il prossimo. Ma forse anche per la consapevolezza, maturata dopo secoli di convivenza con i disastri, che tutto ciò che crolla può essere ricostruito. I giapponesi hanno un’espressione: “traboccare con l’acqua”. È un modo di dimenticare ciò che è passato. Può essere un difetto – non assumersi le responsabilità del passato – ma anche un pregio, se si traduce nella capacità di guardare al futuro.

Ancora non conosciamo la portata esatta dell’attuale catastrofe giapponese, però possiamo essere certi che il paese non solo reagirà ancora una volta, ma tornerà più forte di prima. Il fatto che il governo non abbia esitato ad accettare l’aiuto dei paesi stranieri, a differenza di quanto avvenne nel 1995 dopo il terremoto di Kobe, è un segno che il Giappone di oggi è più aperto verso il mondo ed è meno sensibile al tema dell’orgoglio nazionale. Per la prima volta i coreani e i cinesi hanno prestato aiuto al Giappone, e questo contribuirà senz’altro a migliorare le relazioni fra i tre paesi, in passato compromesse da odi e spargimenti di sangue. La mobilitazione delle forze armate e lo sforzo straordinario compiuto dai soldati per soccorrere i loro concittadini gioverà all’immagine dei militari giapponesi e restituirà la fiducia a un paese che, dopo una guerra disastrosa, non era ritenuto in grado di difendersi da solo.

Il segnale più importante, tuttavia, è il comportamento dei cittadini comuni, che con la loro reazione tranquilla hanno dimostrato che le parole sprezzanti del governo a Ishihara non erano solo sciocche e rozze, ma sbagliate. I cittadini stanno prendendo sul serio le loro responsabilità, non solo nei confronti di se stessi e delle loro famiglie, ma anche del prossimo. E se questo contrasta con gli stereotipi sui giapponesi, ben venga: andavano demoliti da tempo.

Nuove scosse
Il 7 aprile una scossa di magnitudo 7,4 ha colpito il nordest del Giappone provocando quattro morti ma lasciando apparentemente illesi i due reattori della centrale nucleare di Fukushima. L’11 aprile, un mese dopo il terremoto del Tohoku, l’area è stata colpita da una scossa di magnitudo 7,1 che ha temporaneamente messo fuori uso l’impianto elettrico esterno dei reattori 1 e 3 dell’impianto Fukushima 1, rallentando i lavori di rafreddamento tramite il pompaggio di acqua. La scossa ha provocato almeno una vittima. Zona di evacuazione L’11 aprile le autorità hanno deciso di estendere la zona di evacuazione obbligatoria ad alcuni comuni che si trovano a più di 20 chilometri dalla centrale di Fukushima. A Katsurao, Iitate e Kawamata – che si trovano oltre la zona di evacuazione volontaria, compresa tra i 20 e i 30 chilometri – gli abitanti rischiano di assorbire una quantità di radioattività ritenuta pericolosa. Per questo entro un mese dovranno lasciare le loro case. Greenpeace, dopo aver fatto delle misurazioni, ha chiesto di allontanare le donne incinte e i bambini anche dall’area metropolitana di Fukushima, giudicata “altamente pericolosa”. Il 12 aprile il governo ha alzato il livello di gravità della crisi nucleare portandola a 7, il più alto, equivalente all’incidente di Cernobyl.

Giappone/ Manifestazioni a Tokyo e Nagoya contro il nucleare Dopo incidente Fukushima cresce protesta contro impianti atomici


Manifestazioni
Il 10 aprile 17.500 persone sono scese in piazza a Tokyo contro gli impianti nucleari.

sabato 16 aprile 2011

I SUCCESSI DELL'ENERGIA PULITA!

Le Monde

Spagna.
La centrale termica di Sanlúcar, vicino Siviglia
La centrale energetica PS10 da 11 MW produce elettricità dal sole usando 624 specchi mobili chiamati eliostati.  Planta Solar 10 (PS10) è una centrale termosolare costruita a Sanlúcar la Mayor, vicino Siviglia, in Spagna. Questa centrale elettrica è formata da una torre situata al centro di una pianura coperta da 624 eliostati, essenzialmente specchi, ciascuno con una superficie di ben 120 m2, che riflettono la luce solare verso un punto di fuoco posto in prossimità della sommità della torre. Il calore prodotto dalla concentrazione dei raggi solari riscalda le condutture dell'acqua presenti nella parte superiore della torre trasformando l'acqua in vapore acqueo. Il vapore prodotto fornisce fino a 11 MW di elettricità.


La centrale energetica PS10 da 11 MW produce elettricità dal sole usando 624 specchi mobili chiamati eliostati. Planta Solar 10 (PS10) è una centrale termosolare costruita a Sanlúcar la Mayor, vicino Siviglia, in Spagna. Questa centrale elettrica è formata da una torre situata al centro di una pianura coperta da 624 eliostati, essenzialmente specchi, ciascuno con una superficie di ben 120 m2, che riflettono la luce solare verso un punto di fuoco posto in prossimità della sommità della torre. Il calore prodotto dalla concentrazione dei raggi solari riscalda le condutture dell'acqua presenti nella parte superiore della torre trasformando l'acqua in vapore acqueo. Il vapore prodotto fornisce fino a 11 MW di elettricità.

L’incidente alla centrale di Fukushima ha
riaperto il dibattito sull’energia. Si può ridurre la
dipendenza dal nucleare e dal petrolio? Quattro
progetti in Spagna, Svezia e Francia dimostrano
che le fonti rinnovabili sono un’alternativa
concreta. Il reportage di Le Monde


Il valore simbolico è forte. Il 4 e 5 aprile, a più di tre settimane dallo tsunami in Giappone e dall’incidente nella centrale di Fukushima, l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili ha tenuto la sua prima assemblea generale. L’obiettivo dell’agenzia, creata nel 2009, è aiutare il mondo a non dipendere dalle energie fossili, in modo da contenere le emissioni di gas a efetto serra e lottare contro il cambiamento climatico.

Nuovi dubbi
È un obiettivo ambizioso. Oggi il trio petrolio-carbone-gas costituisce l’87 per cento dell’offerta mondiale di energia, le energie rinnovabili il 7 per cento e il nucleare il 6 per cento. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, entro il 2035 le energie fossili scenderanno al 78 per cento, mentre il solare, l’eolico, la biomassa e le altre energie rinnovabili dovrebbero arrivare al 14 per cento e il nucleare dovrebbe spingersi ino all’8 per cento.

I nuovi dubbi sull’atomo limiteranno il dibattito allo scontro tra le energie fossili e
quelle rinnovabili. Il futuro del pianeta passa per la vittoria del sole e del vento. Ma resta ancora moltissimo da fare. I governi, le imprese e i sette miliardi di persone che vivono sulla Terra dovranno assumersi le loro responsabilità.
Il primo ostacolo all’uso delle energie rinnovabili è il prezzo dell’elettricità che
producono. Per ridurlo serve il sostegno degli stati. Nel 2009 i governi hanno destinato 312 miliardi di dollari (219 miliardi dieuro) alle energie fossili, rispetto ai 57 miliardi stanziati per le energie rinnovabili.
Bisogna ricordare, però, che per il momento il primo settore produce molta più occupazione del secondo.
Ma piuttosto che aumentare i fondi per la ricerca e lo sviluppo destinati alle soluzioni verdi, molte industrie lavorano a energie fossili “più pulite”, per esempio
promettendo di catturare e stoccare l’anidride carbonica. Perché, invece, non impariamo a immagazzinare l’energia solare?

Risultati concreti
Per lanciarsi nell’avventura delle rinnovabili, le aziende e i privati hanno bisogno di
un quadro legislativo stabile. I governi dovranno lavorare in questa direzione. Alla fine del 2009 in molti paesi europei la riduzione degli aiuti al fotovoltaico, causata
dai tagli di bilancio, ha mostrato ino a che punto le energie verdi sono ancora trascurate. Lo sarebbero meno se i negoziati sul clima, ripresi di recente a Bangkok, arrivassero a dei risultati concreti, in grado di fissare delle regole sulla riduzione dei gas a effetto serra.
A livello locale le iniziative non mancano. Le Monde ne ha individuate alcune che racconta in una serie di articoli.
In tutta Europa ci sono popolazioni che si riscaldano e s’illuminano senza usare né
carbone né gas o che riescono a fare straordinari risparmi di energia.

venerdì 15 aprile 2011

GIURO CHE HO VISSUTO!!


VITTORIO ARRIGONI


Uomo di Pace e di Libertà lascia questa terra martoriata a motivo della superficialità e dell'incuria delle persone che l'abitano.

Un uomo che ha dato la sua vita per la libertà del popolo Palestinese Gazawi, Vittorio ha donato il tempo terreno perchè giustizia si facesse sulla terra di Palestina senza raggiungere l'intento, la violenza di pochi esseri "umani(?)" infatuati da potenza straniera (Israele?) ha levato la gioia ai molti che l'adoravano, pel suo sentimento solidale e l'ardore che imprimeva nella lotta di libertà de popoli, è questo che loro lo legava a Vittorio!

SA DEFENZA

LA TUA LIBERTA'

F. GUCCINI

Fossi un uccello
alto nel cielo
potrei volare senza aver padroni;

se fossi un fiume
...potrei andare
rompendo gli argini nelle mie alluvioni

Ma sono un uomo
uno fra milioni
e come gli altri ho il peso della vita

e la mia strada
lungo le stagioni
può essere breve, ma può essere infinita;

la tua libertà

cercala, che si è smarrita

cercala, che si è smarrita.


giovedì 14 aprile 2011

La lobby nucleare all’italiana “A Fukushima tutto bene”

Fukushima, alzato livello di gravità a 7
Naoto Kan: “Situazione si sta stabilizzando”

Fukushima come Chernobyl: l’agenzia giapponese per la sicurezza nucleare ha innalzato al livello massimo di 7 la classificazione dell’incidente nucleare alla centrale del nord-est, di fatto ponendolo al livello dell’incidente in Ucraina del 1986, il più grave di tutti i tempi. Un funzionario della Tepco, la società che gestisce l’impianto, ha evocato addirittura la possibilità che i livelli di radioattività siano superiori: “La perdita radioattiva non si è ancora arrestata completamente”, ha spiegato, “e la nostra preoccupazione è che possa anche superare Chernobyl“. Nelle prime ore del mattino è scoppiato un incendio al reattore numero 4 di Fukushima, subito spento. Le fiamme sie erano sviluppate in un edificio nei pressi dell’uscita di acqua in mare e il fumo è stato notato da un operaio che ha avvertito i pompieri, subito intervenuti.

L’assegnazione di un grado 7 all’incidente di Fukushima, lo stesso a suo tempo attribuito al disastro di Chernobyl, è “provvisoria”, ha precisato l’Agenzia giapponese per la sicurezza nucleare, specificando che il livello delle emissioni radioattive registrate dall’inizio della crisi equivale appena al 10% di quello misurato nel 1986 dopo la catastrofe della centrale Ucraina.

Le misure disponibili sulla fuga di radioattività dalla centrale di Fukushima, comunque, “mostrano dei livelli equivalenti al livello 7”, il massimo della scala Ines degli eventi nucleari. “Continueremo a sorvegliare la situazione – ha detto un responsabile dell’organismo ufficiale -. E’ un livello provvisorio”, ha aggiunto, spiegando che la decisione definitiva sulla classificazione dell’incidente dovrà passare all’ulteriore vaglio di un comitato di esperti.

L’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese aveva fino ad ora classificato l’incidente di Fukushima al livello 5, corrispondente a “un incidente con delle conseguenze estese” con un “danno grave al cuore del reattore” ma con un “rilascio limitato di materiale radioattivo all’esterno”.

L’omologa agenzia francese lo aveva valutato di livello 6, pari ad un “incidente grave”. Il livello 7, quello massimo, viene assegnato in presenza di un “notevole rilascio di sostanze radioattive” con “effetti considerevoli sulla salute e sull’ambiente”.

L'Associazione italiana nucleare (Ain) rassicura, ma cita tecnologie inesistenti. Areva invece è sempre più preoccupata, mentre l'Agenzia per la sicurezza giapponese non sa perché esca acqua contaminata dal reattore.

La lobby nucleare all’italiana “A Fukushima tutto bene”

di Marco Maroni e Paolo Ruffati
ilfatto

Dopo le emissioni in atmosfera, il problema del giorno della centrale di Fukushima è diventato il flusso di acqua radioattiva dal reattore 2. Viene riversato direttamente nell’oceano, dove ieri è stato registrato un livello di iodio 131 pari a 7,5 milioni di volte il limite legale. I tecnici sono allo sbando: “Abbiamo provato con la segatura, fogli di giornale e una miscela di calcestruzzo da applicare sulla zona delle perdite, ma la miscela non sembra in grado di entrare nelle falle”. Hidehiko Nishiyama, vice direttore dell’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese ieri ha dettto: “Non sappiamo ancora come fuoriesca l’acqua contaminata dal reattore numero 2”.

La situazione si fa ogni giorno più confusa e secondo i tecnici di Areva, primo costruttore mondiale di impianti nucleari, per domare la catastrofe e capire se l’incidente di Fukushima evolverà nel peggiore disastro della storia del nucleare civile ci sono ancora pochi giorni. Gli ingegneri del colosso pubblico francese, chiamati in soccorso dalla Tepco, (la società proprietaria della centrale) lunedì hanno pubblicato un rapporto, rivelato dal sito linkiesta.it, in cui si confermano i rischi già evidenziati dagli osservatori più esperti. In sostanza, mentre due dei tre vessel d’acciaio che contengono il nocciolo del reattore sembrerebbero integri, su un terzo (reattore numero 2) ci sono seri dubbi, viste le fuoriuscite radioattive. “Non ci sono chiare informazioni sul perché il reattore due si stia comportando in questo modo”, dice il rapporto.

Ma la sitazione che al momento appare più grave è quella delle refueling pools, le piscine in cui è stoccato il combustibile di ricambio e quello esausto. Ci vogliono 10 giorni, dice il rapporto Areva, perchè finisca l’acqua della piscina dell’impianto numero 4 (quello fermo al momento del terremoto) e da cinque a sei settimane perché rimangano a secco quelle degli impianti 1 e 3. La conseguenza sarebbe: “fusione a cielo aperto e vasta dispersione dei prodotti di fissione”. La situazione del reattore 4 potrebbe essere particolarmente critica, perché non è escluso che l’incidente sia accaduto mentre il vessel era aperto per il ricambio delle barre di combustibile. Secondo i tecnici di Areva, è difficile dare un quadro preciso anche perché “la Tepco sta rilasciando troppo poche informazioni”.

Molto più tranquilli sono gli esperti dell’Associazione italiana nucleare (Ain), comitato tecnico-scientifico finanziato dai principali gruppi industriali interessati al business nucleare italiano.

L’Ain, pur non partecipando alle operazioni in Giappone, ha pubblicato sul suo sito una ricostruzione degli eventi che è un capolavoro di minimalismo, condito di affermazioni che paiono quantomeno avventate.
Nella ricostruzione dell’evento, per esempio, si legge che a Fukushima tutti gli impianti hanno resistito al sisma e si sono arrestati automaticamente. Affermazione che sembra ignorare non solo il fatto che i sistemi di raffreddamento sono saltati, ma anche quello che una centrale nucleare non si può spegnere con un interruttore, tantomeno automatico.

Anche in caso di emergenza, per il cosiddetto “shut down” è necessaria la corrente elettrica (che a Fukushima è mancata) e centinaia di operazioni che richiedono giorni. Riguardo alla situazione delle piscine poi si afferma chel ’acqua della piscina deve essere continuamente raffreddata, come se fosse scontato che di acqua nelle piscine di Fukushima ce ne sia ancora. Tuttavia, secondo l’Ain in condizioni normali la piscina non raggiunge la temperatura di ebollizione dell’acqua prima di diversi giorni anche in caso di interruzione del raffreddamento.

Più realisticamente i tecnici di Areva hanno però fatto notare che di giorni ne rimangono pochi e se non si trova il sistema di assicurare la refrigerazione delle barre, si andrà incontro al rilascio delle radiazioni a cielo aperto. Il rapporto Ain non manca infine di rassicurare sui mega reattori di terza generazione, gli Epr da 1.600 Mw che si vorrebbero costruire in Italia (progetto che sta incontrando enormi difficoltà proprio sotto il profilo della sicurezza), definendoli “intrinsecamente sicuri” e progettati per fronteggiare anche un evento grave come la fusione del nocciolo.

Il nucleare di terza generazione, assicura l’Ain, è predisposto con modalità di refrigerazione del nocciolo fuso: anche in caso di fallimento dei sistemi di rimozione del calore residuo dal combustibile e suo danneggiamento o fusione, sarebbe possibile assicurarne il raffreddamento, senza che il contenitore risulti danneggiato. Salvo che un sistema di questo tipo non è mai stato nemmeno progettato, visto che tecnologie per fronteggiare un tale evento allo stato non ne esistono.





mercoledì 13 aprile 2011

Noam Chomsky: sulla Libia e sulle crisi che si stanno dischiudendo

Stephen Shalom
Michael Albert
tlaxcala
traduzione
Curzio Bettio


Quali sono le motivazioni degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali, nei termini più generali? Cioè, quali sono ad ampio raggio le motivazioni e i temi che si possono quasi sempre riscontrare nella formulazione delle scelte politiche degli Stati Uniti, non importa quale parte del mondo venga presa in esame? Andando più nello specifico, ma ancora a largo spettro, quali sono le motivazioni e i temi che informano la politica usamericana in Medio Oriente e nel mondo arabo? Infine, quali sono secondo lei gli obiettivi più immediati della politica degli Stati Uniti nella situazione attuale in Libia?

Un modo utile per affrontare la questione è chiedersi quali NON sono le motivazioni degli Stati Uniti. Ci sono alcuni buoni modi per scoprirlo.

Uno è quello di leggere la letteratura professionale sulle relazioni internazionali: abbastanza comunemente, il contenuto di questa letteratura di politica è “tutto ciò che politica non è”; questo è un argomento interessante che ora non desidero affrontare.
Un altro metodo, molto valido ora, è quello di ascoltare i leader e i commentatori politici. Supponiamo che dichiarino che il motivo per una azione militare sia umanitario. Di per sé, questo non ci procura informazioni: praticamente ogni ricorso alla forza è giustificato in questi termini, anche da parte dei peggiori mostri - che possono, a sproposito, anche convincersi che ciò che stanno affermando corrisponda alla verità.
Hitler, per esempio, può avere creduto davvero di stare assumendo il controllo della Cecoslovacchia per porre fine ad un conflitto etnico, di stare arrecando alla sua gente i vantaggi di una civiltà avanzata, e che invadeva la Polonia per dare un taglio al “terrore selvaggio” dei Polacchi.

I fascisti Giapponesi, scatenandosi in Cina, probabilmente facevano credere che stessero lavorando disinteressatamente per creare un “paradiso terrestre” e per proteggere la popolazione che stava soffrendo a causa dei “banditi cinesi.”
Anche Obama potrebbe aver creduto a ciò che ha pronunciato nel suo discorso presidenziale del 28 marzo scorso, sulle motivazioni umanitarie per l’intervento contro la Libia.
Lo stesso vale per i commentatori e gli analisti politici.

Esiste, comunque, un test molto semplice per determinare se le dichiarazioni di nobile intento possono essere prese sul serio: gli autori delle dichiarazioni invocano l’intervento umanitario e la “responsabilità di dovere proteggere” le vittime generate dai loro stessi crimini, o quelle dei loro clienti?
Ad esempio, nel 2006, Obama aveva invocato una “no-fly zone” nel corso dell’invasione del Libano da parte di Israele, omicida e distruttiva, sostenuta dagli Stati Uniti, in assenza di un qualche credibile pretesto? O si era, invece, vantato con orgoglio nel corso della sua campagna presidenziale di avere appoggiato una risoluzione del Senato che sosteneva quell’invasione, e pretendeva una punizione di Iran e Siria per avere impedito l’aggressione?
Fine della discussione!

In effetti, quasi tutta la letteratura sull’intervento umanitario e sul diritto di proteggere, scritta e parlata, svanisce a fronte di questo test semplice e adeguato.
Al contrario, su quali siano in realtà le motivazioni si discute raramente, e si deve andare a richiamare la memoria documentale e storica per scoprirle, e questo vale per qualsiasi Stato.
Quali sono allora le motivazioni degli Stati Uniti? Ad un livello molto generale, l’evidenza sembra dimostrarmi che non sono cambiate molto da quando sono stati intrapresi studi di pianificazione ad alto livello durante la Seconda guerra mondiale.
I pianificatori del tempo di guerra davano per scontato che gli Stati Uniti sarebbero emersi dalla guerra in una posizione di dominio schiacciante, e richiesero la creazione di una Grande Area in cui gli Stati Uniti avrebbero conservato un “potere indiscusso”, con “supremazia militare ed economica”, mentre al tempo stesso si assicuravano la “limitazione di ogni esercizio di sovranità” da parte degli Stati che potevano interferire con i loro progetti globali.

La Grande Area prevedeva di includere l’emisfero occidentale, l’Estremo Oriente, l’Impero britannico (che comprendeva le riserve energetiche del Medio Oriente), e la gran parte possibile dell’Eurasia, almeno il suo centro industriale e commerciale nell’Europa occidentale.
Risulta del tutto evidente dal materiale documentale che “il Presidente Roosevelt puntava all’egemonia degli Stati Uniti sul mondo del dopoguerra”, per citare la valutazione accurata del (giustamente) autorevole storico britannico della diplomazia Geoffrey Warner.

E più significativamente, i precisi progetti del periodo bellico furono presto attuati, come possiamo leggere nei documenti declassificati degli anni successivi, e osservare questo nella pratica. Naturalmente, le circostanze sono cambiate, e, al presente, le tattiche si sono adeguate di conseguenza, ma i principi di base restano abbastanza stabili.

Per quanto riguarda il Medio Oriente – “l’area strategicamente più importante del mondo”, in una frase di Eisenhower - le preoccupazioni principali sono state, e rimangono, le sue incomparabili riserve di energia. Il controllo di queste avrebbe prodotto “il controllo sostanziale del mondo”, come osservato in un primo tempo dall’influente consigliere liberale A.A. Berle.
Queste preoccupazioni restano molto raramente sullo sfondo delle vicende che interessano questa regione.

In Iraq, ad esempio, come le dimensioni della sconfitta degli Stati Uniti non potevano più a lungo essere dissimulate, la bella retorica è stata sostituita da dichiarazioni veritiere sugli obiettivi della politica statunitense. Nel novembre 2007, la Casa Bianca diffondeva una Dichiarazione di Principi che insisteva sul fatto che l’Iraq doveva concedere alle forze militari statunitensi accesso a tempo indeterminato, e doveva privilegiare gli investitori usamericani. Due mesi più tardi, il presidente informava il Congresso che egli avrebbe dovuto ignorare una legislazione che poteva limitare lo stazionamento permanente delle forze armate degli Stati Uniti in Iraq o “il controllo degli Stati Uniti sulle risorse petrolifere dell'Iraq”- richieste a cui gli Stati Uniti hanno dovuto rinunciare poco dopo, di fronte alla resistenza irachena, così come avevano dovuto rinunciare agli obiettivi precedenti.

Sebbene il controllo sul petrolio non sia l’unico fattore che influenza la politica per il Medio Oriente, comunque da questo attualmente si possono ricavare utili indicazioni.
In un paese ricco di petrolio, a qualsiasi dittatore affidabile è concessa di fatto libertà di azione. Nelle ultime settimane, per esempio, non vi è stata alcuna reazione quando la dittatura saudita ha usato una forza imponente per prevenire qualsiasi segno di protesta.
Lo stesso in Kuwait, quando piccole manifestazioni sono state immediatamente schiacciate.
E in Bahrain, quando le forze guidate dai Sauditi sono intervenute per proteggere il monarca, appartenente alla minoranza sunnita, dalle richieste di riforme invocate dalla repressa popolazione sciita. Le forze di governo non solo hanno fracassato la tendopoli in Piazza Perla – la Tahrir Square del Bahrain - ma hanno perfino abbattuto il monumento alla “Perla”, simbolo del Bahrein, che celebrava le ricchezze naturali del Bahrein, dove avevano stanziato i manifestanti.

Il Bahrain è un caso particolarmente sensibile perché ospita la Quinta flotta statunitense, di gran lunga la più potente forza militare nella regione, e perché l’Arabia Saudita ad est, proprio dall’altra parte di una strada sopraelevata, è anche in gran parte sciita, e la Monarchia possiede la maggior parte delle riserve del petrolio.
Per un incidente curioso della geografia e della storia, le concentrazioni più grandi al mondo di idrocarburi sono situate tutte attorno al nord del Golfo Persico, nelle regioni a maggioranza sciita. L’eventualità di una tacita alleanza sciita ha costituito un incubo per i pianificatori strategici.

Negli Stati che difettano di importanti riserve petrolifere, mutano le tattiche, ma in genere viene applicato un piano di intervento standard, quando un dittatore favorito è in difficoltà: assegnargli un sostegno per un periodo più lungo possibile, e quando questo non può essere fatto, diffondere allarmanti dichiarazioni d’amore per la democrazia e i diritti umani - - e poi cercare di salvare la parte più rilevante di quel regime.
Lo scenario è noiosamente familiare: Marcos, Duvalier, Chun, Mobutu, Suharto, e molti altri. E oggi, la Tunisia e l’Egitto. La Siria è un osso duro da sgretolare, e non ci è chiara l’alternativa alla dittatura che potrebbe appoggiare gli obiettivi degli Stati Uniti.

Lo Yemen è una palude in cui un intervento diretto probabilmente procurerebbe a Washington problemi ancora maggiori. Quindi, qui la violenza dello Stato suscita solo pie dichiarazioni.
La Libia è un caso diverso. La Libia è ricca di petrolio, e anche se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno spesso fornito un sostegno notevole al suo crudele dittatore, fino al presente, Gheddafi non è affidabile. Essi preferiscono di gran lunga un cliente più obbediente.
Inoltre, il vasto territorio della Libia è in gran parte inesplorato, e gli specialisti petroliferi ritengono possa racchiudere ricche risorse non ancora utilizzate, che un governo più affidabile potrebbe aprire allo sfruttamento occidentale.

Quando sono apparse manifestazioni non violente, Gheddafi le ha represse con violenza, ed è scoppiata una rivolta che ha liberato Bengasi, la seconda città più grande della Libia, e sembrava che si fosse sul punto di attaccare la roccaforte di Gheddafi nella parte occidente della Libia. Le forze di Gheddafi, però, rovesciavano il corso del conflitto e arrivavano alle porte di Bengasi.
A Bengasi era possibile un massacro, e come il consigliere di Obama per il Medio Oriente Dennis Ross ha sottolineato, “in seguito, tutti avrebbero addossato a noi la colpa di questo.”
Tutto ciò sarebbe stato inaccettabile, in quanto una vittoria militare di Gheddafi avrebbe rafforzato il suo potere e la sua indipendenza.

Allora, gli Stati Uniti hanno aderito alla Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che imponeva una “no-fly zone”, da controllare a cura della Francia, della Gran Bretagna, e degli Stati Uniti, con gli Stati Uniti che, si intuiva, non avevano intenzione di assumere un ruolo da protagonisti.
Non c’è stato alcun tentativo per limitare l’azione di imposizione di una “no-fly zone”, o anche per mantenerla nell’ambito del mandato della Risoluzione 1973.
Il Triumvirato ha subito interpretato la Risoluzione come un’autorizzazione alla partecipazione diretta a fianco dei ribelli. È stato imposto con la forza un cessate il fuoco alle forze di Gheddafi, ma non ai ribelli. Al contrario, costoro hanno potuto godere del sostegno militare della Coalizione durante la loro avanzata verso Occidente, per assicurarsi subito le fonti principali della produzione di petrolio della Libia, pronti a lanciarsi avanti.

Fin dall’inizio, le flagranti violazioni della Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite hanno procurato qualche difficoltà alla stampa, in quanto troppo evidenti per essere ignorate.
Nel New York Times del 29 marzo, ad esempio, Karim Fahim e David Kirkpatrick esternavano la loro sorpresa per “come gli Alleati possano giustificare attacchi aerei contro le forze del colonnello Gheddafi nei pressi della Sirte [suo centro tribale] se queste forze, come sembra essere il caso, godono di un ampio sostegno in città e non costituiscono alcuna minaccia per i civili.”

Un’altra difficoltà tecnica è che la 1973 del Consiglio di sicurezza impone un embargo sulle armi da applicarsi su tutto il territorio della Libia, il che significa che qualsiasi rifornimento esterno di armi verso l’opposizione dovrebbe avvenire di nascosto (comunque, questo senza eccessivi problemi).
Alcuni sostengono che il petrolio non può essere il solo motivo per cui le compagnie occidentali si sono assicurate l’accesso ai premi e ai profitti sotto Gheddafi.
Questo interpreterebbe male le preoccupazioni degli Stati Uniti. Infatti, si sarebbe potuto dire lo stesso a proposito dell’Iraq sotto Saddam, o dell’Iran e di Cuba per molti anni, e ancora oggi.
Quello che Washington cerca è ciò che Bush ha annunciato: il controllo, o almeno clienti affidabili. Documenti riservati degli Stati Uniti e della Gran Bretagna evidenziano che “il virus del nazionalismo” costituisce la loro più grande paura, non solo in Medio Oriente, ma ovunque.
Regimi nazionalisti potrebbero esercitare illegittimamente la sovranità, violando i principi della Grande Area. E potrebbero cercare di indirizzare le risorse ai bisogni popolari, come a volte aveva minacciato Nasser.

Bisogna sottolineare che le tre potenze imperiali tradizionali - Francia, Regno Unito, Stati Uniti - sono quasi isolate nello svolgimento di queste operazioni contro la Libia.
I due maggiori stati della regione, la Turchia e l’Egitto, probabilmente avrebbero potuto imporre loro una “no-fly zone”, ma ora al più stanno offrendo un tiepido sostegno alla campagna militare del Triumvirato.

Le dittature del Golfo sarebbero felici di vedere l’eccentrico dittatore libico scomparire, ma anche se dotate di avanzate strutture militari (acquisite dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna per riciclare petrodollari e garantire sottomissione), esse sono disposte a offrire solo una partecipazione puramente simbolica (vedi il Qatar ).

Pur sostenendo la 1973, l’Unione Africana - a parte il Ruanda, alleato degli Stati Uniti - è generalmente contraria, in alcuni casi in modo energico, alle modalità con cui la Risoluzione è stata immediatamente interpretata dal Triumvirato.
Per prendere in esame le politiche dei singoli Stati, si veda Charles Onyango-Obbo nella Gazzetta keniota dell’Africa Orientale a: (http://allafrica.com/stories/201103280142.html).
Al di là di questo ambito, c’è poco sostegno. Come la Russia e la Cina, il Brasile si è astenuto sulla 1973, e chiede, invece, un totale cessate il fuoco e il dialogo. Anche l’India si è astenuta sulla Risoluzione delle Nazioni Unite per il fatto che le misure proposte erano suscettibili di “esacerbare la già difficile situazione per il popolo della Libia”, e quindi si raccomandavano misure politiche piuttosto che l’uso della forza. Anche la Germania si è astenuta sulla Risoluzione.

E l’Italia appariva riluttante, in parte probabilmente perché è altamente dipendente e preoccupata per i suoi contratti petroliferi con Gheddafi - e dobbiamo ricordare che il primo genocidio post-Prima guerra mondiale è stato condotto dall’Italia, in Libia orientale, ora liberata, e forse l’Italia ha sulla coscienza ancora tristi ricordi.

Carlos Latuff

Può un anti-interventista, che crede nella autodeterminazione delle nazioni e dei popoli, sostenere anche a buon diritto un intervento, sia da parte delle Nazioni Unite che di particolari paesi?

Ci sono due casi da considerare: (1) un intervento delle Nazioni Unite e (2) un intervento senza autorizzazione delle Nazioni Unite.
A meno che crediamo che gli Stati siano sacrosanti nella forma in cui sono stati istituiti nel mondo moderno (in genere attraverso una estrema violenza), con i diritti che non tengono conto di tutte le altre considerazioni che si possono immaginare, la risposta è la stessa in entrambi i casi: “Sì”, almeno in linea di principio.
Non vedo alcun punto che ci consenta di porre in discussione questa convinzione, così varrà mettere da parte la questione.
Per quanto riguarda il primo caso, la Carta e le successive Risoluzioni concedono al Consiglio di Sicurezza notevole libertà di intervento, come è stato intrapreso, ad esempio, nei confronti del Sudafrica.
Naturalmente, questo non comporta che ogni decisione del Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere approvata da “un anti-interventista che crede nell’auto-determinazione”; altre considerazioni rientrano nei casi specifici, ma ancora una volta, a meno che agli Stati contemporanei sia assegnato lo status di entità quasi santa, il principio è lo stesso.
Per quanto riguarda il secondo caso - quello che si presenta in merito all’interpretazione da parte del Triumvirato della 1973 delle Nazioni Unite e in molti altri esempi - allora la risposta è di nuovo “Sì”, almeno in linea di principio, a meno che non assumiamo nella sua globalità il sistema dello Stato come sacrosanto nella forma stabilita dalla Carta delle Nazioni Unite e in altri trattati.
Vi è, naturalmente, sempre un onere della prova molto impegnativo, che deve essere soddisfatto per giustificare un intervento energico, o qualsiasi uso della forza. L’onere è particolarmente gravoso nel caso (2), in violazione della Carta, almeno per gli Stati che professano il loro rispetto della legge.
Tuttavia, dovremmo tenere a mente che la potenza egemone globale respinge tale posizione, e si auto-esenta dalla Carta dalle Nazioni Unite e dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), e di altri trattati internazionali.
Nell’accettare la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia (ONU), quando la Corte è stata istituita (su iniziativa degli Stati Uniti) nel 1946, Washington si è auto-esclusa dalle accuse di violazione dei trattati internazionali, e in seguito ha ratificato la Convenzione sul Genocidio con simili riserve - tutte prese di posizione che sono state purtroppo accolte dai tribunali internazionali, poiché le procedure di queste corti richiedono l’accettazione e la ratifica della giurisdizione.
Più in generale, la regola per gli Stati Uniti è quella di aggiungere riserve cruciali ai trattati internazionali, che comunque sottoscrivono, però in buona sostanza auto-esentandosi.
L’onere della prova deve essere rispettato? Non ha molto senso in discussioni astratte, ma ci sono alcuni casi reali che potrebbero beneficiarne.
Nel periodo post-Seconda guerra mondiale, ci sono due casi di ricorso alla forza che - pur non essendo qualificabili come intervento umanitario - possono essere legittimamente sostenuti: l’invasione del Pakistan orientale da parte dell’India nel 1971, e l’invasione vietnamita della Cambogia nel dicembre 1978, in entrambi i casi per mettere fine ad atrocità di massa.
Questi esempi, tuttavia, non entrano nel canone occidentale di “intervento umanitario”, perché risentono dell’intervento di agenti sbagliati: questi interventi non sono stati effettuati da parte dell’Occidente. Per di più, gli Stati Uniti si erano opposti duramente a questi interventi e severamente hanno punito i “malfattori” che hanno posto termine alle stragi in quello che è oggi il Bangladesh, e che hanno cacciato dalla Cambogia Pol Pot, proprio quando le atrocità di costui erano arrivate al culmine.
Il Vietnam, non solo è stato aspramente condannato, ma anche punito con un’invasione cinese appoggiata dagli USA, e dal sostegno militare e diplomatico degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in favore dei Khmer Rossi, che attaccavano la Cambogia da basi Thai.
Mentre l’onere della prova potrebbe essere soddisfacente in questi casi, non è facile pensarlo in altri. Nel caso di intervento da parte del Triumvirato delle potenze imperiali, che stanno attualmente violando in Libia la Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, l’onere per costoro è particolarmente gravoso, dati i loro primati terrificanti.
Nonostante ciò, sarebbe troppo pesante sostenere che questo non può mai essere soddisfatto in linea di principio - a meno che, naturalmente, noi consideriamo gli Stati-nazione, nella loro forma attuale, come essenzialmente santi. Prevenire una probabile strage a Bengasi non è cosa da poco, qualsiasi cosa si pensi delle cause di questi avvenimenti.

Può mai una persona, preoccupata che i dissidenti di un paese non siano massacrati in modo da conservare la capacità di ricercare la propria determinazione, legittimamente opporsi ad un intervento che viene inteso ad evitare questa strage, qualsiasi altra cosa possano altri intendere?

Anche ammettendo, per amor di discussione, che l’intento sia sincero, incontrando il semplice criterio che ho citato all’inizio, non vedo come rispondere a questo livello di astrazione: questo dipende dalle circostanze.
L’intervento dovrebbe essere contrastato, ad esempio, se si presentasse la probabilità che potrebbe condurre ad un massacro ben peggiore. Supponiamo, per esempio, che i leader degli Stati Uniti con sincerità ed onestà intendessero scongiurare nell’Ungheria del 1956 un massacro causato da bombardamenti scatenati da Mosca. O che il Cremlino con sincerità ed onestà intendesse scongiurare un massacro in El Salvador nel 1980 per i bombardamenti scatenati dagli Stati Uniti. Date le conseguenze prevedibili, saremmo tutti d’accordo che queste (inconcepibili) azioni avrebbero dovuto essere legittimamente contrastate.

Molti vedono una analogia tra l'intervento in Kosovo del 1999 e l'attuale intervento in Libia. Riesce a spiegare sia le somiglianze significative, prima, e, in secondo luogo, le importanti differenze?

Molte persone scorgono davvero una tale analogia, un omaggio all’incredibile potenza dei sistemi propagandistici dell’Occidente.
Lo scenario dell’intervento in Kosovo sembra essere particolarmente ben documentato. La documentazione comprende due raccolte di rapporti dettagliati del Dipartimento di Stato, approfonditi rapporti di osservatori (occidentali) della Missione di Verifica e Controllo sul Kosovo direttamente presenti sul campo, fonti ricche di informazioni della NATO e delle Nazioni Unite, una inchiesta parlamentare britannica, e molto altro ancora. Le relazioni e gli studi coincidono molto strettamente con gli avvenimenti.
In breve, non era avvenuta alcuna variazione sostanziale sul terreno nei mesi prima del bombardamento. Atrocità venivano commesse sia dalle forze serbe che dai guerriglieri dell’UCK, che per lo più attaccavano dalla vicina Albania – soprattutto venivano commesse atrocità da parte dell’UCK durante il periodo in questione, almeno secondo le alte autorità britanniche (la Gran Bretagna era il membro più falco dell’alleanza).
Le feroci atrocità in Kosovo non sono state la causa dei bombardamenti NATO sulla Serbia, ma piuttosto la conseguenza dei bombardamenti, e una conseguenza del tutto prevista. Il comandante generale della NATO Wesley Clark aveva informato la Casa Bianca, settimane prima dei bombardamenti, che questi avrebbero provocato una risposta brutale da parte delle forze serbe presenti in Kosovo, e all’inizio dei bombardamenti comunicava alla stampa che una tale risposta era “prevedibile.” Le Nazioni Unite hanno registrato i primi rifugiati provenienti dal Kosovo sicuramente dopo l’inizio dei bombardamenti.
L’incriminazione di Milosevic durante i bombardamenti, in gran parte sulla base di rapporti di intelligence degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, USA-UK, si limitava a reati dopo il bombardamento, con una sola eccezione, che sappiamo non poteva essere presa sul serio dai leader USA-UK, che nello stesso momento stavano sostenendo attivamente reati anche peggiori.
Inoltre, vi era buon motivo di ritenere che una soluzione diplomatica avrebbe potuto essere a portata di mano: infatti, la Risoluzione ONU imposta dopo 78 giorni di bombardamenti era praticamente un compromesso tra le posizioni iniziali della Serbia e della NATO.
Tutto questo, comprese fonti affidabili occidentali, viene rivisto in dettaglio nel mio libro “A New Generation Draws the Line – Una nuova generazione traccia una linea”, e avvalorato da un’ulteriore informazione.
Diana Johnstone riporta una lettera alla Cancelliera tedesca Angela Merkel inviatale il 26 ottobre 2007 da Dietmar Hartwig, che era stato capo della missione europea in Kosovo prima che si ritirasse il 20 marzo 1999, quando venivano annunciati i bombardamenti, ed Hartwig era in una posizione ottimale per sapere cosa stava succedendo.
Egli scriveva:
“Non una sola relazione, presentata per il periodo da fine novembre 1998 fino al ritiro della missione alla vigilia della guerra, faceva menzione del fatto che i Serbi avessero commesso crimini gravi o sistematici contro gli Albanesi, né si era verificato un solo caso che potesse riferirsi a genocidio o a episodi o crimini di natura genocida.
Al contrario, nei miei rapporti, avevo ripetutamente informato che, considerando gli attacchi sempre più frequenti dell’UCK contro la dirigenza serba, l’applicazione della legge da parte dei Serbi dimostrava notevole moderazione e disciplina.
L’obiettivo chiaro, e spesso citato ed encomiato, dell’amministrazione serba è stato quello di osservare l’Accordo Milosevic-Holbrooke [dell’ottobre 1998] alla lettera, in modo da non fornire alcun pretesto alla comunità internazionale per intervenire. ... Ci sono state enormi ‘discrepanze nella percezione’ tra ciò che le missioni in Kosovo avevano segnalato ai loro rispettivi governi e capitali, e ciò che questi ultimi successivamente hanno comunicato ai media e al pubblico.
Queste discrepanze possono essere considerate come l’innesco della guerra preparata da lungo tempo contro la Jugoslavia.
Fino al momento in cui ho lasciato il Kosovo, mai vi è successo quello che i media e i politici, con non minore intensità, sono andati inesorabilmente affermando. Pertanto, fino al 20 marzo 1999, non esiteva alcun motivo per un intervento militare, che rende illegittime le misure intraprese in seguito dalla comunità internazionale.
Il comportamento collettivo degli Stati membri dell’Unione Europea, prima e dopo lo scoppio della guerra, dà adito a gravi preoccupazioni, perché la verità è stata uccisa, e l’Unione Europea ha perso di credibilità.”
La storia non è come la fisica quantistica, ed esiste sempre ampio spazio al dubbio. Ma è raro che le conclusioni siano così fermamente sostenute come lo sono in questo caso.
Però, pur nella loro rilevanza, queste conclusioni restano del tutto irrilevanti.
La dottrina prevalente è che la NATO sia intervenuta per fermare la pulizia etnica - anche se i sostenitori del bombardamento, che tollerano a malapena anche un solo cenno agli elementi che pur si basano su reali dati di fatto, qualificano il loro sostegno ribadendo che il bombardamento era necessario per fermare le potenziali atrocità: dobbiamo quindi agire per provocare atrocità su larga scala, in modo da bloccare coloro che potrebbero metterle in atto, se non venissero bombardati.
E vengono presentate giustificazioni ancora più scioccanti.
Le ragioni di questa effettiva unanime passione sono abbastanza chiare. Il bombardamento arriva dopo una vera e propria orgia di auto-glorificazione e di soggezione al potere, che potrebbe impressionare perfino Kim Il-Sung.
Ho riesaminato tutto ciò in altre occasioni, e non dovrebbe essere permesso che questo momento straordinario della storia dell’intelletto umano sia relegato nel dimenticatoio a cui è stato consegnato. Dopo questa performance, non poteva verificarsi altro che un epilogo glorioso. Il nobile intervento sul Kosovo lo ha fornito, e la fiction deve essere gelosamente custodita.
Tornando alla domanda, se vi sia un’analogia tra le raffigurazioni a proprio uso e consumo sul Kosovo e la Libia: entrambi gli interventi sono animati da nobili intenti, nella versione romanzata! La condizione di una realtà inaccettabile suggerisce piuttosto analogie in situazioni differenti.

Allo stesso modo, molte persone vedono una analogia tra l'intervento in corso in Iraq e l'attuale intervento in Libia. Anche in questo caso, può spiegarci sia le somiglianze che le differenze?

In questo caso, non vedo alcuna analogia significativa, se non che vi sono coinvolti nello stesso modo due Stati. Nel caso dell’Iraq, gli obiettivi erano quelli che alla fine sono stati riconosciuti. Nel caso della Libia, è probabile che l’obiettivo sia paragonabile in almeno un riferimento: la speranza che un regime cliente affidabile appoggerrà in modo affidabile obiettivi occidentali e fornirà agli investitori occidentali un accesso privilegiato alle ricchezze petrolifere della Libia - che, come noto, possono andare ben oltre quanto attualmente conosciuto.

Cosa si aspetta, nelle prossime settimane, di vedere accadere in Libia e, in tale contesto, cosa pensa debbano essere gli obiettivi di un movimento anti interventista e contro la guerra negli Stati Uniti rispetto alle politiche statunitensi?

Ovviamente la situazione è incerta, ma probabilmente ora (29 marzo) le prospettive sono, o uno smantellamento della Libia in una regione orientale ricca di petrolio fortemente dipendente dalle potenze imperiali dell’Occidente e in una regione occidentale impoverita sotto il controllo di un tiranno brutale con tendenza a deperire, o una vittoria da parte delle forze filo-occidentali.
In entrambi i casi, come il Triumvirato presumibilmente spera, un regime meno fastidioso e più dipendente si instaurerà. L’esito più probabile è descritto in modo abbastanza preciso, penso, dalla rivista araba con sede a Londra “al-Quds al-Arabi” (numero del 28 marzo).
Pur riconoscendo l’incertezza della previsione, si anticipa che l’intervento può lasciare la Libia divisa in “due Stati, uno ad oriente ricco di petrolio in mano ai ribelli, l’altro ad occidente in mano a Gheddafi... Dato che i pozzi di petrolio sono stati messi in protezione, potremmo trovarci di fronte a un nuovo Emirato libico del petrolio, scarsamente abitato, protetto dall’Occidente e molto simile agli Stati emirati del Golfo.” Oppure, la ribellione filo-occidentale potrebbe andare avanti senza riserve fino ad eliminare l’irritante dittatore.
Gli interessati alla pace, alla giustizia, alla libertà e alla democrazia dovrebbero cercare di trovare il modo per prestare sostegno e assistenza ai Libici che cercano di plasmare il proprio futuro, libero da vincoli e costrizioni imposti da potenze esterne.
Noi possiamo nutrire solo speranze sulla direzione che i Libici dovrebbero perseguire, ma il loro futuro dovrebbe essere riposto sulle loro mani.

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