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mercoledì 8 dicembre 2010

La fine dell’unione

L’Europa ha smesso di essere un progetto vivo e proiettato nel futuro. Ormai è dominata dalle regole dell’economia

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Thomas Steinfeld,

Süddeutsche Zeitung, Germania

L’opinione Il carattere complesso dell’Unione europea, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza della sua contraddizione di fondo

Alla base dell’Unione europea c’è una contraddizione: ognuno dei suoi stati membri, anche la Germania, è troppo piccolo per poter essere competitivo nel mondo globalizzato. Per riuscirci, i paesi europei si sono dovuti unire e hanno dovuto creare un mercato comune per le loro aziende. È una regola che vale per tutti gli stati dell’Ue.

Ogni paese ha rinunciato a una parte della sua sovranità, e lo ha fatto per il suo interesse. In questo modo è nata una comunità in cui i diversi membri sono alleati e allo stesso tempo concorrenti tra loro. Il carattere complesso dell’Unione, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza di questa contraddizione, che per cinquant’anni è sembrata a tutti tollerabile. Questa gigantesca costruzione, però, sembra arrivata alla fine del suo percorso: due stati membri, la Grecia e l’Irlanda, hanno già smesso di essere tali perché ormai sono troppo deboli per restare in piedi da soli. Altri due, il Portogallo e la Spagna, rischiano di fare la stessa fine. È probabile che l’Unione europea non si sfalderà, ma di certo non sarà più quella che conosciamo da cinquant’anni.

Finora l’Europa è sempre stata un’idea: il progetto di una coesistenza costruita accordo dopo accordo, ma che non ha mai perso il suo carattere utopico. Anzi, al di là dei calcoli utilitaristici, sono stati proprio il sogno, i continui riferimenti al futuro, a tenere insieme l’impalcatura europea. Così la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nata nel 1950 per iniziativa di sei paesi, con gli anni si è allargata, attraverso il Trattato di Roma e quello di Maastricht, fino all’integrazione di Romania e Bulgaria nel 2007.

Tuttavia, il progetto più importante – e l’espressione più evidente della contraddizione europea – è stato l’euro: una moneta unica senza un’economia unica. Se oggi si vuole davvero salvarlo, bisogna risolvere la contraddizione di cui abbiamo detto. A questo punto è possibile che l’Europa faccia un passo importante, e fino a poco tempo fa non pianificato, verso l’unione economica. Nella storia ci sono diversi esempi di imprese simili, costate tutte tempo e violenza.

Forse oggi l’Unione europea, sempre più dominata da vincoli e regole, si trova di fronte a uno scenario del genere. Cultura e rivolta Il progetto dell’Europa unita è sempre stato caratterizzato da una certa dose di idealismo. Per questo gli europei hanno sviluppato un rapporto molto stretto con la cultura. Oltre la politica simbolica delle strette di mano tra capi di stato, dei gemellaggi tra le città e della valorizzazione delle radici storiche, anche la produzione culturale ha permesso all’Europa di alimentare una visione unitaria di sé.

Ma quando è stato che questo impulso ha smesso di avere effetti concreti? E perché? È fondamentale notare che oggi questo tipo di politica non basta più a superare la contraddizione di base dell’Unione, che si potrebbe risolvere con la creazione di uno spazio economico comune nel rispetto delle sovranità nazionali. Se la Grecia e l’Irlanda vengono messe sotto tutela, se interi paesi s’impoveriscono perché non riescono a pagare i debiti, allora la vera protagonista dei rapporti tra gli stati europei non è più la cultura comune ma l’economia con le sue regole. Queste regole, che non sono rappresentabili con gli strumenti dell’arte, pongono le basi dell’autoritarismo e delle rivolte individuali.

Il romanzo di Soi Oksanen Purgatorio (2008), il ritorno al leninismo nei testi di Slavoj Žižek e il libro francese L’insurrezione che viene sono già espressioni di una coscienza della rivolta che non fa distinzione tra destra e sinistra perché parla di differenze esistenziali e non politiche, di un “dentro” e di un “fuori”. Le manifestazioni in Grecia e in Gran Bretagna dimostrano che questa rivolta non rimarrà sul piano puramente estetico. Mentre peggiorano le condizioni di vita nei paesi più deboli dell’Unione, ed è sempre più evidente che in futuro si affermerà come soggetto politico sovrano solo chi è in grado di creare ricchezza (cioè pochissimi paesi, tra cui la Germania), le critiche si trasformano in proteste che nessuno ascolta.

Certo, per tanto tempo l’unità europea è stata un progetto civilizzatore e, fatta eccezione per la ex Jugoslavia, da 65 anni in Europa non ci sono più guerre. Ma ormai anche questo progetto sembra in crisi. I greci, che ino a poco tempo fa provavano simpatia per i turisti tedeschi, oggi non nascondono l’astio verso chi gli ha venduto frigoriferi e automobili. I tedeschi, invece, vedono nei greci soprattutto quelli che dilapidano i loro soldi. E gli irlandesi temono che la Germania possa “acquistare” il loro paese. Tutto questo dimostra non solo che l’intero progetto europeo alla fine riguarda soprattutto il denaro, ma che tutti i discorsi sulla cultura comune sono una sovrastruttura ideologica nel senso marxista del termine.

Del resto, non era stato proprio il marxismo ad affermare che l’economia è l’unico potere reale? Oggi molti condividono quest’idea, anche se nel loro pensiero non c’è traccia di marxismo. E i pochi da cui ci si aspetterebbe un giudizio su una situazione molto intricata, come Jürgen Habermas, con le loro critiche sull’“apatia delle élite politiche” forniscono interpretazioni di ordine psicologico. Oggi, però, non possiamo accontentarci di questo. Come un tempo si proponeva di fare la filosoia, dobbiamo formulare un giudizio nuovo sulla nostra epoca. ◆