mercoledì 16 marzo 2011

L’odissea degli sfollati di Fukushima

L’area intorno alla centrale nucleare è stata evacuata e migliaia di persone si spostano da un rifugio all’altro
Mainichi Shimbun
Giappone


Gli abitanti allontanati dall’area della centrale nucleare di Fukushima 1, dove il sisma ha
danneggiato il sistema di raffreddamento, sono stati costretti a spostarsi da un rifugio all’altro.
Quando il pomeriggio dell’11 marzo c’è stato il terremoto, Tomoichi Yamada, 40 anni, stava lavorando in una stazione di servizio a Okuma, a tre chilometri di distanza dalla centrale nucleare. Nonostante la catastrofe, Yamada ha continuato a lavorare per aiutare i terremotati della zona ed è tornato a casa solo la sera. Non potendo lavorare, dato che la stazione di servizio è all’interno della zona evacuata intorno alla centrale subito dopo il terremoto, Yamada si è trasferito con la famiglia a casa della suocera.

Il 12 marzo, però, dopo l’esplosione nel reattore numero 1 della centrale, sono state allontanate le persone che si trovavano nel raggio di 20 chilometri dall’impianto: nell’area si trova la casa dei suoceri di Yamada. L’uomo e la sua famiglia si sono allora spostati a casa della sorella maggiore
di Yamada, appena fuori dalla zona evacuata. Ma dopo l’esplosione al reattore numero 3 della centrale si sono dovuti trasferire in una palestra pubblica trasformata in rifugio. In salvo, per ora.

Prima di sera nella palestra c’erano più di 200 persone, molte più della sua capacità. Come Yamada, molti abitanti della zona sono riusciti a malapena a raggiungere la palestra prima che i serbatoi delle loro auto rimanessero a secco. Il 15 marzo è arrivata la notizia che il reattore numero 2 aveva dei problemi. Yamada, che insieme alla sua famiglia ha già cambiato tre rifugi, è felice di essere in salvo, ma le fughe radioattive dalla centrale di Fukushima lo angosciano.
“Vogliamo andare a ripulire la nostra casa dai detriti, ma fino a quando il livello di radioattività non si abbasserà non potremo tornarci.

Come funziona un reattore Una serie di barre di
uranio rivestite con una lega di zirconio sono immerse
nell’acqua. Il calore generato dalla reazione nucleare
del combustibile trasforma l’acqua in vapore che
aziona le turbine per produrre elettricità. In caso di
arresto, alcune barre di controllo, posizionate tra
quelle di combustibile, possono essere sollevate e
abbassate per fermare la reazione nucleare. Nel
terremoto in Giappone le barre di controllo hanno
funzionato correttamente. Tuttavia, anche se la
reazione si ferma, le barre di combustibile continuano
a rilasciare quantità enormi di calore, per il
decadimento di elementi chimici radioattivi. Per
evitare che si surriscaldino, devono essere immerse
nell’acqua di raffreddamento.
Mancato raffreddamento In Giappone è mancata
l’elettricità necessaria ad avviare il sistema di
raffreddamento. I tecnici hanno aggiunto acqua, ma
ha cominciato a evaporare troppo rapidamente. Le
barre sono rimaste esposte all’aria, surriscaldandosi.
Mentre le temperature salivano vertiginosamente, la
lega di zirconio che riveste le capsule ha cominciato a
fondersi, rilasciando gas radioattivi e idrogeno.
Probabilmente è proprio l’idrogeno ad aver provocato
l’esplosione del 12 marzo. Non si sa, invece, se ci sia
stata fusione di parte del combustibile.
Fusione totale In una fusione totale il combustibile
precipiterebbe sul fondo del reattore, bruciando e
forse sfondando la base dell’involucro di cemento
armato che lo racchiude. Nel peggiore dei casi, c’è il
rischio che il combustibile fuso esca da tutte le
strutture e rilasci quantità enormi di materiale
radioattivo. I fisici, però, non sono sicuri che questo
possa succedere.


Basta con il nucleare

L’allarme atomico in Giappone ha riproposto il problema della sicurezza del nucleare anche in Germania. Il 12 marzo, scrive la Frankfurter Rundschau, migliaia di persone hanno formato una catena umana tra Stoccarda e la centrale di Neckarwestheim per chiedere la chiusura di tutti gli impianti del paese. Nel 2010 il governo tedesco ha prolungato i tempi per la chiusura delle 17 centrali ancora in attività nel paese. Il 14 marzo, però, Angela Merkel ha annunciato una moratoria di tre mesi sul provvedimento e la chiusura provvisoria delle centrali costruite prima del 1980 per efettuare un’analisi approfondita delle condizioni di sicurezza.

Tens of thousands protestors march through the government district during a demonstration against nuclear power in Berlin on Saturday. Photo: AP.
Tens of thousands protestors march through the government district during a demonstration against nuclear power in Berlin on Saturday. Photo: AP.






Il sole nero sopra Tokyo

Il vento gira, sale la radioattività: fuga dalla città assediata dal terrore nucleare. Negozi vuoti, aerei deviati, ambasciate e aziende iniziano i piani d'evacuazione
Scilla Alecci
ilmanifesto
OSAKA

The pool for spent fuel at the No. 4 reactor of TEPCO's Fukushima No. 1 nuclear power plant is pictured in this Feb. 1, 2005, file photo. (Mainichi)
The pool for spent fuel at the No. 4 reactor of TEPCO's Fukushima No. 1 nuclear power plant is pictured in this Feb. 1, 2005, file photo. (Mainichi)

Alle sei di mattina di martedì, un altro reattore dell'impianto nucleare di Fukushima esplode. Così le laconiche agenzie locali: «Secondo il ministero dell'economia, alle 6,10 si è sentito il rumore di un'esplosione presso il secondo reattore del primo impianto di Fukushima». Punto. Quello che una persona comune senza alcuna nozione di fisica nucleare può intendere da questa breve frase è solo che c'è qualcosa che non va.

Il vento è cambiato, e insieme al vento arriva la paura. Dalla mattina le correnti spirano verso sud, dice l'Agenzia metereologica giapponese. Carica di particelle radioattive, l'aria viene spinta verso la megalopoli di 13 milioni di abitanti. Arriva un secondo flash d'agenzia: il livello di radiazioni nella prefettura di Ibaraki (a sud di Fukushima e a circa 150 kilometri da Tokyo) è aumentato «sensibilmente». A Tokyo la radioattività «è dieci volte superiore alla norma».

Alle 6 c'è l'esplosione, poco dopo Ibaraki è in allarme... Ci vuol poco a fare i conti: qualche ora e le radiazioni saranno sulla capitale. E infatti non tardano a arrivare i comunicati ufficiali. Chi si fida del governo, e chi deve, resta. Svuotando i supermercati per affrontare l'assedio nucleare, e i marciapiedi per tapparsi in casa, mettendosi in coda per la preziosissima benzina. Nell'incertezza più assoluta, chi può prende bagagli e famiglie e salta sul primo shinkansen, il supertreno diretto a sud.

Molti sì, ma meno del previsto. Mentre i lavoratori sono andati a lavorare come ogni giorno, sono stranieri e genitori con bambini piccoli ad allontanarsi dalla capitale. «Per quanto dicano che le radiazioni non causino veri problemi di salute agli adulti, non si può mai sapere che effetto può avere su un bambino». Masako Haba, appena ha saputo del rischio radiazioni, si è messa in fuga con la figlia da Tsukuba (la prefettura cuscinetto tra Tokyo e Ibaraki). Munite di mascherina protettiva, mamma e figlia sono dirette dai nonni a Gifu. «Nessuno riesce a capire cosa succede - racconta Haba - ma perché rischiare? Chi lo sa quando la situazione ritornerà alla normalità».

People carry heat blankets as they leave a radiation emergency scanning center in the rain in Koriyama, Fukushima Prefecture, Japan, Tuesday, March 15, 2011 four days after a giant quake and tsunami struck the country's northeastern coast. (AP Photo/Mark Baker)
People carry heat blankets as they leave a radiation emergency scanning center in the rain in Koriyama, Fukushima Prefecture, Japan, Tuesday, March 15, 2011 four days after a giant quake and tsunami struck the country's northeastern coast. (AP Photo/Mark Baker)

Sempre più ambasciate stanno invitando le persone a rientrare nel proprio paese. Anche l'ambasciata italiana a Tokyo si è unita al coro e uno dei messaggi inviati agli italiani residenti in Giappone diceva: «Per il momento raccomandiamo di mantenere la calma e si restare possibilmente in ambienti chiusi». Il ritorno in patria viene vivamente consigliato. L'unico problema è che le compagnie di bandiera non volano più o propongono biglietti che in molti casi superano i 2.500 euro, prezzi tre volte superiori a quelli «normali». La tedesca Lufthansa ha deviato a Osaka i suoi voli da e per Tokyo, cambiando equipaggio a Seul per evitare di farlo pernottare in Giappone. Air France-Klm ha spostato tutti gli impiegati da Tokyo a Osaka. Air China e la taiwanese Eva hanno proprio cancellato i loro voli.

Molti gruppi stranieri hanno lanciato piani di evacuazione. Le aziende di tecnologia tedesche Sap e Infiniteon stanno spostando lo staff nel sud del paese, lontano dalla minaccia radioattiva. Altri giganti europei e americani si tengono pronti: banche come Ubs, Deutsche Bank, Bnp, Societe Generale, costruttori come Volvo e Peugeot (che ha offerto a 230 impiegati la possibilità di tornare a casa). Il fabbricante di pneumatici Continental ha evacuato 100 impiegati non giapponesi, e 400 giapponesi si prepara a spedirli - ironia della storia - a Hiroshima, considerata sicura.

Continue scosse di assestamento, possibile rischio radiazioni e scarsità di cibo e acqua dovuto a panico da isolamento e black out controllati: questo è quello da cui chi può si allontana.
Una volta scesi a Osaka, a sole tre ore di distanza dalla capitale, l'atmosfera è visibilmente diversa. Niente razionamento energetico, niente scaffali svuotati. A Umeda, uno dei quartieri centrali della città e centro della vita notturna, gli alberi sono illuminati come se fosse Natale. Naoki Shimada, cameriere ad un ristorante di okonomiyaki (il piatto tipico di Osaka), dice che la volontà di risparmiare corrente ci sarebbe ma «sono i padroni dei negozi della zona che non vogliono». A circa 500 chilometri dalla capitale al buio, la seconda città più ricca del Giappone si illumina a festa di neon lampeggianti.

«Quello che sta succedendo al nord è sentito come lontano, a Osaka nessuno ha mai avuto esperienza di un forte terremoto», dice Hiroshi Miki, che durante il violento terremoto di Kobe nel 1995 era incaricato di gestire la logistica dei soccorsi e che ora dirige una clinica. Al contrario, la vicina cittadina di Kobe, che fu rasa al suolo da un sisma di 7,2 gradi della scala Richter - circa due in meno rispetto a quello del Tohoku - è stata la prima a fornire aiuti e volontari per aiutare nei soccorsi.

Circa dieci minuti dopo aver incontrato il dottor Miki, una scossa di assestamento di intensità 6 ha fatto tremare anche Osaka, proprio quella che doveva essere l'area del minimo rischio.

This satellite image provided by DigitalGlobe shows the damaged Fukushima Dai-ichi nuclear facility in Japan on Monday, March 14, 2011. Authorities are strugging to prevent the catastrophic release of radiation in the area devastated by a tsunami. (AP Photo/DigitalGlobe)
This satellite image provided by DigitalGlobe shows the damaged Fukushima Dai-ichi nuclear facility in Japan on Monday, March 14, 2011. Authorities are strugging to prevent the catastrophic release of radiation in the area devastated by a tsunami. (AP Photo/DigitalGlobe)

martedì 15 marzo 2011

L'atomo fuggente





Lo tsunami e le esplosioni nelle centrali hanno spaccato in due il Giappone: nel sud la vita scorre tranquilla come se nulla fosse. Nel nord i sopravvissuti hanno perso tutto e non hanno ancora ricevuto gli aiuti promessi
Pio d'Emilia
ilmanifesto.it

KESENNUMA (TOHOKU)
Peccato. Peccato davvero, perché invece della finta trasparenza, invece della voglia di distinguere il suo governo da quelli passati, noti per omertà e menzogne,il premier Naoto Kan sta perdendo una grande occasione. Invece di rassicurare, fingendo una trasparenza che non può esserci per via degli enormi interessi economici e politici della questione atomica, potrebbe approfittare di questo disastro annunciato per passare alla storia. Basta con il nucleare. Una scelta difficile, come la pena di morte, ma diventata indispensabile.
Lo chiedono in tanti, ormai, in Giappone, e non solo i vecchi rompiballe intellettuali di sinistra. Per la prima volta sabato 20 marzo, ci sarà una manifestazione nazionale, autogestita, contro il nucleare. «Facciamo di Kasumigaseki (il quartiere della «politica», ndr) la nostra piazza Tahrir», si legge sul sito che l'ha lanciata.
Per ora, purtroppo, Kan resiste, e assieme al suo fido portavoce Yukio «Dumbo» Edano insiste nel dire che tutto è a posto, che sì qualche problema, un paio di esplosioni, un po' di zozzerie radioattive in circolazione, ma poca roba.
Esplosione a Fukushima (Credit: Ansa/EPA ABC TV)

L'apparente «trasparenza» del governo divide anche gli stranieri e le loro ambasciate. Americani e italiani gettano acqua sul fuoco, francesi e tedeschi invitano invece i loro cittadini ad abbandonare i paese. Il rischio di una nuova Chernobyl c'è, eccome. Una nuvoletta che se il vento ci aiuta finisce dritta nel Pacifico. Blowin in the wind: basta soffiare nel vento e tutto passa. E se cambia rotta?
Ammesso e non concesso che il nocciolo dei reattori sia ancora integro, che la fusione non sia già avvenuta.
Ma di questo si parla a Tokyo, capitale del Giappone del sud e sempre più «città aperta», vibrante e creativo melting pot che separa i due Giapponi. Quello del sud, dove la vita scorre tranquilla come se nulla fosse, con i bambini che vanno a scuola, la gente in ufficio, treni e aerei in perfetto orario. E quello del nord, che sta collassando giorno dopo giorno. A partire dalla benzina, esaurita ovunque.

Qui a Kesennuma, nello sfigato e distrutto Giappone del Nord, ci sono altri problemi. «Le centrali? Che le riaprissero in fretta, così torna la corrente». Wakagi ha 71 anni, fa il pescatore, o meglio lo faceva, perché è difficile che un governo incapace di portargli dell'acqua e una ciotola di riso dopo tre giorni riesca a ridargli una barca. Del rischio nucleare e delle radiazioni se ne frega. Ha altro a cui pensare, e un po' di energia elettrica, che manca da tre giorni, gli farebbe comodo. Lo tsunami ha portato via tutto a Wakagi, casa, barca e famiglia. Tranne la dignità. I veri samurai, oggi, sono questi pescatori e contadini del Tohoku.

Sono tre giorni che vanno avanti da soli, senza l'ombra di un soccorso, senza lanentarsi e lagnarsi, che in giapponese suona come una parolaccia. Di notte si rannicchiano su una stuoia, il giorno lo passano a rovistare tra le macerie e a fare la fila per un po' acqua piovana. Senza sapere, perché nessuno glielo dice, che in questi giorni forse è meglio ubriacarsi di sake piuttosto che bere quell'acqua. A Kesennuma, una delle roccaforti delle musciare indigene, i pescherecci che cacciano i tonni, siamo arrivati prima noi dell'esercito giapponese. Noi all'alba, dopo un viaggio allucinante attraverso l'Appennino giapponese, loro a mezzogiorno. Noi costretti a peripli assurdi, tra deviazioni improvvise e incomprensibili blocchi stradali. Loro usando le autostrade lasciate libere per facilitare i soccorsi (ed eventuali evacuazioni).

Ma quali soccorsi? L'esercito arriva, fa un paio di giri nell'inferno di Kesennuma, quattro inchini con le autorità locali e poi via, per continuare il giro di perlustrazione. Scrivono, annotano, fotografano, fischiano. Tutti perfetti, tutti ordinati. Non un sorriso, non una parola. Sembra un'esercitazione più che un'emergenza, una operazione di soccorso. Niente tendopoli, niente ospedali da campo, niente pasti caldi, un paio di coperte. E qui non c'è la Caritas, e ai volontari (ammesso che ci siano) il governo ha detto chiaramente di starsene a casa per non intralciare i soccorsi. Ma intanto tutti si arrangiano. Tanto lo sanno come andrà a finire. I giapponesi si sa, non chiedono e tantomeno non pretendono. E qui non siamo a Kobe, teatro del grande terremoto del 1995, quando furono le cosche della Yamaguchi Gumi, la yakuza, a mobilitarsi e dare una mano. Kesennuma è nel Tohoku, il mezzogiorno del Giappone. Una regione oramai separata dal resto del paese. Aereoporti chiusi, treni fermi, strade intasate. Quei pochi che ci arrivano, tra i quali il sottoscritto, rischiano di restarci chissà fino a quando.

Persone esposte alla radiazioni in seguito all'esplosione nella centrale di Fukushima (Credit: AP/Daisuke Tomita)
Persone esposte alla radiazioni in seguito all'esplosione nella centrale di Fukushima (Credit: AP/Daisuke Tomita)

Difficile capire, anche venendo fin qui, le dimensioni di questa catastrofe, e forse il paragone è scorretto. Ma appena arrivi pensi a Hiroshima, a quelle foto dove tutto è raso al suolo tranne il famoso Palazzo delle Esposizioni. Qui è lo stesso, lo tsunami ha risparmiato solo un paio di edifici in cemento armato, oltre al municipio e una chiesa protestante, che però sono appollaiati su una collina. Il resto è stato spazzato via, strizzato e risputato fuori senza alcun ordine e ritegno. Un peschereccio è finito su un tetto, una moto è appesa a un palo del telefono, resti umani spuntano dal baule di una macchina. Di gente in giro ce n'è, chi viene a cercare, a controllare, semplicemente a guardare. Ma non senti un pianto, un grido, un lamento, una imprecazione, un insulto.


Tutti sereni, tranquilli nel loro dolore, pronti ad eseguire le istruzioni delle autorità, anche quelle senza senso, senza discutere e lamentarsi, come è stato insegnato loro sin da piccini. Quattro persone sono indaffarate ad attaccare un cartello sulla porta di un edificio distrutto. La filiale di una banca. «Causa il terremoto, siamo temporaneamente chiusi». Basta rispettare le forme, e anche la più tragica delle realtà diventa più sopportabile. Un vecchio ci guarda, ci chiede da dove veniamo. Dall'Italia. «Siete come noi, avete perso la guerra, ma vi siete rimbiccati le maniche». Lo rifarà, certo, anche ora... «Non so. Quella volta il futuro era nostro, eravamo fiduciosi. Ora non so. Mio figlio non ha più voglia di far nulla. Io nemmeno. Non so voi, ma noi giapponesi abbiamo perso l'entusiasmo». Speriamo lo ritrovino. Ne hanno proprio bisogno. Per ricostruire il paese. E bandire il nucleare.

Il mondo ripensa all’impatto del nucleare Ma Prestigiacomo dice: “L’Italia va avanti”

ilfattoquotidiano

Giappone: non solo Fukushima. Problemi anche a centrali di Miyagi e Tokai


La linea italiana sul nucleare “non cambia”. La Germania frena e congela due reattori, gli Stati Uniti anche (Obama ribadisce la necessità di servirsi anche di fonti rinnovabili), ma l’Italia va avanti. La linea è quella di costruire impianti, e così – almeno secondo i ministri Stefania Prestigiacomo e Renato Brunetta – sarà. Difficile capire dove, visto che le regioni guidate dal centrodestra hanno già risposto no, grazie. Il primo intervento è stato quello del titolare del dicastero per l’Ambiente Prestigiacomo, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles, a margine del Consiglio dei ministri che ha affrontato anche la catastrofe avvenuta in Giappone. “Nessuna sottovalutazione”, ha aggiunto il ministro, secondo cui non va comunque creato “neppure un allarmismo rispetto a una situazione eccezionale, una calamità che è stata definita un’apocalisse in un paese ad altissimo rischio sismico”. Prestigiacomo ha quindi di nuovo criticato lo “sciacallaggio politico a fini domestici” e la “macabra speculazione” messa in atto in Italia dagli anti-nuclearisti.


Questa mattina i ministri dell’Ambiente europei si sono riuniti in Consiglio a Bruxelles. E il portavoce del ministro Prestigiacomo ha parlato di un “problema” dei danni subiti dalle centrali giapponesi: “In apertura della riunione – spiega una nota del portavoce del ministro – il Commissario Ue è intervenuto sul problema dei danni subiti da alcune centrali giapponesi in seguito al sisma e allo tsunami”.

Le dichiarazioni della Prestigiacomo sul progetto del nucleare italiano che non si ferma arrivano a poche ore dall’annuncio di un incontro del ministro con i rappresentanti delle associazioni del settore delle rinnovabili. Gli incontri sono in programma mercoledì pomeriggio: “Obiettivo degli incontri, convocati dopo la recente approvazione del decreto sulle rinnovabili da parte del Consiglio dei Ministri è ascoltare le richieste degli operatori della filiera per giungere a decisioni condivise che tutelino le aziende e i lavoratori, assicurando all’Italia un futuro da protagonista nel settore”.

Considerazione che hanno suscitato subito critiche e reazioni, ma Prestigiacomo, in serata, ha proseguito nella sua arringa a favore dell’energia nucleare.

Il rischio sismico, ha detto ancora il ministro, ”e’ uno dei parametri che viene considerato per escludere parti di territorio dove questo è particolarmente elevato” e la frequenza con la quale avvengono terremoti in Giappone “non è paragonabile alla nostra. Evitiamo quindi di fare speculazioni, usando situazioni che non hanno alcuna analogia”. Secondo Prestigiacomo i programmi europei e internazionali sull’energia “non cambieranno sulla base di quello che è avvenuto in Giappone e i paesi occidentali si sono già impegnati a raggiungere mix energetici”. Circostanza anche questa smentita da Angela Merkel e Barack Obama, per la Germania e gli Usa.

Rischi dopo l'esplosione nella centrale nucleare di Fukushima


Il ministro della Pubblica amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ospite a Sky Tg 24, è andato oltre, criticando – come sottolinea anche l’Ansa – le scelte di Germania e Usa, sottolineando che “c’è molta ipocrisia. Noi che non le abbiamo fatte non dovremmo neanche pensare di farle?” precisa Brunetta, che fa notare: “Se tutti dicessero ora lo stop al nucleare che fine farebbe il prezzo del petrolio?”. Il ministro sottolinea, inoltre, che l’Italia è un paese “parzialmente sismico, in alcune aree non ci sono mai stati terremoti, e questo è già presente nelle valutazioni sui siti e sulle centrali che si costruiranno”.

Ma le idee, anche all’interno della maggioranza, sono confuse. Luca Zaia ha ribadito l’altro giorno che “in Veneto non verranno mai costruiti siti nucleari, lo stesso che ripete da mesi Roberto Formigoni. Stesso discorso per quello che riguarda il Lazio, come ha spiegato ieri il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: ”Prendemmo impegno insieme alla presidente Renata Polverini, in sede di campagna elettorale, per far si che non vengano costruite centrali nucleari nel Lazio che è già autosufficiente dal punto di vista energetico”.


Il leader dell‘Udc, Pierferdinando Casini, spiega di non aver cambiato idea. “Credo chela politica stia morendo in Italia per la demagogia e perchè cavalchiamo le paure della gente. Così però non riusciamo ad essere seri. Questo terremoto – prosegue il leader Udc – è stato migliaia di volte superiore a quello dell’Aquila. In Giappone sono saltate raffinerie, impianti chimici, tubature del gas e migliaia di tonnellate di rifiuti tossici navigano per il Giappone, però noi pensiamo solo ai problemi del nucleare. Queste centrali tutto sommato producono effetti molto più limitati rispetto al resto. Niente di per sé è sicuro. Il progresso porta margini di rischio”. Ma in ambito terzo polo ci pensa Francesco Rutelli a mescolare le carte: “Anche per il nucleare in Italia si presenta un grande punto interrogativo. Sconsiglierei oggi di fare commenti come se la partita fosse chiusa – sottolinea Rutelli – Il punto, però, è che se l’Italia, paese ad alta attività sismica, decidesse di dare il via libera ad un programma nucleare dovrebbe affrontare spese molto superiori per dare garanzie sulla sicurezza degli impianti”.

mercoledì 9 marzo 2011

«Quirra? Come una centrale nucleare»

PAOLO CARTA

www.unionesarda.it

Il docente dell'Università La Sapienza promuove la relazione del veterinari Asl


Il professor Cristaldi: stessi danni riscontrati a Garigliano

Mauro Cristaldi è impegnato nel comitato “Scienziati contro la guerra” e studia da anni i poligoni sardi e l'alta incidenza dei tumori.

Salto di Quirra



Le guerre simulate possono aver creato nel tempo danni alla salute di chi abita e lavora a Quirra?
«Le cosiddette guerre simulate sono esercitazioni militari vere e proprie in cui vengono testate le armi da usare nelle missioni Nato».

Allora sono guerre dove mancano soltanto i morti?
«No, ci sono anche i morti. Arrivano dopo qualche anno, tumori e leucemie, per l'inquinamento causato dai test».
Mauro Cristaldi, docente di Anatomia comparata nell'Università La Sapienza di Roma, segue da anni il caso dei poligoni sardi, dell'alta incidenza dei tumori denunciata dai pacifisti e confermata di recente da due veterinari delle Asl. Per interesse professionale, certo, ma soprattutto perché da anni ha aderito al movimento internazionale “Scienziate e scienziati contro la guerra”.

Nei giorni scorsi Cristaldi ha potuto esaminare la relazione dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari che, dopo un controllo ovile per ovile, ha certificato la presenza di dieci allevatori malati di tumore sui 18 che lavorano entro un raggio di 2,7 chilometri dalla base e di agnelli nati con sei zampe, senza naso e bocca, sventrati. «Ottimo lavoro, con un solo neo: non è stato indicato il tipo di tumore». E arriva a fornire un parere inquietante: «Avevo riscontrato le stesse malformazioni genetiche negli animali attorno a Garigliano, nella zona della centrale nucleare poi dismessa, qualche tempo dopo alcuni guasti agli impianti».

Quale spiegazione scientifica si è dato?
«La stessa che convince la comunità scientifica internazionale da sempre. Cioè che queste malformazioni si verificano nelle zone contaminate dal punto di vista ambientale».

Da cosa?
«Da sostanze radioattive oppure dai mutageni chimici presenti per attività industriali, compresi i metalli polverizzati da esplosioni o combustioni».

Solo teorie?
«No, prove scientifiche. Dal 1979 il mio gruppo di studio dell'Università La Sapienza è in grado, attraverso l'analisi del midollo osseo degli animali, di vedere le mutazioni genetiche prodotte da radioattività o miscele di contaminanti ambientali e di indicare precocemente la probabilità dell'insorgenza di certe patologie comprese quelle tumorali».

Nell'uomo?
«Non abbiamo mai esteso questi test sull'uomo, ma riguardo a Quirra si sarebbe comunque in ritardo: certe analisi andavano fatte negli anni 2000 per prevenire i tumori che sono rimasti latenti e si manifestano solo adesso».

È possibile scoprire se in una località è stato utilizzato uranio impoverito?
«Sì, per esempio attraverso lo studio dei rapporti tra i diversi isotopi dell'uranio, quello presente in natura e quelli modificati da combustione nucleare o da arricchimento. Oppure studiando gli animali come le pecore destinate alla macellazione o piccoli mammiferi come di topi di campagna presenti in grandi quantità in quella zona e in possesso di organi recettori di quelle sostanze».

I Governi italiani hanno sempre negato l'utilizzo dell'uranio impoverito.
«Noi scienziati lo diamo invece per scontato o perlomeno molto probabile. Partendo dalle ammissioni degli Usa, che hanno detto di averlo utilizzato in Somalia e nel Kosovo: da qualche parte devono averlo testato di sicuro. Adesso vedremo cosa utilizzerà la Nato in Libia».

In Libia?
«Sì, certo, anche lì si arriverà alla guerra. Stanno già demonizzando Gheddafi come avevano fatto per Saddam. Vogliono giustificare l'intervento militare. L'Occidente dipende dal Medio Oriente per l'approvvigionamento energetico e il petrolio della Libia è il migliore al mondo».

lunedì 7 marzo 2011

Nel rio Tinto i rifiuti industriali di Pioltello

nerva_discarica_rifiuti_tossici


Andrea Palladino
ilmanifesto

NAVI DEI VELENI Rifiuti pericolosi dall'Italia alla Spagna, con l'avallo del ministero dell'Ambiente. Provengono dalla bonifica di un'area ex industriale nel milanese, per la quale l'Italia rischiava una sanzione europea. Destinazione: la discarica di Nerva, in un territorio protetto. La protesta degli ambientalisti spagnoli, di Izquierda unida e di Greenpeace


I veleni provenienti dalla dismissione di una fabbrica chimica, la Sisal, in una discarica e un fiume andalusi

Chi si aspetta una terra di Andalusia secca ed inospitale dalle parti di Nerva rimarrà sorpreso. La terra al nord di Siviglia è bagnata dal Rio Tinto, che nella vallata di Nerva sembra voler inglobare tutto. È un luogo dimenticato, fuori dai normali itinerari turistici, interrotto dai resti delle miniere, con i colori grigi del ferro che costellano il paesaggio. E il nero dei fumi di Pioltello, intriso di mercurio e idrocarburi, che oggi cola verso il fiume dal deposito di rifiuti della società Befesa, ultima tappa del tour italiano di un pericoloso carico di scorie industriali. Come negli anni '80 e '90 - quando dai porti di Marina di Carrara e di La Spezia partivano le navi dei veleni dirette in Africa - dai docks nostrani continuano a salpare in queste ore i cargo carichi di rifiuti pericolosi, sotto la diretta egida del ministero dell'Ambiente. Una storia già anticipata dal manifesto lo scorso 18 febbraio e che oggi si arricchisce di nuovi e gravi dettagli.

«Quello che avviene è semplicemente un deposito, senza nessun trattamento, e in più la gestione è nulla o pessima - racconta al telefono Juan Romero, di Ecologistas en Accion dell'Andalusia - Questa discarica di Nerva ha un'alta quantità di acqua e stanno mescolando direttamente i rifiuti pericolosi che arrivano dall'Italia con i liquidi che ristagnano». Il risultato è devastante: «Si crea una reazione chimica e l'acqua che filtra insieme alla pioggia finisce nel Rio Tinto. Una fine paradossale, visto che questo fiume è stato dichiarato dalla stessa Unione europea come luogo di interesse comunitario». Quella stessa commissione che ha imposto all'Italia di bonificare il sito industriale dell'ex Sisas da dove vengono i rifiuti finiti in fondo al Rio Tinto, in piena Andalusia. E sarà forse un caso, ma l'ispezione che doveva avvenire la scorsa settimana a Pioltello da parte della Direzione Ambiente della Commissione Europea è saltata, senza un apparente motivo. I commissari dovevano verificare che la bonifica fosse stata realizzata secondo i criteri di legge, ma nessuno si presentato. Il viaggio veleni può dunque continuare indisturbato.

Per capire la gravità di quanto sta accadendo occorre partire dalla periferia industriale di Milano, dove sorgeva l'area della Sisas, polo chimico dismesso, destinato oggi ad ospitare metri cubi di cemento. Le terre qui erano intrise di veleni. Da anni si parlava della bonifica, fino a quando - pena pesanti sanzioni comunitarie - il commissario straordinario Luigi Pelaggi, braccio destro del ministro Prestigiacomo, ha affidato l'intervento alla Daneco dei fratelli Colucci, grandi finanziatori del Pdl fin dai primi anni 2000. La destinazione della discarica di Nerva era già prevista, nero su bianco, nella relazione tecnica del luglio dello scorso anno, firmata dallo studio di Claudio Tedesi. Un nome noto alle cronache giudiziarie lombarde, dopo che la Procura di Milano lo ha indagato lo scorso anno per la bonifica di Santa Giulia, affidata al gruppo Green Holding di Giuseppe Grossi, arrestato nel 2009. Ero lo stesso Grossi ad avere in carico la bonifica dell'ex Sisas, progetto che abbandonò nel corso del 2010. Un incrocio tra interessi, tecnici e gruppi lombardi che da anni gestiscono bonifiche e rifiuti industriali, sfiorando il sistema milanese dei poteri forti, come quello di Comunione e Liberazione, area di riferimento per Claudio Tedesi.

Cosa sta uscendo dalla bonifica dell'area Sisas di Pioltello? Secondo alcune analisi che il manifesto ha potuto consultare si tratta di rifiuti pericolosi che, secondo la normativa europea, non possono finire in discarica senza passare per un trattamento specifico. La conferma della presenza di scorie pericolose (classificate secondo il codice europeo 191301) è contenuta all'interno della stessa relazione firmata dallo studio di consulenza di Claudio Tedesi. Le analisi di laboratorio realizzate anche successivamente mostrano un superamento dei limiti di legge per almeno tre elementi pericolosi: il mercurio, il carbonio organico totale (Toc) e alcuni idrocarburi aromatici. Le direttive comunitarie - adottate sia dall'Italia che dalla Spagna - sono chiare in questo senso: questo tipo di rifiuto, ritenuto pericoloso, deve essere trattato e non gettato nelle discariche, come sta avvenendo in queste ore a Nerva, secondo quanto riferisce l'associazione Ecologistas en Accion. Una denuncia supportata da un'ampia documentazione fotografica, realizzata nei giorni scorsi mentre i rifiuti lombardi entravano nell'invaso di Nerva.

La destinazione finale delle scorie pericolose di Pioltello - la discarica di Nerva che appare nelle foto - è la peggior soluzione. Da anni gli ambientalisti spagnoli si battono per chiusura e messa in sicurezza del sito, che sta contaminando il Rio Tinto. Dalle fotografie realizzate appare evidente la mancanza delle strutture minime che dovrebbero garantire il corretto trattamento delle scorie pericolose di Pioltello: manca, ad esempio, la gestione dei biogas nella zona dove sono svuotati i big bags, oltre alle attrezzature necessarie per il trattamento dei rifiuti pericolosi.
La partenza delle navi con le terre contaminate di Pioltello non si ferma, dunque. La denuncia fatta da Izquierda Unida in Spagna - che nei giorni scorsi ha presentato una petizione al Parlamento europeo - non ha per ora attivato le autorità spagnole o italiane. Se, come denunciano le associazioni ambientaliste spagnole, i residui della bonifica di Pioltello non potevano finire nella discarica nel cuore dell'Andalusia, si tratterebbe di una gigantesca operazione illegale, con l'aggravante di vedere coinvolto direttamente il ministero dell'Ambiente e la Regione Lombardia. Una situazione che ricorda quello che per anni è avvenuto in luoghi come Pitelli, la collina dei veleni sul golfo di La Spezia, il cui processo di primo grado terminerà il 10 marzo prossimo, dopo dieci anni di udienze. Una impunità che è la madre di tutti i traffici di rifiuti, che ancora oggi solcano il Mar mediterraneo

sabato 5 marzo 2011

La ricchezza dei tiranni


Moises Saman for The New York Times
The Economist,

Le rivolte in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto salire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile. Tutto il mondo teme una crisi petrolifera. Dopo la Libia, tocca all’Arabia Saudita? I commenti della stampa internazionale

Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile e Hosni Mubarak governava l’Egitto. Ora se n’è andato, il suo governo è stato rovesciato dalle manifestazioni popolari che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medio Oriente. E il prezzo del petrolio ha raggiunto i 114 dollari. Non c’è da stupirsi: la regione produce il 35 per cento del petrolio mondiale. Dalla Libia arrivano 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno in tutto il mondo.

A far impennare il prezzo del petrolio non è stata l’interruzione degli approvvigionamenti: il rincaro da record è arrivato prima che alcune società petrolifere annunciassero tagli alla produzione e che i porti del paese fossero chiusi. I prezzi del petrolio, fa notare Adam Sieminski della Deutsche Bank, sono inluenzati anche dalle aspettative. Ai mercati petroliferi inoltre
non piacciono le sorprese.

La caduta di Mubarak e le rivolte in Libia, Bahrein, Yemen, Iran e Algeria (che insieme forniscono un decimo del petrolio mondiale) hanno fatto aumentare il prezzo del greggio di almeno il 20 per cento. La preoccupazione è che il difondersi delle rivolte possa tradursi in uno shock paragonabile a quello dell’embargo petrolifero del 1973, della rivoluzione iraniana o dell’invasione irachena del Kuwait.

Oggi la produzione del petrolio è più globalizzata di quanto non fosse durante quelle crisi. Negli anni settanta si concentrava soprattutto nel golfo Persico e da allora i mercati sono stati invasi da un mare di petrolio proveniente dall’America Latina, dall’Africa occidentale e da altre regioni.
Principali produttori di petrolio: dato in barili al giorno
con indicazione (in rosso) dei paesi attualmente in rivolta

Un paio d'interessanti grafici sul PETROLIO (release 2.0)

Nel 2009 la Russia ha superato l’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio mondiale e la quota di petrolio prodotta dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) è passata dal 51 per cento della metà degli anni settanta a poco più del 40 per cento.

La globalizzazione della produzione petrolifera non ha diminuito l’importanza dell’Opec. Al momento i mercati sono cauti. Con la ripresa dei paesi ricchi e il boom asiatico, le riserve accumulate durante la crisi economica stanno diminuendo di nuovo. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel 2010 la domanda è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, e secondo i calcoli della Deutsche Bank nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. Molti produttori stanno vendendo a pieno regime e l’Opec possiede l’unico petrolio di scorta.

Se il petrolio della Libia smettesse di scorrere, gli importatori dovrebbero rivolgersi all’Arabia Saudita, che sarebbe in grado di soddisfare le esigenze dell’Europa, il mercato della Libia, nel giro di poche settimane. L’Opec sostiene di poter estrarre sei milioni di barili al giorno ma forse esagera. Gli analisti ritengono che la quantità reale sia più vicina ai 4-5 milioni, in gran parte nelle mani dei sauditi. Questo sarebbe più che suiciente per colmare il vuoto lasciato dalla Libia ma farebbe avvicinare il giorno in cui la crescente domanda mondiale esaurirà tutte le riserve. Gli analisti della banca Nomura sostengono che basterebbe una battuta d’arresto delle esportazioni algerine per portare il prezzo del petrolio a 220 dollari al barile.

Lo scenario peggiore sarebbe un’interruzione degli approvvigionamenti da parte dell’Arabia Saudita. Questa preoccupazione è diventata più forte dopo le rivolte in Bahrein, che produce poco petrolio ma è di grande importanza strategica per il golfo Persico, dove transita il 18 per cento del petrolio mondiale. I sauditi temono che le proteste della popolazione sciita del Bahrein possano estendersi al loro paese. Le province orientali dell’Arabia Saudita ospitano sia le industrie petrolifere sia la maggior parte degli sciiti, che potrebbero ribellarsi al regime sunnita. Intanto il re ha annunciato che distribuirà al popolo 35 miliardi di dollari.

Scorte strategiche

Quali potrebbero essere gli efetti di una crisi degli approvvigionamenti in Medio Oriente e in Nordafrica? Le crisi petrolifere degli anni settanta spinsero il mondo ad accumulare scorte, come i 727 milioni di barili che formano la riserva strategica di petrolio statunitense, a cui attingere in caso di sconvolgimenti in Medio Oriente o altrove.

Anche la Cina sta costruendo una riserva strategica. Secondo l’Energy information administration statunitense, le scorte nelle mani dei governi e delle industrie di tutto il mondo ammontano a 4,3 miliardi di barili, equivalenti a quasi cinquanta giorni di consumo globale al ritmo corrente.

L’impatto di un’eventuale crisi quindi dipenderà dalla quantità di petrolio che si perderà e per quanto a lungo. Ma l’esempio dell’Iran dimostra che cosa può andare storto. Leo Drollas del Centre for global energy studies sottolinea che l’Iran prerivoluzionario estraeva sei milioni di barili al giorno. Allontanati gli esperti e i capitali occidentali, il nuovo regime non ha più raggiunto quel livello di produzione. Oggi estrae 3,7 milioni di barili al giorno. Il petrolio mediorientale è in gran parte controllato dagli stati ma gli investimenti esteri sono vitali solo per l’industria petrolifera del Nordafrica. Se emergessero regimi più ostili agli stranieri, potrebbero esserci efetti duraturi sulla produzione.

Il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa. Per quanto riguarda la possibilità di ridurre il peso del Medio Oriente come fornitore di petrolio a livello mondiale, non vale neanche la pena di parlarne. Probabilmente la forte domanda asiatica farà di nuovo aumentare la quota Opec della produzione di petrolio. E questa regione travagliata avrà ancora il potere di causare problemi.

venerdì 4 marzo 2011

Elezioni a Cagliari......Capitale


Sergio Gabriele Cossu


Essere indipendentisti significa, prima di ogni altra cosa al mondo, accettare di fare parte di un progetto "globale" che preveda la rottura del legame che ci vincola a poteri esterni, siano essi politici economici o culturali, nella piena consapevolezza di raggiungere l'autodeterminazione.
Il compito di ogni indipendentista è adoperarsi interamente nel perseguire tale obiettivo, sfruttando ogni singola occasione perché le componenti della nazione siano sensibilizzate fino al coinvolgimento totale, la sola condizione, in un contesto democratico, che possa favorire il raggiungimento dell'indipendenza. Nel frattempo ognuno ha il dovere di occuparsi di fatti che riguardino la società in cui vive, secondo la propria sensibilità e formazione sociale, oltre che culturale, ma essi, però, non dovranno mai e poi mai avere la priorità su tutto ciò che serva a questo popolo per unirsi, coalizzarsi, compattarsi intorno al suo obiettivo primario.
La soggettività di ogni movimento va esperita nella piena e legittima funzione, propria del formatore che lavora sulle inclinazioni ideologiche di ogni aderente, con il quale possa condividere la forma socio - istituzionale desiderata per il futuro stato indipendente, e contemporaneamente, nella fase intermedia, dovrà responsabilmente dare il proprio contributo perché l'unione delle componenti indipendentista sia realizzata.
Qualsiasi altro espediente metterebbe in una posizione contraddittoria coloro che si definiscono indipendentisti, dato che agirebbero, sebbene in buona fede, in ragione di interessi contingenti e avulsi dal progetto globale: esempio, fare indipendentismo sostenendo i partiti italiani, cioè gli stessi soggetti politici che rappresentano tutto ciò che di italiano si vuole combattere, essendo notorio che il potere colonizzante si sostanzia, soprattutto, attraverso il loro operato senza distinzione di sigle e di etichette.
E' un dovere di tutti fare in modo che i sardi vedano in noi l'esempio della "coesione" su questioni che potrebbero avere risvolti epocali per loro, e che fino adesso, in Sardegna, abbiamo visto essere prerogativa solo dei partiti italiani.
Sardigna Natzione Indipendentzia ha fatto suo, sin dalla nascita, questo principio: siamo quelli che hanno sempre sostenuto l'unità di tale forze come condizione necessaria per influire nel panorama politico sardo, il quale, voglio ricordare, oggi è monopolizzato dalle forze italianiste proprio a causa della nostra frammentazione.
Oggi i partiti italiani sono in grado di raccogliere solo il 40% dei consensi dei sardi - il resto è rappresentato dall'astensionismo e dai soggetti politici che non si riconoscono con Roma - rendendoli di fatto una minoranza, tra l'altro, in sensibile calo. Ciò significa che le potenzialità di metterli "all'angolo" dipenderà dalla nostra esclusiva capacità di coalizzarci, ma anche dai nuovi consensi che deriverebbero a seguito della nuova immagine vincente che ci daremo tra i soggetti non ancora schierati, i quali, come già detto, sono la vera maggioranza relativa.
Le prossime elezioni di Cagliari rappresentano un banco di prova importante.
Per la sua importanza, la capitale della Sardegna sarà soggetta, ancora una volta, a sperimentare le forme consuete della contrapposizione politica tipica dei melodrammi romani, in una prevedibile sequela di giochi che avranno come fine quello di assicurarsi che gli equilibri di potere rimangano immutati.
Immancabilmente tutte le sigle che rispecchiano i partiti italiani saranno presenti, e con loro gli schieramenti i quali esprimeranno i soliti programmi.
Vuole l'indipendentismo inserirsi autorevolmente all'interno di questa lotta con un programma di rottura rispetto al passato?
Ma soprattutto vuole farlo dando un segnale ai sardi che l'indipendentismo è deciso a fare fronte comune a partire da Cagliari?
Il buon senso di chi è fedele all'idea di vedere il popolo sardo finalmente unito suggerirebbe di si!
Voglio evitare di invadere il campo dei Cagliaritani i quali sono i soli aventi diritto di entrare nel merito delle loro questioni cittadine, per ribadire che dalla nostra capitale può, realmente, partire quel segnale che, senza nessuna ombra di retorica, potrebbe rappresentare una svolta verso il cammino per l'indipendenza di tutta la Sardegna. Nelle prossime settimane verranno avanzate delle proposte a questo riguardo. Il mio suggerimento è quello di considerare le varie proposte alla luce di quanto qui è stato detto, che corrisponde a brevi linee a ciò che la stragrande maggioranza dei sardi desidera. Sta solo a noi diventare i sud tirolesi della situazione, mostrando come fanno loro, che la "nostra" è vera volontà di agire da popolo, e che la disunione è stata solamente un capitolo triste della nostra storia, a cui abbiamo saputo porre rimedio per il bene della nostra terra.


Fintzas a s'indipendentzia!


mercoledì 2 marzo 2011

Parliamo di linguaggio

Christian Raimo
ilmanifesto
Nella Metafisica Aristotele dice: inchiodali al loro linguaggio. Parla dei sofisti di basso livello, dei Megariti, di quella gente che non argomenta in modo preciso, che cerca di buttare tutto in caciara, il cui unico scopo è la delegittimazione dell'avversario. Negli ultimi tempi la battaglia delle truppe cammellate berlusconiane vede in campo i riservisti: dopo la fanteria d'assalto degli yes-man, i Bondi e i Quagliarello, c'è stato il tempo dei cecchini, i Feltri, i Lavitola, i Sallusti,
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Sallusti e Feltri

VALTER LAVITOLA


quelli che sparavano ad altezza uomo ripetutamente, qualunque fosse il Boffo di turno da affondare. Ora la strategia sembra più raffinata: sono tornati da qualche settimana a questa parte a aver voce gli intellettuali sedicenti. Un Giuliano Ferrara che prende per il culo Umberto Eco su Kant, un Antonio Ricci che si riscopre debordiano e fa il verso alle femministe sul Corpo delle donne, detournando il documentario di Lorella Zanardo con un filmatino mandato in onda a Matrix, la cui tesi era: anche Repubblica usa le tette per vendere. Se è questo il livello, il conflitto viene da dire è finalmente culturale. Dopo che l'opposizione parlamentare (il Pd in primis) ha fallito nell'arginare la sua deriva populista, dopo che quella istituzionale (la nuova destra di Fini, la morale comune) è stata miseramente azzoppata, ora tocca a noi, a chi crede che il berlusconismo sia soprattutto una malattia del capitalismo avanzato, un virus che avremmo inoculato comunque anche se Berlusconi ipse non fosse ancora al governo con una maggioranza di 320 parlamentari.


Del resto è anche lui stesso, in prima persona, che in questi giorni è tornato a pugnare, tutto preso in una lunga sessione di tecniche di rovesciamento. Va ovunque ci sia da ribaltare, in una specie di tour da guitto per le piazze di paese. Uomini, donne, correte: è arrivato l'attorino! Ha fatto il numero d'"er reuccio de' Testaccio" alla Fondazione Zeffirelli (altro intellettuale redivivo) - ente neonato grazie a cinque milioni e mezzo di fondi sganciati dalla Regione Lazio che serviranno a costruire un mausoleo mentre ancora il Maestro Zeffirelli è in vita, mentre tutto il cinema della capitale (Centro sperimentale, Casa del Cinema, Metropolitan...) annaspa per la mancanza di finanziamenti. Con un Gianni qualunque (Letta, in questo caso) a fargli da spalla, Pinotto Berlusconi butta là facezie per tutti i palati. Dice: «Oggi sono entrato in Parlamento e anche la sinistra voleva venire al bunga bunga. Che poi sa cosa vuol dire? Andiamo a divertirci andiamo a ballare, andiamo a bere qualcosa...». Ride in faccia al giornalista di Sky che l'ha invitato a un confronto tv, paragonandosi al generale Franco, che se ne fregava delle richieste democratiche.
Poi va nel teatrino dei cristiano riformisti, e rispolvera il repertorio contro i comunisti, spara a zero contro la scuola «che inculca valori diversi da quelli della famiglia» e «contro le adozioni ai single», racconta quando Mamma Rosa lo investì della missione di salvare l'Italia e quando un fantomatico sacerdote russo a dodici anni lo illuminò sul Male rappresentato dal comunismo. Cosa ottiene? Il solito. Le reazioni pavloviane che si aspetta. Da una parte, applausi da stadio: dei claquer i cui bassi istinti di risentimento va a vellicare. Dall'altra, l'indignazione (il giorno dopo): da parte di chi costretto a ribadire l'ovvio, da Bersani a Bocchino, dai blogger degli insegnanti agli editorialisti di Repubblica. Tutti a tenere il punto sul minimo comun denominatore di una società democratica, sul valore fondante della scuola pubblica.
Sembrano i colpi di coda di un dittatore assediato nel bunker, si diceva in questi giorni. Sarà anche la sindrome dell'assediato, ma queste mosse berlusconiane sono lucidi deliri. Anzi, sembra che abbia una strategia chiara nell'affondare il coltello nella piaga proprio nelle contraddizioni della sinistra. Per dire: può permettersi di urlare contro la scuola pubblica e trovare chi lo osanna, proprio perché nell'opinione pubblica di sinistra ci sono state almeno un paio di settimane nelle quali si è dato un incredibile spazio (interviste a tutto campo, ospitate da Fabio Fazio...) al libro catastrofista di Paola Mastrocola sulla scuola. Scusate, ma la paginata di Cesare Segre sul Corriere contro Don Milani e Rodari, contro la scuola dell'uguaglianza, l'ho vista solo io? Scusate, ma l'endorsement del nichilista della domenica Pietro Citati su Repubblica in cui dice che l'Occidente è il luogo del vuoto e del niente, e che nessuno sa più leggere e scrivere, l'ho letto solo io? Se qualcun altro semina, Berlusconi raccoglie. E se delira, almeno non è il solo.
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitFW1f1borySUfYWEJbzL7sr9jo8jyYRTiCZWC-ohXBRJDO9ZUdyjNwBUHQc1gNmTBDTP5TO44tf6y3g0oCygg-UgE-VqCXNQC3U46SUVph-7Q-87-Xa4IebWD1KfmaeFkeDkgwGeuJvjR/s1600/Silvio+Berlusconi+Bunga+Bunga+2.jpg
Non è solo nemmeno quando si scaglia contro le adozioni ai single. Su coppie di fatto, tutela dei diritti dei single e degli omosessuali, la sinistra dell'ultimo governo è inciampata ripetutamente, e anche mettiamo che vincesse le elezioni alla prossima tornata, saprebbe proporre un progetto sociale diverso da quello razzista dei machisti oggi al governo?
Ma la tecnica di rovesciamento berlusconiana è studiata fino in fondo. E il giorno dopo, come volevasi dimostrare, arrivano le dichiarazioni stampa in cui si lamenta che è stato travisato: «Non ho mai attaccato la scuola pubblica», «L'insegnamento libero ripudia l'indottrinamento», «Ho solo denunciato l'influenza deleteria dell'ideologia», «Il mio Governo ha avviato una profonda e storica riforma della scuola e dell'Università, proprio per restituire valore alla scuola pubblica e dignità a tutti gli insegnanti che svolgono un ruolo fondamentale nell'educazione dei nostri figli in cambio di stipendi ancora oggi assolutamente inadeguati». Da folle arringapopolo, da puttaniere con il culo flaccido, da millantatore di fidanzate mai apparse, a pacato thatcheriano: eccolo quel fregolismo à la Zelig che conosciamo, quello che ti fa dire che da piccolo volevi fare il carabiniere quando vai alla festa dell'Arma. Mentre il giorno dopo le dichiarazioni della sinistra sono ancora aggrappate al Berlusconi della maschera prima.
Il linguaggio di Berlusconi è performativo, attoriale, ha bisogno di pubblico, di una scenografia: il senso è ancora una volta solo l'effetto, non le intenzioni. Ergo, il suo messaggio per essere contrastato va preso nell'interezza dell'atto performativo. Ritrattazione compresa. E allora, che strategia contrapporre? Inchiodali al loro linguaggio, diceva Aristotele. Quando dicono tutto e il contrario di tutto, quando smentiscono quello che hanno appena detto, fagli riconoscere che esiste il principio di non-contraddizione. Ma se non ammettono nemmeno il principio di non-contraddizione? Beh, in questo caso è Platone che ci viene in soccorso. Anche lui si era trovato molto spesso davanti al problema di chi non gioca su un piano logico del discorso. Capita, perché la nostra anima è tripartita, dice l'inventore della dialettica occidentale: c'è un'anima concupiscibile (l'istinto) che risiede nel ventre, c'è un anima irascibile (la volontà) che risiede nel petto, e c'è un'anima razionale (la ragione) che risiede nella testa. I cattivi politici fanno leva sull'anima concupiscibile per aizzare l'anima irascibile. La politica che dobbiamo praticare può fare il percorso opposto: usare l'anima razionale per generare passione. Ma usare l'anima razionale vuol dire essere capaci ogni giorno di essere autocritici oltre che critici, avere il coraggio di elaborare le contraddizioni (sul ruolo della scuola, sulla laicità, sull'uso della donna nei media, etc...) qui, dalla nostra parte, altrimenti possono cadere mille Berlusconi, ma a essere sconfitti saremo sempre noi.

lunedì 28 febbraio 2011

Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo

Un articolo del 1995 che conserva tutta la sua attualità
Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo



Hicham Ben Abdallah Al Alaoui

Tradotto da Il Manifesto

Non un solo regime democratico, non un solo stato di diritto in tutto il mondo arabo. Questa situazione scandalosa, mentre la democrazia avanza dappertutto nel resto del mondo, in Europa orientale, in America latina, in Africa e in Asia, esaspera l'opinione pubblica dei paesi arabi. Sempre più urbanizzata, meglio istruita, la popolazione chiede a gran voce autentici diritti di cittadinanza, per contrastare con successo il neo-autoritarismo dei poteri e l'offensiva dell'oscurantismo islamista.

In Europa la modernizzazione politica dello stato-nazione ha seguito un'evoluzione parallela alla trasformazione del concetto di cittadinanza. Tra il XVII e il XIX secolo, al termine di una lunga lotta contro il dispotismo, soggetti, la cui funzione individuale era sostanzialmente quella di obbedire a un potere che incarnava un'autorità trascendentale, si trasformarono in veri e propri cittadini, parti a pieno titolo di un contratto sociale basato su un'autorità nazionale sovrana.
Tale contratto si fondava su un complesso di regole, le leggi, cui tutti dovevano sottostare in egual misura, la cui legittimità poggiava sull'assenso dei cittadini stessi.
In virtù di questo contratto che viene onorato da tutte le democrazie moderne, il dovere di osservare le leggi dello stato è subordinato all'obbligo da parte dello stato di garantire ai suoi cittadini un certo numero di diritti fondamentali.
Ciononostante, anche nei paesi più democratici, l'applicazione generalizzata di questi diritti politici è avvenuta in seguito ad una lunga serie di conflitti. In Francia, ad esempio, il diritto di voto alle donne è stato riconosciuto solo nel 1945. E negli Stati uniti, il suffragio universale esiste solo da poco più di un quarto di secolo, da quando vennero adottate leggi che garantivano, in particolare ai Neri degli Stati del Sud, l'esercizio dei loro diritti civici. A volte tali conquiste democratiche hanno comportato dei compromessi con delle forme di autorità politica tradizionali: il Regno Unito, ad esempio, rimane una monarchia senza una Costituzione scritta.
Le ultime tappe di questo processo di avanzata dei diritti di cittadinanza nei paesi dell'Europa occidentale e dell'America del Nord sono state compiute abbastanza recentemente, in concomitanza con le grandi crisi economiche, quando i "cittadini" hanno ottenuto che il contratto sociale comprendesse una serie di diritti economici e sociali nel contesto più generale di uno stato previdenziale. E' questo ampliamento ad aver garantito in Europa occidentale il mantenimento dell'ordine liberale e borghese.
Stranamente, altrove, nelle nazioni di nuova indipendenza del mondo arabo, una versione dello stato sociale sostenuta da una mobilitazione di massa ha costituito lo strumento privilegiato dell'integrazione civica, precedendo e spesso anche ostacolando lo sviluppo di una serie di autentici diritti politici. Molti regimi arabi, sia monarchici che repubblicani, hanno fatto dell'istruzione gratuita, della garanzia sociale, dell'assistenza medica e della tutela del posto di lavoro, dei veri e propri simboli d'appartenenza alla comunità nazionale.
Nello stesso tempo, però, invece di creare dei cittadini nel senso moderno del termine, questi regimi hanno prodotto dei soggetti politici per i quali godere dei propri diritti civili e sociali dipende dalla buona volontà dei loro dirigenti.

La funzione del nucleo familiare

Peraltro, con il pretesto di dare una risposta alle richieste del popolo in materia di liberazione nazionale e di giustizia sociale, i nazionalismi arabi, conservatori o progressisti, hanno spesso ignorato i diritti civili e politici dei cittadini.
In questo senso, il termine "cittadino", ripreso con orgoglio nel testo della maggior parte delle costituzioni degli Stati arabi, è usato in modo improprio. Il termine "muwatin" (traduzione corrente della parola "cittadino") sottende in realtà una connotazione del tutto diversa, in quanto designa dei soggetti politici la cui subordinazione allo stato è un dato acquisito, ma la cui fedeltà resta sempre sospetta, e per i quali la libertà è una concessione sempre provvisoria.
In tale contesto, i cittadini del mondo arabo lottano incessantemente per dar vita a forme democratiche di governo, e la loro lotta appare inevitabilmente contraddistinta dalle specificità storiche e dai dati culturali di ogni nazione.
Per anni, storici, antropologi e politologi hanno discusso dell'incapacità (o dell'assenza di volontà) da parte degli Stati arabi di creare un ambito di cittadinanza politica dotato di diritti e doveri chiaramente definiti. L'influenza dominante dei legami familiari e tribali, prevalente nell'assetto delle società e delle culture arabe, viene considerata come un fattore decisivo per spiegare tale fenomeno.
La famiglia resta di fatto il centro dell'organizzazione sociale, dell'attività economica, e della riproduzione culturale. La sovrapposizione dei modelli patriarcali tradizionali alle relazioni di autorità che esulano dall'ambito familiare, ha un'influenza evidente sulla formazione dei soggetti politici.
Certo, la crescita economica, l'industrializzazione, l'urbanizzazione e l'istruzione pubblica generalizzata, da una quarantina d'anni hanno sconvolto il ruolo del nucleo familiare in moltissime società del mondo arabo.
Nella misura in cui tali cambiamenti sono rimasti limitati, squilibrati e non pienamente realizzati, la famiglia continua a svolgere una duplice funzione fondamentale: da un lato resta un elemento essenziale di sostegno e di sicurezza, limitando i danni causati dalle difficoltà economiche, e garantendo la perennità dei valori culturali. Al tempo stesso, tuttavia, consolida le forme di autorità patriarcale e contribuisce a ostacolare l'emergere di un rapporto indipendente e adulto tra lo stato e il cittadino.
Il rapporto che esiste tra il capo famiglia, figura autoritaria e generosa al tempo stesso, e il figlio protetto, dipendente e docile, somiglia a quello che intercorre tra dirigenti e dipendenti.
Nel mondo arabo, il capo dello stato spesso è il "padre della nazione". Le prestazioni sociali legittime spesso vengono presentate come "atti di generosità personale" concessi da un capo, e non come i vantaggi collettivi accordati da un potere esecutivo.
Paradossalmente è nei paesi più progressisti che si coglie meglio questo stato di cose.
Perfino nell'Egitto di Nasser (1954-1970), modello di pianificazione socialista in un paese arabo, la distribuzione delle terre, gli aiuti alimentari e i servizi sociali vennero presentati e recepiti come doni personali concessi dal capo della famiglia nazionale a parenti bisognosi.
Con questo non si vuol dire che una forte struttura familiare sia sufficiente ad impedire lo sviluppo del concetto di cittadinanza democratica, tuttavia appare doveroso per lo meno chiedersi in quale misura una particolare struttura di dipendenza, soprattutto in un sistema politico che si deve confrontare contemporaneamente con una crisi dello sviluppo, dell'urbanizzazione, dell'istruzione, coll'eredità della dipendenza coloniale, con le attuali percezioni di una debolezza geopolitica e con una serie di culti della personalità a livello nazionale, possa rappresentare un modello per altri rapporti di autorità, contribuendo così a ritardare la crescita politica del mondo arabo.
I tenaci vincoli della solidarietà tribale, etnica e religiosa costituiscono un secondo tipo di ostacolo che si trova costretto ad affrontare chi vuole affermare una concezione moderna della nazione e della cittadinanza.
Rivaleggiando tra loro per conquistarsi la fedeltà delle popolazioni, le tribù e gli Stati-nazione producono un forte antagonismo collettivo. Storicamente la formazione dello Stato-nazione moderno, che esercita il monopolio dell'autorità coercitiva, ha gradatamente portato alla scomparsa di precedenti forme di autorità e di lealtà. Tuttavia nel mondo arabo, le grandi tribù del Nord Africa, della penisola arabica, del Nilo superiore e del deserto siriano, sono riuscite a conservare fino a molto tempo dopo l'inizio del XIX secolo vari gradi di autonomia rispetto all'autorità centrale.
Gli Stati-nazione nati dopo la partenza delle amministrazioni coloniali, hanno affrontato questo problema in due modi, entrambi certamente incompatibili con la moderna nozione di diritti di cittadinanza.
Nella maggior parte dei casi, i dirigenti arabi hanno fatto fronte alla sfida tribale con un misto di repressione e di cooptazione (matrimoni, alleanze, favori personali, istigazione alla rivalità, etc.). Dove il modello definito da Ibn Khaldoun (1) ha prevalso, lo Stato ha preso forma dalla fusione della solidarietà tribale coll'autorità centralizzata, il tutto imbevuto di una certa benevolenza paternalista e religiosa. I movimenti politico-religiosi della penisola arabica e del Nord Africa rappresentano gli esempi più chiari di tale evoluzione.
Ciononostante, in questi casi l'estendersi dell'autorità centrale si è poggiata sulla coercizione piuttosto che sul consenso del cittadino, unico criterio fondante della legittimità del contratto sociale moderno.
Il ruolo politico dell'islam costituisce un ulteriore fattore, più recente, cui ci si riferisce per spiegare la formazione dell'idea di cittadinanza nel mondo arabo. Con una frettolosa semplificazione di un processo storico particolarmente complesso, i commentatori occidentali spesso fanno osservare che in Europa la nascita dello Stato-nazione e della cittadinanza politica democratica è andata di pari passo con una secolarizzazione della politica e con una separazione di natura costituzionale tra Chiesa e Stato, evoluzione questa che non ha visto alcun corrispettivo nel mondo arabo.
I movimenti politici detti islamisti, da un lato, ma anche molti regimi conservatori, hanno viceversa preteso di fondare la loro legittimità sulla piena integrazione della religione e della politica. E i paesi che hanno cercato di incoraggiare la secolarizzazione si ritrovano su una linea difensiva, in balia dei loro insuccessi e dei risultati degli errori che hanno commesso sottovalutando l'attaccamento delle società arabe ai valori dell'islam.
I richiami di ordine religioso a un'autorità trascendentale, spesso hanno finito con il rafforzare le strutture di dipendenza contribuendo a un ulteriore ritardo nel processo di creazione di una cittadinanza politica moderna.
Nella sua veste radicale o conservatrice il richiamo all'islam può, in nome della lealtà dovuta alle tradizioni, trasformarsi in legittimazione di un ordine non democratico che serve così a ostacolare qualunque rinnovamento.



La Rivoluzione tunisina, di Mahjoob, gennaio 2011

Del buon uso dell'islam

Ciononostante, il pensiero e la pratica islamici vanno al di là dell'islamismo autoritario di oggi, e i difetti di quest'ultimo non implicano affatto che l'islam di per sé sia incompatibile con l'esistenza di diritti politici e sociali. Di fatto si può sostenere l'ipotesi che l'islamismo, oltre a interdire i vantaggi derivanti dallo sviluppo di un concetto moderno di cittadinanza, mette sotto silenzio i principi progressisti dell'islam in materia di uguaglianza e di giustizia.
Dall'islam e dai suoi valori può derivare la costituzione di uno spazio politico democratico. E nessun modello di società laica, o che prevede la separazione tra Chiesa e Stato, postula che esso ne venga escluso.
Il Corano e la Sunna enunciano d'altronde principi pienamente compatibili con l'idea moderna della cittadinanza. La shura raccomanda il dibattito e la consultazione della comunità. Nella tradizione islamica le particolari forme di questo dialogo sociale sono sempre state oggetto di dibattiti animati. La scuola più autorevole dei giuristi e dei pensatori musulmani moderni, il movimento salafia, sostiene che la shura significa oggi elezioni e parlamenti. Tale pensiero islamico raccomanda una razionale elaborazione delle nuove regole che consentiranno, ogni volta che le scritture non saranno sufficienti a determinare una certa linea di condotta, di rispondere al cambiamento economico, politico e sociale.
Infine, l'islam incoraggia la comunità a decidere, seguendo la via del consenso, quale sia il miglior modo di far progredire il bene comune. Per decenni, la maggior parte dei paesi musulmani ha definito le sue scelte politiche sulla base di queste tradizioni islamiche.
Del resto, riaffermare l'antagonismo tra religione e politica costituisce un fenomeno che non si limita al solo mondo arabo e musulmano. Lo si ritrova in paesi molto diversi, come Israele, l'India o gli Stati Uniti. L'avanzata della secolarizzazione non significa la scomparsa della religione dalla vita pubblica.
Perfino nelle democrazie occidentali avanzate, spesso essa ha costituito una forma di compromesso tra religione e politica: il Regno Unito ha conservato una religione di stato e la Germania sovvenziona i culti. Nessun modello di evoluzione sociopolitica (i sistemi dittatoriali stessi non ci sono riusciti) ha condotto alla messa al bando della religione.
Per ritornare all'islam, i suoi valori di giustizia, di eguaglianza e di comunità costituiscono delle carte vincenti per lo sviluppo di una autentica "cittadinanza". Nulla di tale religione vieta la costituzione di uno spazio politico democratico. Ed è alla costruzione di tale spazio che dovrebbero accingersi senza indugi i dirigenti arabi per cogliere le sfide di questo scorcio di secolo.

(1) Ndr: Ibn Khaldoun (1332-1406) massimo storico e filosofo del Nord Africa, nato a Tunisi, viene considerato un sociologo ante litteram delle società araba, berbera, e persiana. La sua opera principale, “Il libro delle considerazioni sulla storia degli Arabi, dei Persiani e dei Berberi”, ne fa un precursore della sociologia e un filosofo della storia.

venerdì 25 febbraio 2011

Illusioni progressiste

Rossana Rossanda
il manifesto


Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto d...i sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.

Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.

Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".

Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.

In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o, peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.

E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.

In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.

Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.

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