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martedì 2 agosto 2011

IL SEME SOTTO LA NEVE

di Francesco Codello
libertaria



Un anarchico pragmatico, questa era la definizione ricorrente di Colin Ward
morto l’11 febbraio.Inglese,nato nel 1924, architetto, insegnante, giornalista
e scrittore ha pubblicato oltre trenta libri di argomento politico, urbanistico
e pedagogico.Ward è una figura di primo piano dell’anarchismo.I suoi libri
pubblicati in italiano: Anarchia come organizzazione (1996), Dopo
l’automobile (1992), Acqua e comunità (2003),L’anarchia. Un approccio
essenziale (2008), Conversazioni con Colin Ward (a cura di David Goodway,
2003) tutti pubblicati da Elèuthera. E La città dei ricchi e la città dei poveri
(1998), Il bambino e la città (2000).Mentre il Bollettino dell’Archivio
G. Pinelli (supplemento al n.30) ha pubblicato L’anarchismo pragmatico
di Colin Ward. Qui ne tratteggia la figura e il pensiero Francesco Codello,
dirigente scolastico a Treviso, autore di Educazione e anarchismo (1995),
La buona educazione (2005),Vaso, creta o fiore? (2005), Né obbedire
né comandare (2009) e Gli anarchismi (2009)


«Come si reagirebbe alla scoperta che la società in cui si vorrebbe realmente vivere c’è già (…), se non si tiene conto, ovviamente, di qualche piccolo guaio come sfruttamento, guerra, dittatura e
gente che muore di fame? Questo libro vuol proprio dimostrare che una società anarchica,
una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle ingiustizie, del nazionalismo e delle sue lealtà suicide, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni» [1].

In questa citazione è compendiata tutta la ricerca a cui Colin Ward [2] ha dedicato la vita di
attento indagatore della società con l’intento di dimostrare che l’anarchia non è una visione,
basata su congetture, di una società futura, quanto piuttosto un modo del tutto umano di
organizzarsi, ben radicato da sempre nella concreta esperienza della vita quotidiana, che funziona a fianco delle tendenze spiccatamente autoritarie della nostra società e nonostante
quelle.

La domanda che fin dal 1961 Ward si pone è se, come anarchici, si è sufficientemente rispettabili (Anarchism and Respectability, 1961), vale a dire se la qualità delle idee e proposte libertarie
sono meritevoli di rispetto, in quanto suggeriscono concrete soluzioni libertarie ai problemi
del vivere sociale, da preferirsi a quelle autoritarie.
Uno degli aspetti più interessanti e nuovi (nel panorama anarchico) è costituito dal fatto che
tra gli oltre venti libri da lui scritti (senza contare l’enorme numero di articoli pubblicati in
una varietà di periodici non solo libertari), solo due sono esplicitamente riferiti all’anarchia,
mentre tutte le sue ricerche sono indirizzate a un’ampia gamma di problematiche sociali
(educazione, urbanistica, politica, architettura, costumi e comportamenti sociali, economia...)
utilizzando sempre fonti e studi, oltre che esperienze, di provenienza e orientamento culturali
vari.

Ward scriveva infatti già nel 1958: A mio modo di vedere la caratteristica più saliente del «libro che non c’è» sul movimento anarchico del ventesimo secolo non dovrebbe tanto essere il superamento delle concezioni proprie ai pensatori classici dell’anarchismo, Godwin, Proudhon, Bakunin, Kropotkin, ma la rielaborazione che ne è stata fatta, la loro estensione ad ambiti più vasti. Si è trattato di un processo selettivo che ha respinto il perfezionismo, la fantasticheria utopistica, il romanticismo cospirativo, l’ottimismo rivoluzionario, prendendo dai classici dell’anarchismo le idee più valide, non quelle più discutibili… E vi ha infine inglobato l’apporto concreto offerto dalle scienze sociali del nostro secolo, in particolare dalla psicologia e dall’antropologia, oltre che dall’evoluzione tecnica [3].

Le influenze culturali anarchiche e libertarie
Per sua stessa ammissione Colin Ward dichiara che questo quesito e questa idea dell’anarchia
non è nuova nel panorama dei pensatori e nella storia dei movimenti libertari, ma è stata sicu-
ramente poco ripresa e non sviluppata, al di fuori di qualche intuizione peraltro minoritaria. Si può quindi sostenere che essa rappresenta un’idea sostanzialmente originale e diviene una sfida nuova con cui misurarsi.

Lo stesso Ward individua in alcuni autori i suoi punti di riferimento principali, senza tralasciare gran parte della tradizione storica dell’anarchismo stesso, ma cercando di privilegiarne quegli elementi non obsoleti o chiaramente insoddisfacenti.
Le principali influenze culturali (non le uniche ovviamente) verso le quali si sente debitore, ce
le ricorda egli stesso, e sono quelle di William Godwin e Mary Wollstonecraft per l’educazione, Alexander Herzen per la politica, Pëtr Kropotkin per l’economia, Martin Buber per la sociologia, William Richard Lethaby e Walter Segal per l’architettura, Patrick Geddes e Paul Goodman per la pianificazione urbanistica [4].

Accanto a questi riferimenti, diciamo originari, egli assume e sviluppa molte altre indagini e ricerche, privilegiando quegli studi più originali e attuali in grado di portare dati e riscontri certi
alla sua tesi di fondo. Infatti nelle varie bibliografie che accompagnano i suoi scritti sono molto più citati autori e ricercatori che nulla hanno a che fare con l’anarchismo, ma che hanno indagato a fondo aspetti diversi di un problema, arrivando a conclusioni che possono
essere utilmente e facilmente portate a suffragio di una visione libertaria.

Il pensiero di Colin Ward arriva in Italia grazie soprattutto a pochi anarchici riuniti attorno al-
l’esperienza dei Gaf (Gruppi anarchici federati) e in particolare alla rinnovata gestione delle
Edizioni Antistato (curata da Amedeo Bertolo e Rossella di Leo) e alla rivista Volontà (diretta da
Luciano Lanza). Saranno proprio questi e pochi altri anarchici che accoglieranno con piacere la
sfida innovativa che l’anarchico inglese aveva lanciato fin dagli inizi degli anni Sessanta attra-
verso, soprattutto, le pagine di quella indimenticabile rivista che è stata Anarchy [5].

1. Colin Ward, Anarchy in Action, (1973) ora Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano, varie edizioni, qui 2006.
2. Per una biografia intellettuale di Colin Ward vedi: David Goodway, Conversazioni con Colin Ward. Lo sguardo anarchico, Elèuthera, Milano, 2003; Stuart White, Un anarchismo rispettabile?, Bollettino Archivio Pinelli, n. 30, Milano, 2007; Francesco Codello, La lezione di Colin Ward, in A rivista anarchica, Milano, n. 2/2010; Id., Il seme sotto la neve. Intervista a Colin Ward, in Libertaria, Milano, n. 3/2001. David Goodway, Anarchist Seeds Beneath the Snow, Liverpool University Press, Liverpool, 2007, pp. 309-325.
Alla Colonia Berneri. Colin Ward nel 1952 in visita alla colonia marina fondata da Giovanna Caleffi, la vedova di Camillo Berneri, con Cesare Zaccaria a Piano di Sorrento nel 1951 nel nome della figlia MariaLuisa morta nel 1949. Un’esperienza che si chiude nel 1957
3. Colin Ward, The Unwritten Handbook, in Freedom, Londra, 28 giugno 1958.
4. Cfr.: Colin Ward, Influences. Voices of Creative Dissent, Green Books, Bideford, 1991.
5. Sulla esperienza di Ward (fondatore) alla rivista Anarchyvedi l’introduzione dello stesso al volume da lui curato, A Decade of Anarchy (1961-1970), Freedom Press,
Londra, 1987. Il volume contiene una scelta di articoli dalla rivista su vari argomenti di diversi autori.
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjG8QcWlmIOUm0ZNraETYFomNQoKmnAGisT2HcqQBFFor-n1Oov_AxeTIPmqsSkN5mblE8vkbzEIC8fc3q5IjRBklOlWdPvlLhkNyLQXlpOBRCpcDtz7egaPB7kZ5P43rMLKnYdRkuGc0/s660/untitled.bmp

Il tesoro delle corporation

de su espressu
espresso

I colossi americani del business hanno accumulato un milione e mezzo di miliardi di dollari di guadagni all'estero. Vogliono farli rientrare per rilanciare l'economia in cambio di uno sconto fiscale. Ma Obama nicchia. Perché teme che ci sia un trucco

LA PROPOSTA DELLE MULTINAZIONALI AMERICANE E' LA STESSA CHE HANNO OTTENUTO QUELLE ITALIANE DA TREMONTI: PAGARE IL 5% DEL CAPITALE ANZICHE' IL 35% PER FAR RIENTRARE I CAPITALI IN USA...


Il terreno fu sondato da una coppia d'eccezione: l'amministratore delegato di Cisco Systems John Chambers e il presidente di Oracle Safra Catz. I due decisero di uscire allo scoperto il 20 ottobre dell'anno scorso con un articolo a loro firma sul Wall Street Journal. Esordirono dicendo che era loro intenzione dare una mano a Barack Obama per far ripartire l'economia e accelerare la creazione di nuovi posti di lavoro.
Come? L'idea era semplicissima.

Leggete Chambers e Catz: "C'è un trilione (un milione di miliardi, ndr) di dollari che le società americane hanno guadagnato nelle loro operazioni all'estero e che potrebbe essere riportato negli Stati Uniti. Quel denaro, una volta rientrato, potrebbe essere investito per creare posti di lavoro nel Paese, per rinforzare il patrimonio delle aziende, per la ricerca e lo sviluppo, e in altro ancora". Beh, che cosa aspettano le multinazionali che hanno tutti questi soldi inutilizzati all'estero a portarli a casa per creare altra ricchezza e uscire ancora più velocemente da una stagione di crisi?

Siamo pronti, annunciarono Chambers e Catz. Ma...c'è sempre un ma in queste storie. Continuate a leggere l'op-ed pubblicato dal Wall Street Journal: "Per le società americane far ritornare a casa questi guadagni significa incorrere in una significativa sanzione: ovvero, pagare una tassa del 35 per cento. Questo vuol dire che le società americane possono, senza tante conseguenze, utilizzare i loro guadagni esteri per investire in qualsiasi Paese del mondo, eccetto che negli Stati Uniti". La legge degli Stati Uniti prevede che i profitti che le società americane fanno all'estero siano tassati solo nel momento in cui vengono portati a casa: fino a che stanno fuori il fisco non li può toccare.

Se quella dell'ottobre scorso fu l'apertura degli amministratori delegati e dei presidenti delle multinazionali made in Usa, mercoledì 15 giugno 2011 si è svolto a Washington un convegno dove una moltitudine di manager ha reso pubblica la proposta che, in via riservata, era stata presentata al presidente Obama e al Segretario al Tesoro Timothy Geithner sotto il nome di "Repatriation Holiday", la festa del rimpatrio. Noi portiamo a casa i soldi che adesso sono nelle casseforti delle nostre società estere diventando così i protagonisti di un nuovo stimolo all'economia e il governo ci regala un bello sconto fiscale. Quanto? Dal teorico 35 per cento, che è la aliquota prevista per la Corporation tax, al 5 per cento, 30 punti in meno, ovvero una montagna di denaro in più a disposizione delle multinazionali.

La Casa Bianca non ha risposto né sì né no. Obama ha detto: "Se ne parla solo quando l'intera materia fiscale sarà affrontata". Ovvero, scordatevi un regalo così grande fino a quando i repubblicani insistono per mantenere in vita gli sconti fiscali a coloro che guadagnano più di 250 mila dollari e rifiutano ogni accordo sui tagli di bilancio e sulla manovra fiscale che servono a porre il governo al riparo di un sicuro default se non si alza il tetto del deficit programmato. E dimenticate ogni Festa del Rimpatrio mentre milioni di americani non hanno lavoro o sono alle prese con seri problemi di bilancio familiare. Sulla scia di Obama si è messo il ministro Geithner.

Ma come, le aziende private offrono una sponda al governo dicendosi pronti a riportare i soldi fermi all'estero per iniettarli nel sistema economico interno e la Casa Bianca non afferra al volo l'occasione? Obama è affetto da cecità ideologica? Eppure si tratta di una montagna di dollari. Molti di più di quelli di cui avevano parlato nel loro articolo Chambers e Catz. All'estero, secondo i dati del Tesoro, ci sono un trilione e mezzo di dollari. Se si scorre un primo, parziale elenco delle società, è come fare l'appello del fior fiore dell'economia americana. La Pfizer e la Merck, giganti della farmaceutica hanno all'estero rispettivamente 48 e 40 miliardi di dollari, Johnson & Johnson 37, Citigroup 32, la Ibm 31, Procter & Gamble 30, PepsiCo 26,6, Hewlett-Packard 21,9, Coca-Cola 20,8, Google 17,5, Bristol-Myers Squibb 16,4, Oracle 13, DuPont 12,6, Apple e Dell 12,3 ciascuna, Intel 11,8, McDonald's 11, Morgan Stanley 5,1 miliardi di dollari.

Quando però l'enfasi della proposta, l'eccitazione della battaglia lobbystica e i fuochi d'artificio dell'elenco di miliardi di dollari in attesa di rientrare si posano come la sabbia dopo una tempesta di vento, le cose appaiono naturalmente un po' diverse. Basta guardare alla storia recente degli Stati Uniti. Senza andare troppo lontano nel tempo, ma fermandosi all'ottobre del 2004. Alla Casa Bianca c'era George W. Bush al quale le grandi corporation fecero la stessa proposta che hanno avanzato oggi a Obama. Condita sempre dalla previsione che il denaro avrebbe finito per creare nuovi posti di lavoro e sarebbe stato massicciamente investito in ricerca e sviluppo e in nuovi impianti. Bush e i suoi ministri, la stessa pattuglia che non ha mosso un dito contro le deviazioni della finanza che hanno portato l'America e il mondo al collasso economico del 2008, applaudirono e si adoperarono perché fosse varata una legge apposita per abbattere l'aliquota fiscale dal teorico 35 per cento all'effettivo 5,25 per cento (in realtà, tra deduzioni, semplificazioni, codicilli vari le società americane pagano una corporate tax che si aggira sul 27 per cento). Una volta approvato il super sconto fiscale, le cose andarono in modo molto differente.

Lo ha raccontato al New York Times Kristin J. Forbes, professoressa di economia alla Sloan School of Mangement del Mit e che ha guidato un gruppo di studio sugli effetti del Repatriation Holiday per conto del National Bureau of Economic Research. Premessa, la professoressa Forbes non è accusabile di partigianeria anti azienda e anti repubblicana, visto che è stata nel Council of Economic Advisers di W. Bush: "Per ogni dollaro riportato a casa, non è stato speso neanche un centesimo in nuovi impianti, ricerca e sviluppo, nuove assunzioni o aumenti di stipendio".

Dunque, una presa in giro in salsa patriottica, quella delle multinazionali. Continuando la lettura del rapporto della Forbes, si scopre che hanno utilizzato il denaro per riacquistare azioni proprie, per distribuire dividendi agli azionisti e per premiare i manager di vertice con bonus in contanti e stock option. C'è chi - è il caso della Merck - ha approfittato del rientro di capitale per ristrutturare l'azienda, licenziare migliaia di lavoratori e tacitare una class action miliardaria di clienti cui era stato venduto un farmaco che aveva creato più problemi che curato malattie.

Visto così, il niet di Obama assume un sapore diverso. Ma in questa storia c'è anche un personaggio che gioca due parti in commedia. E' Jeffrey Immelt, l'amministratore delegato della General Electric, la multinazionale delle multinazionali, la società che paga in assoluto meno tasse di tutti in America grazie a una costante e martellante azione di lobby che consente di ridurre i profitti interni ed esteri con mille cavilli fiscali. Immelt non è solo il numero uno della Ge: a gennaio è stato chiamato da Obama alla testa del Council for Jobs and Competitiveness. E allora ha provato a formulare una proposta intermedia: vuole il Repatriation Holiday, ma sostiene che il denaro che rientra andrebbe utilizzato per creare una grande banca privata specializzata in prestiti finalizzati alle infrastrutture del Paese. La proposta è caduta nel disinteresse generale delle grandi corporation e qualche amministratore delegato si è chiesto se Immelt fosse stato colpito da improvviso statalismo acuto.

Adesso tutto è fermo, l'opinione corrente è che fino alle prossime elezioni presidenziali (novembre 2012) non accadrà nulla. Ma chi ha cominciato questa battaglia non intende per nulla arrendersi. Anzi ha deciso di cominciare a fare sul serio pressione sull'amministrazione. La Cisco Systems ha annunciato il 21 luglio che è pronta a ridurre il personale di 6.500 unità, 4.500 licenziati il resto in pensione anticipata volontaria.

Quanti altri faranno come il ceo John T. Chambers per far cambiare opinione a Barack Obama?

http://www.zerohedge.com/sites/default/files/images/user5/imageroot/draghi/Cash%20vs%20UST.jpg