Home

sabato 31 maggio 2014

L'UE HA LA SOLUZIONE PER USCIRE DAI SETTE ANNI DI VACCHE MAGRE: METTERE NEL PIL IL VALORE DELLO SPACCIO DI DROGA DELLE VARIE MAFIE E PUSHER, E LA PROSTITUZIONE DEI PAPPONI ...

L'UE HA LA SOLUZIONE PER USCIRE DAI SETTE ANNI DI VACCHE MAGRE: METTERE NEL PIL  IL VALORE DELLO SPACCIO DI DROGA DELLE VARIE MAFIE E PUSHER, E LA PROSTITUZIONE DEI PAPONI ... VI CHIEDERETE MA NON E' ILLEGALE?  
movisol

OLLI REHN: una striscia anche a me, altrimenti m'incazzo!

Il 23/05/14- Comincia a far notizia l'imminente adozione da parte dell'ISTAT delle indicazioni europee in fatto di contabilità economica nazionale. Si tratta della geniale trovata degli esperti di Olli Rehn, votata e approvata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo, di gonfiare il PIL contando anche le attività illegali come il traffico della droga, il contrabbando e i "servizi della prostituzione".

Chi finora avesse nutrito dubbi sul nostro monito, e cioè che l'UE sta riflettendo sempre più le caratteristiche di un impero, non ha più ragione di continuare.

Né di lasciarsi ingannare dal sofisma fedelmente riportato dal Sole 24 Ore pochi giorni fa: "lo stesso concetto di attività illegale può prestarsi a diverse interpretazioni". (vedi)

Pensato principalmente per gonfiare le cifre e nascondere la bancarotta, il nuovo sistema di contabilità prevede anche una maggior considerazione per le spese per la Ricerca e Sviluppo, da considerarsi come "spese di investimento e non più componente dei costi intermedi", ma la più generale politica ecologista "20-20-20" non aiuterà certamente l'Europa a ritrovare la via della ripresa economica.

Pubblichiamo un articolo risalente al 6 febbraio 2014 dell'edizione italiana dell'EIR Strategic Alert.

L'UE dà un nuovo significato al termine "PIL drogato"

Dal prossimo ottobre l'ente statistico spagnolo INE includerà il reddito della prostituzione, dello spaccio di droga e del contrabbando nel calcolo del PIL. Secondo El Diario del 20 gennaio, ciò aumenterà il PIL di dieci miliardi, circa l'un per cento.

Ma la Spagna non è un caso isolato. Nel 2016 tutti gli stati membri dell'UE saranno chiamati a conteggiare l'economia illegale nel PIL. Eurostat ha pubblicato istruzioni tecniche su come calcolare il "valore" di tali attività criminali, che per loro stessa natura non sono registrate. Eurostat raccomanda che le cifre sulla prostituzione (da includere nei "servizi") siano calcolate dal lato dell'"offerta", e il traffico di droga dal lato della "domanda".

Sorge spontanea la domanda: quando c'è un sequestro di droga, si calcola una riduzione del PIL o del "valore aggiunto"?

Ci si chiede a quale scopo calcolare tali attività. Poiché le riforme imposte dalla Troika hanno distrutto invece che migliorare le finanze pubbliche, e l'economia non cresce, i geniacci dell'UE hanno pensato di far ricorso ad un trucco statistico per abbellire le cifre. Se il PIL aumenta grazie all'economia illegale, il livello di indebitamento pubblico sembra più basso.

Secondo eldiario.es, Eurostat raccomanda che gli stati membri si limitino a calcolare le transazioni illegali fatte sulla base del "consenso delle parti". Le rapine quindi vanno escluse. Ma uno dei più noti "economisti quantitativi" spagnoli e capo della fondazione delle casse di risparmio (Funcas), Angel Laborda Peralta, sostiene che il traffico di esseri umani vada incluso, perché comporta "una transazione economica".

Uno studio del Parlamento europeo intitolato Il mercato illecito della droga. Come misurare le droghe illegali nel quadro della contabilità nazionale. Il caso dell'Italia, pubblicato nel 2008, afferma che il sistema di contabilità europeo (ESA95) suggerisce che "tutte le attività produttive (sic) dovrebbero essere incluse nella contabilità nazionale, a prescindere dal fatto che siano legali o no". Ne segue che, secondo la malata logica monetaristica, la prostituzione e la tossicodipendenza sono "produttive".

Alain de Benoist: "sull'Europa...

sadefenzablog
Alain de Benoist
Signore e signori, amici cari,ancora un quarto di secolo fa, l’Europa appariva come la soluzione a tutti i problemi.

Oggi viene invece percepita come un problema che va ad aggiungersi agli altri. 

Per effetto della disillusione piovono critiche da ogni dove, e alla commissione europea si rimprovera di tutto e di più: di moltiplicare i contrasti, d’ingerire in questioni che non le competono, di voler punire chiunque, di paralizzare le istituzioni, di essere organizzata in maniera incomprensibile, di mancare di legittimità democratica, di annientare la sovranità dei popoli e delle nazioni, e di non essere più nient’altro che una macchina per non governare. 


Nella maggior parte dei paesi, le opinioni positive sull’Unione Europea sono in caduta libera da almeno dieci anni. La proporzione di coloro che, in Francia, ritengono che “l’appartenenza all’Unione sia un male” è perfino salita dal 25 % nel 2004 al 41 % nel 2013. Ancor più di recente, un sondaggio Ipsos rivelava che il 70 % dei francesi desidera “limitare i poteri dell’Europa”.



È un fatto assodato che oggi l’UE attraversi una crisi di legittimità senza precedenti. Ed è un ulteriore fatto che lo spettacolo da essa offerto non abbia nulla di entusiasmante. Ma come siamo arrivati a tutto questo?
La “decostruzione” dell’Europa comincia all’inizio degli anni Novanta, con i dibattiti in merito alla ratificazione del trattato di Maastricht. È a partire da quest’epoca che l’avvenire dell’Europa è apparso altamente problematico e che numerosi europei hanno iniziato a perdere la fiducia. Nel momento in cui la globalizzazione dava origine a ulteriori timori, la gente si è resa conto che “L’Europa non garantiva un miglior poter d’acquisto, un miglior regolamento di scambi commerciali nel mondo, una diminuzione delle delocalizzazioni, un regresso della criminalità, una stabilizzazione di mercati del lavoro o un controllo più efficace dell’immigrazione. Anzi al contrario”.  La costruzione europea è apparsa, dunque, non come un rimedio alla globalizzazione, quanto invece una tappa della globalizzazione stessa.
Fin dagli albori, la costruzione dell’Europa si è sviluppata a discapito del buonsenso, e sono stati commessi quattro errori: 1) Essere partiti dall’economia e dal commercio anziché partire dalla politica e dalla cultura, immaginando che per un effetto di rimbalzo, la cittadinanza economica si sarebbe automaticamente tradotta in quella politica. 2) Aver voluto creare l’Europa a partire dall’alto, anziché dal basso. 3) Aver puntato su un allargamento frettoloso a paesi poco preparati all’ingresso in Europa, preferendolo a un approfondimento delle strutture politiche già esistenti. 4) Non aver mai voluto prendere una decisione chiara in merito alle frontiere dell’Europa e alle finalità della costruzione europea.
Ossessionati dall’economia, i padri fondatori delle Comunità Europee hanno deliberatamente lasciato da parte la cultura. Il loro progetto originario mirava a fondere le nazioni in aree d’azione del tutto nuove in un’ottica funzionalista. Per Jean Monnet e i suoi amici, si trattava di pervenire a un mutuo intrecciarsi di economie nazionali, tale da rendere necessaria l’unione politica nel rivelarsi meno costosa della disunione. Non dimentichiamo d’altronde che il primo nome dell’“Europa” fu quello di “Mercato comune”. Questo iniziale economismo ha finito per favorire la deriva liberale delle istituzioni, oltre alla lettura essenzialmente economica delle politiche pubbliche che sarà effettuata a Bruxelles. Ben lungi dal preparare l’avvento di un’Europa politica, l’ipertrofia dell’economia ha rapidamente portato alla spoliticizzazione, alla consacrazione del potere degli esperti, e in ultima analisi all’applicazione di strategie tecnocratiche. 
Nel 1992 con il trattato di Maastricht si è passati dalla Comunità Europea all’Unione Europea. Questo slittamento semantico è anch’esso rivelatore, essendo naturalmente ciò che è “unito” meno forte di ciò che è “comune”. L’Europa di oggi è, dunque, prima di tutto l’Europa dell’economia e delle logiche di mercato, secondo il punto di vista delle élite liberali che la vorrebbero semplicemente come un vasto supermercato obbediente in maniera esclusiva alla logica del capitale.
Il secondo errore, come ho già detto, è stato quello di voler creare l’Europa a partire dall’alto, ovvero a partire dalle istituzioni di Bruxelles. Nelle intenzioni dei fautori del “federalismo integrale”, una sana logica avrebbe al contrario voluto che si partisse dal basso, dal quartiere e dal vicinato verso il comune, dal comune o dall’agglomerato urbano verso la regione, dalla regione verso la nazione, dalla nazione verso l’Europa. Il che avrebbe permesso in particolar modo l’applicazione rigorosa del principio di sussidiarietà. La sussidiarietà esige che l’autorità superiore intervenga nei soli casi in cui l’autorità inferiore sia incapace di farlo (è il principio di competenza sufficiente). Nell’Europa di Bruxelles, dove una burocrazia centralizzatrice tende a regolamentare ogni cosa attraverso le sue direttive, l’autorità superiore interviene ogni volta si ritiene in grado di farlo, con il risultato che la Commissione decide su tutto in quanto si giudica onnicompetente.
La denuncia di rito, da parte dei sovranisti, dell’Europa di Bruxelles quale “Europa federale” non deve quindi trarre in inganno: per via della sua tendenza ad attribuirsi autoritariamente tutte le competenze si costruisce al contrario su un modello ampiamente giacobino. Ben lungi dall’essere “federale”, è anche giacobina all’estremo, in quanto coniuga autoritarismo punitivo, centralismo e opacità.
Il terzo errore è consistito nell’allargamento sconsiderato dell’Europa, quando invece sarebbe stato necessario privilegiare l’approfondimento delle strutture già esistenti, aprendo al tempo stesso un dibattito politico in tutta Europa per tentare di stabilire una posizione consensuale in merito alle sue finalità. Tutto ciò si è visto in maniera particolare al momento dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale. La maggior parte di questi paesi hanno chiesto di aderire all’Unione Europea solo per beneficiare della protezione della NATO. Parlavano di Europa, ma non sognavano altro che l’America! Da tutto ciò sono risultate una diluizione e una perdita di efficacia che hanno rapidamente convinto tutto il mondo che un’Europa a venticinque o a trenta era semplicemente ingestibile, opinione ancor più rafforzata da inquietudini culturali, religiose e sociali legate alle prospettive di adesione della Turchia.
Tenuto conto della disparità dei livelli economici, delle condizioni sociali e dei sistemi fiscali, l’allargamento frettoloso dell’Unione Europea ha inoltre scatenato una spinta ricattatoria alle delocalizzazioni a svantaggio dei lavoratori. Ed è infine stato una delle cause principali della crisi dell’euro, a riprova che l’introduzione di una moneta unica, lungi dal favorire la convergenza delle economie nazionali in Europa, ha invece finito per aggravarla al punto da renderla intollerabile. 
La sovranità europea risulta ormai introvabile, mentre le sovranità nazionali non sono più altro che ricordi. In altri termini, sono state decostruite le nazioni senza costruire l’Europa. Un paradosso che si spiega quando si è compreso che l’Unione Europea non ha soltanto voluto mettere l’Europa al posto delle nazioni, ma anche sostituire alla politica l’economia, al governo degli uomini l’amministrazione delle cose. L’Unione Europea ha fatto proprio un liberalismo fondato sul primato dell’economia e della volontà di abolire la politica “spoliticizzando” la gestione governativa, vale a dire creando le condizioni in cui ogni ricorso a una decisione propriamente politica diviene inopportuno, se non impossibile.
A questo orientamento liberale va ad aggiungersi una crisi morale. Ossessionata dall’universalismo di cui è stata per molto tempo vettore, l’Europa ha introiettato un senso di colpa e di negazione di sé che ha finito per plasmare la sua visione del mondo, divenendo inoltre l’unico continente che si vuole “aperto all’apertura” senza considerare ciò che a sua volta potrebbe apportare agli altri.
È un fatto assodato che l’Europa, fin dalle sue origini, si sia industriata a concettualizzare l’universale, e che abbia voluto fare di sé nel bene e nel male una “civiltà dell’universale”. Ma “civiltà dell’universale” e “civiltà universale” non sono sinonimi. Secondo un bell’adagio spesso citato, l’universale, nel miglior senso del termine, è “il locale meno le mura”. Ma l’ideologia imperante ignora la differenza fra “civiltà universale” e “civiltà dell’universale”. Su istanza dei suoi rappresentanti, l’Europa è stata destinata all’ignoranza di sé – e alla “ripugnanza” per tutto ciò di cui è ancora autorizzata a ricordarsi -, mentre la religione dei diritti dell’uomo universalizzava l’idea della Inseità ("essere in sé"). Inoltre, un umanesimo privo di orizzonti si è posto a giudice della storia, facendo assurgere l’indistinzione quale ideale redentore, e mettendo incessantemente sotto processo l’appartenenza che rende singolari. Come ha affermato Alain Finkielkraut: «ciò significa che, per non escludere più chicchessia, l’Europa deve disfarsi di se stessa, “de-originarsi”, conservare della propria tradizione nient’altro che l’universalità dei diritti dell’uomo […] Noi non siamo nulla, è la condizione preliminare perché non siamo chiusi a niente e a nessuno». «Vacuità sostanziale, tolleranza radicale», ha potuto dire nello stesso spirito il sociologo Ulrich Beck – allorché è al contrario il senso di vuoto a rendere allergici a tutto.
Unici al mondo, i dirigenti europei rifiutano di pensare a se stessi come garanti di una storia, di una cultura, di un destino collettivo. Sotto la loro influenza, l’Europa ripete di continuo che il suo stesso passato non ha niente da dirle. Le banconote euro lo dimostrano alla perfezione: non vi si vede altro che strutture vuote, architetture astratte, mai un paesaggio, mai un volto. L’Europa vuol sfuggire alla storia in generale, e alla sua in particolare. Impedisce a se stessa di affermare ciò che è, e non vuol neanche porsi la questione della propria identità per paura di “discriminare” questo o quel suo componente. Quando essa proclama il proprio attaccamento a dei “valori”, è per sottolineare soprattutto che tali valori non le appartengono in quanto suoi, dal momento che si presume che tutti i popoli abbiano gli stessi. Questo accento posto sui “valori” anziché sugli “interessi”, gli obiettivi, o la volontà di sovranità politica è rivelatore di un’impotenza collettiva. L’Europa non sa assolutamente cosa vuol fare. E del resto non se ne pone neanche la domanda, perché a quel punto dovrebbe riconoscere che non vuole nulla. E perché non vuole nulla? Perché non sa più e non vuol più sapere cos’è.
Le conseguenze sono spaventose. Nell’ambito dell’immigrazione, l’Unione Europea si è dotata di una politica di armonizzazione alquanto generosa per i migranti che ormai nessuno Stato può più modificare. In ambito commerciale e industriale, è stato lo stesso rifiuto di ogni “santuarizzazione” a prevalere. La soppressione di ogni ostacolo al libero scambio si è tradotta nell’arrivo massiccio in Europa di beni e servizi fabbricati a basso costo nei paesi emergenti che praticano il dumping sotto ogni forma (sociale, fiscale, ambientale, ecc.), mentre il sistema produttivo europeo si delocalizza sempre più verso i paesi situati al di fuori dell’Europa, aggravando così la deindustrializzazione, la disoccupazione e i deficit commerciali.
La politica estera è il rovescio della medaglia della sovranità nazionale. Dal momento che l’Unione Europea non costituisce un corpo politico, non può ovviamente avere una politica estera comune, ma tutt’al più un’aggregazione congiunturale di diplomazie nazionali accompagnata da una politica “verso l’estero” derivata dalle competenze “comunitarie”. Che sia a proposito dell’intervento americano in Iraq, della guerra in Libia, in Mali o in Siria, che sia riguardo alla Russia o al Medio Oriente, alla Palestina, al Kosovo o più recentemente alla Crimea, gli europei sono stati sempre incapaci di adottare una posizione comune, accontentandosi di allinearsi in maggioranza sulle posizioni americane. Non percependo interessi comuni, non saprebbero neanche avere una volontà comune o una strategia comune.
E tuttavia, malgrado le delusioni suscitate fin qui dalla costruzione europea, un’Europa politicamente unita resta comunque più che mai necessaria. Perché questo? Prima di tutto per permettere a popoli europei da troppo tempo lacerati da guerre e conflitti o rivalità di ogni sorta di riprendere coscienza della loro comune appartenenza a una stessa area di cultura e civiltà e di assicurarsi un destino comune senza mai più doversi contrapporre. Ma anche per ragioni strettamente legate al momento storico che stiamo vivendo.
All’epoca del sistema di Yalta, quando il mondo era dominato dal duopolio americano-sovietico, l’emergere di una terza potenza europea era già una necessità. Questa necessità si rivela ancor più pressante dall’affondamento del sistema sovietico: in un mondo ormai frantumato, solo un’Europa unita può permettere ai popoli che la compongono di rivestire un ruolo a loro misura nel mondo. Per porre fine al dominio della superpotenza americana, occorre restituire al mondo una dimensione multipolare. Ecco un’altra ragione per fare l’Europa. 
La globalizzazione, generando un mondo senza l’altro da sé, dove lo spazio e il tempo sono virtualmente aboliti, consacra al tempo stesso l’impotenza crescente degli Stati nazione. Nell’epoca della modernità tardiva – o della postmodernità nascente – lo Stato nazione, entrato in crisi negli anni Trenta, diventa ogni giorno più obsoleto, mentre continuano a crescere i fenomeni transnazionali. Non è che lo Stato abbia perduto tutti i suoi poteri, ma non può più far fronte a imprese che oggi si estendono in scala planetaria, a partire da quelle del sistema finanziario. In un universo dominato dall’incertezza e dai rischi globali, nessun paese può sperare di venire a capo da solo dei problemi che lo riguardano. In altri termini, gli Stati nazionali non sono più le entità primarie che permettono di risolvere i problemi nazionali. Troppo grandi per rispondere alle attese quotidiane dei cittadini, sono al tempo stesso troppo piccoli per far fronte alle sfide e agli obblighi planetari. Il momento storico che stiamo vivendo è quello dell’azione locale e dei blocchi continentali.
In un simile contesto, i “sovranisti” appaiono come uomini che sviluppano spesso delle buone critiche, ma che non portano buone soluzioni. Quando denunciano (non senza ragione) il carattere burocratico e tecnocratico delle decisioni prese a Bruxelles, risulta per esempio facile risponder loro che i burocrati e i tecnocrati degli attuali Stati-nazione non sono certo migliori. Quando criticano l’atlantismo dell’Unione Europea, è altrettanto facile far loro osservare che i governi nazionali si orientano esattamente nella stessa direzione. Assistiamo oggi a un vasto movimento di omogeneizzazione planetaria, che tocca tanto la cultura quanto l’economia e la vita sociale, e  l’esistenza degli Stati-nazione non lo ostacola in alcun modo. I vettori di tale omogeneizzazione nazionale si fanno beffe delle frontiere, e sarebbe un grave errore credere che vi si possa far fronte puntandovi contro. La maggior parte delle critiche indirizzate all’Europa sarebbero dunque altrettanto giustificate in scala nazionale.
Altre critiche sono contraddittorie. Così, sono spesso gli stessi a deplorare l’impotenza politica dell’Europa (riguardo a questioni quali la guerra del Golfo, il conflitto nell’ex Iugoslavia, e così via) e che rifiutano categoricamente di concedere deleghe di poteri necessarie all’instaurazione di un autentico governo politico europeo, l’unico in grado di prendere in materia di politica estera le decisioni che s’impongono.
L’argomento della “sovranità” delle nazioni non ha miglior fortuna. Quando diciamo che l’Unione Europea implica delle rinunce alla sovranità nazionale, dimentichiamo che già da molto tempo gli Stati-nazione hanno perduto la loro capacità di decisioni politiche in tutti i campi più rilevanti. Nell’era della globalizzazione, sono detentori di una semplice sovranità nominale. L’impotenza dei governi nazionali di fronte ai movimenti dei capitali, al potere dei mercati finanziari, alla mobilità senza precedenti del capitale, è oggi evidente. Occorre prenderne atto per cercare le maniere d’instaurare una nuova sovranità al livello in cui abbia la concreta possibilità di esercitarsi, vale a dire precisamente a livello europeo. Altro, ulteriore motivo per fare l’Europa.
Una delle ragioni profonde della crisi della costruzione europea è che, a quanto pare, nessuno è in grado di rispondere alla domanda: cos’è l’Europa? Le risposte non mancano certo, ma sono perlopiù convenzionali e nessuna risulta unanime. Orbene, la risposta alla domanda: cos’è l’Europa? condiziona la risposta a un’altra domanda: cosa dev’essere?
Tutti sanno bene, infatti, che non vi è alcuna comune misura fra un’Europa che cerchi di costituirsi come potenza politica autonoma sovrana, con delle frontiere chiaramente definite e delle istituzioni politiche comuni, e un’Europa che non sarebbe altro che un vasto mercato, uno spazio di libero scambio aperto ai “grandi orizzonti”, destinato a dissolversi in uno spazio illimitato, in larga misura spoliticizzato o neutrale, funzionante soltanto attraverso meccanismi di decisione tecnocratici e intergovernativi. L’allargamento frettoloso dell’Europa e l’incertezza esistenziale che pesa oggi sulla costruzione europea hanno fin qui favorito il secondo modello, d’ispirazione “anglosassone” o “atlantica”. Ora, scegliere fra i due modelli significa anche scegliere fra la politica e l’economia, fra la potenza della Terra e la potenza del Mare. Purtroppo, coloro i quali si occupano della costruzione europea non hanno, in generale, la benché minima idea in materia geopolitica. L’antagonismo delle logiche terrestri e marittime sfugge loro completamente.
Il generale de Gaulle, nel 1964, aveva perfettamente definito il problema quando aveva dichiarato: «Secondo noi francesi occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste da sé e per sé, ovvero che al centro del mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che taluni respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, pur sostenendo di volerne la realizzazione. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella dettatale dall’altra sponda dell’Atlantico, pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”.
L’Europa è un progetto di civiltà o non è niente. A tale titolo, essa implica una certa idea dell’uomo. Questa idea è ai miei occhi quella di una persona autonoma e radicata, respingendo con un sol gesto l’individualismo e il collettivismo, l’etnocentrismo e il liberalismo. L’Europa che desidero con tutto me stesso è dunque quella del federalismo integrale, il solo in grado di realizzare dialetticamente il necessario equilibrio fra autonomia e unione, fra unità e diversità. Su tali basi, è certo che l’Europa dovrebbe avere per ambizione quella di essere a un tempo potenza sovrana in grado di difendere i propri interessi specifici, polo di regolazione della globalizzazione in un mondo multipolare, e progetto originale di cultura e civiltà.
Per il momento, ce ne rendiamo ben conto, la situazione è bloccata. Vogliamo l’Europa della cultura, e abbiamo quella dei tecnocrati. Subiamo gli inconvenienti dell’introduzione di una moneta unica senza raccoglierne i vantaggi. Vediamo le sovranità nazionali scomparire senza l’affermarsi della sovranità europea di cui abbiamo bisogno. Vediamo l’Europa comportarsi da ausiliaria, e non da avversaria della globalizzazione. La vediamo legittimare delle politiche di austerità, la politica del debito e la dipendenza dai mercati finanziari. La vediamo dichiararsi solidale con l’America nella sua nuova guerra fredda con la Russia, e pronta a firmare con gli americani un accordo commerciale transatlantico che ci ridurrebbe alla loro mercé. La vediamo colpita da amnesia, dimentica di se stessa, e pertanto incapace di trarre dal suo passato dei motivi per proiettarsi verso l’avvenire. La vediamo rifiutarsi di trasmettere quanto ha ereditato, la vediamo incapace di formulare un grande progetto collettivo. La vediamo uscire dalla storia, a rischio di divenire oggetto della storia di altri.
Come uscire da questo blocco? È il segreto del futuro. Qua e là vediamo delinearsi delle alternative, tutte meritevoli di essere studiate, pur sapendo che abbiamo i tempi contati. Ho spesso citato queste parole di Nietzsche, secondo cui: «L’Europa si farà solo sull’orlo di una tomba”. Nietzsche, lo sappiamo, si appellava anche ai “buoni europei”. Ebbene, vediamo di essere dei “buoni europei”: lanciamo a nostra volta un appello affinché si manifesti finalmente lo Stato europeo, il dominio europeo, l’Europa autonoma e sovrana che vogliamo forgiare e che ci eviterà la tomba.
Viva l’Europa, amici miei! Vi ringrazio. 
Alain de Benoist
(Simposio Europa-mercato o Europa-potenza del 26 aprile 2014. Traduzione di Marco Zonetti, per concessione di Arianna Editrice)

E SE IL VERO SEGRETO DI STATO FOSSE PROPRIO RENZI?

E SE IL VERO SEGRETO DI STATO FOSSE PROPRIO RENZI?
Di comidad 

Tra le operazioni mediatiche del governo Renzi, vi è stata anche quella di togliere il segreto di Stato sulle stragi. Molti commentatori hanno rilevato il carattere meramente simbolico della decisione, dato che in questo momento non esistono ufficialmente documenti sulle stragi che non siano già venuti a conoscenza della magistratura; perciò, se un segreto rimane, riguarderebbe documenti di cui non si conosce neppure l'esistenza. 

D'altro canto, non risulta che Renzi abbia tolto invece il segreto di Stato sullavicenda del Monte dei Paschi di Siena. Il segreto fu invocato dal ministro dell'Economia del governo Letta, Fabrizio Saccomanni, e riguardava un documento della Commissione Europea che conteneva alcune intimazioni alla MPS. Nella circostanza non è neppure chiaro se il segreto di Stato sia stato apposto in via ufficiale, oppure ci si sia limitati a richiamarsi ad una generica riservatezza, ma il risultato non è cambiato. Si parla tanto di abolizione del segreto bancario, ma può arrivare in soccorso nientemeno che il segreto di Stato. 

La segretezza che circonda il caso MPS si spiega anche con le sue implicazioni internazionali, dato che vi sono coinvolte grandi multinazionali del credito, come JP Morgan, la giapponese Nomura e Deutsche Bank. Visto dall'estero, il coinvolgimento di Deutsche Bank nella vicenda MPS è apparso molto più rilevante e compromettente di quanto i media italiani abbiano lasciato percepire.
Nel decreto applicativo della Legge 124/2007 sul segreto di Stato, pubblicato dal governo Prodi sulla Gazzetta Ufficiale del 16 aprile del 2008, all'articolo 3, si fa esplicitamente riferimento alla motivazione della "integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali". 

Il termine generico "accordi" implica che non è necessario neppure il riferimento ad un Trattato formale per invocare il segreto; perciò tale genericità sembra voluta apposta per tutelare le multinazionali da inchieste giudiziarie. Del resto il testo della Legge 124/2007 ed il relativo decreto applicativo dell'anno seguente è stato redatto dall'allora ministro degli Interni, ed attuale giudice costituzionale, Giuliano Amato; il quale, come è noto, nel frattempo ha anche svolto la funzione di senior advisor a Deutsche Bank per circa tre anni. 

Non che le multinazionali abbiano molto da temere dalla magistratura. Nel marzo di quest'anno è arrivata infatti la sentenza d'Appello sulla truffa dei derivati al Comune di Milano, una sentenza che ha mandato tutte assolte le multinazionali coinvolte, tra cui Deutsche Bank. Secondo la Corte di Appello di Milano "il fatto non sussiste". Come a dire che, quando frodano, le banche fanno solo il loro mestiere. 

Una legge come la 124/2007 apre però degli scenari molto più complicati, che vanno a mettere in discussione persino la nozione di politica come è comunemente accettata. In base a quella legge è possibile infatti porre sotto segreto di Stato pressoché tutti gli aspetti della funzione istituzionale, ponendo in dubbio la stessa attendibilità di qualsiasi risultato elettorale. 

Già nella scadenza elettorale del 2006 si parlò di possibili brogli. Il primo a gridare ai brogli fu allora il Buffone di Arcore, a risultati ancora caldi; ma di lì a pochi giorni i sospetti andarono ad indirizzarsi proprio su di lui. La legge elettorale soprannominata "Porcellum" effettivamente favoriva i brogli, poiché, eliminando il voto ai singoli candidati, si toglieva qualsiasi interesse degli stessi candidati a controllare il voto con i propri galoppini. Spesso i galoppini dei candidati si facevano addirittura essi stessi promotori di micro-brogli. 

Ma comunque sino al 2006 l'esistenza di un'anagrafe elettorale poneva un grave ostacolo allo spostare impunemente milioni di voti nel calcolo finale. Oggi invece tale spostamento è possibile, grazie ad una legge come la 124/2007, varata dal centrosinistra. All'articolo 13 comma 2 della legge è prevista infatti la possibilità di accesso dei servizi segreti, sia militari che civili, a tutti i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni, o di organismi che abbiano in qualche modo a che fare con la pubblica utilità.

Renzi ha fatto quindi una gaffe ad evocare lo spettro del segreto di Stato, poiché tutta la sua improbabile vicenda umana e politica potrebbe essere spiegata proprio "alla luce" del segreto di Stato, ivi compresa la sua recente santificazione elettorale, sancita dalle ultime elezioni europee. A coronare il "trionfo" di Renzi è giunto il ridimensionamento del Movimento 5 Stelle, dipinto dai media come una formazione estremista, ma che di fatto convoglia un autentico desiderio di opposizione verso i labirinti dell'ambiguità (dentro o fuori dall'euro? eurobond? Sì, no, forse, chissà). 

I 5 Stelle erano risultati però utili a suo tempo per liquidare Bersani, al quale non è servito a nulla istruirsi sui bignami del Fondo Monetario Internazionale. Bersani appariva comunque colpevole agli occhi delle multinazionali di coltivare eccessivi legami col proprio territorio. Dall'anno prossimo andrà invece in vigore il TTIP (Transatlatic Trade and Investment Partnership), quella "NATO economica" in base alle cui norme potremo ritrovarci sulle tavole un Parmigiano Reggiano prodotto nel Wisconsin o nell'Idaho. 

Per una tale fase di delocalizzazione acuta, occorreva mettere al governo un fantoccio narcisista e sradicato come Renzi. Persino la presunta popolarità di Renzi potrebbe perciò dimostrarsi alla fine come qualcosa di meno di una costruzione mediatica, cioè rivelarsi una mera illusione gonfiata dai media e dalle agenzie di guerra psicologica; nel senso che si sta cercando di farci credere che egli abbia molti più fans di quanti effettivamente ne possa contare.