venerdì 5 novembre 2010

La grande farsa delle elezioni birmane

Kyaw Zwa Moe,
The Irrawaddy, Thailandia



Per la prima volta dopo vent’anni, il 7 novembre il paese asiatico andrà alle urne. Ma con la legge elettorale voluta dalla giunta militare il risultato è scontato e il voto inutile

Le discusse elezioni birmane, le prime in vent’anni, sono alle porte. Quasi tutti i gruppi democratici del paese le deiniscono “antidemocratiche e inutili”. Per i 37 partiti che hanno presentato le loro liste, sono “l’unica alternativa politica”, mentre molti birmani sono convinti che “non produrranno nessun vero cambiamento”.

La leader democratica Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari, restano in carcere oltre 2.100 prigionieri politici e i partiti che rappresentano alcune etnie sono stati esclusi. Inoltre, la commissione elettorale nominata dalla giunta militare ha stabilito delle regole che limitano la libertà dei partiti democratici e favoriscono il partito che rappresenta la giunta, l’Unione solidarietà e sviluppo (Usdp). Le regole, sostiene la commissione, colpiscono tutti i partiti allo stesso modo. Ma l’Usdp le ignora, sapendo che non ci saranno ripercussioni.

La giunta non vuole la democrazia in Birmania. L’obiettivo di queste elezioni è legittimare l’egemonia militare nel paese dandole una parvenza di governo parlamentare. Il voto è gestito dagli stessi generali che hanno ignorato l’esito delle elezioni del 1990, che attribuiva alla Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi una maggioranza schiacciante.

I partiti di opposizione come la Forza democratica nazionale –nata da una scissione dalla Nld –, il Partito democratico e i partiti etnici non legati al governo militare hanno scelto di partecipare alle elezioni. Perché sperano, con qualche seggio in parlamento, di avviare il processo di democratizzazione. Ma difficilmente la giunta gli darà spazio. A dominare il parlamento saranno i candidati designati dall’esercito e gli ex uiciali, che non scenderanno a patti con l’opposizione.

Inoltre, i candidati democratici credono che la riconciliazione nazionale potrebbe risolvere i problemi del paese e che le elezioni siano l’unica alternativa. È difficile credere che queste elezioni possano contribuire all’ampia riconciliazione nazionale tra militari, organizzazioni democratiche e gruppi etnici necessaria per risolvere lo stallo politico del paese.

Anzi, nel preludio alle elezioni forse sta succedendo il contrario. Negli ultimi mesi le tensioni tra i militari e i gruppi etnici armati sono aumentate. Il conflitto tra truppe governative e milizie etniche, che paralizza lo sviluppo del paese da decenni, potrebbe perino peggiorare. Nonostante questo, le elezioni si terranno il 7 novembre a qualunque costo. E sarà bene osservarle alla ricerca di un segnale che testimoni almeno qualche progresso. Innanzitutto bisognerà vedere se la maggioranza dei partiti democratici otterrà un’alta percentuale di seggi. E poi se Suu Kyi sarà davvero rilasciata il 13 novembre, dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari. Infine, si vedrà se gli oltre 2.100 prigionieri politici saranno liberati.

Perfino qui, però, la storia ci ha insegnato a non sottovalutare l’abilità con cui i generali manipolano gli eventi a loro vantaggio. Anche se i gruppi d’opposizione avranno dei seggi in parlamento e Suu Kyi e gli altri prigionieri politici saranno rilasciati, è molto probabile che il nuovo governo userà tutti i mezzi in suo potere per imbavagliarli e ostacolarli. Di recente, il portavoce del dipartimento di stato americano P.J. Crowley ha detto: “Speriamo che il nuovo governo abbia un atteggiamento diverso rispetto al passato”. L’“atteggiamento diverso” a cui si riferisce Crowley significa permettere alle voci d’opposizione di farsi sentire in parlamento e consentire il rilascio di Suu Kyi e degli altri prigionieri politici. Se la comunità internazionale riconoscerà la legittimità del nuovo governo prima che tutto questo accada, tradirà i 55 milioni di persone che vivono in Birmania.




Maggio 2008 Mentre una parte della popolazione è in ginocchio a causa del ciclone Nargis, viene approvata la nuova costituzione voluta dalla giunta. La carta esclude dalle elezioni gli ex detenuti (quindi buona parte degli oppositori politici) e prevede che un terzo dei seggi vada ai militari.

Marzo 2010 La Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi decide di boicottare il voto. Due mesi dopo, una fazione della Nld forma la Forza democratica nazionale e partecipa alle elezioni. Agosto 2010 Alcuni alti uiciali della giunta lasciano la divisa per candidarsi. Da sapere

giovedì 4 novembre 2010

Guy Deutscher: Il linguaggio altera il nostro modo di pensare

Una conversazione con l’autore di The Unfolding of Language e Through the Language Glass



Robert McCrum

Tradotto da Curzio Bettio

Guy Deutscher è un personaggio raro, un accademico che esprime buon senso quando tratta di linguistica, il suo campo di ricerca. Nel suo nuovo libro "Through the Language Glass [Attraverso la lente del linguaggio] (Heinemann), egli senza esitazione contraddice l’opinione generale che va tanto di moda, sull’esempio fornito da Steven Pinker, che il linguaggio sia un prodotto della costituzione naturale e non assuma carattere e valenza dalla cultura e dalla società. Deutscher argomenta, in modo vivace e provocatorio, che in effetti la nostra lingua madre influenza il nostro modo di pensare e, fattore decisamente importante, il nostro modo di percepire il mondo.



Il linguista Guy Deutscher contesta l’opinione che
la lingua non sia conformata dalla cultura

Fotografia: Sophia Evans per l’Observer


Questo quarantenne linguista, ricercatore onorario all’Università di Manchester, nel suo libro attinge a tutta una serie di fonti per dimostrare come il linguaggio rifletta la società in cui viene parlato. Nel corso di questa sua operazione, egli spiega perché l’acqua in Russia (un “essa”, genere femminile) diventa un “esso”, genere maschile, e perché, in tedesco, una ragazza non ha sesso, genere neutro, mentre una rapa lo ha.

In sintesi, di cosa tratta il suo nuovo libro?

Il testo analizza come il mondo possa apparire differente nei diversi idiomi. Io tento di spiegare, in questa corsa all’attribuzione ai nostri geni di tutti gli aspetti fondamentali del linguaggio e del pensiero, perché l’immenso potere della cultura e dell’educazione sia stato grossolanamente sottovalutato.

Come è avvenuta questa sottovalutazione?

Ad esempio, io ritengo che la lingua madre esercita una considerevole influenza sul modo in cui noi pensiamo e percepiamo il mondo. Comunque esiste il grande problema del retaggio storico connesso a questa questione, e quindi molti psicologi e linguisti degni di nota non vogliono addentrasi in questa materia.

Insomma, è come se uno storico dovesse trattare del carattere nazionale, o no?

Esattamente. Però penso che ora siamo cresciuti abbastanza per esaminare questa questione in modo scientifico.

Può farmi un esempio di ciò che lei intende?

L’esempio più calzante si riferisce a ciò che io definisco il linguaggio dello spazio – come noi descriviamo la disposizione degli oggetti che ci circondano. Consideriamo una frase come: “Il bambino si trova dietro l’albero” – si potrebbe immaginare che tutte le lingue funzionino nella stessa maniera per descrivere qualcosa di così semplice. Risulta quasi inconcepibile che vi possano essere idiomi che non usano affatto tali concetti. Per secoli, filosofi e psicologi ci hanno fatto credere che concetti egocentrici come “davanti a”, “dietro”, “sinistra” o “destra” siano elementi universali per la costruzione del linguaggio e della conoscenza.

Forse che questi non sono universali?

Bene, esiste nel nord Queensland, nella lontana Australia, una lingua aborigena chiamata “guugu yimithirr”. Questi aborigeni hanno un modo di esprimersi rispetto allo spazio incredibilmente originale, nel senso che non usano assolutamente nessuno di questi concetti. Così, loro non direbbero mai: “Il bambino si trova dietro l’albero.” Invece direbbero: “Il bambino è a nord dell’albero.”

Si dà anche il caso che sia questa la lingua che ci ha fornito il termine “kangaroo”, canguro

Sì, è famosa per questo, ma dovrebbe essere doppiamente famosa. Questo popolo usa espressioni come: “Vi è una formica sul nord del tuo piede”, o “Ho lasciato la penna sul bordo meridionale del tavolo ad occidente nella tua stanza a nord della casa.” Si potrebbe pensare che questa loro bizzarra maniera di esprimersi rispetto allo spazio sia unica. Ma la scoperta di questa lingua ha incentivato un grande movimento di ricerca e abbiamo appreso che altri popoli del globo, dal Messico all’Indonesia, si esprimono in modo simile.

Che conseguenze derivano da una lingua come questa sulla percezione dello spazio?

Crescendo nell’ambiente di uso di una lingua come questa, in buona sostanza si sviluppa nella mente una sorta di sistema GPS (sistema di posizionamento mondiale, metodo di orientamento satellitare), un infallibile senso di orientamento, e la ragione è abbastanza semplice: se, dall’età in cui si comincia a parlare, si deve essere consapevoli delle direzioni cardinali ogni qualvolta si deve capire dove si trovano le cose anche più banali che vengono indicate, allora la lingua educa a prestare una costante attenzione all’orientamento in ogni momento. Proprio per questo intenso e costante esercizio, il senso dell’orientamento diventa una seconda natura.
Se viene chiesto ad un Guugu Yimithirr come conosce dove è il nord e dove il sud, vi guarderà con stupore, tanto quanto sareste meravigliati voi, quando io vi chiedessi se sapete dove sta il davanti e dove il dietro di voi.

Il suo interesse dominante è per la neurologia o la linguistica?

La mia attenzione è rivolta agli effetti del linguaggio sul pensiero, ma cerco di concentrarmi sugli effetti che possono essere dimostrati scientificamente. La neurologia può essere una materia appassionante, ma siamo ancora profondamente ignoranti su questi argomenti – sappiamo poco su come funziona il nostro cervello. Allora, per dimostrare una qualche influenza del linguaggio sul pensiero, abbiamo bisogno di trovare degli esempi in cui questa influenza ha conseguenze pratiche e misurabili sul comportamento reale. Se questa conversazione avvenisse fra cinquant’anni, sarebbe molto più facile parlare di una effettiva neurologia, in quanto saremmo in grado di analizzare completamente il cervello e riscontrare esattamente come ogni linguaggio differente influenzi aspetti differenti del pensiero. Le nostre attuali riflessioni su questi argomenti ci sembrerebbero pietosamente primitive. Tuttavia, il progresso può solo derivare da tentativi e fallimenti ed ancora da tentativi e fallimenti.
Through the Language Glass: How Words Colour Your World
Guy Deutscher
William Heineman
London 2010
319 p.
ISBN: 978-0-434-01690-7





Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.guardian.co.uk/technology/2010/jun/13/my-bright-idea-guy-deutscher

mercoledì 3 novembre 2010

Un giornale troppo libero

pro sa libertade de sa printera de is giorronalis e iscriri is prentas chentza censuras e controllus de is cantadoris

semus de sa parti de totus is perseguitaus idealistas e pulitucus!
sa defenza

Ala al Aswani


Negli anni ottanta, quando feci richiesta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver superato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, afollatissima di giovani medici e ingegneri che, come me, avevano richiesto una borsa per studiare all’estero. Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la risposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese.

Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a occidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualiica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna grazie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere grazie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: prima di tutto perché il sistema sofoca chi ha talento, secondo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno.

In Egitto le persone capaci hanno tre possibilità. Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo fino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talento a disposizione del regime, accettando di esserne servi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subiranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa. Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggiosi giornalisti egiziani.

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Ibrahim Eissa

Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter facendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al sistema. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Dustour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quotidiani.

Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al silenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha cercato di comprarlo, commissionandogli programmi televisivi che gli avrebbero fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha continuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva. A mano a mano che in Egitto aumentavano le pressioni sia popolari sia internazionali per un cambiamento democratico, il regime si è trovato in difficoltà e il suo nervosismo è cresciuto.

Ibrahim Eissa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano diabolico. Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco proprietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vicino ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della finta opposizione nella farsa delle prossime elezioni egiziane truccate.

Poi ha comprato Al Dustour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata. Dopodiché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata ufficialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Perché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista onesto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egiziani? Al Dustour è finito, ma è passato alla storia dell’Egitto come un grande esperimento giornalistico e culturale.

Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la verità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica soluzione è la democrazia.

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ALA AL ASWANI è uno scrittore egiziano. In Italia ha pubblicato Palazzo Yacoubian (2006), che è stato tradotto in venti lingue, Chicago (2008) e Se non fossi egiziano (2009), tutti editi da Feltrinelli.




Ibrahim Eissa è uno dei più dotati giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata nel mondo arabo

martedì 2 novembre 2010

E LO CHIAMANO futuro TENTATIVI DI INNOVAZIONE ANCORATI A GRIGLIE DI ANALISI VECCHIE E ARIDE



Al documento culturale promosso dalle associazioni di area finiana hanno aderito anche molti intellettuali di sinistra, convinti della necessità di «un nuovo patto fondativo». Oltre le regole della convivenza, c'è, però, la politica vera, che nella sua forma democratica richiede scelte divergenti e divisive ALBERTO SAVINIO, ARIEL

Giuliano Battiston
ilmanifesto.it

Appellandosi ad alcuni numi tutelari della teoria politica come Machiavelli e Hannah Arendt, e a uno dei padri della Costituzione repubblicana, Piero Calamandrei, il «Manifesto di ottobre» aspira a «riaccendere l'immaginazione progettuale della società» e a ristabilire un fertile legame tra cultura e politica, in opposizione alle «logiche privatistiche, antipolitiche, anticulturali che in questi anni hanno monopolizzato la sfera istituzionale». Il punto di partenza, spiega Fiorello Cortiana, uno degli estensori del testo, tra i fondatori dei Verdi, è stato da un lato «lo sconcerto di fronte alla deriva dell'antipolitica, frutto della crisi delle forme e dei contenuti dei partiti popolari, che ha prodotto un'esperienza come il berlusconismo, che a sua volta ha confermato e plasmato questa antipolitica», dall'altro l'«esplicita e lucida consapevolezza che siamo in un periodo che deve essere di nuovo costituente».

Ermafroditismo ideologico
L'obiettivo è promuovere una politica che torni a rispondere «a interessi generali», e ridia senso alle parole e all'alfabeto di cui si compongono. Perché, dice Monica Centanni, filologa e storica del teatro all'Università Iuav di Venezia, direttrice della rivista online Engramma, «si è corroso non solo il discorso sulle parole, la loro consistenza, il loro significato, ma la stessa grammatica del pensiero, la sintassi del ragionamento». Da qui deriva la «totale disaffezione rispetto al presente, considerato non più come risorsa ma come controcanto negativo di un passato mitizzato o di un futuro dilazionato». Occorre invece alimentare la passione del presente, quella «dimensione di ulteriorità che è la politica, come ci insegnano Aristotele e Hannah Arendt, intesa non come necessità, ma come passione e desiderio, come attivazione di un campo energetico, per dirla con Warburg». E ad Hannah Arendt fa riferimento anche un altro promotore del Manifesto, Peppe Nanni, figura di riferimento della destra milanese, che indica nella «riqualificazione della politica come attività che connota l'essere umano e non come male necessario, e nella libertà politica come partecipazione alle procedure del governo» gli obiettivi di questa operazione politico-culturale, che aspira a sganciarsi dal Novecento, a superare «le vecchie e inaridite appartenenze, congedando le ossessioni e i ricatti delle memorie ferite», come recita il testo presentato il 26 ottobre. Un'operazione dolorosa, sostiene Nanni, «perché occorre strapparsi alle proprie appartenenze, aggredire il passato alle spalle, per dirla con Giorgio Galli», ma che è vitale, perché la politica è «slegamento, rottura, innovazione, cominciamento».
E di «rigenerazione della politica» parla il filosofo Giacomo Marramao, che respinge le obiezioni di ecumenismo scolorito mosse al Manifesto (tra gli altri da Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera»), individuando invece «nella validità del patriottismo costituzionale come base del discorso», fatta propria da intellettuali post-missini, «nell'esigenza di una sfera pubblica basata su principi e valori condivisi» una «denuncia durissima degli elementi di corruzione presenti nel modo di gestione politica del governo berlusconiano». E soprattutto un elemento storicamente rilevante, di cui va dato atto a chi, finora, non aveva ancora riconosciuto così esplicitamente «i valori della costituzione repubblicana, nata dalla resistenza e dall'antifascismo».

Per lo storico Franco Cardini le accuse di ermafroditismo ideologico suonano sospette: «è la risposta, un po' sconcertata, di chi trova d'accordo, su questioni essenziali, persone che non dovrebbero neanche salutarsi», persone mosse non da uno sterile eclettismo, ma, «in termini kantiani, da un imperativo morale svincolato da qualsiasi interesse personale». Cardini non manca però di sottolineare quella che per lui è la principale lacuna di questa «piattaforma, aperta e inclusiva», che segnala indirizzi, non dogmi, e lascia spazio al dissenso: la scarsa attenzione «allo sviluppo abnorme e incontrollabile della volontà di alcuni, che ha creato una concentrazione di ricchezza e di potere decisionale nelle mani di pochi». In altri termini, la questione della «giustizia sociale». A quella di Cardini, vengono da aggiungere almeno tre altre osservazioni critiche. La prima: è salutare che, all'osceno della cultura politica berlusconiana, fin qui pigramente subito o favorito, si contrapponga non solo l'indignazione della denuncia, troppo spesso consolatoria, ma un rinnovato esercizio di vitalità politica. Ma si tratta di un esercizio ritardato, che avviene quando, ormai, «i buoi sono usciti dalle stalle», anche a causa dell'acquiescenza di quella destra che ora prova a smarcarsi, con un'operazione culturale in grande stile, dal Capo. Il secondo: la rivendicata apertura «generativa», il «pensiero di rottura delle consuetudini usurate», l'energia produttiva sprigionata dalla crisi della politica rientrano, interamente, in una cornice così circoscritta e prevedibile da depotenziare qualsiasi «azione trasformatrice»: la cornice westfaliana dello Stato-nazione, l'orizzonte della comunità politica ancorata alla demarcazione territoriale sancita dalla sovranità statale.

Chiusi nel «particulare»
Nel Manifesto, infatti, non c'è nessuna allusione, nessuna consapevolezza che i problemi della democrazia rappresentativa, la difficoltà di dare voce «ai clandestini della politica», ai «senza parte» di Rancière - su cui pure tanto si insiste - dipendono ormai anche dalla rottura di quella cornice, e che non possono essere risolti senza interrogarsi sul cosmopolitismo, sulla giustizia globale, sulla limitatezza del nazionale come unica chiave di lettura della società. A dispetto delle sue ambizioni, dunque, si tratta di un Manifesto troppo «introflesso», ripiegato sul particulare nazionale, ancorato a griglie analitiche novecentesche, queste sì spuntate e inaridite. Un difetto che, forse, deriva dal terzo: nonostante i nobili ideali a cui aspira, la genesi dell'appello sembra dipendere, prima ancora che dal «sommovimento geologico delle categorie della politica», dal molto più epidermico riposizionamento tattico del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Un condizionamento troppo evidente per aspettarsi la nascita di un'effettiva, nuova cultura politica. Se è vero, come recita il Manifesto, che «senza cielo politico non c'è cultura, ma soltanto erudizione e retorica», è altrettanto vero che, quando quel cielo è troppo basso, la cultura ne rimane inevitabilmente schiacciata.
read.


Il manifesto di ottobre

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122142/il_manifesto_dottobre_il_dibattito

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122141/il_manifesto_di_ottobre


lunedì 1 novembre 2010

Le armi nucleari statunitensi in Europa presto trasferite in Italia

Manlio Dinucci *

http://www.voltairenet.org

trdt cun google

Come rivelato da Manlio Dinucci, tutte le armi nucleari non strategiche conservate in Europa, USA saranno trasferiti in Italia. Tale Stato è disponibile a farsi usare previa approvazione dell'Alleanza. Se l'Italia ha ufficialmente abbandonato la bomba, diventerà di fatto e in violazione dei trattati internazionali, una grande potenza nucleare.

"Finché ci sono armi nucleari, l'alleanza NATO rimarrà una direttiva una nucleare da Washington che il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Anders Fogh Rasmussen sta cercando di trasmettere e che gli alleati europei hanno approvato nel corso della riunione dei Ministri della difesa tenutasi a Bruxelles il 14 ottobre in preparazione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo del 19 e 20 novembre a Lisbona.

Eppure, nel suo discorso "storico" a Praga 5 aprile 2009 [ 1 ], Obama ha detto che gli Stati Uniti avrebbero fatto passi concreti verso un mondo senza armi nucleari, il rafforzamento della non proliferazione nucleare, che impegna i paesi a eliminare quelle nucleari e non nucleari a non acquisirle loro. Così ha permesso la favorevole circolazione delle armi nucleari USA al di fuori dell'Europa. Su questa base, cinque membri della NATO Belgio, Lussemburgo, Norvegia e Paesi Bassi, avevano espresso l'intenzione di sollevare la questione in occasione del vertice di Lisbona.

Ciò che è veramente al momento emerge dalla relazione Armi nucleare-strategico degli Stati Uniti non in Europa, un dibattito fondamentale per la NATO [ 2 ], presentato in ottobre da una commissione dell'Assemblea parlamentare NATO. Soprattutto si conferma che non sappiamo il numero esatto di armi nucleari non strategiche (nel campo meno di 5500 km) che gli Stati Uniti mantengono in quattro paesi europei della NATO, Italia, Belgio, Germania e Paesi Bassi Inferiore e la Turchia.

Altre stime, almeno due volte. Ce sont des bombes B-61 de différentes versions, dont la puissance va de 45 à 170 kilotonnes (13 fois plus que la bombe d'Hiroshima). Queste sono le B-61 bombe di versioni diverse, tra cui il potere va dal 45-170 kt (13 volte la bomba di Hiroshima). Tra questi, probabilmente il 61-11 B può penetrare la terra per creare, per un'esplosione nucleare, un'onda d'urto capace di distruggere obiettivi sotterranei. . Tutte queste bombe sono depositati in appositi magazzini con caccia-bombardieri F-15, F-16 e Tornado, pronto per l'attacco nucleare.

Il rapporto conferma l'esistenza di "accordi bilaterali in materia nucleare" segreto, in cui alcune di queste armi possono essere utilizzate dalle forze armate dei paesi di accoglienza una volta che gli Stati Uniti ha deciso di utilizzare. Ma, ricordo che nella relazione, i fautori del controllo degli armamenti sostengono che "la NATO ha la responsabilità di porre fine a questa pratica di condivisione nucleare" perché viola la non proliferazione nucleare: una vieta gli Stati che possiedono armi nucleari al loro trasferimento agli altri (art. 1) e Stati non nucleari a riceverle da chiunque (art. 2).

Tra l'opzione di tenere le armi nucleari statunitensi in Europa come sono e che la rimozione del tutto, ci sono intermediari proposte. La più sostenuta, dice il rapporto, è che la US Air Force, "insieme le armi nucleari in meno ubicazioni geografiche." Secondo la maggior parte degli esperti, "i luoghi più probabili per ritrovare le basi sono sotto il controllo USA di Aviano, Italia (Friuli Venezia Giulia) e di Incirlik in Turchia." Significativamente, dice il rapporto, che in occasione della riunione dei ministri degli esteri della NATO in aprile 2010 questione delle armi nucleari statunitensi in Europa è stato sollevato da Germania, Belgio e Paesi Bassi Paesi Bassi, mentre l'Italia e la Turchia sono rimasti in silenzio. Ciò suggerisce che il governo italiano ha già approvato il progetto di spostare le armi nucleari degli Stati Uniti dalla Germania, il Belgio ei Paesi Bassi per accoglierli ad Aviano, che sarebbe anche essere trasferiti a quei Ghedi Torre.



Ad Aviano, è di stanza il 31 Fighter Wing, composta da due squadroni di caccia-bombardieri F-16, la 510a Fighter Squadron e 555a Fighter Squadron. La sua missione è "fornire energia combattere da un polo all'altro del globo alla ricerca di Stati Uniti e della NATO." L'energia nucleare anche, come dimostra la 510i emblema Fighter Squadron, che, accanto a l'aquila imperiale, il simbolo dell'atomo con tre lampi toccano il suolo.



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SA DIE DE S'INDIPENDENTZIA.. INDEPENDENCE DAY 27 NOVEMBER 2010 CAGLIARI

pubblicata da Sayli Vaturu

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.. Si tratta di manifestazione spontanea nata da un'idea lanciata sul web e che al pari di altre iniziative spontanee, lancia l'idea di aggregare persone qualunque e persone già addentro... ideali indipendentisti, per un evento che tocchi le coscienze del popolo o nazione diffusa sarda, cosa spinge a fare cio?

Il fatto di mettere all'ordine del giorno un argomento che sta già entrando a forza nell'immagianrio colletivo del sociale, la diffusione di intento , consapevolezza e coscienza indipendentista, lo scopo dichiarato della marcia è incrementare tale idea latente nel sociale per dare più forza alla possibilità di liberazione della nazione sarda.Il fatto che l'idea della manifestazione per l'indipendenza nasca da un'idea sorta nel web non pregiudica i rapporti tra movimenti indipendentisti o nazionalitari, e, ne questa deve essere vista come sorta di competizione, tale da snobbare chcchessia in quanto non nata all'interno di movimenti indipendentisti, poichè credo, che la manifestazione si pone oltre una visione partitica o settaria per l'egemonia di una fantomatica piazza, ma, vedo nel suo intento il dare nuova luce a idee che devono essere primarie, ( così comè il fattore indipendenza sarda), nella discussione e nell'informazione che deve circolare nei media e nella società sarda.

Così come ne sono nate tante altre iniziative sul web, come ad esempio il VDAY, NOBDAY, MOV. VIOLA ecc, da notare che i politici hanno assecondato e cercato di affianzcarsi ad essi e non hanno contrastato quelle idee nate nella spontaneità.. ecc,Oggi, persone di fede politica patriotica e non abbracciano la Marcia pro s'indipendentzia per dimostrare un intento collettivo, questo intento è volto non a contestare chissa quale gruppo politico indipendentista o nazionalitario, MA a farlo sentire come fosse una sola voce che suoni forte come un TUONO nelle orecchie di chi di questo motivo non vuole sentire parlare.

E quando parlo di urlarlo e farlo tuonare nelle orecchie forte e chiaro ai sordi che non intendono s'indipendentzia e dei motivi che ci muovono per ribadirlo intendo promuoverlo con la forza che merita, per porre innanzi al governo italiota e la regione sarda, la nostra determinazione a voler superare lo stato di cose attuale e prospettare un futuro diverso di quello promulgato finora da tali istituzioni.


Voglio dire a chi è sempre sulle spine o si sente escluso, di non abbattersi perchè anche se la Marcia non è organizzata da uno dei movimenti politici indipendentisti o natzionalitari che potrebbe prendersi i meriti di tale forte proposta, prorio per questo motivo dico si dovrebbe essere più ben disposti a provare di percorrere una strada nuova, senza meriti o demeriti, sicuramente è una starda in salita , ma, se saputa gestire con la trasparenza di cui sta mostrando l'azione colletiva dei ragazzi donne e uominiche la stanno sostenendo eportando avanti nonostante le polemiche che navigano sull'onda di facebook, la gestione è senza contrasti di parte , per questo, darà alla nostra terra la giusta occasione per apparire ed aprirsi al mondo con una forte risonanza per la nostra giusta causa:


S'INDIPENDENTZIA DE SA TERRA NOHSTA

Perciò vorrei incoraggiare tutti, per primo ognuno di noi che già lavoriamo alla buona riuscita della Marcia, ad essere umili e ben disposti a dialogare apertamente senza veti di sorta su una causa che tutti ci accomuna , e dico tutti da AMpI a SNI a iRS A PSdAz a tutti i movimenti indipendentisti o nazionalitari che siano gruppi organizzati o spontanei, ma , che hanno a cuore la libertà della nostra natzione.

Per questo voglio ribadire ed invitare Voi tutti movimenti e non, che avete a cuore il bene natzionale sardo ad essere pronti a collaborare per far riuscire questa impresa che nel suo essere si puo delineare grande o piccola a secondo di come ognuno la vede e intende personalmente, ma è sicuramente iniziativa di interesse comune per il bene di tutti i sardi e dei movimenti indipendentisti e natzionalitari.

Dobbiamo essere responsabili e pragnmatici sopratutto per la nosrtra terra e e la nostra gente, voglio ricordiVi che il suo eventuale fallimento non darà bagliori di gloria o luce a nessuno dei movimenti che si dissociano da essa o che non ne prendano parte, viceversa per tutti coloro che si sono prodigati nel piccolo o nel grande per la sua riuscita vi sarà futura riconoscenza dei nostri pronipoti per il semplice coraggio di avere osato!! ..

MOVIMENTARSI PER NON SUBIRE

AGIRE PER NON MORIRE

sa defenza


riflettere fa bene alla mente e all'azione .. :))

domenica 31 ottobre 2010

L’indipendenza dei sudditi


Noam Chomsky
Mit di Boston

Tra tutte le “minacce” all’ordine mondiale, la più pericolosa per il potere imperiale è la democrazia, a meno che non rimanga sotto stretto controllo. È una minaccia qualsiasi affermazione di indipendenza. Nel corso della storia, le scelte di politica imperiale sono sempre state guidate da queste paure.

In Sudamerica, il tradizionale cortile di casa degli Stati Uniti, i sudditi stanno per esempio diventando sempre più disobbedienti. A febbraio hanno perfino creato la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che comprende tutti i paesi dell’emisfero ma non Stati Uniti e Canada.

Per la prima volta dall’arrivo dei conquistatori spagnoli e portoghesi cinquecento anni fa, il Sudamerica sta andando verso l’integrazione, un prerequisito necessario per l’indipendenza. E si sta anche rendendo conto di quanto sia scandaloso che un continente così ricco di risorse possa essere controllato da poche élite ricche circondate da un mare di povertà. Inoltre, i rapporti tra i paesi del sud del mondo si stanno sviluppando, e al loro interno la Cina sta svolgendo un ruolo importante, sia come consumatore di materie prime sia come investitore. La sua influenza sta rapidamente crescendo e in alcuni paesi ricchi di risorse ha superato quella degli Stati Uniti.

Alcuni cambiamenti significativi sono avvenuti anche in Medio Oriente. Sessant’anni fa il diplomatico Adolf Berle fu uno dei primi a dire che chi avesse controllato le incomparabili risorse energetiche della regione avrebbe avuto “il controllo del mondo”. Negli anni settanta i maggiori produttori di idrocarburi nazionalizzarono le loro riserve, ma l’occidente mantenne una forte inluenza su quei paesi.

Nel 1979 gli Stati Uniti “persero” l’Iran in seguito alla caduta dello scià, salito al potere nel 1953 con un colpo di stato appoggiato da Washington e Londra per garantire che il suo petrolio rimanesse nelle mani giuste. Ma oggi l’America non riesce più a controllare neanche i paesi tradizionalmente suoi amici.

Le maggiori riserve di petrolio sono in Arabia Saudita, che dipende dagli Stati Uniti da quando cacciarono via gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga i maggiori investitori e partner commerciali dei sauditi, che a loro volta sostengono l’economia americana con i loro investimenti. Oggi, però, più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro ormai Riyad guarda a oriente.

La stessa cosa potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio, se riuscirà a risorgere dopo la distruzione causata dalle sanzioni e dall’invasione angloamericana. E la politica degli Stati Uniti sta spingendo anche l’Iran, il terzo produttore mondiale, nella stessa direzione.

Ormai la Cina ha sostituito gli Stati Uniti ed è la maggiore importatrice di petrolio dal Medio Oriente, mentre le sue esportazioni invadono la regione. Le possibili conseguenze di questa situazione per l’ordine mondiale sono importanti, come lo è la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che comprende quasi tutti i paesi asiatici ma esclude gli Stati Uniti e che, come osserva l’economista Stephen King, autore di Losing control: the emerging threats to Western prosperity, potrebbe diventare “un nuovo cartello energetico di cui farebbero parte sia i produttori sia i consumatori”.

Tra i politici occidentali il 2010 viene chiamato “l’anno dell’Iran”. Si ritiene che quel paese sia la più grande minaccia per l’ordine mondiale e per questo sia al centro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Europa, che li segue educatamente come al solito. Il pericolo rappresentato dall’Iran non è di tipo militare, ma deriva dal suo desiderio di indipendenza. Per mantenere la “stabilità”, Washington ha imposto sanzioni severe a Teheran, ma al di fuori dell’Europa ben pochi le rispettano.

Turchia e Pakistan stanno costruendo nuovi oleodotti e intensiicando i rapporti commerciali con gli iraniani. L’opinione pubblica araba è contrariata per la politica occidentale e in gran parte favorevole al programma nucleare di Teheran. Questo conlitto va tutto a vantaggio della Cina. “Gli investitori e le imprese cinesi stanno andando a riempire il vuoto man mano che molti altri paesi, soprattutto europei, si ritirano dall’Iran”, ha scritto Clayton Jones sul Christian Science Monitor.

E Washington reagisce in modo disperato. In agosto il dipartimento di stato ha avvertito Pechino che “se vuole fare afari con il resto del mondo deve prima modiicare la sua immagine. Se hai la fama di essere un paese che sfugge alle sue responsabilità internazionali, questo alla lunga avrà delle conseguenze”. E ovviamente avere “responsabilità internazionale” consiste essenzialmente nell’obbedire agli ordini degli Stati Uniti.

È improbabile che i leader cinesi si lascino impressionare da questi discorsi, dal linguaggio di una potenza imperiale che cerca disperatamente di aggrapparsi a un’autorità che non ha più. Il modo sprezzante in cui la Cina ignora gli ordini degli Stati Uniti è molto più pericoloso per Washington delle minacce dell’Iran.

NOAM CHOMSKY insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale? (Il Saggiatore tascabili 2010). Oggi più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro Riyad guarda a oriente. Lo stesso potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio



sabato 30 ottobre 2010

Fine di un regime

Geof Andrews, Open Democracy, Gran Bretagna


Regolamenti di conti all’interno della maggioranza. Attacchi sempre più violenti agli oppositori. Tutto lascia pensare che Silvio Berlusconi si stia preparando allo scontro finale


La capacità di Silvio Berlusconi di tenere testa alle molte critiche rivolte alla sua leadership è stata messa a dura prova negli ultimi mesi. Anche se resta il primo ministro più longevo dell’Italia del dopoguerra, il Cavaliere si trova ad affrontare crescenti dificoltà.


Berlusconi è stato protagonista, negli ultimi mesi, di un duro scontro con il suo alleato storico Gianfranco Fini. Il governo è bersagliato ogni settimana da accuse di corruzione. E il costante conflitto tra i suoi interessi privati e il ruolo pubblico è diventato sempre più evidente, generando nuovi scontri con gli alleati, con la chiesa cattolica e perino con i suoi familiari.

Certo, Berlusconi ha già afrontato problemi di questo tipo nella sua carriera politica e sa come trarre profitto dalle diicoltà. Ma ora la situazione sembra essere più grave del solito, e il regime è in crisi.


Spinto a tentare di cambiare il paese da interessi sia personali sia politici, dal 1994 Berlusconi domina la vita politica italiana. Il berlusconismo, che nel corso degli anni si è affermato sempre più come una modalità di governo e di esercizio del potere e sempre meno come un’ideologia chiara, è riuscito almeno in parte a rimodellare il paese a immagine e somiglianza del Cavaliere.

Con un tipico connubio tra ricchezza, carisma e populismo, Berlusconi è riuscito spesso a convincere un numero sufficiente di italiani del fatto che la sua ricetta per conquistare denaro e potere – contrapporsi alla classe politica italiana e sconiggere il “sistema” – avrebbe funzionato anche per loro. Berlusconi è perfettamente a suo agio nel mondo mediatico e virtuale in cui vive e su cui cui esercita un dominio assoluto. Per questo il suo populismo postmoderno gli ha garantito un enorme vantaggio politico su un’opposizione passiva. Così, pur muovendosi ai margini della legalità e anche se ha bisogno di una nutrita squadra di avvocati per tenere in piedi il suo show, il premier è sempre riuscito ad anticipare le mosse degli avversari.


Ma ora che le crepe del berlusconismo sono sempre più evidenti, l’inclinazione all’intolleranza del premier risulta sempre più spudorata e lo spazio per il dissenso si riduce notevolmente. I mezzi d’informazione di proprietà di Berlusconi si sono scagliati con violenza contro gli ex alleati, mentre il sistema radiotelevisivo pubblico – sottoposto indirettamente al controllo del governo – ha tentato in più di un’occasione di allontanare le voci critiche (tra cui spicca quella del conduttore televisivo Michele Santoro). Le prepotenze che un tempo intimidivano gli avversari oggi sembrano meno efficaci, mentre le fratture interne al centrosinistra appaiono insanabili.


Guerra aperta

Il conflitto più grave è quello con il presidente della camera. Fini è un ex fascista che ha cercato di trasformare il suo partito, Alleanza nazionale, in una grande formazione politica conservatrice, prima di fonderlo nel 2008 con Forza Italia per dar vita al Popolo della libertà. Con il passare del tempo, Fini ha sviluppato un fastidio crescente verso la determinazione con cui Berlusconi ha cercato di garantirsi l’immunità, varando leggi ad hoc e sferrando attacchi continui alla magistratura.

La tensione è sfociata in un’accesa discussione durante il congresso del Popolo della libertà ad aprile, quando Fini, che è un sostenitore del modello centralista e che per tradizione ha un forte sostegno popolare nel sud del paese, ha criticato l’inluenza esercitata dalla Lega nord sul governo e si è scagliato contro il modo di governare di Berlusconi.

Le critiche mosse da Fini al premier hanno messo in difficoltà il governo. Il presidente della camera è uscito dal Pdl per dar vita a una sua formazione politica e molto probabilmente svolgerà un ruolo di primo piano in un’eventuale alleanza di centrodestra alternativa a quella attuale. Ma l’aspetto più grave, per Berlusconi, è che l’atteggiamento combattivo di Fini ha messo in discussione la sua carriera politica. Un’espressione del genere, riferita a un premier di 74 anni, può sembrare bizzarra, ma in Italia è raro che i politici si facciano da parte. E nel caso di Berlusconi sono in gioco altre questioni: secondo molti commentatori, la sua più grande ambizione è diventare, al termine dell’attuale mandato da premier, presidente della repubblica. La possibilità di continuare a occupare un’alta carica istituzionale alimenterebbe ulteriormente le sue insaziabili ambizioni politiche e lo metterebbe al riparo dai processi (soprattutto se dovesse essere approvato il lodo Alfano).


È in questo contesto che va interpretata la sida lanciata da Fini, oppositore emergente e potenziale successore di Berlusconi. La reazione del premier a questa minaccia è stata di un’intensità e di un’aggressività sorprendenti, tanto da far sembrare la rivalità tra Tony Blair e Gordon Brown una scaramuccia tra i danzatini.

Il Giornale, il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, ha lanciato violenti attacchi a Fini. Il presidente della camera è stato chiamato “compagno”, per via di alcune sue posizioni sui diritti civili. L’accusa più grave, formulata dal quotidiano nell’ambito di una vasta campagna denigratoria, è che Fini avrebbe venduto in modo poco chiaro un appartamento di proprietà di Alleanza nazionale, andato poi in affitto al fratello della sua partner.


Il Giornale ha rincarato la dose attaccando altre personalità che hanno criticato Berlusconi. Come emma Marcegaglia, presidente della Conindustria, che aveva messo in dubbio la visione ottimistica del premier sulla situazione economica italiana. Quando si è saputo che il quotidiano stava preparando una campagna diffamatoria contro Marcegaglia, la procura di napoli ha aperto un’inchiesta. sono tutti segnali della ine di un regime. l’economia ristagna e il governo perde progettualità.

Berlusconi continua a lanciare messaggi di fermezza, accanto al primo ministro russo Vladimir Putin, suo storico alleato, o esaltando il movimento dei tea party negli stati Uniti (con cui condivide la volontà di ridurre le tasse, la linea dura nei confronti dell’immigrazione e il fascino esercitato sull’elettorato femminile). Ma questo sforzo mostra quanto sarà diicile per lui recuperare il potere di un tempo. tuttavia chi si aspetta da Berlusconi una ritirata in punta di piedi o perino che compaia inalmente di fronte alla giustizia per rendere conto delle sue azioni – potrebbe restare profondamente deluso.


Un alleato determinante

L’opposizione continua a essere timida, incapace di proporre ai cittadini delle soluzioni per risolvere i loro problemi e di fornire al paese una prospettiva convincente per il dopo Berlusconi. È vero che le manifestazioni in difesa dei diritti dei lavoratori e della democrazia si stanno moltiplicando, ma la storia recente della sinistra fa pensare che Nichi Vendola, l’unica speranza di cambiamento all’interno dell’opposizione, verrà ostacolato dai grigi funzionari del Partito democratico. In mancanza di un forte movimento riformista, è molto probabile che Silvio Berlusconi rimanga ancora per qualche tempo la f igura centrale della politica italiana.

Il premier è sempre più dipendente dalla lega nord. la propaganda di Umberto Bossi contro gli immigrati comincia a fare presa sulla classe operaia settentrionale. Inoltre la lega nord sta consolidando la sua presenza nelle piccole imprese a gestione familiare. nella prossima campagna elettorale (forse si voterà nella primavera del 2011), il programma della lega potrebbe diventare ancora più radicale, e il partito potrebbe imporsi come una forza politica determinante anche per la prossima legislatura.

Berlusconi attingerà di nuovo all’immensa risorsa dei suoi mezzi d’informazione per restare al potere, e la storia insegna che il Cavaliere ottiene quasi sempre quello che vuole. Allo stesso tempo, la crisi politica ed economica dell’Italia sta spostando l’attenzione non solo sui possibili successori del premier, ma sul futuro stesso del paese. Un accordo si troverà, ma a che prezzo per l’Italia?


Geof Andrews è un giornalista e scrittore britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è slow Food. Una storia tra politica e piacere (Il Mulino 2010).

giovedì 28 ottobre 2010

È il momento di passare all’azione Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin.

Paul Krugman
New York Times

Sander M. Levin


Le persone per bene sono rimaste inorridite dal voto del 29 settembre alla camera dei rappresentanti di Washington. Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin.

Il provvedimento potrebbe porre le premesse per sanzioni commerciali contro la Cina legate alla politica monetaria del paese asiatico. La legge non è molto dura, ma di fronte alle allarmanti voci di guerre commerciali e altre catastroi economiche, gli opinionisti più moderati ritengono che sia meglio non fare chiasso e privilegiare la diplomazia.

Queste persone per bene, che da quando è cominciata la crisi si sono sbagliate su tante cose (per esempio, dicevano che il deicit pubblico statunitense avrebbe fatto impennare i tassi d’interesse e l’inflazione), si sbagliano anche questa volta.
Per quanto riguarda la politica monetaria cinese, la diplomazia non otterrà niente inché non sarà accompagnata da qualche minaccia di ritorsione.
L’isteria sulla possibile guerra commerciale è ingiustificata, e comunque ci sono cose peggiori dei conlitti commerciali.

In un periodo come questo, con una disoccupazione di massa aggravata dalla politica predatoria della Cina in campo valutario, la possibilità di qualche nuovo dazio dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni statunitensi. Ma facciamo un passo indietro.

Le grandi economie industrializzate subiscono ancora gli effetti della bolla immobiliare e della crisi finanziaria. I loro attività. La recessione sarà anche finita, ma il tasso di disoccupazione è molto alto e non dà segni di voler tornare ai livelli normali.

La situazione delle economie emergenti è diversa: hanno resistito alla tempesta economica e ofrono molte opportunità d’investimento. Com’è naturale, quindi, i capitali provenienti dai paesi più ricchi ma in crisi si dirigono verso i paesi emergenti, che quindi potrebbero essere decisivi nell’uscita dalla recessione globale. La principale economia emergente, la Cina, ostacola invece questo processo naturale.

Pechino ha limitato l’aflusso di capitali privati per mezzo di restrizioni sugli investimenti stranieri e mantiene artiicialmente basso il valore dello yuan. Questo aiuta le esportazioni cinesi, ma danneggia l’occupazione nel resto del mondo. La fata turchina Le autorità cinesi difendono questa politica con argomenti poco convincenti e al tempo stesso incoerenti.

Pechino nega di manipolare deliberatamente il tasso di cambio. Forse vorrebbe farci credere che è stata la fata turchina ad accumulare riserve per 2.400 miliardi di dollari e a mettergliele sotto il cuscino mentre dormiva. Ma esponenti di primo piano dell’élite cinese dicono che le riserve non contano, perché il surplus commerciale della Cina non c’entra niente con il tasso di cambio.

Eppure il primo ministro Wen Jiabao ha dichiarato: “Non possiamo immaginare quante fabbriche cinesi fallirebbero, e quanti operai perderebbero il lavoro, se lo yuan si rivalutasse troppo rapidamente”. Allora il valore dello yuan conta qualcosa. Pechino fa di tutto per ostentare il suo disprezzo nei confronti dei negoziatori statunitensi. A giugno i cinesi avevano detto di essere disposti a lasciar finalmente determinare dal mercato il valore cinese. Invece in questi mesi il valore dello yuan è cresciuto appena del 2 per cento rispetto al dollaro, per lo più solo nelle ultime settimane, cioè con l’avvicinarsi del voto sulla proposta di legge di Levin,

A cosa servirà dunque questa nuova legge? Permette – ma, si badi bene, non impone – alle autorità statunitensi di applicare dazi sulle esportazioni cinesi che sfruttano il valore artificialmente basso dello yuan. Ora, l’esperienza ci insegna che Washington non passerà all’azione. Anzi, continuerà a trovare scuse e a vantare progressi del tutto immaginari sul terreno diplomatico.

Insomma sarà confermato quello che i cinesi pensano delle autorità statunitensi: che sono delle tigri di carta. Quindi la legge Levin può essere considerata al massimo un segnale rivolto ai cinesi. In ogni caso, è un passo nella direzione giusta. Perché la verità è che finora, di fronte ai comportamenti inaccettabili della Cina, i politici statunitensi sono stati incredibilmente e scandalosamente passivi. Specialmente se si considera che, visto l’ostruzionismo dei repubblicani, una delle poche possibilità che restano all’amministrazione Obama per afrontare il problema della disoccupazione è dar battaglia alla Cina.

Probabilmente la legge Levin non basterà a modificare questo atteggiamento passivo, ma almeno comincerà a mettere sotto pressione i politici statunitensi. E questo ci avvicinerà al mo- mento in cui saranno inalmente pronti ad agire.

Paul Krugman è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times. Il suo ultimo libro Finora l’azione diplomatica non ha prodotto risultati. Le maniere forti convinceranno Pechino a rivalutare lo yuan È il momento di passare all’azione Paul Krugman, The New York Times, Stati Uniti 

mercoledì 27 ottobre 2010

LE TERRE RARE .... MOTIVO DI GUERRE FUTURE?

Osservando quanto accade nel mondo sulla questione terre rare, terre che sappiamo sono indispensabili alla green economy, per la costruzione dei microprocessori digitali e tutto qunto concerne HI Tech, consci di questo ci viene spontaneo chiederci con il senno di poi, cosa abbiano di green o di verde vero (?) che si voglia dire, visto quanta energia si usa e ci vuole per la loro estrazione.. .

Il loro sfruttamento (terre rare), è basato sullo sfruttamento selvaggio delle risorse minerarie della nostra amata terra, inoltre abbiamo l'impressione che ciò che accade è di un interesse talmente elevato che ci sfugge anche di che portata siano gli interessi delle nuove (o vecchie) multinazionali dell'assoggettamento della moltitudine soggettiva delle natzioni universali...

Ecco come guardando nel torbido e ofuscato mondo dell'economia mineraria si scoprono futuri di guerra inimmaginabili fino ad oggi..

Sa Defenza pubblica una serie di articoli di giornali specializzati sull'argomento affinchè le soggettività della moltitudine abbiano uno strumento di osservazione tale da non farci cogliere impreparati agli eventi futuri...

sadefenza



L'India rafforza i legami con il Giappone e rilancia la sfida alla Cina nel grande gioco asiatico
di Marco Masciaga
ilsole24ore

NEW DELHI – Il primo ministro indiano Manmohan Singh ha incontrato lunedì il premier giapponese Naoto Kan con l'obiettivo di rafforzare i legami economici tra i due colossi asiatici in una fase in cui i rapporti diplomatici tra Tokyo e l'altro gigante regionale, la Cina, sono pessimi. Il vertice è in corso a Tokyo, la prima tappa di un viaggio che nei prossimi giorni porterà Singh anche in Malesia e Vietnam prima di vederlo tornare a Delhi in tempo per ospitare, ai primi di novembre, la prima visita indiana del presidente americano Barack Obama.

Dietro il tour de force diplomatico del 78enne leader indiano c'è il tentativo di rafforzare il ruolo indiano in Estremo Oriente in una fase in cui l'influenza cinese nella regione e le dispute commerciali, valutarie e territoriali che stanno accompagnando l'ascesa di Pechino sono più accese che mai. Gli obiettivi di breve-medio termine di Singh e Kan sono principalmente l'abbattimento di alcune delle barriere, tariffarie e non, che stanno frenando gli scambi tra New Delhi e Tokyo e lo sblocco di un accordo di cooperazione nucleare che consenta alle imprese giapponesi del settore atomico di costruire nuovi reattori in India. Almeno ufficialmente non sono in agenda discussioni sui temi valutari che hanno monopolizzato il dibattito politico internazionale nelle ultime settimane.

«Io credo fermamente – ha detto Singh davanti a una platea di imprenditori di entrambi i paese – che si possano e si debbano creare delle sinergie tra le nostre complementarietà per ridare nuovo slancio all'Asia e alla ripresa economica». Lo scorso settembre India e Giappone hanno siglato una prima bozza di accordo per rendere meno macchinosa l'esportazione di prodotti come componenti auto, da Tokyo verso Delhi, e farmaci generici, nella direzione opposta. Queste e altre barriere stanno mantenendo artificiosamente basso il livello degli scambi tra i due paesi, fermi a 11,55 miliardi di dollari all'anno, circa il 4% di quelli tra Tokyo e Pechino.

Cifre ancora modeste, ma destinate a crescere. Soprattutto se i due paesi sigleranno un accordo di cooperazione nucleare simile a quelli che New Delhi ha già finalizzato o si appresta a siglare con Stati Uniti, Francia e Russia. Su questo terreno gli ostacoli sono però di natura più politica che strettamente economica. Il Giappone, l'unico paese al mondo che sia stato vittima di un attacco nucleare, chiede che eventuali accordi bilaterali possano venir considerati nulli in caso di nuovi test atomici indiani. Una clausola che per il momento New Delhi non sembra disposta a sottoscrivere perché esporrebbe il governo a pesanti critiche su un terreno estremamente sdrucciolevole come quello della sicurezza nazionale.




L'altro fattore in gioco ha poco a che fare, almeno direttamente, con l'India. Se i rapporti tra Cina e Giappone continuassero a essere caratterizzati da dispute territoriali, come quella sulle isole Senkaku/Diaoyu, e ritorsioni commerciali, come quella sulle terre rare che la Cina ha cessato di esportare verso le industrie elettroniche e automobilistiche giapponesi, sarebbe probabilmente inevitabile un rafforzamento dei rapporti tra Tokyo e New Delhi.

Non solo perché un raffreddamento dei rapporti commerciali tra la prima e la seconda potenza economica asiatica finirebbe inevitabilmente per accrescere il ruolo giocato dalla terza. Ma anche perché New Delhi condivide da tempo le preoccupazioni giapponesi per la crescente assertività territoriale cinese, al punto da guardare con estremo sospetto le opere infrastrutturali di Pechino nelle regioni himalayane vicine ai propri confini e gli investimenti e i prestiti cinesi per la costruzione di nuovi porti in paesi affacciati sull'Oceano Indiano come Myanmar, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan.

Dopo Tokyo, il primo ministro indiano Singh volerà a Kuala Lumpur per incontrare la sua controparte malese e di lì ad Hanoi per partecipare all'ottavo India-Asean Summit e al quinto East Asia Summit dove è anche in programma un faccia a faccia con il premier cinese Wen Jiabao.

Quindi sarà il momento di tornare in patria dove tra il 5 e l'8 novembre è prevista la visita del presidente americano Barack Obama che cercherà di rafforzare gli scambi tra i due paesi, in particolare nel settore della difesa, facendo contemporaneamente pressione perché New Delhi rilassi alcune regole sugli investimenti diretti dall'estero che stanno frenando la presenza delle imprese americane sul mercato indiano. Dopo i rapporti straordinariamente buoni tra il governo Singh e l'amministrazione di George W. Bush, la prova che aspetta Obama, descritto talvolta in India come un nemico dell'industria dell'outsourcing, non si annuncia delle più semplici.

Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2010
Oggi sono le "terre rare" a mettere in allarme i produttori di hi-tech e a spingerli verso fornitori alternativi con cui soddisfare quella domanda che la Cina non accoglie più.
Le aree "sensibili" però sono numerose, anche se non sembra che si possa manifestare una sorta di cartello per qualche metallo strategico. A dire il vero, il Kazakhstan si compiace di definirsi «l'Arabia saudita dell'uranio», ma un'Opec nel settore è impensabile. I maggiori produttori, alle spalle di Astana, sono nell'ordine Canada, Australia, Namibia, Russia e Niger, con prospettive di espansione concentrate proprio in Canada e Australia.
È vero però che il mercato dello yellow cake, l'ossido di uranio necessario per le centrali nucleari, può dare brutte sorprese agli utilizzatori dal punto di vista del prezzo. All'inizio del millennio le quotazioni oscillavano intorno a 7 dollari per libbra e dopo il 2005 un'impennata le portò fino ai 136 dollari del 2007. Solo la crisi e i piani di sviluppo minerario (lunghi e costosi) hanno mantenuto i livelli attuali sotto i 50 dollari, cifra abbordabile per i 438 reattori nucleari che nel 2008 hanno assorbito 59mila tonnellate di uranio (44mila provenienti dalle miniere, il resto da stock e dal riciclo). L'equilibrio però potrebbe rivelarsi fragile quando la domanda salirà per effetto dei piani energetici in Cina e altrove.
Nelle stime della Rbc Capital Markets, un deficit d'offerta rischia di presentarsi fin dal 2012.
Un'altra incognita riguarda il palladio, oggi utilissimo nelle marmitte catalitiche. I vertici della russa Norilsk, primo produttore mondiale, all'inizio di ottobre hanno allarmato gli utilizzatori affermando che «gli stock accantonati nelle riserve russe (che per un ventennio hanno invaso il mercato, ndr) potrebbero esaurirsi nel 2011». Senza queste scorte, il cui ammontare è un segreto di stato, si svilupperebbe un deficit di palladio capace di gonfiare i prezzi ben oltre il massimo di 601 dollari per oncia registrato nei primi giorni di ottobre a Londra.
Va da sé che la carenza di palladio per le marmitte non sarà più un problema quando le auto saranno elettriche. Le preoccupazioni in quel caso si sposteranno sulle terre rare, di cui si discute oggi, e sul litio, il metallo più leggero, da maneggiare con molta cura, ma considerato il toccasana per batterie ricaricabili.
Chi produce oggi batterie a ioni litio trova il carbonato di litio dalla cilena Sqm, dall'australiana Talison, dalle americane Rockwood e Fmc. Ma se l'espansione dovrà accelerare il suo ritmo, la corsa ad approvvigionarsi si sposterà verso il boliviano Salar de Uyuni, che contiene la metà delle risorse del pianeta.
L'importanza della Cina si riaffaccia invece per il gallio, byproduct dell'alluminio, usato per diodi e led, rincarato del 60% da inizio anno, anche se ancora molto lontano dal picco di 1.700 dollari per chilogrammo visto nel 2001. Pechino è il primo fornitore anche di indio, sottoprodotto dello zinco, indispensabile per gli schermi piatti di tv e computer, oggi quotato intorno a 560 dollari al chilogrammo.
Dipende dal Congo invece la preoccupazione di chi usa tantalite (industrie aerospaziali, computer), perché Kinshasa ha bloccato fino al 4 novembre le esportazioni, facendo salire i prezzi quest'anno del 140 per cento.
Il più pressante allarme-costi viene però dal selenio, usato nelle fotocellule e per produrre manganese elettrolitico, raddoppiato in poco più di un anno, a 43 dollari alla libbra. Questo mese non si è fatto mancare nemmeno un record storico: è quello dell'antimonio, rincarato di 10 volte in 10 anni e del 70% solo nel 2010. A 10,40 dollari al chilogrammo i produttori di vernici ignifughe possono solo lamentare il graduale calo dell'offerta. Che naturalmente, anche in questo caso, vede la Cina in prima fila.


Cercasi Wto su terre rare

Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2010

Così come Usa e Giappone, l'Unione Europea sta prendendo in considerazione la possibilità di portare davanti alla Wto il caso delle quote cinesi all'export di "terre rare", i minerali utilizzati per le nuove applicazioni industriali. Ma il vigile del commercio internazionale sembra avere perso il fischietto. Le trattative del Doha Round tengono in stallo la Wto ormai da nove anni, riducendone il prestigio di organizzazione chiamata a prevenire le distorsioni degli scambi mondiali. Anche nel caso delle terre rare, il ruolo della Wto rischia di essere poco incisivo, se non altro perché ci vorrà molto tempo prima di avere un verdetto. E nel frattempo, la vicenda rischia di essere dirompente. La mossa di Pechino è forse preventiva: innervosita dai continui inviti a rivalutare lo yuan, la Cina monta la guardia alle terre rare per scoraggiare possibili ondate di protezionismo in America ed Europa. Ma è certo che l'Occidente non può tollerare che la Cina faccia delle commodity un problema non negoziabile. Se questa ipotesi dovesse trovare conferma, le terre rare, prima ancora delle valute, potrebbero essere il detonatore di una dura guerra commerciale.

Ma la Cina usa il ricatto delle «terre rare»
questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2010
Il «China Daily», citando fonti del ministero del Commercio, preannuncia per le "terre rare" una riduzione delle quote esportabili fino al 30% nel 2011. Anche se nessuna conferma ufficiale è venuta da Pechino, si tratta di un'ipotesi credibile e molto preoccupante.

La drastica riduzione dell'offerta dei 15 metalli noti come lantanidi o terre rare, cui per analogie chimico-fisiche si associano anche ittrio e scandio, mette in difficoltà gli utilizzatori, che ne sfruttano le caratteristiche magnetiche. Auto ibride, turbine eoliche, armamenti e high tech avevano nella Cina l'unico importante fornitore, tanto economico da mettere nell'angolo le poche miniere occcidentali che offrissero alternative.

Non è più così. Nel semestre in corso Pechino ha ridotto del 72% le esportazioni, limitandole a 8mila tonnellate e mettendo in crisi soprattutto i clienti giapponesi, i maggiori utilizzatori fuori dalla Cina. Da inizio anno sono volati verso l'alto i prezzi (tra il 22% e il 720%) e con essi le azioni dei due maggiori produttori occidentali, l'americana Molycorp, salita a New York del 154% in meno di tre mesi, e l'australiana Lynas, che a Sydney da fine luglio ha guadagnato il 125%.

Il caso ora minaccia di approdare alla World Trade Organization. La Cina sottolinea che le sue riserve di terre rare erano il 43% del totale mondiale nel '96 e con il successivo forte sfruttamento sono calate al 30% nel 2009. Ma la considerazione, notava ieri un editoriale del Wall Street Journal, è solo il grimaldello per ottenere il trasferimento di tecnologia verso Pechino.


Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2010 alle ore 06:36.



La progressiva riduzione delle esportazioni cinesi di "terre rare", i metalli sempre più utilizzati per le loro caratteristiche fisiche e magnetiche, sta diventando un caso politico, economico e commerciale.
Ieri da Ginevra Sun Zhenyu, ambasciatore cinese alla World Trade Organization, in un'intervista alla Reuters ha gettato acqua sul fuoco, ma ha anche giustificato i limiti alle vendite e soprattutto ha lanciato agli Stati Uniti un messaggio molto chiaro.
Il nuovo piano quinquennale di Pechino, ha detto Sun, non inciderà sulle quote esportabili di terre rare. Però il rapido sfruttamento delle miniere cinesi, oltre a creare problemi di inquinamento, sta impoverendo una risorsa importante, trend che la Cina contrasta.
Infine, due frecciate: da un lato, Pechino sollecita gli altri paesi a sviluppare le risorse che hanno in casa e che hanno abbandonato per avvantaggiarsi dell'offerta cinese a basso costo, dall'altro lato, non ci sarà alcun embargo su questi metalli, ma «è auspicabile» che gli Stati Uniti allentino presto le restrizioni sui prodotti high tech che hanno applicazioni sia commerciali, sia militari e che potrebbero rilanciare l'export americano in Cina.
Il casus belli è il rapido taglio delle forniture di metalli noti come "terre rare" o lantanidi. Oggi la Cina ne produce poco più di 120mila tonnellate annue, il 97% del totale mondiale, e ne consuma il 51%.
Da diversi mesi Pechino ha ridotto l'offerta, una volta con la scusa dell'inquinamento (paradossalmente, questi metalli sono essenziali per la green economy, ma estrarli è complicato dal punto di vista dell'ecologia), un'altra volta con la scusa dell'eccessivo deperimento delle risorse interne.
Il primo a soffrirne le conseguenze è Tokyo, che consuma il 17% del totale mondiale e che ha messo in relazione il blocco delle forniture cinesi con la vertenza sulle acque territoriali, recentemente riacutizzata.
C'è però un timore strisciante, che da diversi mesi toglie il sonno ai vertici di case automobilistiche come Toyota e Honda. Senza lantanio e neodimio, i loro modelli di auto ibrida Prius e Insight sarebbero facilmente sorpassati da vetture cinesi. Il New York Times lo scriveva già lo scorso anno: nei piani di Pechino c'è da parecchio tempo la costruzione di almeno 500mila auto ibride o elettriche, una cifra che in futuro potrebbe essere moltiplicata per rendere respirabile l'aria delle metropoli (su cui tuttavia pesa sempre il fumo delle centrali elettriche a carbone).
La posizione di Pechino emerge con chiarezza anche dal sito del Quotidiano del Popolo, www.people.com.cn, che denuncia le richieste occidentali di lantanidi a basso prezzo come «irragionevoli e ipocrite». La Cina ha diritto di decidere quanto esportare delle proprie risorse, dice il giornale del Partito, sottintendendo che è giusto che le industrie locali possano contare su una posizione di forza nell'accesso a questi metalli. Anzi, la conseguenza più ovvia è che le società interessate finiscano per trasferire tecnologie a Pechino pur di ottenere gli approvvigionamenti necessari.
L'allarme riguarda molti settori industriali, ma è quantitativamente più rilevante per l'auto: le vetture ibride rappresentano una scommessa importante e attirano molti giocatori, quindi avere le terre rare è come conoscere in anticipo i numeri estratti in un colossale Bingo ipertecnologico.
Non è però un disastro annunciato e irreparabile. Sia perché il ministro del Commercio Wen Jiabao continua a ribadire che un rallentamento delle vendite non significa un blocco, sia perché la Commissione Ue ha appena affermato di non aver evidenza di un qualche tipo di embargo.
In ogni caso, anche in Occidente c'è chi trae vantaggio dalla situazione. Sono le piccole società minerarie che vantano licenze in siti conosciuti e, ai prezzi attuali, decisamente promettenti. I cacciatori di occasioni hanno già fatto la loro parte: la canadese Rare Element è più che triplicata in due mesi alla borsa di Vancouver, mentre sono raddoppiate di valore nello stesso periodo l'americana Molycorp, che riprenderà a sfruttare una grande miniera in California, e l'australiana Lynas, che ha già investito molto in Western Australia. La corsa non ha trascurato le canadesi Avalon, Great Western, Quest Rare, Neo Material, né le australiane Alkane, Greenland, Arafura.
Una bonanza che promette di portare alla luce tutti i depositi di monazite e bastnasite, le rocce che contengono le terre rare, i cui nomi stanno diventando più conosciuti: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, scandio, ittrio ed europio. Quest'ultimo, utile nelle applicazioni laser, lo tocchiamo spesso nelle banconote in euro. Non è per merito del nome, ma per la fluorescenza, usata in microscopiche quantità nelle filigrane anticontraffazione.



Tensione tra Cina e Giappone, giallo sul blocco all'export delle terre rare

Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2010


La Cina avrebbe sospeso l'esportazione di "terre rare" in Giappone, secondo quanto riporta il New York Times, come segno dell'escalation della tensione tra i due stati, dopo l'arresto del capitano di una nave cinese da parte delle autorità giapponesi, al largo di un isola contesa tra i due Stati nel Mar della Cina. Le "terre rare" (i lantanoidi insieme a scandio e ittrio), sono utilizzate come componenti per i veicoli ibridi, il sistema di difesa e le turbine eoliche. La Cina produce,a livello mondiale, il 93% di questi minerali. Pechino e la Cina stanno attraversando la più grave crisi diplomatica dal 2006. Da parte cinese la notizia viene seccamente smentita.

La Cina ha però smentito la notizia riportata dal New York Times. «Non abbiamo mai messo alcun ostacolo alle esportazioni di "terre rare" verso il Giappone», ha detto Chen Rongkai, addetto stampa al ministero del Commercio cinese. «Devono essere solo voci» ha risposto invece un altro funzionario governativo presso le miniere di Baotou nella Mongolia Interna, uno dei maggiori centri di estrazione di terre rare. «Bloccare le esportazioni viola le regole del Wto (Organizzazione del commercio mondiale, ndr) e non penso che la Cina sia intenzionata a farlo»

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