The Guardian
Aberdeen è una città che ha una sola cosa in testa: il petrolio. Le strade sono tappezzate di cartelli che inneggiano alla “capitale petrolifera d’Europa”. Le vecchie case nobiliari sono diventate uffici per le grandi aziende energetiche, con le foresterie stipate di contabili e avvocati che esaminano contratti. Alla libreria WH Smith dell’aeroporto, per arrivare ai romanzi di Patricia Cornwell bisogna prima passare tra scafali zeppi di volumi sul petrolio.
Il petrolio di Aberdeen è uno dei principali motivi delle rivendicazioni indipendentiste della Scozia. All’inizio del boom del mare del Nord, i nazionalisti scozzesi sostenevano che i proventi del greggio potevano essere usati in due modi: per puntellare l’economia britannica o per modernizzare la Scozia. E si chiedevano: “Vogliamo essere scozzesi ricchi o britannici poveri?”.
La questione è stata risolta circa trent’anni fa da una signora inglese di Grantham. “Margaret Thatcher ha distrutto l’industria britannica e ha pagato i sussidi per i disoccupati con i soldi del petrolio del mare del Nord”, afferma Allan MacAskill, ingegnere petrolifero da più di trent’anni. MacAskill non è un osservatore neutrale – è iscritto allo Scottish national party (Snp) da quando
aveva 18 anni e suo fratello Kenny è ministro della giustizia nel governo di Edimburgo – ma su questo tema il suo punto di vista sembra coincidere con quello della maggior parte della gente del posto.
I movimenti nazionalisti di solito traggono la loro forza da vecchie ingiustizie o da recenti opportunità sprecate. Negli ultimi anni, però, l’Snp si è concentrato su come aumentare il suo potere invece di lamentarsi per i torti del passato. Nelle elezioni regionali del 5 maggio il partito ha conquistato il 53 per cento dei seggi a Holyrood, il parlamento scozzese, nonostante un sistema elettorale studiato apposta per scongiurare maggioranze così ampie. “La carta geografica della Scozia si è improvvisamente tinta di giallo, il colore dell’Snp”, spiega Karen, la responsabile per le relazioni esterne del partito. “Dopo la vittoria dei nazionalisti, in tv si è vista una gran quantità di gente che gridava ‘Scozia! Scozia!’”.
Quella sera stessa l’idea di una Scozia indipendente ha smesso di essere una fantasia ed è diventata una possibilità concreta. E se questa possibilità diventerà realtà lo si deciderà probabilmente ad Aberdeen. In campagna elettorale il leader dell’Snp Alex Salmond ha promesso la “reindustrializzazione del paese”, un processo che dovrà partire proprio da questa città. Ma chi sostiene che il petrolio si sta esaurendo, almeno in parte dice la verità. Una buona metà delle riserve della zona è stata già estratta e tirare fuori il resto sarà più difficile e costoso. Per questo l’Snp ha stilato un piano per sostituire l’industria petrolifera con quella delle energie rinnovabili.
A MacAskill l’idea piace a tal punto che di recente ha abbandonato il settore petrolifero per darsi all’eolico. “Qui ad Aberdeen svilupperemo le tecnologie. E le turbine le faremo costruire a Glasgow. Torneremo a creare posti di lavoro dove un tempo c’erano le nostre industrie”. Nelle sue c’è più entusiasmo che ricerca del proitto: è la risposta scozzese all’idea thatcheriana di “un futuro post-industriale”.
La rivoluzione delle rinnovabili
Per chi è stanco di sentire il leader laburista Ed Miliband e il premier David Cameron discutere dei tagli alla spesa pubblica, assistere al dibattito politico in Scozia è elettrizzante. All’arido approccio manageriale del governo di Londra, Salmond e il suo ministro delle finanze, John Swinney, contrappongono una strategia economica che punta a creare occupazione ed è anche una metafora del rinnovamento nazionale.
Questa retorica, che fa leva sul concetto di una Scozia nuovamente protagonista, sembra far presa.
Ma è allo stesso tempo un’illusione, sostengono gli scettici. Dall’altra parte della città, un gruppo di dirigenti di aziende petrolifere sta pranzando con Brian Wilson, ministro dell’energia dal 2001 al 2003 nel governo di Tony Blair. “Il nazionalismo è un’ideologia fondamentalista, che usa
l’economia per darsi una giustificazione razionale”, dice, tra i cenni di approvazione degli ospiti. “Il nazionalismo scozzese esisteva già prima dell’industria petrolifera, poi a un certo punto il petrolio è diventato la risposta a tutti i problemi. Nello stesso modo, l’Snp c’era prima delle rinnovabili, e oggi Salmond dice di voler trasformare il mare del Nord ‘nell’Arabia Saudita dell’eolico’”. Il mio vicino di tavolo cita uno studio in cui si sostiene che le rinnovabili porteranno solo cinquemila nuovi posti di lavoro nel nordest della Scozia: con queste cifre è difficile parlare di rinascita economica.
In efetti la rivoluzione dell’energia pulita non è ancora visibile. Ci sono stati degli stanziamenti per un parco eolico e si parla di un polo manifatturiero verde nel vecchio cantiere petrolifero di Nigg, a Cromarty Firth. Ma il progetto più ambizioso degli ultimi tempi è stato il campo da golf da un miliardo di sterline costruito a Balmedie da Donald Trump.
Tutto questo spiega chiaramente il grande problema economico che devono affrontare i nazionalisti: negli anni settanta e ottanta il loro obiettivo era capire come spendere al meglio i proventi del greggio; oggi devono trovare nuove fonti di ricchezza per un futuro post-petrolifero. Negli anni novanta i nazionalisti hanno puntato sulla tecnologia. Ma quando le imprese straniere hanno abbandonato la Silicon Glen (il settore delle nuove tecnologie in Scozia) e si
sono spostate in Asia, ventimila persone hanno perso il lavoro. Poi è stata la volta della finanza: Edimburgo doveva diventare la Zurigo scozzese. Ma alla ine è arrivato il fallimento della Royal Bank of Scotland. “Sarebbe sbagliato dire che l’Snp va dove tira il vento”, osserva Brian Ashcroft, economista della University of Strathclyde. “Ma certo le ha provate tutte”.
Regole e finanza
In questo momento, tuttavia, i petrolieri sono infuriati soprattutto per la decisione del ministro dell’economia britannico George Osborne di aumentare le tasse sui profitti del mare del Nord. “Londra si comporta come un padrone di casa assente che si limita ad aumentare l’affitto agli inquilini”, dice uno dei commensali tra mormorii di approvazione. È questo il vero cuore economico delle rivendicazioni indipendentiste scozzesi. L’Snp promette che l’autodeterminazione porterà a un governo più snello e più vicino ai cittadini, attento a sviluppare l’industria locale. Ma sarà davvero così? Per scoprirlo, parlo con Graeme Bell, presidente della Green Ocean Energy e testimonial perfetto per la nuova politica energetica di
Salmond. Lo scambio di battute parte con la domanda più ovvia: cosa vi darebbe Edimburgo che Londra non può darvi? “Regole più chiare”, risponde Bell. Ma anche Holyrood, come Westminster, può approvare regole confuse, ribatto. “Più inanziamenti per lo sviluppo delle
nuove tecnologie”. Ci sono un sacco di soldi anche a Londra e a Dubai. “Speriamo di avere accesso alla Green Investment Bank”. Cioè l’istituto di credito creato dal governo britannico?
Ho quasi vinto, ma Bell mi sorprende di nuovo. “A volte c’è bisogno che succeda qualcosa per rimettere in moto le persone e far ripartire l’economia”. E questo qualcosa potrebbe essere la separazione da Londra? “Magari sì. Non ho mai visto un rapporto che mostri i costi e i beneici dell’indipendenza, ma ho il sospetto che per noi il bilancio sarebbe leggermente in attivo”.
Per fare un’analisi costi-beneici ci vuole un economista. In un cafè della University of Edinburgh sottopongo la sfida di Bell a un gruppo di studiosi. Simon Clark, capo del dipartimento di economia dell’ateneo, osserva che il denaro non può essere il fattore decisivo nella questione dell’indipendenza. “Sarebbe come diventare monarchici per motivi economici”. Ma se la Scozia
tagliasse i ponti proprio adesso, come funzionerebbe la sua economia? Più o meno come quella del resto del Regno Unito.
Nel dibattito sulle conseguenze economiche dell’indipendenza non si sottolinea a sufficienza il fatto che sono Londra e il sudest, con il suo turbocapitalismo e la stretta sulle finanze pubbliche, la vera anomalia nel panorama nazionale. In Scozia il settore pubblico pesa un po’ di più che nel resto del paese: assorbe il 25 per cento della forza lavoro contro una media nazionale del 21 per
cento. L’economia scozzese è più fiacca: tra il 1997 e il 2007 è cresciuta in media del 2 per cento all’anno contro il 2,4 per cento complessivo del Regno Unito. Non sembrerà molto, ma con il passare degli anni il divario accumulato diventa significativo.
Verso il modello basco
Quello di cui non si discute mai nei dibattiti tra gli economisti è se una Scozia indipendente possa essere autosufficiente dal punto di vista delle finanze. In parte ciò è dovuto al fatto che i termini di un’eventuale separazione sono vaghi: che percentuale dei proventi del petrolio andrebbe a Edimburgo? Quanta parte del debito pubblico Londra scaricherebbe sulla Scozia? Quale moneta adotterebbe il paese? Ma il motivo è anche un altro: l’idea, cara ai tabloid, che gli
scozzesi vivano alle spalle dei sussidi di Londra non è del tutto vera.
Secondo gli ultimi dati resi noti da Holyrood, tra il 2008 e il 2009 in Scozia il gettito fiscale generato a livello locale ha superato la spesa pubblica di 1,3 miliardi di sterline. Il surplus, pari a meno dell’1 per cento del pil scozzese, non è grandissimo, e comprende una buona parte dei ricavi petroliferi del mare del Nord. Se si escludesse il greggio, il paese avrebbe un disavanzo di
10,5 miliardi di sterline, circa il 9 per cento del pil. Se questi fossero i conti di casa nostra, nessuno di noi vorrebbe dipendere da una fonte di reddito così variabile.
L’altra questione che preoccupa gli economisti di Edimburgo è quale modello industriale adottare per una Scozia indipendente. A differenza di Graeme Bell, Stuart Sayer non crede che l’indipendenza in sé cambierebbe molto: “È come la medicina degli stregoni. Se ci credi, può fare meraviglie, ma non può essere certo l’unica cura”. Se ci affidiamo alla metafora di Sayer, allora
il principale stregone è Stephen Noon, l’uomo che ha stilato il programma dell’Snp alle ultime elezioni. Quando lo incontro a George Street, nel centro di Edimburgo, Noon invoca un maggiore spazio di manovra per l’esecutivo locale: “Se avessimo un governo indipendente, potremmo intervenire subito invece di limitarci a fare pressioni su Londra”. Altri soldi, inoltre, arriverebbero dalle tasse che oggi riscuote Westminster ma che spettano alla Scozia. “Londra incassa centinaia di milioni dall’affitto dei fondali marini del Regno Unito alle imprese ofshore.
Quei soldi potrebbero essere nostri”. La tesi secondo cui Edimburgo avrebbe in mano un tesoretto fiscale è ben nota a Michael Keating, professore di scienze politiche alla University of Aberdeen. Come spiega Keating, nel sistema di devolution in vigore Londra raccoglie gran parte delle risorse riservate alla Scozia e poi le affida a Edimburgo. Non a caso oggi Salmond chiede una soluzione simile a quella adottata nel Paese Basco. Secondo questo sistema, la maggioranza del carico fiscale sarebbe riscossa a livello locale, mentre Edimburgo pagherebbe Londra per
servizi come la difesa e le ambasciate. Oggi, invece, la Scozia ha la stessa autonomia fiscale di un adolescente che prende la paghetta. Il risultato, dice Keating, è un movimento nazionalista che strizza l’occhio sia al modello svedese, basato su una forte spesa pubblica, sia a quello irlandese,
basato su una tassazione per le imprese molto bassa. “Questa è economia voodoo”, commenta. Ma è anche politica voodoo.
L’Snp è un partito allo stesso tempo di destra e di sinistra: riunisce politici molto più a sinistra del Labour e grandi imprenditori come George Mathewson, ex presidente della Royal Bank of Scotland. Nella hall di un albergo davanti a Holyrood, Mathewson mi spiega che “l’indipendenza è il modo migliore per curare la ‘cultura della dipendenza’ di cui soffre la Scozia. Se il paese
smetterà di prendere soldi da Londra, forse anche la gente la pianterà di chiedere sussidi allo stato”. Anche la sinistra del partito, del resto, è d’accordo sul fatto che la separazione renderebbe la Scozia più produttiva.
Secondo i sostenitori di questa tesi, il paese che ha dato i natali ad Adam Smith e a David Hume avrebbe ancora le tre T: talento, tecnologia, tolleranza. Una sorta di Catalogna più fredda ma ugualmente dinamica.
C’è però un problema, che potremmo chiamare la rivincita della geografia. L’Snp ha passato decenni a sostenere che anche le nazioni piccole possono farcela da sole: grazie al commercio e alla tecnologia, per esempio, Svezia, Danimarca e Norvegia sono riuscite a tenere il passo dei paesi più grandi. Poi però è arrivata la crisi finanziaria.
Negli ultimi due anni i piccoli paesi alla periferia dell’Europa – dall’Irlanda alla Grecia fino al Portogallo – hanno assistito a un’emorragia di capitali e si sono salvati grazie agli aiuti internazionali, concessi a condizioni rigidissime. “Chi si prenderà cura della Scozia quando le cose si metteranno male?”, si chiede Clark. L’Snp non si è mai posto un problema simile.
Anche se le tesi dei nazionalisti possono essere contraddittorie e a volte esasperanti, l’Snp rimane uno dei movimenti politici più vitali in circolazione. A differenza dei partiti di Westminster, che ripetono a pappagallo la lezioncina del pareggio di bilancio, i nazionalisti scozzesi riconoscono la necessità di ripensare il modello economico del loro paese. E non si vergognano di farsi chiamare socialdemocratici.
James Robertson è uno scrittore, e il suo romanzo And the land lay still è un’ottima guida per capire la politica scozzese contemporanea. Lo incontro a Dundee, un tempo grande centro tessile e oggi intenzionata ad affidare le sue speranze di rinascita alla cultura. “Quando i nazionalisti si lamentano del fatto che la Scozia è bistrattata da Londra, dicono sciocchezze. Ma queste
recriminazioni hanno un significato preciso per la gente di qui, che ha visto scomparire le industrie e i posti di lavoro”, dice. Il punto è che lo stesso vale anche per tanti altri posti
della Gran Bretagna, da Newcastle a Birmingham.
La Scozia è una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito. Ha 5,1 milioni di abitanti e
nel 2009 ha avuto un pil pro capite di 20.080 sterline (circa 22.500 euro), contro una media
britannica di 20.520 sterline. Il paese si è unito all’Inghilterra con l’Atto di unione del 1707, che
ha segnato la nascita del regno di Gran Bretagna e la fusione dei parlamenti scozzese e inglese.
Nel 1998 il parlamento britannico ha votato lo Scotland act, che ha trasferito alcuni poteri a
Edimburgo e ha istituito il parlamento scozzese. Le prime elezioni si sono svolte nel 1999.
Nel voto del 5 maggio 2011 i nazionalisti dello Scottish national party (Snp) hanno ottenuto la
maggioranza assoluta. Dopo la vittoria, il leader Alex Salmond ha parlato della possibilità di indire un referendum sull’indipendenza del paese.