venerdì 31 ottobre 2014

COME LA PSYWAR RIDICOLIZZA IL DISSENSO

COME LA PSYWAR RIDICOLIZZA IL DISSENSO

comidad






Sorprendentemente, si è sgonfiata in meno di un giorno la falsa notizia della settimana scorsa sui calciatori della nazionale della Corea del Nord, di cui si è narrato che sarebbero stati arrestati con la prospettiva di essere condannati a morte; ciò a causa della sconfitta nel derby con la Corea del Sud nell'ambito dei Giochi Asiatici. 

La sorpresa ovviamente non sta nella scoperta che si trattasse di un falso, ma nel fatto che il sito di Rainews abbia ammesso l'errore, ricordando anche altri casi di fiabe-horror sulla Corea del Nord, rivelatesi poi del tutto infondate; ad esempio, la storia dello zio del "dittatore" dato in pasto ai cani. 

Se da un lato è notevole che, almeno stavolta, una smentita sia prontamente arrivata, rimarrebbe comunque da spiegare come mai i precedenti non abbiano consigliato maggiore prudenza, anche considerando l'evidente inconsistenza della fonte della notizia sui calciatori nord-coreani, e cioè l'associazione "Nessuno tocchi Caino", di area radicale. 

Il punto è che le smentite non hanno mai la stessa risonanza delle "notizie" che sono state "sparate" all'inizio con tanta evidenza. Rimane così nell'opinione pubblica quell'impressione di fondo per la quale in Corea del Nord qualsiasi crudeltà sarebbe possibile; perciò, se l'alternativa sarebbe quella di cadere nelle mani di un dittatore sanguinario, allora tanto vale tenersi Goldman Sachs. 

Pseudo-notizie poi smentite, o non confermate, rimangono comunque nell'aria a radicare pregiudizi e luoghi comuni. 

Le tecniche della guerra psicologica non sono necessariamente molto sofisticate, ma si basano spesso su tecniche elementari come la ripetizione, la cui efficacia è stata ampiamente teorizzata da Goebbels. 

Il nazismo non ha inventato nulla; la sua originalità è consistita solo nell'applicare all'Europa le tecniche coloniali già sperimentate dai Britannici in Africa ed in Asia, compresi gli schemi della propaganda. Le cose attualmente non sono poi molto cambiate. 

I decapitatori dell'ISIS di oggi sono i pronipotini degli strangolatori Thug della propaganda britannica dell'800. Quelli dell'ISIS sarebbero islamici, mentre la setta Thug era presentata come indù, ma le fiabe si somigliano.

Non tutto il sistema delle comunicazioni è arruolato nell'apparato delle PSYOPS (Operazioni di Guerra Psicologica) del Pentagono, ma è lo stesso evidente la passività dei giornalisti nel riprendere notizie incontrollate o di fonte inattendibile. 

Ad esempio, riportare che i servizi segreti tedeschi avrebbero provato la responsabilità dei guerriglieri filo-russi nell'abbattimento dell'aereo malese, risulta sufficiente ad ottenere l'effetto, tanto più se ciò viene presentato come una "rivelazione"; come se la NATO non lo propagandasse già da mesi. 

Il sistema della Psywar sviluppa anche delle contromisure verso le perplessità e i dubbi, assegnando a personaggi improbabili la parte della difesa del buonsenso. 

Era accaduto quando fu affidato al Buffone di Arcore il compito di mettere in evidenza le ragioni della Russia ed i torti della NATO nella vicenda ucraina. 

Associare l'immagine del Buffone a quella di Putin è comunque un punto a sfavore di quest'ultimo, al di là del realismo degli argomenti adoperati. 

Analogamente, a difensore delle ragioni della Corea del Nord i media hanno eletto addirittura il deputato Antonio Razzi, l'uomo oggi messo più in caricatura dalla satira; uno sforzo davvero inutile, dato che l'uomo si pone già come una caricatura. 

I media ci narrano in lungo e in largo presunti viaggi del deputato di Forza Italia in Corea del Nord, con tanto di altolocate frequentazioni. 

Per la verità, le argomentazioni di Razzi a favore del regime nord-coreano risultano piuttosto banali, invocando a prova della bontà di quel regime la pulizia delle strade, che ricorderebbero a Razzi la sua Svizzera. 

Dei settanta anni di aggressione statunitense, neanche a parlarne. L'effetto comunque è raggiunto: dubitare delle nefandezze della Corea del Nord diventa improponibile, poiché rischia di associarti all'immagine di personaggi come Razzi, che fanno tesoro e lucro del discredito in cui vivono ed operano. 

La vera notizia offerta indirettamente, è però la "elveticità" di Razzi, che è un abruzzese molto poco DOC, dato che si esprime abitualmente in tedesco a causa dei suoi quaranta anni di permanenza a Lucerna in Svizzera, dove conserva tuttora la sua residenza. 

Un personaggio un po' troppo internazionale per essere credibile come icona autorazzistica della degenerazione italica; però funziona ugualmente, poiché si tende a guardare più alla vernice del personaggio che al suo retroterra. 

Esistono quindi personaggi "politici" fabbricati esclusivamente in funzione della provocazione mediatica: attori di una messinscena o, per meglio dire, testimonial pubblicitari in negativo. 

A tutti è noto l'uso dei testimonial in pubblicità: l'immagine di personaggi di successo viene usata per accreditare un prodotto presso il pubblico. 

Ma la stessa tecnica pubblicitaria può essere adoperata in modo rovesciato, per mettere preventivamente in ridicolo il dubbio e il dissenso, associandogli l'immagine di personaggi disprezzati. 

La ridicolizzazione preventiva del dubbio viene largamente usata anche nell'attuale campagna pubblicitaria sull'emergenza-Ebola. 

Ad esempio, un giornale liberiano ha sparato ipotesi complottistiche del tutto prive di pezze d'appoggio sull'origine dell'emergenza Ebola, attribuendola a sperimentazioni statunitensi. 

Con discorsi del genere si contribuisce a determinare nell'opinione pubblica un clima sfavorevole ad accogliere anche i dubbi ed i sospetti dotati di più fondatezza. 

Tanto più se si considera che in tal modo il giornale liberiano indirettamente riconferma ciò che più conviene al business delle multinazionali farmaceutiche, e cioè l'impressione della realtà dell'emergenza, quale che sia la responsabilità della presunta diffusione del virus.



nota di  sa defenza 

 PSYWAR
Per secoli il più potente servizio di intelligence e raccolta dati è stato il rito cattolico della “confessione”, con cui milioni di persone rivelavano informazioni vitali al Pontefice riguardo i loro atti di colpevolezza e grazie ai quali, quindi, potevano essere ricattati assieme ai loro amici peccatori 
Ma saremmo in errore se pensassimo che il problema è stato risolto con Lutero e la sua Riforma Protestante. I preti-spia della nuova chiesa quali Google e Facebook hanno preso il posto del confessionale. 
Per approfondimenti ulteriori:http://rt.com/op-edge/psywar-internet-nsa-media-309/

giovedì 30 ottobre 2014

Così le Nazioni dell'Europa stanno perdendo la loro sovranità

Così le Nazioni dell'Europa stanno perdendo la loro sovranità


Discorso del Presidente Vladimir Putin durante la sessione plenaria finale della undicesima sessione del Valdai International Discussion Club

Vladimir Putin


"Servono nuove regole internazionali o rischiamo il caos  globale. Le ingerenze di Washington riportano il mondo alla  Guerra Fredda"

Un discorso programmatico, da vero capo di Stato. Quello tenuto dal presidente russo Vladimir Putin il 24 ottobre scorso, alla sessione plenaria del Forum internazionale del «Club Valdai» (la fondazione no-profit che da anni si occupa del ruolo geopolitico della Russia nel mondo), non è una dichiarazione di guerra, ma un duro messaggio all'Occidente e in particolare agli Stati Uniti. Dagli errori in Medio Oriente alla lotta al terrorismo, dalle sanzioni dopo la crisi ucraina alle ingerenze economiche e politiche, Putin spiega perché la Russia non cambia posizione. E anzi, rilancia il suo ruolo di superpotenza.


Egregi colleghi! Signore e signori! Cari amici! (...)


Non intendo deludervi e parlerò in modo diretto, franco. Qualche dichiarazione potrà, probabilmente, apparire esageratamente aspra.


Ma se non parliamo in modo chiaro e diretto esprimendo i nostri pensieri reali e veri, allora non avrebbe alcun senso fare incontri di questo tipo. Si potrebbe, in quel caso, convocare dei raduni diplomatici dove nessuno parla in modo essenziale, in quanto, ricorrendo alle parole di un noto diplomatico, la lingua è stata data ai diplomatici solo per non dire la verità.


Noi ci riuniamo invece per altri scopi. Ci riuniamo per parlare senza mezzi termini. La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché esso diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano dei rischi.


Il tema dell'incontro di oggi è ben definito ormai: «Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole?». Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L'idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell'economia, nella vita sociale, nell'ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali (...). Ma nell'analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell'ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell'uomo.


Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c'è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l'ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall'esito della Seconda guerra mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che «i padri fondatori» di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di «spremere fino all'ultimo» ma cercavano di mettersi d'accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per - se non una soluzione - almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell'asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.

L'ARROGANZA DEI VINCITORI

Sono convinto che questo meccanismo di contro-bilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza (...). Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della «Guerra fredda», hanno pensato - e credo che l'abbiano fatto con presunzione - che di tutto questo non v'è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l'ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio.


La «Guerra fredda» è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di «pace», con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della «Guerra fredda» abbiano deciso di «sfruttare» fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei contro-bilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo (...).


Il concetto stesso della «sovranità nazionale» per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. (...). Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di «infra-diritto» (...). Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto «grande fratello» spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati.


Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo (...). Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela?

Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così. 

LOTTA COMUNE AL TERRORISMO

Il diktat unilaterale e l'imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l'escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l'espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali (...). Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l'altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l'Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al Qaida. L'Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l'irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei Paesi dell'Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l'abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d'America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia de l'11 settembre.


Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida (...). Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Irak sia in Libia. Quest'ultimo Paese, tra l'altro, (...) ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell'Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo Paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari Paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com'è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito? Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, (...) ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra.


Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Irak, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l'esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti (...). Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell'Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull'inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell'Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile. 

IL BIPOLARISMO «COMODO»
L'accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, (...) è efficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi (...) e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui Paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi.


Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più «comodo» per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del «centro del male» che spettava una volta all'Urss: l'Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio «a sostegno di», ma «contro»; serve l'immagine di un nemico, come ai tempi della «Guerra fredda», per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat (...). Durante la «Guerra fredda», agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva, ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l'aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale (...). Tuttavia il mondo è cambiato (...). 

SANZIONI CON IL BOOMERANG
Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del WTO, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali (...). A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo. Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un Paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica (...). La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all'auto-isolamento e all'arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell'autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei Paesi leader.


Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all'Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni (...). L'Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell'economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia. (...).


Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l'anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall'instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei Paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei «continenti» storici, economici e culturali. L'Ucraina è un esempio - ma non l'unico - di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali.


Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa. Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i Paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell'annientamento reciproco (...). È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza «doppi standard». Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i Paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto «primo colpo disarmante globale». In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.


Un'altra minaccia evidente è l'ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri «colleghi» hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le «rivoluzioni colorate», ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del «caos controllato» (...). E il caos globale aumenta.


Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i Paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali. Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? (...) Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile (...). Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l'esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell'uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati (...). Non c'è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda guerra mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni (...). Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell'ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell'aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all'economia (...). 

IL CASO UCRAINA
Vorrei ricordarvi gli eventi dell'anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull'adesione dell'Ucraina all'Unione Europea erano pregni di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi Paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell'Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell'associazione dell'Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all'Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile. Io lo dicevo: l'ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che «producono a macchia» una rivoluzione colorata dopo l'altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi (…).


Voglio aggiungere che avremmo gradito l'inizio di un dialogo concreto tra L'Unione Eurasiatica e l'Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo, cosa c'è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l'appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall'Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall'ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l'accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo. La nostra agenda è orientata all'integrazione, è positiva, pacifica (...). La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata (...). Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la «Guerra fredda» i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarli. Nel caso contrario le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell'ordine mondiale (...). Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda guerra mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni 1970 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova tappa di sviluppo.

mercoledì 29 ottobre 2014

LA DURA VERITA' SULL'ITALIA: INTERVISTA A PAOLO CARDENA'

LA DURA VERITA' SULL'ITALIA: INTERVISTA A PAOLO CARDENA'



Ospitiamo con immenso piacere una intervista a Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore - www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per analizzare la situazione economica italiana attuale, cercare di fare il punto su quali sono le aspettative per i prossimi 6-12 mesi e soprattutto per dire con estrema chiarezza di cosa avrebbe bisogno il paese per uscire dalle secche in cui si è cacciato da anni e cosa invece il governo Renzi - sulla falsariga di quelli che l'han preceduto, Letta e Monti - sta facendo. dal team di tradingnetwork


Come vedi la situazione economica generale al momento?
Paolo Cardenà: Gli ultimi indicatori forniti dall'Istat confermano che la situazione economica italiana si sta ulteriormente deteriorando. Cosa che, a dire il vero, ci aspettavamo. Purtroppo l'Italia è caduta in uno stallo che si protrae ormai da diversi anni, e sembra che stia percorrendo un sentiero molto pericoloso, nel quale, con ogni probabilità, nella migliore delle ipotesi, si troverà ad alternare periodi di recessione con periodi di bassa crescita, in un percorso distruttivo fortemente allarmante. C'è da dire anche che, per il momento, le esportazioni sembrano aver offerto un sostegno significativo alla tenuta del PIL. Più o meno tutte le più grandi economie occidentali, dopo il periodo di burrasca successivo alla scoppio della bolla dei mutui subprime e al fallimento della banca americana Lehman Brothers, seppur con molte difficoltà e con altrettanti elementi di fragilità, hanno conosciuto una ripresa dell'attività economica che, in un certo qual modo, ha contribuito a sostenere l'export italiano, che a sua volta ha dato e continua a dare un ottimo contributo all'attività economica italiana, compensando in parte il crollo della domanda interna dell'Italiana.

Quindi, quali sono le aspettative per i prossimi 6-12 mesi?
Paolo Cardenà: E' evidente che queste economie si trovino in una fase di ciclo economico molto più avanzata rispetto all'economia italiana che sta ancora combattendo con la crisi che si protrae dal 2008. In alcune di queste aree, stanno già incubando i prodromi per una prossima crisi. Non possiamo dire quando scoppierà: se tra sei mesi, un anno, oppure due. Ma è certo che scoppierà, e quando avverrà, è chiaro che si assisterà ad una contrazione del commercio internazionale che aggredirà anche le dinamiche della componente export dell'Italia, che a quel punto si troverà ancora in condizioni di estrema fragilità e, in assenza di una domanda interna sostenuta (che non appare all'orizzonte) tale da contribuire ad arginare la contrazione dell'export, ne verrà travolta pagandone il prezzo più alto.

Il Fondo Monetario Internazionale che, nel World Economic Outlook pubblicato ieri, pone particolare attenzione ai fattori di rischio al ribasso per l'economia globale, non dimenticando di segnalare come l'intensificarsi e il persistere di rischi di natura geopolitica, potrebbero riflettersi sui prezzi dei prodotti petroliferi, sull'intensità del commercio internazionale, e potrebbe portare ad ulteriori difficoltà economiche. Non solo, ma il FMI afferma anche che nelle economie avanzate, la stagnazione secolare e la bassa crescita potenziale continueranno ad essere rilevanti fattori di rischio, nonostante tassi di interesse molto bassi. Aggiunge anche che il protrarsi di fenomeni deflattivi o deflazione vera e propria, in particolare nell'area dell'euro, potrebbero rappresentare un rischio per l'attività e la sostenibilità del debito in alcuni paesi. E qui il richiamo sembra essere rivolto proprio all'Italia, per via del debito pubblico in continua ascesa, e anche per via delle condizione di estrema fragilità dell'economia nazionale: fattori che incidono significativamente sulla sostenibilità del debito pubblico, peraltro aggravata -nel lungo periodo- anche da un deficit demografico che si sta ulteriormente deteriorando per via del fatto che molti giovani italiani stanno abbandonando l'Italia per cercare fortuna in luoghi ove esistono condizioni più favorevoli per realizzarsi e costruire un futuro migliore. Che l'Italia possa trovarsi nella condizione di operare una ristrutturazione del debito pubblico è una possibilità che non va esclusa a priori. Come non va esclusa la possibilità che si possa arrivare a qualche forma di imposizione patrimoniale straordinaria, proprio finalizzata a rendere più sostenibile il debito pubblico. Ma in questo caso, a mio avviso, gli affetti distruttivi sarebbero enormi.

Di che cosa ha bisogno l'Italia per uscire dal limbo in cui si è cacciata?
Paolo Cardenà: Finora si è affrontata questa crisi - che di rituale ha assai poco - con manovre di politica economica del tutto rituali, che hanno miseramente fallito e aggravato la situazione. Quello che non comprendono i nostri governanti (e anche molti economisti) quando azzardano previsioni di crescita del Paese (sistematicamente fallite), è un fatto molto semplice, anzi banale.

Ossia, loro, più o meno colpevolmente, pensano che l’Italia, considerate le diverse componenti del Pil, possa crescere esprimendo per ciascuna componente lo stesso potenziale di contribuzione espresso nel periodo precedente la crisi, ignorando la distruzione intervenuta in questi anni.

Mi spiego: se prima dalla crisi 100 persone producevano 1000 euro di ricchezza, oggi, ad esempio, le stesse persone esprimono un potenziale di contribuzione alla crescita non più di 1000, ma magari di 900, o forse meno.
Questo perché, quelli che gli economisti chiamano "agenti economici", per via della crisi, hanno subìto una forte riduzione della potenzialità di contribuzione alla generazione di ricchezza. E ciò per diversi fattori.
Solo per citare alcuni esempi: dall’inizio della crisi sono risultati insolventi nei confronti del sistema bancario oltre un milione di soggetti, tra famiglie e imprese. Costoro, allo stato attuale (ma anche futuro) non hanno alcuna possibilità di accesso al credito, né per effettuare investimenti in beni durevoli, né per finanziare qualche ipotetica iniziativa imprenditoriale. Anzi, nei casi più eclatanti vivono in condizioni di miseria o povertà assoluta. Quindi minori investimenti corrispondono a un minor PIL.


Altro esempio. Sempre per via della crisi, molti soggetti (oltre a quelli sopra citati) hanno accumulato ingenti debiti tributari, perché non sono riusciti ad adempiere all’obbligazione tributaria, seppur legittimamente dichiarata nella denuncia dei redditi. Questi soggetti saranno costretti a vivere in condizioni di clandestinità fiscale e, anche in futuro, dovranno comprimere i consumi o rinunciare ad investire in beni durevoli, in case, o automobili, che altrimenti verrebbero aggrediti da Equitalia.


Pensi, ancora, alla pressione fiscale, notevolmente aumentata dall’inizio della crisi, nonostante redditi reali in diminuzione. Un minor reddito, peraltro gravato da un maggior onere fiscale, corrisponde ad un minor reddito disponibile per sostenere i consumi.
In parole più semplici, questi fattori e molti altri ancora, contribuiscono a comprimere le potenzialità di crescita del paese, con soggetti in ostaggio (e vittime, allo stesso tempo) della crisi e di un sistema fiscale che dovrebbe essere profondamente riformato.
Si potrebbe andare avanti per ore, ma il risultato sarebbe sempre lo stesso. Cioè che, ad oggi, alla produzione della ricchezza nazionale auspicata (sognata) dal governo deve contribuire una platea considerevolmente più ristretta rispetto al passato, sulla quale grava anche un onere fiscale maggiore.
Fino a quando questi soggetti non verranno in qualche modo riabilitati o reintegrati nella sfera economica e sociale, qualsiasi previsione di crescita del Paese sarà destinata a fallire miseramente, sotto i colpi di posizioni ideologiche (da parte della politica) ancora ben lontane dal comprendere la profondità di questa crisi.
Ecco, l’ho detto in maniera semplice e banale. Ma qui, di teoria economica c’è ben poco, e il ragionamento osservato è solo di logica e buonsenso.

E di Renzi, cosa ci dici?
Paolo Cardenà: Il mio giudizio è assai negativo sull'operato del governo Renzi, per tutte le ragioni di cui abbiamo abbondantemente discusso sul blog. Quando Renzi afferma che siamo all'ultima spiaggia, sostanzialmente lo dice per proprio tornaconto. Perché a lui e alla nomenclatura politica trincerata dietro alle sue spalle, fa comodo che l'opinione pubblica si convinca che leadership di Renzi sia l'unica soluzione possibile, l'unica in grado di fare qualcosa per il paese, l'unica capace di invertire il declino italiano. E nel frattempo loro rimangono saldamente ancorati allo STATUS QUO, godendo di tutti i benefici che ne conseguono.

Ecco perché gli italiani, alle scorse europee, hanno rovesciato una valanga di voti a favore di un partito dai connotati genetici discutibili, guidato da un tizio che sta dimostrando la sua inerzia intellettiva dinanzi alle condizioni drammatiche del paese. Perché hanno creduto (e credono tutt'ora) che quella di Renzi, magari anche per via della sua giovane età, sia l'unica alternativa possibile ad un vuoto politico che, se colmato, rischierebbe di produrre altrettanti cialtroni, non meno distruttivi rispetto a quelli del passato.

D'altra parte, quello italiano, per lo più, è un popolo naturalmente incline a cedere al fascino delle lusinghe di chi promette la gloria. Quindi, perché non concedere fiducia ad un ragazzotto per bene che sembra avere le idee chiare? si saranno detti chi lo ha votato.

Ecco, il punto è proprio questo: quello delle idee chiare. Che, ahimè, non appartengono affatto al patrimonio intellettivo di Renzi, visto che ha una cognizione del tutto asimmetrica rispetto alla realtà delle cose, e alle tragiche condizioni del paese.

Al netto del fatto che siamo già abbondantemente "spiaggiati", non è assolutamente vero che Renzi sia l'unica alternativa possibile. Anzi, a dire il vero, lo stesso Renzi, in quanto espressione dei soliti interessi partitici e lobbistici, rappresenta un ostacolo alle vere alternative. L'Italia non è quella di Renzi, quella che vogliono i partiti, o peggio quella disegnata da un vecchio signore di novant'anni, che sta progettando il futuro dei prossimi 20/30 anni di 60 milioni di persone, nascituri compresi.
E' tutt'altra cosa rispetto a come la vorrebbero loro, che continuano ad affannarsi nel rincorrere spasmodicamente soluzioni finalizzate a comprimere dignità, diritti e libertà. E lo stato di polizia tributaria in cui siamo reclusi ne costituisce l'espressione più autentica.

L'evasore è il capro espiatorio del declino italiano, cioè colui per mezzo del quale è possibile giustificare ogni repressione delle libertà individuali, come quella (ormai prossima) della riduzione dell'uso del contante. Ma queste sono solo le ultime cartoline da basso impero, almeno spero.

Nonostante tutto, l'Italia, ancora oggi, può contare su uno straordinario patrimonio culturale in ogni campo, in ogni disciplina. E non mi riferisco solo al patrimonio culturale consegnatoci dalla storia. L'Italia è piena di eccellenze: dalla scienza, alla fisica, all'imprenditoria, alla medicina, fino ad arrivare all'economia, e così via.

L'Italia dispone di grandissime intelligenze, di menti acute, perseveranti ed eccellenti. Sono persone che, con il proprio lavoro, con la propria dedizione e con altrettanto sacrificio, ogni giorno combattono la disfatta che costoro vorrebbero infliggerci, dopo averci appiattito nel modo di pensare, di ragionare, di essere autentici, di essere individui, inteso nella forma più alta del termine.

Esistono ancora condizioni per uscire da limbo?
Paolo Cardenà: Più che dibattere senza costrutto e accusarsi tutti, l’un l’altro, per ciò che non è stato fatto negli anni o decenni trascorsi e a proporre improbabili ricette a favore di qualche sparuta categoria o peggio ancora clientela, bisogna amaramente ma consapevolmente ammettere, che l’ITALIA ha fallito nel suo proposito di diventare un paese virtuoso, come ci era stato prospettato al momento dell’entrata nell’EURO.

Purtroppo l’ITALIA, a questo punto e con la classe politica e dirigente che si ritrova, non ce la può fare più a competere all’interno di un sistema economico finanziario con regole tedesche. Insomma l’ITALIA dovrebbe pensare a come poter uscire dall’EURO con i minori danni possibili per sé e per gli altri, se vuole avere una ragionevole speranza di uscire dal lunghissimo tunnel in cui è entrata e riprendere, dopo un breve calvario, la strada della crescita. L’alternativa, nella situazione attuale, è quella che abbiamo iniziato a sperimentare, ovvero:
Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano 
Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo 
Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri 
Collasso del welfare attuale perché insostenibile

lunedì 27 ottobre 2014

Anarchía. Ordine senza Autorità

Anarchía. Ordine senza Autorità

periodicoellibertario

Rodrigo Quesada Monge
tradusiu editau
de Sa Defenza


[Nota del Libertario: Grazie alla cordiale solidarietà  dell'autore, che ci ha guidato attraverso una copia di questo libro in circolazione dallo scorso maggio, abbiamo avuto l'opportunità di avvicinarsi ad un lavoro che vogliamo raggiunga il maggior numero di lettori del nostro continente, quindi non esitate a etichettarlo come un valido contributo alla diffusione, discussione e dibattito sul ideale anarchico, chiaramente concentrata, la conoscenza densa del punto di vista latinoamericano. In questo senso, e si vuole incoraggiare la vasta lettura del testo, riprodotto qui di seguito nei suoi punti iniziali e finali.] 


Introduzione generale

L'obiettivo principale di questo libro è il rilascio di alcune delle idee di base e la storia del pensiero anarchico. Ci sono  aspirazioni molto meno dottrinarie. Oggi non c'è persona che può, singolarmente, in un unico lavoro coprire l'intera ideologia anarchica, la quantità di informazioni sul tema richiederebbe molte vite per essere compreso appieno. Data questa enorme massa di informazioni, pratiche e di esperienze storiche, siamo dei semplici esseri umani in cammino, abbiamo il solo modesto compito di fornire informazioni di carattere generale.

Tuttavia, questo è stato il bisogno di un piccolo paese come il Costa Rica, dove molti anni fa, si è fatto un lavoro che ha cercato di fornire alcuni pezzi di informazioni più o meno articolate su quello che si propone l'anarchismo come  dottrina sociale, politica e culturale non è stata pubblicata. La nostra esposizione è in sintonia con il soggetto, e quando è stato necessario avvicinarsi con passione e soggettività lo abbiamo fatto. Noi non siamo storici, ma continuiamo a pensare che la ricerca storica deve essere completamente "oggettiva" per acquisire il prestigio della scientificità. Quando è necessario, parliamo anche le carenze dell'anarchismo come un ideale e come pratica.

Queste sono le cose sbagliate che sono state dette di anarchismo. La maggior parte delle persone immagina un anarchico come un ragazzo con gli occhi iniettati di sangue, un pugnale tra i denti, e le tasche piene di granate e dinamite, pronto a sacrificarsi (come i terroristi dei nostri giorni), al fine di imporre le loro idee del socialismo, pace e amore. Ci potrebbero essere contraddizione più assurda! Pochissime persone sanno che uno dei principali maestri il Mahatma Gandhi (1869-1948) dirigente dell'indipendenza dell'India e uno dei più grandi maestri spirituali del XX secolo, era semplicemente un anarchico, uno scrittore che, a sua volta, era anche un aristocratico, uno dei più grandi proprietari terrieri in Russia, a suo modo, era nella sua dirittura un uomo molto spirituale. Ci riferiamo naturalmente al conte Lev Tolstoj (1828-1910).

Tuttavia, durante gli anni '90 del XIX secolo ei primi due decenni del XX secolo, alcuni anarchici credevano che l'azione diretta o propaganda, cioè l'esecuzione di alcuni personaggi pubblici, o il semplice atto di terrore potesse spostare grandi maggioranze a prendere coscienza della prpria vergognosa situazione sociale, economica e politica. Questi singoli atti sono stati ferocemente condannati al momento dell'atto, mentre  l'anarchico coerente d'oggi non  vede  questi atti di violenza appropriati al modus vivendi. Anche se comprende il dolore e la rabbia che  possono sopportare alcune persone, le enormi ingiustizie commesse oggi contro milioni di persone in diverse parti del mondo, organizzati da poteri che si definiscono religiosi, democratici o socialisti.
 

Tolstoj non era solo. Era semplicemente un collegamento di un gruppo di persone che, nel corso dei millenni, hanno sostenuto che uno degli ingredienti più nocivi e pericolosi nella nostra società è l'esercizio brutale e senza limiti del potere, in ogni sua espressione. Non c'è niente di più terribile e umiliante come uno scagnozzo alla dipendenza sottomessa di un essere umano piuttosto che a un altro. Si sono scritti migliaia di libri, ci sono state guerre e milioni di persone sono morte per impedire questo genere di sottomissione di essere raggiungiunto ed esteso a tutto il mondo. Gli anarchici sono solo un gruppo di persone che pensano che finché c'è vita, vale la pena,  fare ogni sforzo per evitare che una cosa del genere accada.

Molti altri hanno la stessa visione si dirà. Vero, ma le procedure degli anarchici all'ordine del giorno sono uniche, poiché lottano a tempo pieno, questa alleanza sovrana, progettato in modo particolare  per oscurare la felicità del popolo, una parte che integra lo Stato-Chiesa (organizzato)- e il Capitale. Si tratta di un'alleanza che ha fatto molto male all'umanità, ed è stato compito degli anarchici proporre la ribellione permanente contro i suoi disegni. 


Stato e Autorità non è un'equazione, come alcuni pensano. Gli anarchici accettano e riconoscono l'autorità della scienza e della saggezza. Mai l'autoritarismo, l'arroganza e la forza bruta, che sia di regimi di destra o di sinistra
Chiesa e  spiritualità non è un'equazione.Gli anarchici sono profondamente rispettosi dell'etica e del tipo di spiritualità che le persone decidono di scegliere per la propria felicità, dal suo profondo intimo. L'anarchico non riconosce le chiese gerarchizzate. La storia è un testamento alla sua devastante incompetenza a risolvere i grandi problemi spirituali dell'umanità. Accettare il cristiano, come ha fatto Tolstoj, in un essere umano che difende il suo diritto di comunicare con Dio, a suo piacimento, senza l'intervento di mediatori o di qualche tipo.  
Capitale e ricchezza non è un'equazione. La morale,la solidarietà, l'arte, un patrimonio l'intellettualità  nulla ha a che fare con il capitale, che si basa essenzialmente ad acquisire la ragione nei confronti del lavoro, facendo utili in misura crescente.

In questo piccolo libro si è discusso di uomini e donne che hanno pensato, sentito e agito in accordo con questi principi. Per la prima parte, dei primi diciassette capitoli, si discute e riflette su temi chiave della ideologia anarchica, noto anche come pensiero libertario o anarchico. Vale la pena chiarire che il termine libertario è di origine anarchica, e non ha nulla a che fare con i principi di anarco-capitalismo, o di estrema destra,  nel quale mondo è una giungla in cui i più forti sopravvivono. In questo libro, ogni volta che si parla di libertari, si fa riferimento agli anarchici, quelli che aspirano a una società pienamente libera, senza autoritarismo, e dove è possibile solo la solidarietà tra le persone attraverso una versione produttiva e fluida del socialismo .

Chi ha lottato per realizzare questa utopia, il percorso storico di questi sforzi sono descritti nella seconda parte del libro, costituita da otto capitoli ove si raccolgono alcuni dei punti salienti della pratica dell'anarchismo negli ultimi duecento anni. La testimonianza sta rivelando perché gli anarchici si mettevano dalla parte dei perdenti, e non dei vincitori o del profitto. Quindi sono essenzialmente gli ideali utopici,  il ricorso all'Utopia  capitalizza, in quanto l'orientamento guida principale in un mondo  strutturato per i ricchi, di successo, per i vincitor, che detengono la felicità realizzata.

L'anarchico lotta e combatte per l'assoluta libertà non possibile in un mondo utopico  senza oppressi ne oppressori, sogno di una condizione che l'alleanza di cui abbiamo parlato in precedenza impedisce. Così la storia raccontata in questo libro è pieno di situazioni di successo, di perseguitati e persecutori, carnefici e giustiziati,
e appropriazioni indebite, di rivoluzioni trionfanti, di golpe contro persone innocenti, e di abusi nelle sue manifestazioni più più dolorose. L'inchiesta ha concluso nei due capitoli finali, studi su l'anarchismo nei paesi latino-americani, e in Costa Rica, dove non si è mai pensato che  potesse ricevere una dottrina, la cui spina dorsale è la difesa più intransigente della libertà possibile in tutta la sua espressione. Molti dei santi uomini della cultura del Costa Rica ufficiale di questa innocente Arcadia[1], avevano  inclinazioni nascoste affini all'anarchismo, come vedremo.



Conclusione generale

Autoritarismo, nonostante le grandi lotte in cui è stato coinvolto l'anarchismo nel combatterlo, è ancora oggi uno dei più grandi mali della civiltà. Oggi, molte persone che esercitano il potere, hanno la convinzione che sia l'unico modo per le persone di servire una buona causa, una buona idea, o una semplice decisione politica per influire sulla comunità locale, con la forza, la brutalità, il rumore sordo del grido. Purtroppo, la maggior parte dei leader politici,   nei piccoli paesi del Costa Rica,
sono di medio e basso rango, provengono da settori sociali in cui l'istruzione, la sensibilità, il dialogo e la razionalità non sono il modello predominante.

Si tratta di un fenomeno che ha cominciato a farsi sentire sempre più nel corso degli ultimi 30 anni. In modo che la gamma più è autoritaria,  più è probabile  la corruzione, la truffa, e il morso della manipolazione. Il problema del Costa Rica non è la mancanza di autorità, ma al contrario, è l'eccesso di autorità. Per il politico medio in questo paese, la governance e la governabilità è inversamente proporzionale alla repressione o alla sua assenza. Il paese è governabile se le persone si lasciano facilmente imboniere, ed ingovernabile se la repressione non sortisce alcun effetto.

Ma in una società che trasuda paura, insoddisfazione, frustrazione, e una gamma illimitata di aspirazioni che non sono canalizzate, l'ingovernabiltà crescerà ogni giorno e si trasforma in una ribellione permanente contro l'apparato istituzionale, dello Stato, Chiesa e Capitale. Per un anarchico questo è lo scenario ideale sulla quale può contare per imprimere le idee nella gente per spostare il governo al servizio della propria vita. Quando le persone  prenderanno il controllo della propria esistenza, la propria responsabilità religiosa, morale ed etica delle prprie azioni, allora sarà il momento in cui si può iniziare a costruire una forma di libertà produttiva e civile.

L'@narchismo individualista e il socialismo @narchico, saranno essi stessi  un'opportunità storica per organizzare la società desiderata, seguendo le linee per applicare uno sforzo maggiore in tutto quello in cui si impegnano, per la maggioranza o totalità degli individui e dei gruppi umani di poter beneficiare pienamente degli sforzi di ciascuno. Né il capitalismo predatorio o il socialismo autoritario contemplano questa possibilità, come sono stati progettati per promuovere un maggiore uso della forza e della violenza nella conquista di ciò che la gente vuole. Lungo la strada, la parte peggiore è svolta dai poveri, i deboli e gli indifesi, la natura e l'ambiente. La democrazia, in questo caso, diventa un'utopia blanda, non la realtà di cui tutti dicono di godere, e ingannano nella piena consapevolezza.

Questa coscienza  che inganna me stesso, mi impedisce di continuare un atto che è ancora peggiore, nel vedere  virtù nella democrazia borghese e la presunta democrazia socialista. Quindi, per l'anarchico, la rappresentanza politica è una farsa totale. Come lo sono tutti i sistemi elettorali, in cui sono selezionati alcuni individui per essere serviti, e copartecipare con altre persone nella finzione che è al servizio della società in generale. Sia nella democrazia parlamentare borghese o democrazia socialista, la frode consiste nel far credere alla gente che partecipa nell'organizzazione e nell'applicazione del potere. Quando in realtà ciò che viene distribuito è l'esercizio del potere, dato in mano a piccoli e potenti gruppi di potere, nell'economia politica e sociale e dividerne la ricchezza prodotta da tale società, senza considerare, neanche lontanamente, la partecipazione piena al potere della popolazione.

E quest'ultima, la gente, per capirci, sia il liberal-democratico, che il socialista autoritario, la considerano incompetente, stupida, incapace di prendere decisioni, disorientata e alienata, tale da non consentire loro di ricevere  una pur minima parte  di autorità (gestionale). Ma è la gente, senza forma, analfabeti, affamati, che ha messo al potere  l'uno o l'altro politico. 

Nel corso degli anni, come scrive E. de La Boétie [2] nel suo Discorso sulla servitù volontaria, la gente  suppone che l'obbedienza cieca sia la vera indicazione della migliore pratica  democratica. La democrazia, come è stata praticata finora, sia dai liberali che dai socialisti autoritari, non è stata altro che l'espressione supina di addomesticazione e di abbrutimento. La Boétie dice: "La gente stesse quindi sono lasciati, o meglio, sono divorati, e si fermano al servizio che essi sarebbero stati al sicuro; le persone erano soggette a schiavitù, alla decapitazione, la scelta tra l'essere un servo e  essere libero, lasciando la loro indipendenza per prendere il giogo, acconsentendo al proprio male, o meglio, lo persegue. "

Ma gli anarchici "ottimismo stoico", a differenza del "pessimismo stoico" dei socialisti liberali e autoritari che sostengono che l'uomo è fondamentalmente lupo mannaro, e deve quindi batosta quotidiana, alla disciplina e producono qualcosa vale la pena, ha dimostrato nel corso dei secoli che è possibile immaginare mondi possibili, in cui le persone controllano le loro vite, le loro decisioni, le loro credenze e sogni. Questi sforzi pegno un'utopia che ha i piedi ben piantati per terra. Le utopie sognate dai tiranni hanno causato un danno incommensurabile per l'umanità. L'olocausto del popolo ebraico, come il popolo d'America, o tutte quelle persone sotto la volontà dei dittatori, sono il prodotto, in gran parte i capricci e capricci di piccoli gruppi sociali e politici, hanno saputo, quando, dove e con chi si può manipolare la democrazia.

Gli anarchici hanno cercato di confrontare i loro sogni con la realtà. Non solo in Spagna durante la guerra civile, come abbiamo visto, ma anche in America Latina, dove le comuni libertarie fiorirono generosamente in varie parti del Brasile, Argentina, Messico, tra cui in Costa Rica, durante la fine del XIX e l'inizio del XX. Queste esperienze, alcune vivono più a lungo, altre meno, volevano essere esperimenti per dimostrare al mondo che è possibile organizzare progetti sociali, economici, e politiche ed educative in cui le persone partecipano attivamente senza sentire la pressione di una disciplina organizzata per servire solo alcuni.

Per questo motivo, le persone devono rigettare le loro paure, che sono una potente risorsa nella ricerca per portare alle persone in modi diversi. L'innovazione, idee, emozioni e sentimenti sono lavoro inedito con l'anarchico, perché sa che il futuro gli appartiene, così come l'attuale, se la ribellione permanente non abbassa la guardia. L'anarchico è in stato di veglia costante per prevenire eventuali abusi di deformazione, della libertà, della volontà, dell'immaginazione e l'indipendenza delle persone nella loro vita quotidiana. Ricordiamo che, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, per me e per coloro che amo, è uno dei compiti prioritari  l'anarchismo, che è pienamente consapevole del fatto che lo Stato, la Chiesa e il Capitale, farà tutto il possibile  strappare il controllo della mia vita, per cercare allo stesso tempo di contaggiarmi con il loro pessimismo improduttivo e controproducente.

Se questa troika mortifera e negativa insiste sul fatto che non c'è futuro in questo mondo, ne in un altro, o altro, dove la mia felicità apparterrà alla legge, o la chiesa o al denaro, è il momento di chiedersi se non saremo di fronte a un diverso modo di razionalizzare la morte. La razionalizzazione della morte è il segno sicuro che abbiamo raggiunto lo stadio in cui la nostalgia e la malinconia non appartengono più a noi. I nazisti e gli stalinisti hanno adempiuto questo compito in modo impeccabile. Con la razionalizzazione della morte priva di memoria dei popoli, e sono fatti per credere che non c'è futuro, che la speranza è da pazzi ed è solo un delirante trauma nella mediocrità di un paio di ritardatari. Per questo motivo gli anarchici non hanno paura di essere chiamati sognatori invitati a completare il compito incompiuto dei romantici. L'anarchismo è la porta sul retro del romanticismo. Per lei entra furtiva la libertà, la tolleranza e la passione.

[Tratto da Quesada Monge, Rodrigo. (2014) Anarchia. Ordine senza autorità. San Jose, Costa Rica - Santiago, EUNA / Eleuterio, 2014. 450 p].





note di sa defenza:

1 L'Arcadia, oltre ad essere una zona di Grecia e appaiono già nel mito, si riferisce a un paese immaginario che la poesia dal Rinascimento Garcilaso, Cervantes e Lope de Vega nel suo romanzo L'Arcadia (1598) - ha modellato un idilliaco paradiso dove la tranquillità, la pace e la felicità sono un regno eterno.

Étienne de La Boétie (Sarlat, 1º novembre 1530Germignan, 18 agosto 1563) è stato un filosofo, scrittore, politico e giurista francese.



IL DISCORSO SULLA SERVITÚ VOLONTARIA



Il breve scritto Il discorso sulla servitù volontaria (circa trenta pagine) fu composto da La Boétie, secondo Montagne, a soli 16 anni (in un edizione precedente dei suoi Essais, Montaigne indica 18), ma più probabilmente nel 1552-53.

Fu fatto circolare ampiamente da La Boétie, tanto che lo stesso Montaigne afferma di averlo letto prima di conoscerne personalmente l’autore.

Il Discorso sarà pubblicato, anziché da Montaigne, nella raccolta di scritti antimonarchici Memorie degli Stati di Francia sotto Carlo IX, con il titolo Contr’uno con cui divenne noto.

Questa pubblicazione non è del tutto fedele, ma contiene alcune interpolazioni e inserimenti, dei quali la prova maggiore è fornita dalla citazione della Franciade di Ronsard pubblicata nove anni dopo la morte di La Boétie. Secondo alcuni storici, questi inserimenti sarebbero opera dello stesso Montaigne; tanto che lo storico francese Armingaud, ai primi del ‘900, arriva a sostenere che il testo sia interamente opera di Montaigne. Ipotesi non condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi; la paternità dell’opera rimane così attribuita a La Boétie.

Il testo costituì un punto di riferimento inizialmente per l’opposizione calvinista alla monarchia cattolica, successivamente per la opposizione contro l’Ancien Régime che scaturì nella Rivoluzione Francese, in seguito per la protesta repubblicana contro la Restaurazione attuata al congresso di Vienna, ed infine per la politica socialista e rivoluzionaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed in particolare per la sua corrente libertaria.

La carica libertaria del Discorso è stata dunque utilizzata per la critica di regimi tra loro molto diversi, dalla monarchia feudale fino allo stato borghese liberale, testimoniando così di conservare la sua validità in ogni tempo, compreso l’attuale, rivolgendosi contro la tirannia in sé, indipendentemente dalle forme storiche che essa assume.

Il Discorso si fonda su due pilastri. Il primo, che dà il titolo all’opera, è costituito dall’idea che la tirannia non sia imposta, ma consensualmente accettata dal popolo, il quale si trova quindi in una situazione di servitù volontaria, ossia accetta volontariamente di sottomettersi al tiranno. La Boétie critica dunque la concezione classica della filosofia politica, ancora oggi molto diffusa, che considera le catene della servitù unidirezionali, e dunque il problema posto da questa semplicisticamente risolvibile attraverso la rottura delle catene stesse; ottenuta la quale, gli individui sarebbero automaticamente liberi, come se solo la volontà malefica del sovrano fosse causa della loro sorte, alla quale essi non contribuiscono in alcun modo.

La Boétie, al contrario, afferma che, accanto al naturale e innato desiderio di libertà, vi sia negli uomini anche un oscuro desiderio di servire:



«è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo […] Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?».



Il carattere volontario della servitù è dimostrato dal fatto che basterebbe desiderare essere liberi per diventarlo:



«questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne sarebbero liberi. È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. […] se per avere la libertà basta desiderarla, se c’è solo bisogno di un semplice atto di volontà, quale popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola ottenere solo con un desiderio […] ?».



Il popolo è dunque complice del proprio asservimento:



«Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?».



Come è possibile, quindi, si chiede La Boétie, che gli uomini accettino di sottomettersi al tiranno?

Innanzi tutto questa domanda porta La Boétie ad allargare il concetto di tirannia. Tiranno non è semplicemente l’Uno della monarchia assoluta, ma qualsiasi corpo politico che elimini il carattere pubblico del potere per utilizzarlo in modo da imporre agli altri la propria volontà ed i propri interessi; indipendentemente dal modo in cui questo potere è ottenuto, fosse anche attraverso il suffragio popolare.



«Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista. Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile».



Tornando alla domanda di cui sopra, La Boétie elenca i mezzi attraverso i quali i sovrani suscitano la volontà di servire, per ottenere il consenso necessario ad ogni regime, ancorché tirannico.

Il primo di questi mezzi è l’abitudine:



«certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati […] È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù. È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita. Non si può dire che la natura non abbia un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso o nell’altro; ma bisogna altresì confessare che ha su di noi meno potere della consuetudine: infatti l’indole naturale, per quanto sia buona, si perde se non è curata; e l’educazione ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia, malgrado l’indole. I semi del bene che la natura mette in noi sono così piccoli e fragili da non poter sopportare il minimo impatto di un’educazione contraria; si conservano con più difficoltà di quanto si rovinino, si disfino e si riducano a niente». Benché dunque l’indole umana sia libera, l’abitudine ha sugli individui effetti maggiori che non la loro indole, e così essi accettano la servitù se sono sempre stati educati come schiavi: «La natura dell’uomo è proprio di essere libero e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione».



Il secondo mezzo, essendo il primo alla lunga insufficiente, consiste nell’abbrutimento del popolo. La servitù di per sé porta a un infiacchimento dell’individuo, ed i tiranni, accorgendosene, operano per incrementare tale effetto. Innanzi tutto ostacolando la diffusione della cultura, giacché i libri e l’istruzione contribuiscono più di ogni altra cosa, secondo La Boétie, a diffondere la consapevolezza di sé e l’odio per la servitù. Ma soprattutto questo risultato è ottenuto attraverso una strategia da tempo nota come panem et circences:



«i teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche, gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere».



Quanto al panem:



«I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni non si accorgevano che non facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se prima non l’avesse presa a loro stessi».



Un altro strumento è rappresentato dall’atomismo sociale: il potere tirannico fa di tutto per impedire qualunque forma di aggregazione e comunicazione sociale tra coloro che hanno conservato la passione per la libertà. Le uniche associazioni consentite sono quelle che non contestano la tirannia, o che la sostengono.

Gli ultimi due strumenti indicati da La Boétie sono i più importanti. In primo luogo, egli considera tutti i meccanismi volti a creare il massimo consenso possibile intorno alla persona del tiranno.

Tra questi meccanismi, La Boétie considera la pratica di presentarsi al pubblico «il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il dubbio che fossero in qualche cosa più che uomini». In secondo luogo la «favola» dell’origine divina del re, dalla quale deriva la credenza nelle sue capacità taumaturgiche.

Nella misura in cui questa credenza viene meno, diviene importante l’altro meccanismo considerato da La Boétie: quello di presentarsi, da parte del tiranno come rappresentante del popolo e fautore dell’interesse generale:



«gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune».



Il tiranno arriva così a rappresentare l’unità del popolo, e questo si lascia affascinare dal «nome di Uno», appunto perché simboleggia il popolo stesso riunificato sotto il fantasma della propria unità e finalmente liberato dalla propria pluralità.

Infine La Boétie considera lo strumento che egli stesso definisce il fondamento della tirannia. Si tratta della sua stratificazione gerarchica:



«non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […].Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita».



La Boétie è dunque ben lungi dall’attribuire il desiderio di servire ad un presunto carattere irrazionale delle folle, od alla stupidità popolare. Al contrario, il fondamento della tirannia è assolutamente razionale, essendo dato da un meccanismo che diffonde gerarchicamente il potere e, per suo tramite, la ricchezza, dando ad un certo numero di individui buone ragioni per obbedire.

Il secondo pilastro su cui si regge il Discorso è dato dalla contrapposizione tra la servitù e lo stato di libertà. Quest’ultimo non solo è storicamente anteriore al primo, che sarebbe frutto di un Malencontre, ma è anche naturale:



«credo che sia fuori dubbio che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. […] di sicuro, se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento, e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno agli altri, abbia voluto lasciar spazio all’affetto, perché avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. […] non bisogna dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni, e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme. […] Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla».



Nel difendere questa concezione naturale della libertà, La Boétie delinea una società fondata sulla libertà e sull’uguaglianza, contrapposta alla dominazione, e realizzata attraverso una relazione sociale antiteca a questa: l’amicizia. I disonesti non sono amici ma complici, non si amano ma si temono. Al contrario, l’amicizia «ha il suo vero terreno di coltura nell’eguaglianza, che non vuole mai contravvenire alla regola, anzi è sempre uguale». Al di là della concezione naturalistica della libertà, La Boétie basa il suo ideale di società su di una relazione istituita di amicizia che consenta il massimo sviluppo possibile di libertà ed uguaglianza.

In conclusione, il Discorso, benché scritto 450 anni fa, conserva ancora oggi un carattere fortemente attuale. Oltre che per i suoi aspetti teorici, la forza di quest’opera consiste nell’affermare contro ogni tirannia il diritto alla disobbedienza civile: «siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».

Facendo attenzione che ciò non sia per alcuni il pretesto per instaurare una nuova tirannia, diversa nella forma ma identica nella sostanza, di modo che “tutto cambi affinché nulla cambi”. A costoro è giusto che non arrida il successo in quanto «non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie ».

Questo è il messaggio che La Boétie ci manda dal suo testo, in nome della libertà, contro ogni tirannia.

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