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venerdì 15 luglio 2011
Partito «sardo», l'aggettivo non basta
A ogni nuova legislatura, arrivavano nella capitale del Regno alla spicciolata, gli undici eletti sardi del Parlamento nazionale, dopo un viaggio interminabile, chi sbarcava a Genova, chi a Livorno, chi a Civitavecchia. Poi, una dopo l'altra, si susseguivano le sedute, per lo più spese dai sardi nel silenzio, e arrivava immancabile l'angosciosa domanda: che ci faccio qui? Si rispondevano che il loro compito più importante era difendere gli interessi sardi.
Seguiva la dolorosa constatazione che, in Parlamento, gli interessi isolani non contavano nulla e che il massimo che si poteva sperare era strappare una commissione d'inchiesta destinata a rivelare agli italiani ciò che i sardi sapevano benissimo e cioè che in Sardegna si moriva di fame. Già circolava nella seconda metà dell'Ottocento la prima idea di “partito dei sardi”, ma ogni volta l'idea non aveva seguito, di fronte alla constatazione che non solo quel partito era ben difficile da costruire ma che anche se lo si fosse costruito poco o nulla avrebbe potuto di fronte a un sistema di alleanze tra interessi forti (piemontesi, lombardi, toscani, siciliani) che teneva la Sardegna ai margini estremi.
Una scorciatoia sembrò trovarla il più brillante dei parlamentari sardi dell'età liberale, Francesco Cocco-Ortu. Divenuto ministro fece in modo che il governo finalmente pensasse alla Sardegna. La legislazione speciale, promossa da Cocco-Ortu, toccava il nodo decisivo del sottosviluppo dell'isola finanziando una serie di interventi pubblici che costituirono la premessa del grande sviluppo idroelettrico degli anni Venti. Commentò qualcuno in quegli anni, che dove il potenziale e fantasmatico “partito dei sardi” aveva fallito, aveva invece avuto successo il singolo uomo politico sardo, grazie sopratutto alla sua personale capacità di integrarsi nel gruppo dirigente liberale nazionale.
Comunque fosse, la guerra spazzò via il sistema stesso che aveva reso possibili i successi del coccortismo. Il nuovo “partito dei sardi” nacque fuori dal Parlamento (e per certi aspetti contro di esso) nelle trincee. La grottesca autocandidatura al macello promossa dalla pagine de L'Unione Sarda - “I Sardi ottimo materiale di guerra”, titolava il quotidiano nella primavera del 1915 - fu presa tragicamente sul serio dagli stati maggiori italiani, e di sardi nel corso della guerra ne morirono molti. Nacque però, con la guerra, un vero partito dei sardi. Con l'avvento del fascismo, l'idea che i sardi potessero esprimere una loro rappresentanza politica non fu cancellata del tutto, esprimendosi anche attraverso quella peculiarissima esperienza che fu il sardo-fascismo.
Ciò spiega come la ripresa democratica trovasse il sardismo politico più vitale che mai, anche se profondamente lacerato al suo interno. Da quel momento, attraverso vicende diverse sia sotto il profilo delle alleanze sia sotto quello elettorale, il reale punto di forza del sardismo rimane la capacità di diffusione al di là dei suoi confini per così dire naturali e storici. La stagione più feconda della vicenda del Pci sardo nel secondo dopoguerra è legata al nome di due suoi dirigenti, Renzo Laconi e Umberto Cardia, che si sono spesi, anche attraverso scritti e ricerche di notevolissimo spessore intellettuale, per reinventare, in chiave sardista, le ragioni e le prospettive del comunismo sardo.
A questa esperienza, come anche all'esperienza del Psd'Az di Mario Melis, dovrebbero riandare non solo i partiti di sinistra e di centro sinistra ma tutti i partiti impegnati ora, come si legge, a una corsa a chi per per primo mette il distintivo di “partito dei sardi”. Si vorrebbe insomma che non ci si limitasse a usare l'aggettivo “sardo” a scopi di marketing elettorale. Una cosa è cercare di vendere un'acquavite dicendo che è sarda, altra cosa fare un partito. Un progetto in questo senso deve ritrovare le sue radici, chiarire le sue ragioni, affrontare problemi politici e istituzionali. Insomma, tutti siamo d'accordo che “sardo è bello”. E poi?