sabato 10 marzo 2012

Riformismo e anticapitalismo nel movimento no-debito

Giulio Palermo
sinistrainrete.info/


La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare. La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.
Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari. Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.
In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.
Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).

In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne.
Ma può significare anche una cosa completamente diversa: “default controllato”, che in fondo è quanto chiede il capitale.

Nella proposta di rinegoziare il debito, insomma, si intrecciano potenzialità rivoluzionarie e rischi politici restauratori che devono essere attentamente valutati. In questo articolo, esamino criticamente la proposta del movimento contro il debito che si sta sviluppando in diversi paesi europei e faccio alcune considerazioni sul ruolo di una simile lotta all’interno di un percorso anticapitalista.


Il movimento contro il debito

Il movimento europeo contro il debito trae ispirazione dal Comitato per l’annullamento dei debiti del terzo mondo (Cadtm), una rete di associazioni, nata nel 1990, con sedi in Europa, Africa, America latina e Asia. L’obiettivo del Cadtm è l’azzeramento del debito pubblico estero e l’abbandono delle politiche strutturali imposte da Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Organizzazione mondiale del commercio ai paesi del terzo mondo e dell’ex blocco sovietico.

Nell’ottobre 2011, assieme ad altre associazioni e organizzazioni sindacali, il Cadtm ha dato vita in Francia al Collettivo per un audit cittadino del debito pubblico, il quale ha subito ricevuto il sostegno anche di un ampio spettro di partiti politici – dalla sinistra unitaria a quella anticapitalista – e di esponenti del mondo della cultura.

La critica del Collettivo francese parte da una constatazione semplice: oggi, con la scusa del debito, si tagliano tutte le voci di spesa pubblica, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola ai trasporti … Tutte, tranne una: la spesa per interessi. Eppure è proprio questa la spesa meno trasparente per lo stato e per i cittadini, visto che i meccanismi di allocazione dei titoli del debito pubblico non consentono di individuare i detentori finali dei titoli stessi. Ma al di là del problema informativo: perché questa asimmetria? Perché i diritti dei lavoratori, degli studenti, dei malati e dei pensionati possono – anzi, in nome della coesione sociale, devono – essere rimessi in discussione, e quelli di chi percepisce rendite finanziarie devono considerarsi invece sacri? E poi, la tiritera secondo cui il popolo, anche in Francia, avrebbe vissuto al di sopra dei suoi mezzi pone un secondo problema di informazione: quali sono veramente le voci di bilancio che fanno esplodere il debito? Che peso ha la spesa sociale? E quanto incidono invece gli aiuti ai gruppi industriali e bancari in crisi, le politiche a favore del profitto e della rendita, le spese per la guerra e la frode fiscale?

Per rispondere a questi interrogativi, il Collettivo propone un “audit del debito pubblico”, ossia una verifica analitica di come si è formato il debito, delle voci in entrata e in uscita che ne hanno determinato la sua crescita e della loro effettiva utilità per i cittadini. La verifica dovrebbe essere fatta da un’apposita commissione indicata dai cittadini stessi, attraverso i Collettivi locali. A questo fine, il Collettivo intende costituire una base comune di dati e di analisi, esigendo che i poteri pubblici mettano a disposizione le informazioni economiche e finanziarie necessarie; pubblicare documenti esplicativi accessibili a tutti in cui si spieghino i meccanismi di formazione del debito; avviare un ampio dibattito pubblico da svilupparsi attraverso la creazione dei collettivi locali; e interpellare i politici sui loro programmi in materia di finanza pubblica.
Nelle parole di uno dei fondatori del movimento francese, François Chesnais:
L’ingiunzione a pagare il debito riposa implicitamente sull’idea che a essere state prestate siano delle somme frutto di un risparmio pazientemente accumulato nel corso di una vita di duro lavoro… L’audit ha per obiettivo quello di identificare i fattori che consentono di caratterizzare il debito come illegittimo, così come quelli che giustificano, o persino che impongono, il rimborso di almeno una parte del debito ad alcune categorie di creditori.
(Chesnais, 
Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 139, pp. 113-4)
Dalla Francia, il movimento si è allargato ad altri paesi europei, tra cui Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, i cosiddetti Piigs. Il movimento italiano nasce direttamente da quello francese con la traduzione dell’appello per un audit sul debito, pubblicata sul manifesto, e il lancio del gruppo Rivolta il debito, sostenuto, come oltralpe, dalla sinistra istituzionale, l’associazionismo e da singoli esponenti del mondo politico e culturale. La campagna è però eterogenea e comprende gruppi e formazioni, locali e nazionali, di diversa estrazione politica. Anzi, in molte realtà, i comitati locali contro il debito nascono proprio come tentativo di allargare il dibattito e la critica a settori non direttamente militanti ed estranei a percorsi politici già strutturati.

Dal sito di Rivolta il debito, Danilo Corradi, laureato in filosofia morale, illustra alcune specificità dell’Italia rispetto alla Francia e ad altri paesi europei:
Il debito non si è formato per un eccesso di spesa pubblica, ma per un deficit di entrate fiscali.
(Corradi, 
La crisi del debito pubblico, rivoltaildebito.globalist.it)
Ferma restando la necessità di un’analisi attenta della spesa, l’audit italiano, secondo le indicazioni nazionali, dovrebbe dunque concentrarsi sul lato delle entrate, dove risiede la causa profonda del debito.

Ma al di là delle specificità nazionali, l’obiettivo immediato del movimento europeo è comune: prendere tempo, formare le commissioni di audit e, alla luce dei loro risultati, rinegoziare con i creditori responsabili della parte illegittima del debito le condizioni della sua restituzione, fissando la percentuale che non deve essere pagata.


Economia politica e critica morale

Prima di criticare i contenuti politici e i dettagli tecnici di questa proposta, dobbiamo precisare le ragioni che hanno portato all’esplodere del problema del debito pubblico. Si tratta evidentemente di processi squisitamente economici, che però il movimento contro il debito critica su basi essenzialmente morali.

La crisi del debito pubblico in Europa è una conseguenza diretta della crisi finanziaria esplosa nel 2007 negli Stati uniti e generalizzatasi immediatamente a livello globale: in Italia, ad esempio, sono 20 anni che il rapporto debito/pil ha superato la soglia del 100%, ma è solo ora che si inizia a parlare di rischio default. Si pensi anche alla Francia, cui non so può certo rimproverare il lassismo dell’Italia in materia di finanza pubblica, e che però deve fare fronte agli stessi problemi (anche se di entità minore) di finanziamento e di credibilità sui mercati finanziari. La crescita del debito pubblico è un processo storico con frenate e accelerazioni. Ma è quando l’economia si arresta e il credito si intoppa che il pagamento del debito diventa problematico.

Nella proposta del movimento contro il debito, il problema è tuttavia individuato nelle spese ingiuste e nell’insufficiente ed iniqua tassazione. Cose sicuramente odiose, ma che esistevano anche prima che il debito pubblico da problema degli stati diventasse problema delle banche. Come ad esempio negli anni del risanamento dei conti pubblici, quando per ridurre il debito, lo stato tagliava a colpi di accetta la spesa sociale e il pubblico impiego, finanziando però missioni di guerra e devastazioni del territorio, e inviava la guardia di finanza nelle piazze, in assetto antisommossa stile robocop, a reprimere il dissenso, invece di lasciarla al suo posto, davanti a un computer, a verificare le dichiarazioni dei redditi delle categorie più note di evasori fiscali. Insomma, ognuno si può indignare quando vuole, ma il ruolo dello stato nell’economia non è affatto cambiato in questi ultimi anni. Il dato nuovo è invece un altro: se oggi tutti chiedono urgentemente il pagamento del debito pubblico è perché se lo stato non paga, le banche falliscono. Per questo si devono salvare gli stati: per salvare le banche.

Le condizioni di sostenibilità del debito sono di ordine economico, non etico. La crisi del debito dipende dalla crescita eccessiva del debito rispetto alla capacità di restituzione delle somme prese in prestito. Il problema – e gli esperti di Goldman Sachs lo sanno bene – non riguarda la buona o la cattiva volontà del debitore, ma la sua capacità oggettiva di pagare. Nelle attuali condizioni economiche, i livelli raggiunti dal debito pubblico di molti paesi sono di fatto inesigibili: se anche le istituzioni finanziarie oggi propongono la ristrutturazione del debito e un default controllato dei paesi più esposti è perché sanno che soldi non ce ne sono. E non ce ne saranno.

Mi devi 100, ma anche se ti spremo al massimo riesco a cavarti solo 40? Allora, fissiamo il debito a 40, ma sbrigati a pagarlo e, soprattutto, adotta in fretta tutte le “misure necessarie”. Questo è quello che chiedono il mondo bancario e le istituzioni finanziarie internazionali. Perché 40 e non 50 o 30? Perché se ti chiedo 50, di fatto, non potrai pagarli, il che prolungherà questa fase di sfiducia, senza alcun reale aumento dei profitti bancari, visto appunto che quei 10 di più comunque non riuscirai a restituirli e i mercati, cioè le banche stesse, lo sanno; e se ti chiedo 30, ti sto lasciando in mano 10, dopo che ti ho già regalato 50. Il calcolo è puramente economico, non c’è niente di morale o di immorale.


Sinistra istituzionale e movimento antagonista

Sul piano politico, quelle “misure necessarie” di cui si diceva impongono privazioni, tagli generalizzati, povertà e maggior sfruttamento, creando inevitabilmente malcontento e tensioni sociali. Per questo, sono importanti i richiami all’unità nazionale, alla solidarietà e alla coesione: per far sì che la classe lavoratrice – da cui in definitiva sarà estratto il nuovo valore che andrà a remunerare le banche – cooperi volontariamente alla realizzazione di questo processo. Senza un coinvolgimento del popolo, pacifico ed operoso, il rischio è che prevalgano le forze violente e antiistituzionali, gli incappucciati con le molotov, come in Grecia. Problema questo che non riguarda solo il governo, ma anche la sinistra istituzionale.

Perché, in effetti, con l’aggravarsi della crisi, cresce anche la distanza tra le diverse anime del movimento: da una parte, si sviluppa l’indignazione morale, si avviano iniziative informative e di denuncia, individuando la causa del problema nella frode, nei favoritismi, nell’ingiustizia della politica economica e nella scarsa coscienza e conoscenza dei cittadini; dall’altra, il capitalismo mostra le sue contraddizioni, cresce il conflitto, la rabbia, la violenza, l’alienazione dallo stato.

È con questo stato di cose che deve fare i conti la sinistra istituzionale, la quale, dopo essere stata espulsa dal Parlamento per volontà popolare, cerca ora di ricostruirsi attraverso i canali di movimento. Senza tuttavia capirne la logica e pretendendo invece di esserne la guida. Avendo abbandonato le proprie radici ideologiche e il proprio metodo di critica scientifica, i partiti di sinistra faticano infatti a trovare una collocazione politica tra quanti si oppongono al capitalismo. Perché l’anticapitalismo della sinistra istituzionale non si fonda affatto sulla critica scientifica di questo modo di produzione, ma sulla condanna morale dei fenomeni che esso genera. E il paradosso è che la stessa critica morale che si vorrebbe sviluppare incorpora proprio quei valori borghesi caratteristici di questo modo di produzione, i quali però sono presentati come assoluti e universali: la proprietà è sacra, ma solo se frutto del risparmio e del duro lavoro, mentre è illegittima se acquisita con l’imbroglio e con l’inganno; lo stato non risponde agli interessi delle classi dominanti, ma è il garante equo e imparziale dei cittadini, solo che ogni tanto sbaglia; i debiti si pagano, ma se sono ingiusti se ne ridiscute l’ammontare.
Questo moralismo tutto borghese, che idealizza il capitalismo e ne presenta le contraddizioni intrinseche come disfunzioni e degenerazioni da correggere puntualmente, non riguarda solo le ricette per rendere finalmente giusto questo sistema di sfruttamento, ma si applica anche alla legittimità delle diverse pratiche di lotta contro il capitalismo. Così, mentre il movimento matura, si radicalizza, cresce la coscienza politica e si precisano i rapporti di compatibilità e solidarietà tra i vari fronti di lotta, la sinistra istituzionale resta incastrata nei suoi schemi etici precostituiti, fatti di contrapposizioni tra violenti e non violenti, buoni e cattivi, indignati e black block.

Col risultato che, nelle istituzioni, la sinistra buona – quella critica ma responsabile, che non cerca la lotta di classe ma ilbene comune – ritrova credibilità agli occhi del capitale (o almeno così crede) e, nelle piazze, le forze anti-istituzionali non devono più guardarsi solo dai robocop di professione, ma anche dai nuovi guardian angels di sinistra, che trattengono con la forza e consegnano alla polizia i compagni che ragionano e agiscono secondo una logica diversa dalla loro; dai nazipacifisti, che non tollerano che la loro protesta, gioiosa e colorata, sia rovinata da una minoranza tutta nera che si nasconde dietro il passamontagna; e dai delatori del giorno dopo, che credono che la lotta politica si faccia nei commissariati di polizia, di fronte alle foto segnaletiche dei più temibili teppisti.

Questa è la strategia di chi vorrebbe avere il suo posto in prima fila nel movimento. Tutti in coro: Noi la crisi non la paghiamo! No al debito odioso! Ma con calma, senza disordini, se no passiamo dalla parte del torto.


La politica come scontro tra tecnici buoni e cattivi 


La politica dei buoni e dei cattivi non è ovviamente solo una questione di piazza. Il problema è generale. Perché, come dicevamo, è la politica istituzionale stessa che ha perso ogni connotazione di classe e alla sinistra con ambizioni parlamentari non rimane oggi che la pretesa di una morale superiore rispetto alle altre forze politiche. Prima almeno c’era Berlusconi, affarista per eccellenza, contro cui si potevano schierare uomini senza idee, ma dal volto onesto. Oggi invece c’è Monti, il tecnico cattivo inviato direttamente da Goldman Sachs. E la sinistra ha dunque bisogno di trovare rapidamente il suo tecnico buono, ancora una volta, dal volto onesto e senza idee.

Via dunque i tecnici di Goldman Sachs e largo ai tecnici del popolo (che già sgomitano per guadagnarsi il titolo di esperto morale di debito pubblico). I quali però, se questo è l’approccio, arriveranno necessariamente alla stessa conclusione dei tecnici cattivi: che, effettivamente, di quel debito di 100, 60 erano odiosi e quindi non vanno restituiti. E se per qualche ragione le stime dei due comitati tecnici divergeranno, non sarà difficile trovare una mediazione e magari da 60 si passerà a 65. Ma subito dopo, in nome della coesione sociale e del sistema-Italia, senza che Goldman Sachs abbia mai fatto la sua apparizione in modo esplicito nel dibattito politico, tutti al lavoro per pagare questi 40, o 35 che siano, e che nessuno più protesti.

I lavoratori si stringeranno spontaneamente la cinghia di un paio di buchi, compiaciuti di aver ottenuto, grazie alla “lotta” (dei loro tecnici), di non doversela stringere di quei tre buchi che avrebbero significato la loro fine. E forti di questo successo politico, torneranno ordinatamente al lavoro, a ritmi sempre più intensi, anzi, ai massimi ritmi tollerabili, quelli calcolati dagli uomini di Goldman Sachs quando hanno fissato a 40 l’ammontare del debito da pagare: perché ora il capitale quei 40 cui ha diritto li vuole senza indugi.

Finalmente la lotta di classe abbandona i luoghi di lavoro, le scuole e le piazze e si sviluppa comodamente nei salotti degli uomini che hanno studiato. Da una parte, i tecnici del capitale, scelti direttamente da Goldman Sachs; dall’altra, i tecnici del popolo, scelti per autoacclamazione da una sinistra che non esiste più. Perché nonostante le dichiarazioni formali in senso anticapitalista di uno dei dibattenti, l’obiettivo è lo stesso: rilanciare il processo di accumulazione (attraverso l’inasprimento dello sfruttamento), permettere alle banche di uscire dalla crisi di fiducia e solvibilità, ridare credibilità allo stato nei mercati finanziari (per poter ricominciare a prendere a prestito). Insomma, mantenere in piedi il sistema. Quello che non va nel capitalismo è che stritola i lavoratori. Attrezziamoci dunque affinché in futuro non li stritoli più, ma li sprema al punto giusto. Questo è il vero obiettivo della sinistra moralista e questo è anche il vero rischio del movimento no debito.


I dettagli tecnici della campagna istituzionale contro il debito

Il rischio che il movimento contro il debito assuma una connotazione conservatrice, stravolgendo dunque le motivazioni di molti militanti, può essere valutato a partire dalle contraddizioni che emergono non appena si esamini la proposta di audit nei suoi dettagli tecnici.

Tecnicamente, non è possibile stabilire quale parte del debito sia giusta e quale invece ingiusta: il debito non è altro che la somma dei deficit accumulati nel tempo e ogni deficit è il risultato di un eccesso di uscite sulle entrate in un determinato anno; sia le prime che le seconde comprendono tuttavia voci odiose e altre eticamente condivisibili. Si può quindi solo stabilire, a livello aggregato, la percentuale di debito odiosa, ma non quali titoli del debito son serviti a finanziare le singole voci di spesa odiose.

Con chi bisogna prendersela allora? Chi ha acquistato un titolo del debito pubblico nell’anno X non ha mica approvato e sottoscritto il bilancio pubblico dell’anno X. Ha solo prestato soldi allo stato, democratico e legittimo, che glieli chiedeva. Quei soldi servivano a colmare la differenza complessiva tra spesa pubblica e entrate fiscali e, anche volendo, non sarebbe stato possibile per un prestatore eticamente attento distinguere le voci di spesa statale a lui gradite. Su che basi si dovrebbe allora stabilire se un soggetto abbia veramente diritto alla restituzione di quanto avanzato? Esistono tre tipi di criteri:
1. CRITERIO DELLE USCITE. Non restituire i soldi a chi ha comprato i titoli del debito pubblico negli anni in cui lo stato ha speso i soldi in modo odioso e restituirli solo a chi ha comprato i titoli negli anni in cui lo stato spendeva in modo amabile, espandendo ad esempio la spesa sociale.

2. CRITERIO DELLE ENTRATE. Alcuni sostengono tuttavia che il debito pubblico italiano nasca da problemi di entrate insufficienti, piuttosto che di uscite eccessive. Si tratta di una posizione che assume probabilmente significato in campo filosofico o morale, ma che non ne ha nessuno in quello economico, visto che il saldo di bilancio è la differenza tra uscite ed entrate e non è dunque causato né dalle prime, né dalle seconde, ma appunto dalla loro differenza. Ad ogni modo, stando a questa posizione morale, i soggetti che dovrebbero perdere il diritto al rimborso sono quelli che hanno comprato titoli negli anni in cui il buco di bilancio è stato causato da sgravi fiscali ai ricchi, trattamenti di eccessivo sostegno ai profitti e alla rendita finanziaria o da politiche tolleranti nei confronti dell’evasione fiscale.

3. CRITERIO DELLE ENTRATE E DELLE USCITE. Per una questione di coerenza interna, si pone poi il problema di compatibilità di questi due criteri basati sull’analisi delle uscite e delle entrate, perché non è detto che i canoni morali adottati debbano condannarle o assolverle entrambe: cosa si dovrebbe fare in presenza di una spesa pubblica tutta a carattere sociale e di una pressione fiscale odiosa, a carico solo dei più poveri? Si devono pagare oppure no i corrispondenti titoli del debito pubblico?
Quale che sia il criterio adottato, l’audit – analitico e particolareggiato quanto si vuole – non potrà mai far ricadere il peso della ristrutturazione del debito sui diretti responsabili, semplicemente perché non c’è alcun legame tra la formazione della parte di debito odiosa e il soggetto che acquista i corrispondenti titoli del debito. Certo, nel momento in cui si stabilisce che una parte del debito non deve essere pagata, si può scegliere anche su chi far ricadere il peso di questo default controllato: persone fisiche o giuridiche, nazionali o estere, vecchiette con i Bot o hedge fund speculativi. Ma la questione diventa solo distributiva e per difendere la nonnina che non ce la fa con la pensione, forse ci sono argomenti politici (ma anche morali) più efficaci e che non richiedono un’analisi minuziosa dell’intera storia economica d’Italia.


La moralizzazione del debito pubblico

Se la critica moralistica del debito pubblico ha senz’altro il suo impatto tra chi crede che il problema del capitalismo sia di natura morale, nel passaggio ad un’eventuale fase attuativa dell’audit resta comunque il problema di giungere a criteri morali condivisi con cui valutare i libri contabili dello stato. Come si stabilisce in effetti quali spese sono veramente odiose?

Nel discorso politico, una prima interpretazione suggerisce di escludere la spesa sociale: scuole, ospedali, pensioni sono tutti interventi che vanno conservati. Per alcuni, in quanto diritti dei cittadini e doveri dello stato, ottenuti attraverso una storia di lotte sociali e conquiste economiche; secondo l’approccio moralistico, invece, in quanto desiderabili secondo particolari giudizi etici, presentati come unanimemente condivisibili. Accanto alla spesa sociale, la morale universale salva poi altre voci della spesa pubblica, poiché giudicate comunque a beneficio del cittadino. Viceversa, le spese per l’esercito, i regali al capitale, la nazionalizzazione delle imprese in perdita, le opere che devastano l’ambiente sono senz’altro odiose e devono quindi essere ripudiate. Anche in questo caso in nome di una pretesa morale universale, che non tiene conto della politica.

Il fatto ad esempio che, secondo la Costituzione repubblicana, le forze armate siano parte integrante dell’ordinamento dello stato o che si riconosca validità ai Patti lateranensi, che concedono ampi privilegi alla Chiesa, può forse indignare i militanti pacifisti e anticlericali, ma restano principi giuridici stabiliti per via politica ed è la lotta politica, non una commissione di audit, che può cambiarli.

Nel caso della Grecia, l’attivista francese Chesnais non esita ad esplicitare la superiorità della critica morale sulla storia politica:
La Costituzione del 1975 (la prima Costituzione dopo la dittatura dei colonnelli, ndr) comporta, nella sua stessa carta, l’esenzione fiscale per gli armatori greci, per le loro famiglie e per i loro associati. Un tale privilegio può essere considerato di per sé un elemento distintivo dei tratti del debito odioso.
(Chesnais, 
Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 116)
Che la Costituzione di ogni paese sia il risultato di processi storici e scontri politici diventa del tutto secondario. Quello che conta è la morale universale che determina il bene e il male, i buoni e i cattivi, il giusto e l’ingiusto. Come valori assoluti, non come prodotti della storia. Un po’ come le potenze imperialistiche esportano la propria civiltà a suon di bombe, le forze moralizzatrici vorrebbero esportare la loro morale con le commissioni di audit. Nessun bombardamento aereo contro l’asse del male, ma un comitato di giusti che riveda l’intero ordinamento degli stati immorali.


Debiti odiosi e debiti illegittimi

Nella proposta di audit, il movimento oscilla con disinvoltura tra due aggettivi per caratterizzare il debito che non va pagato: odioso e illegittimo. Il primo termine richiama immediatamente le questioni etiche: per le cose odiose ci si indigna.
L’insistenza sull’illegittimità serve invece a mostrare la via del cambiamento, che deve essere appunto rispettosa del diritto esistente.
Secondo molti queste due cose si completano a vicenda perché, in fondo, nel capitalismo, etica e diritto vanno a braccetto, solo che ogni tanto qualcuno imbroglia, il che è odioso e illegittimo. Secondo altri, le due cose invece si contrappongono: chi odia veramente il capitalismo lo fa perché si tratta di un sistema di sfruttamento legalizzato che, al pari dei sistemi di sfruttamento che l’hanno preceduto, pone il diritto al servizio della classe dominante per consentirgli appunto di sfruttare quella dominata. Non c’è bisogno di attendere la degenerazione, l’abuso o l’imbroglio per odiare il debito: basta odiare il capitalismo.
Quale che sia l’approccio al problema, debiti odiosi e illegittimi restano comunque cose distinte. Sul piano etico, possiamo condannare molte pratiche, ma avere ragione in sede legale è altra cosa. Non c’è voce di spesa su cui non sia possibile esprimere giudizi morali discordanti. Ma non tutto ciò che non ci piace è illegittimo.

Gli argomenti che convincono gli indignati non convincono necessariamente anche i giudici. Per quelli che insistono tanto sull’evasione fiscale, ad esempio, cosa dovremmo fare? Dire a un creditore internazionale che non gli ridiamo i soldi perché l’anno in cui ce li ha prestati, nel nostro paese, alcuni non hanno pagato le tasse? Veramente, le scuse dei tossici sono più divertenti. Se non vogliamo pagare, non paghiamo. Ma se pensiamo di procedere per vie legali, attrezziamoci meglio.

La verità è che, se anche si trovassero i giusti argomenti, la questione del diritto all’insolvenza accentua i problemi irrisolti della delega politica e fa inevitabilmente scivolare la lotta di massa in tecnicismi per esperti. Avvocati contro avvocati. Toghe e tribunali che, per alcuni, costituiscono la garanzia stessa della democrazia, ma che molti militanti vedono con sospetto, forse perché abituati a conoscerli dal lato sbagliato. Ma queste differenze diventano di fatto secondarie. Perché, in ogni caso, tutti, fiduciosi e scettici, non devono far altro che tornare a casa e aspettare il telegiornale, sperando di sentire che i loro avvocati sono stati più abili di quelli delle banche. Invece di lottare, faremo il tifo.

La questione legalistica allontana poi il dibattito dalle possibili risposte immediate, a livello nazionale, ponendo come unico scenario possibile quello di una soluzione internazionale. In un’economia globalizzata, infatti, il debito sta in gran parte all’estero. Per ripudiarlo si deve quindi guardare al diritto internazionale. La Costituzione, che in molti brandivano nelle piazze in difesa dei diritti fondamentali, lascia dunque il posto alla Carta dell’Onu, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ad altri accordi internazionali, peraltro sistematicamente violati dalle principali potenze capitalistiche, che però sanciscono nero su bianco i più alti valori morali del capitalismo ideale.

E in tutto questo nessuno sembra vedere che questo slittamento dal diritto nazionale a quello internazionale è, in realtà, il grimaldello attraverso cui il capitale viola la sovranità nazionale e schiaccia i popoli dei paesi più deboli. E già, perché anche l’Unione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le altre istituzioni del neoliberismo globalizzato sono fonti di diritto internazionale. E probabilmente, con gli accordi assurdi che i nostri stati legittimi hanno firmato, che concedono tutto il potere alle banche e alla finanza, se andiamo veramente in tribunale contro queste istituzioni, ne usciamo pure malconci.


Il ruolo istituzionale della commissione di audit

Un’ultima questione tecnica, anche se non proprio di dettaglio, riguarda il ruolo istituzionale che la commissione di audit dovrebbe avere. Perché in realtà di gruppi di lavoro che studiano attentamente il debito ce ne sono già molti: presso il Ministero dell’economia, la Banca d’Italia, nelle università e nei centri studi economici, pubblici e privati, per non parlare poi delle organizzazioni internazionali. Non c’è niente di rivoluzionario, né di progressista, nell’esaminare la formazione del debito pubblico. Anzi, sono proprio gli esperti del debito che in genere giungono alle conclusioni più severe sul piano della politica economica. Si pone allora la domanda: che differenza ci sarà tra la commissione voluta dal movimento e quelle che già esistono? E poi, una volta che la commissione di movimento avrà approfondito i bilanci e informato la popolazione, che impatto avrà tutto ciò sulla realtà economica?

Perché, delle due, l’una: o la commissione non conta niente e l’unico impatto reale sarà la pubblicazione di un altro libro sul debito pubblico e il lancio in politica di qualche militante della “base” di questo movimento; oppure invece, quella commissione avrà un vero ruolo istituzionale e le sue indicazioni saranno vincolanti o avranno almeno un certo peso. Allora però, se vale questa seconda ipotesi, il vero scontro riguarderà la formazione di questa commissione, investita di rivedere tutte le scelte economiche prese nel corso della storia d’Italia, indicando se convalidarle o ripudiarle, una ad una, sulla base dei giudizi morali che la commissione vorrà adottare.

Si pone dunque un problema di rappresentanza politica, che i richiami alla democrazia diretta e ai collettivi locali rimandano, ma non risolvono. Anche perché il problema delle forme di rappresentanza non è cosa che si affronta come appendice al problema del debito.


Piccoli passi e anticapitalismo

Consideriamo infine l’ultimo argomento, che non dipende da tecnicismi, né moralismi, ma che serve a giustificare la politica dei piccoli passi: tra pagare tutto e pagare in parte, dicono nel movimento, saremo almeno tutti d’accordo che è meglio pagare solo in parte!

Effettivamente, sì. Ma allora lasciamo perdere la morale e il diritto. Ridotta a questo, la questione è di semplice buon senso. Buon senso che però non contempla la vera ragione da cui nasce tutto il problema: l’ipotesi di non pagare niente.
Quest’ipotesi, scartata a priori dal movimento, è in realtà la vera preoccupazione dei creditori. Perché il dato economico da cui tutto parte è che i paesi indebitati non ce la fanno a pagare. Dopodiché, ciascuno ci arriva per la sua strada, ma la proposta del default controllato nasce come risposta al timore che gli stati cedano alle richieste dei popoli e smettano di pagare, non come tentativo di moralizzare l’economia.

Senza mistificazioni, diciamo allora le cose come stanno: cerchiamo di pagare il meno possibile perché è nel nostro interesse. Non è questione di bene comune, né di moralità o di legittimità. È solo un problema di rapporti di forza. Di più non possiamo ottenere? E allora autoriduciamoci il debito del 60%. E se invece, nel corso della lotta, siamo cresciuti e ci siamo rafforzati, allora pretendiamo un abbattimento del 70%. Ma, smettetela di parlarci di diritto e di morale. E soprattutto, quando ci costringono a pagare la restante parte, non diteci che è giusto e non chiedeteci di fare i bravi.

Perché noi in realtà non vogliamo pagare niente. Non vogliamo pagare i debiti contratti nel passato perché non vogliamo pagare nemmeno i profitti presenti e futuri.
Non vi riconosciamo il diritto al nostro pluslavoro futuro perché non vi riconosciamo il diritto ad alcun pluslavoro. Non è una questione di misura, né di tempo: non vogliamo essere sfruttati e basta.

E siccome il capitale, mentre sfrutta noi, mercifica tutto e si impossessa del pianeta, ci uniamo a tutti quelli che lottano contro il capitale da altre prospettive. La demercificazione, la soddisfazione dei bisogni della popolazione invece che la valorizzazione del capitale, può partire da qualsiasi settore: l’acqua, la sanità, l’ambiente, i trasporti, il lavoro. Dove il capitale trasforma in merci i rapporti sociali, la società si organizza e combatte il capitale. Se i percorsi di lotta si intrecciano è perché i problemi che i vari movimenti combattono hanno una causa comune: il sistema del capitale. Il movimento no debito ha quindi piena legittimità nello schieramento anticapitalista e, per molti militanti, questa è anzi la sua naturale collocazione politica.


La classe lavoratrice non è mai in debito

Il debito e il credito sono estensioni del diritto di proprietà nel tempo. Nel capitalismo, si sviluppano con l’ampliarsi dei rapporti di mercato e, al tempo stesso, costituiscono la leva del processo di accumulazione. Ma debito e credito, in quanto tali, non producono, né distruggono valore. Ridefiniscono soltanto i legittimi proprietari del valore presente e futuro.

Il valore lo producono i lavoratori. I quali però se ne appropriano solo in parte, perché, nel capitalismo, la restante parte spetta a chi anticipa il capitale. Non per appropriazione illecita, ma in forza di legge. Perché lo sviluppo del capitalismo richiede e impone trasformazioni anche giuridiche che garantiscano la proprietà privata e che rendano possibile la libera vendita della forza lavoro come strumento di valorizzazione del capitale.

Il credito, ovvero il diritto di appropriarsi dei frutti dello sfruttamento futuro, risponde alla medesima logica: non nasce da soggetti malvagi che manipolano l’informazione, ma dal fatto che il capitalismo è un sistema di sfruttamento basato sul mercato e, come tale, oltre a consentire (e rendere necessario) lo sfruttamento, consente di vendere i suoi frutti prima ancora che siano realizzati. L’interesse è appunto la parte di profitto che spetta alla banca. Ma credito e sfruttamento sono entrambi parti integranti del modo di produzione capitalistico: l’uno regola i rapporti interni al capitale (i rapporti tra interesse e profitto), l’altro quelli tra capitale e lavoro (i rapporti tra profitti e salari).

Non ha alcuna importanza il fatto che il lavoratore in genere non prenda a prestito un bel niente. Basta che sia lo stato a farlo per lui. Perché il debito pubblico alla fine è sempre il pluslavoro dei lavoratori che lo ripaga. La contabilità borghese può scrivere quello che vuole sui suoi registri: che il lavoratore è debitore e che la banca è creditrice; che lo stato è debitore perché i soldi che spende invece di stamparseli se li fa prestare a interesse; che, in virtù di questo, anche il lavoratore che non ha mai chiesto un euro in prestito deve pagare. Ma la realtà è che, ogni anno, sono dei lavoratori, non dei banchieri o dei capitalisti, che producono il valore che la società si spartisce. Il fatto che il loro debito possa aumentare non dipende dal loro consumo smodato, ma dalle leggi del capitale. Perché in questa società, fondata sullo sfruttamento, effettivamente, le leggi dell’economia e della borghesia stabiliscono che al banchiere spettava un po’ più. Da qui nasce il debito del lavoratore: da un sistema di regole che gli impone di cedere al capitale parte di quello che produce e che stabilisce che, se un anno ne cede una parte troppo piccola, l’anno dopo deve “compensare”, cedendone una più grande. Ma di fatto, anche quando le banche prestano generosamente i loro fondi, il reddito dei banchieri (e dei capitalisti) è comunque prodotto dai lavoratori: il banchiere mangia quello che il lavoratore produce e il lavoratore rimane senza un soldo in tasca e con un debito nei confronti del banchiere.

Ma dove stanno tutte queste cicale che avrebbero causato la crisi del debito? Forse nelle favole moralistiche di Esopo, ma non certo nelle fabbriche capitalistiche. Dove lo trovano il tempo per cantare i lavoratori? In fabbrica, nei call center, nei cantieri, non si canta, si lavora. Solo che a differenza delle formiche di Esopo, che poi si mangiano i frutti del lavoro accumulato, lasciando morire di fame l’oziosa cicala, i lavoratori quello che non consumano lo girano direttamente al capitale e a morire di fame sono loro stessi. Questo è il segreto dell’accumulazione capitalistica: pluslavoro e sfruttamento per chi lavora, profitti e interesse per chi controlla il capitale. E se non basta, debiti per i primi e crediti per i secondi.

In Italia, tolte le spese per il pagamento degli interessi, sono venti anni che le tasse superano la spesa pubblica (in termini tecnici, si dice che il “bilancio primario” – quello che non considera la spesa per interessi – è in attivo). Sono cioè venti anni che lo stato incassa dai contribuenti più di quanto spenda e che gira la differenza alle banche. Senza tuttavia far diminuire di un centesimo il debito, il quale, anzi, è aumentato, visto che spesso la spesa per interessi è stata maggiore del surplus primario. Il che significa che, pur sottraendo risorse ai cittadini per darle alle banche, alla fine dell’anno lo stato si trova più indebitato di prima. Le banche non sganciano un euro, anzi lo incassano, ma il loro credito aumenta perché secondo i sacri principi della proprietà privata quanto hanno ricevuto è di meno di quanto era stato loro promesso.

Questi non sono problemi morali, ma contraddizioni economiche. Il capitalismo è in crisi perché lo sfruttamento corrente non è più sufficiente a pagare i debiti passati.

Affrontare la questione del debito all’interno del capitalismo significa cercare una misura dello sfruttamento compatibile con le esigenze remunerative del capitale; significa aiutare il capitale a trovare le soluzioni che non trova da solo; significa razionalizzarne e legittimarne i meccanismi. Ma significa anche non vedere che, se nel capitalismo, i lavoratori e il popolo intero, sono in debito, il problema non possono essere né i lavoratori, né il popolo, né tanto meno il debito, ma il capitalismo.


Conclusioni

Nel capitalismo, la crisi economica non esplode quando la parte del prodotto sociale che spetta ai lavoratori non basta a soddisfare i loro bisogni. Ma quando la parte di cui si appropriano capitalisti e banchieri diventa insufficiente a saziare gli appetiti del capitale. Perché se il lavoratore fatica ad arrivare alla quarta settimana o muore il giorno in cui va in pensione il capitalismo gira bene lo stesso (anzi, gira ancora meglio); ma se il capitale non riceve la dovuta remunerazione, il banchiere non presta, il capitalista non investe e l’economia si intoppa.

Parimenti, il capitalismo non entra in crisi quando devasta il pianeta e assoggetta ogni aspetto della vita sociale, ma quando queste devastazioni e questo assoggettamento mettono a rischio il profitto. Perché nel sistema del capitale conta una sola cosa: la valorizzazione del capitale stesso. Questa è la contraddizione da cui nascono i movimenti che lottano per liberare la società dal capitale.

Le potenzialità e i rischi del movimento no debito dipendono dal rapporto che esso saprà stabilire con questi altri percorsi di lotta al capitalismo. In questo articolo, ho dunque sottoposto a critica la proposta di un audit cittadino sul debito pubblico, adottando espressamente una prospettiva anticapitalista. La critica generale che rivolgo alle forze istituzionali che sostengono il movimento riguarda la loro incapacità di collegare gli attuali problemi sociali alle contraddizioni economiche del capitalismo e il loro tentativo di affrontarli su basi solo morali. A partire da questa critica generale, ho discusso i principali limiti della concezione moralistica e i rischi cui incorre il movimento:
1. La critica morale si fonda sull’assunto che esista un’etica universale, unanimemente condivisibile. Il sistema morale adottato, anche se di rapporti di classe se ne parla poco, è quello della classe borghese, il quale viene tuttavia presentato come sistema morale universale. La critica morale non si sviluppa quindi come parte della lotta di classe – che porta ad uno scontro anche tra sistemi morali – ma fa propria l’ideologia borghese e, a partire da essa, si propone di moralizzare il capitalismo.

2. Posta in termini di diritto all’insolvenza, la campagna per l’audit rischia di indebolire la capacità del movimento di ottenere risultati attraverso la lotta delle masse e rafforza invece il principio della delega agli esperti tecnicolegali.

3. L’accettazione implicita e acritica dei valori borghesi ostacola, invece di unire, i percorsi di chi lotta contro il capitalismo e riproduce le divisioni, comode al capitale, tra buoni e cattivi, anche tra chi il capitale lo combatte.
Friedrich Engels replicava così ai moralizzatori della sua epoca:
Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro, che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe.
(Engels, 
Antidühring, Editori Riuniti, p. 100)
La critica morale non si fonda affatto sulle contraddizioni del capitalismo. Al contrario, fa apparire come errori e degenerazioni gli ordinari processi economici di questo modo di produzione, mantenendo dunque vivo il sogno di un capitalismo dal volto umano. I problemi della società, in una simile concezione, non sono frutto del suo assoggettamento al capitale, ma di fattori esterni: la finanza cattiva, la scarsa informazione, lo stato immorale.

Facendo coincidere la critica del capitalismo con l’indignazione morale piccoloborghese, la proposta di audit svuota di ogni contenuto rivoluzionario le rivendicazioni popolari contro le banche, contro i padroni, contro lo sfruttamento, contro il capitalismo. In questo processo mistificatorio, il rischio politico cui è esposto il movimento è di finire, sicuramente in modo involontario, per fare il gioco del mondo bancario. Perché, se abbandoniamo l’alta morale e torniamo coi piedi per terra, il problema molto concreto è questo: la proposta di un audit cittadino sembra proprio la sponda che cercava il mondo bancario per far passare la richiesta di un default controllato nei paesi più esposti.

Per molti militanti la battaglia sul debito significa una sola cosa: affermare la sovranità del popolo su quella del capitale. Per questo il ripudio del debito è parte di un percorso generale di attacco alla proprietà privata: oggi non pago i debiti, domani non pago il pane, dopodomani non pago la casa, le medicine, i trasporti, la scuola e alla fine non pago più niente, perché sono i lavoratori, non i capitalisti che producono la ricchezza del paese. L’esatto contrario di quanto vorrebbero le forze moralizzatrici della borghesia, per le quali il default controllato si inquadra nelle strategie di conservazione della proprietà privata: oggi non pago il debito così domani potrò pagare il pane, la casa e tutto il resto, compresa la parte rimanente di debito.

Per questo un confronto aperto sull’anticapitalismo e sui rapporti da sviluppare con gli altri movimenti è assolutamente necessario. Ma, sul piano teorico, questo può avvenire solo se si abbandona la morale borghese, che impedisce di ragionare su ogni altro mondo possibile. E su quello pratico, nessun cambiamento reale sarà possibile se non si esce dal legalismo dell’ordine capitalista. Perché chi l’anticapitalismo cerca di metterlo in pratica nelle lotte sociali, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei territori, questo principio ce l’ha ben chiaro: il capitale è il nostro nemico, non perché è illegittimo, ma perché è la legge.

venerdì 9 marzo 2012

Netanyahu annuncia il piano di Israele per «cancellare il Libano dalle mappe»


Il presidente Israeliano Michel  SuleimanNetanyahu: No Libano sarà sulla mappa.  46721.jpeg























Lisa Karpova
http://english.pravda.ru/opinion/columnists/01-03-2012/120646-No_Lebanon_will_be_on_map-0/

Per anni, l’israeliano paranoico aveva strepitato come un’oca sgozzata che il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad avesse detto "Israele dovrebbe essere cancellata dalle carte (geografiche)". Naturalmente, l’uomo non aveva mai detto nulla di simile, era una deliberata errata traduzione fatta ad uso e consumo per demonizzare Ahmadinejad e l’Iran e giustificare il portare un attacco non provocato contro la repubblica islamica dell’
Una volta per tutte, ma cosa ha veramente detto Ahmadinejad? Per citare le sue esatte parole in farsi:

"Imam ghoft een rezhim-e ishghalgar-e qods bayad az safheh-ye ruzgar mahv shavad".

L’intera citazione tradotta direttamente in inglese:

"The Imam said this regime occupying Jerusalem must vanish from the page of time".

La traduzione farsi–inglese parola per parola:

Imam (Khomeini) ghoft (said) een (this) rezhim-e (regime) ishghalgar-e (occupying) qods (Jerusalem) bayad (must) az safheh-ye ruzgar (from page of time) mahv shavad (vanish from)
.

La (nostra) traduzione parola per parola farsi–inglese/italiano aggiunta:

Imam (Khomeini) ghoft (said/ha detto) een (this/questo) rezhim-e (regime) ishghalgar-e (occupying/occupante) qods (Jerusalem/Gerusalemme) bayad (must/deve) az safheh-ye ruzgar (from page of time/dalla pagina del tempo) mahv shavad (vanish from/svanire).

Traduzione in italiano fluente:" Khomeini ha detto che questo regime che occupa Gerusalemme deve svanire dalla pagina del tempo".

Questo dovrebbe far cessare la campagna di disinformazione messa in giro con lo scopo di preparare il terreno ad un attacco aggressivo nei confronti dell’Iran e dovrebbe far cessare il loro delirio paranoico secondo il quale l’Iran stia costruendo un’arma nucleare con lo scopo di "cancellarli dalle carte geografiche".

Di sicuro, rimangono degli isterici patentati anche se raccolgono, ogni anno, miliardi di soldi dei contribuenti americani per alimentare quella stessa isteria e la loro libidine guerrafondaia mirante a deporre i governi che non gli piacciono, preferibilmente facendolo fare ad altri tipo NATO o forze armate USA.

Ironia della sorte, quando Netanyahu ha veramente detto in una intervista che, una volta che Israele avrà sistemato la pratica Iran, non ci sarà più nessun Libano sulle carte geografiche, non c’è stato nessun trambusto e nessuno strepitìo.

Durante una conferenza tenutasi in Svizzera in occasione della costruzione in tale Paese di una linea ferroviaria isrealiana, il quotidiano tedesco Die Zeit ha intervistato il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu: "Congratulazioni signor Netanyahu, la mia prima domanda in occasione dell'inizio della costruzione di questa linea ferroviaria è se lei conferma quanto sostenuto dai Servizi Segreti Siriani circa un vostro attacco al Libano?".

In risposta, Netanyahu dichiara:

", e non è un segreto che la cosa si verificherà con il sostegno degli USA e degli Stati del Golfo ed è per questo motivo che sono stati avvisatima, prima che lei me lo chieda, vorrei che lei desse uno sguardo alla nuova carta geografica del mondo e vedesse che non vi è una nazione con quel nome".



Dato che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha già rilevato 388 violazioni israeliane dello spazio aereo del Libano, non c’è dubbio alcuno circa cosa Irsaele stia progettando per il Libano stesso.

Il presidente Michel Suleiman ha condannato la recente dichiarazione del Primo Ministro israeliano  Benjamin Netanyahu circa il Libano, affermando che l’esistenza del Libano non risentirà di tali dichiarazioni.

Curioso e strano che nessuno, nessuna grande voce, nessuna grande discussione, nessuna delle nazioni dell’Occidente si sia levata preoccupata dal fatto che questo Stato, nel quale abbondano tanto la segregazione razziale quanto le testate nucleari – e che in passato ha già usato contro il Libano delle armi di distruzione di massa commettendo un autentico genocidio contro il popolo del Libano – stia nuovamente minacciando il Libano.

Suleiman ha poi aggiunto: "Il Libano è lunica nazione ad aver battuto militarmente Israele e lo Stato ebraico sta ancora riprendendosi dalla cosa".

In effetti, quando nel 2006 Israele cercò di spazzar via dalle carte geografiche il Libano, fu solo la difesa fornita da Hezbollah a fermarla ed a respingerne i soldati piangenti e con la coda fra le gambe.

E sottolinea il presidente: «La differenza è che il Libano è lesatto opposto del sistema razzista di Israele, sistema che non ha uguali al mondo».

Curioso! Tutte le nazioni attaccate dall’Occidente e nemiche di Israele, dicono la stessa cosa: sono dei modelli di tolleranza, fratellanza e prosperità e di diritti umani, diversamente dagli alleati occidentali dell’Arabia Saudita, Qatar, ecc. che sono orribili esempi feudali di pratiche barbariche e di arretratezza.

Suleiman ha poi aggiunto: "Il Libano è uno dei Paesi costituenti delle Nazioni Unite e primi firmatari della Dichiarazione Universale dei Diritti dellUomo e le parole di Netanhyau riflettono quanto gli stiano a cuore gli esseri umani".

A-Sharq al-Awsat 
 quotidiano di base a Londra – ha recentemente riferito che la Siria ed Hezbollah in Libano, hanno un alto livello di allerta in previsione di un attacco israeliano sul Libano stesso. Stando all’articolo, Hezbollah segue con attenzione l’ammassamento di truppe dell’esercito israeliano lungo la frontiera del Libano.

È interessante osservare anche che l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani, abbia ammesso che la linea ferroviaria israeliana sia finanziata dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita. A domanda se non fosse preoccupato per la sua gente, ha ribadito le strette relazioni amichevoli fra le due nazioni. Il Qatar è quello che ha avuto degli interessi personali nel fomentare il terrorismo ed il cambio di regime in Libia, e ne ha di analoghi in Siria ed altrove.

Non è curioso che Israele possa agitare impunemente il pugno contro chiunque non gli piaccia ed anche mantenere il monopolio degli armameneti nucleari nel Medio-oriente? Proprio quello stesso Paese che ha minacciato tutte le capitali d’Europa?


giovedì 1 marzo 2012

La valle non s'arresta anzi, resiste



EZIO BERTOK
29.02.2012
Cronaca della giornata di ieri raccontata da uno degli storici attivisti contro la costruzione della Tav. Mentre Luca Abbà è ancora in coma, ma reagisce alle terapie. 
La denuncia dei No Tav: "A fuoco le nostre auto".
le ragioni del no.

La Val di Susa non si arresta: recitava così uno striscione esibito con orgoglio nella manifestazione dei settantamila di sabato scorso. E' passato un secolo da allora, Luca è ancora in rianimazione tenuto in coma farmacologico e lo slogan sembra acquistare oggi un terzo significato, riferito appunto a Luca che non ha nessuna intenzione di mollare: la prognosi è ancora riservata ma risponde bene alle cure e i medici lasciano trapelare un certo ottimismo, anche se le sue condizioni restano molto gravi. Facciamo tutti il tifo per lui.

La scritta nello striscione si riferiva ovviamente ai 26 notav arrestati più di un mese fa per mandare un segnale minaccioso ad un'intera valle che sembra non avere più confini; ma voleva anche ricordare che la Val di Susa non ha alcuna intenzione di fermarsi: sarebbe come buttare a mare 23 anni di lavoro.

La notte tra lunedì e martedì si può riassumere in due fatti, così diversi e apparentemente lontani eppure così vicini l'uno all'altro: chi non conosce il movimento notav stenta a capire. Dopo l'assemblea allo svincolo dell'autostrada alle porte di Bussoleno un secondo blocco nasceva qualche chilometro a monte, vicino all'abitato di Salbertrand, pochi chilometri prima di Oulx.
 Nelle stesse ore davanti al Cto dove è ricoverato Luca un nutrito gruppo di militanti notav, sempre in prima linea da anni, iniziava una veglia di preghiera che sarebbe durata per tutta la notte. «Cattolici per la vita della valle» è il nome del gruppo che da mesi, quasi quotidianamente, si reca alle reti del non cantiere: la loro è una delle tante anime di un movimento plurale che accoglie e non esclude.

Il blocco sull'autostrada e la statale a Salbetrand è stato sgomberato a forza nella notte con il solito abbondante uso di idranti e lacrimogeni il cui fumo penetrava tra le case mentre gli abitanti aprivano le porte a chi rischiava di rimanere intrappolato tra il gas e i manganelli.

Il presidio alle porte di Bussoleno invece ha tenuto: l'autostrada continua a rimanere bloccata, e nelle statali che la fiancheggiano le code di tir si allungano, la valle è bloccata. I poliziotti erano riusciti soltanto a riaprire un varco per effettuare i cambi turno nell'area militarizzata, se pur a costo di passare da un'altra valle (la Val Chisone) superare il colle del Sestriere e ritornare indietro percorrendo a ritroso la parte alta della Val di Susa: come se per andare da Torino a Milano uno fosse costretto a passare da Genova.
La mattinata sembra insomma trascorrere tranquilla al blocco alle porte di Bussoleno fino a quando non compaiono da lontano i lampeggianti blu di centinaia di blindati: le nonne notav smontano i tavolini con i viveri e i generi di conforto e ci disponiamo sugli svincoli dell'autostrada. Iniziano il lavoro gli idranti che aprono la strada alle ruspe, centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa da una parte e altrettanti carabinieri dall'altra. Ci prepariamo al peggio e indietreggiamo un poco.

Poi ritorniamo sui nostri passi, con le mani alzate e il volto rigorosamente mostrato alle videocamere della Digos. In centinaia, fino a un metro dai poliziotti schierati. Mentre tutti si siedono per terra disposti a farsi trascinare via a forza e sapendo di rischiare il gas dei lacrimogeni due ragazzine rimangono in piedi, proprio in mezzo al gruppo: una armata di un violino e l'altra di una fisarmonica. E' andata avanti così, almeno per un'ora: noi seduti per terra, le ragazzine a suonare, un sindaco e alcuni amministratori a tentare un'improbabile dialogo con gli ufficiali e la Digos.

Non si sa bene cosa sia successo poi: forse da Roma giungevano gli echi delle dichiarazioni della ministra Cancellieri che suggeriva «una forte riflessione e molto dialogo», forse l'appello del sindaci per la sospensione dei lavori a Chiomonte produceva qualche effetto o forse semplicemente il prefetto aveva capito che era il caso di allentare la tensione. Sta di fatto che a poco a poco, uno alla volta i cellulari tornavano a riempirsi di poliziotti fino a pochi istanti prima schierati davanti a noi e facevano dietro front. L'autostrada veniva sgomberata e subito riconquistata dai notav.

Alle 18:30 nuova, affollata assemblea, solo posti in piedi allo svincolo autostradale alle porte di Bussoleno. Il traffico sulle statali che fiancheggiano l'autostrada si fa più intenso: sono i valsusini che rientrano dal lavoro e si fermano all'assemblea, ogni treno che passa lancia un fischio di saluto al presidio.

La sera precedente, quasi a mezzanotte le telecamere di Gad Lerner avevano dato la parola al presidio e tutti hanno potuto vedere la determinazione e la pacatezza di questi notav dipinti quasi sempre come violenti e arroganti.

All'assemblea di domenica scorsa qualcuno aveva invitato ad opporre resistenza passiva, fino al martirio: era intervenuto Luca a correggere dicendo che non avevamo bisogno di martiri né di eroi, solo di grande convinzione che possiamo farcela.
L'autostrada e una statale rimangono bloccate, la resistenza continua.



 la nuova destra rappresentata da Bersani e PD dice delle stronzate immani sui NO TAV
la risposta dell'anarchico Marco Travaglio

venerdì 24 febbraio 2012

Lo strano governo di SuperMario Monti



Gorka Larrabeiti 
Tradotto da  Alba Canelli
Editato da  Gorka Larrabeiti

    • Monti2011111302973809853
      Ansa
    Economista, ex Commissario Europeo, 68 anni, appena nominato senatore a vita, Mario Monti ha avuto l'incarico di formare il nuovo governo dopo che Silvio Berlusconi ha dato le dimissioni il 12 novembre. L'unico commento che ha concesso ai giornalisti dopo essere salito al Quirinale dal presidente Napolitano è stato «Oggi è una bellissima giornata».
    Mario Monti promette tempi rapidi per formare il nuovo governo. Parla  di necessità di sforzi per il risanamento finanziario, per la crescita, e l'equità sociale. E ai partiti dice: «Assumo questo incarico con profondo rispetto nei confronti del Parlamento e delle forze politiche: opererò per valorizzarne l'impegno comune per uscire presto da una situazione che presenta aspetti di emergenza ma che l'Italia può superare con uno sforzo comune».

Saloni di Washington. Le cronache della prima visita ufficiale di Monti negli Stati Uniti dicono molto dello stato e della democrazia in tempi di capitalismo finanziario. La fitta agenda comprendeva la classica scena nella sala ovale della Casa Bianca, dove Obama ha affermato: "Ho piena fiducia nella leadership di Monti e confido che possa guidare l'Italia in questi momenti difficili. Voglio dire, che apprezziamo molto il forte inizio e le misure così efficaci che sta promuovendo".  Monti è stato ricevuto presso la sede del New York Times, del Petersen Institute for International Economics, e a Wall Street, dove è stata sventolata la bandiera italiana in onore dell'illustre ospite.



Il suo incontro più impegnativo ha avuto luogo a porte chiuse nell'edificio del gruppo Bloomberg, la più grande rete d'informazione finanziaria mondiale. Lontano dalle telecamere, Monti si è circondato di diversi squali della finanza mondiale: tra cui, Lloyd Blankfein, direttore esecutivo di Goldman Sachs, George Soros, noto speculatore finanziario, Peter Grauer presidente del gruppo Bloomberg e Henry Kravis del fondo di private equity KKR, il cui gesta hanno ispirato Wall Street, il film con Michael Douglas, nel ruolo di Gordon Gekko. Ecco il commento di Mario Monti, una vecchia conoscenza di molti presenti all'uscita della riunione: "Credo di averli convinti, anche se non direbbero mai il contrario in una riunione plenaria". Questa è la democrazia oggi: un presidente del governo non eletto democraticamente deve convincere un elettorato diverso dal popolo sovrano: i mercati. E sembra che Monti ha dovuto convincerli a giudicare dalla traiettoria della pressione sui titoli italiani, che hanno recuperato, dopo che Standard and Poor aveva punito 34 banche italiane.


SuperMario Monti, Salvatore dell'Europa. Anche se non ha ancora raggiunto la cifra tonda di 100 giorni, momento in cui di solito si fa il primo bilancio di un governo, già Mario Monti, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, è stato messo su un piedistallo. In concomitanza con la sua prima visita negli Stati Uniti, la rivista Time gli ha dedicato una copertina con questo titolo: "Può quest'uomo salvare l'Europa?". Prima della consacrazione negli Stati Uniti, Philip Stephens, uno degli editorialisti del Financial Times, titolava così la sua analisi:L'Europa poggia sulle spalle di Monti, il politico "più interessante" del vecchio continente, più di Sarkozy e della Merkel.


Il 15 febbraio Mario Monti è intervenuto al Parlamento europeo. Dicono che l'intervento è stato ben accolto dal portavoce socialista Swoboda ("Torna al palcoscenico europeo in modo che possiamo scegliere"), il liberale Verhofstadt ha proposto Monti per risolvere i problemi di altri paesi appena finisce con l'Italia, e il portavoce dei Verdi, Harms, si è congratulato con lui per il suo contributo alla politica dell'UE che sarà "più civilizzata". Molti poteri forti sostengono l'esperimento politico che si svolge in Italia. L'Italia è ritornata, dicono. Monti ha detto al Parlamento che l'Italia non applicherà più passivamente le linee d'azione dell'UE, ma sarà "promotrice di queste".

E bisogna ossevare con attenzione ciò che sta accadendo rapidamente, velocemente in un paese che spesso anticipa, chiamasi fascismo, democrazia cristiana o populismo mediadico, il corso della politica europea. La versione ufficiale del nuovo ruolo d 'Italia si riassume in un semplice sillogismo: se l'Italia dovesse fallire, fallirebbe l'intera Unione europea, e se l'UE crolla, crollerebbe l'economia globale. Tuttavia, ci sono ulteriori motivi di questa esigenza idell'Italia. Lo stesso Monti ha riconosciuto in questa intervista a Die Welt che l'Europa deve avere più di due poli, deve basarsi su qualcosa di più rispetto all'asse franco-tedesco Merkozy. Questo terzo polo italiano può essere utile affinché l'UE a superi la divisione tra paesi "maiali" e il direttorio franco-tedesco. Ma anche affinché gli Stati Uniti non perdano piede in una vecchia colonia  che ora  cercaaltri referenti globali, come la Cina, per uscire dalla crisi. A SuperMario, allora, converrebbe ripristinare il vecchio ordine transatlantico.


Democrazia "strana"  

Secondo le stesse parole di Monti, il suo governo "tecnico" è "strano ma molto interessante." Strana è stata la sua nascita: la Presidenza della Repubblica ha forzato le dimissioni di Berlusconi a causa dell'emergenza creata dagli attacchi finanziari. Strana è la composizione del governo, la maggior parte dei membri sono "professori", "saggi", ma ci sono anche "banchieri" e "Papaboys"di vario ordine. Strano è, che non si sia eliminato il conflitto di interessi all'interno del governo:vedasi  il caso di Corrado Passera, Ministro dello Sviluppo Economico Infrastrutture e dei Trasporti, proprietario di 7 milioni e mezzo di azioni della Banca Intesa, con cui potrebbe interferire nelle decisioni da prendere per l' NTV (Nuovo Traspoto Viaggiatori, N.d.T.), un'azienda che costruisce treni ad alta velocità in grado di competere con Trenitalia. Strano è che i membri del governo hanno vari nobili e che il Gran Maestro del Grande Oriente Massonico sostiene che Monti ha tutte le caratteristiche per essere "un fratello perfetto".
Questo governo è nato con un sostegno parlamentare molto strano. Mai c'era stato un governo con tanto sostegno in parlamento: tutti i principali partiti - di centro-destra cristiano-democratici - tranne la Lega Nord lo sostengono. Molto strana è stata la velocità con cui il governo Monti ha ottenuto dal Parlamento il sostegno per la riforma delle pensioni, che ha elevato a 67 anni l'età minima. Tale è stata la velocità di esecuzione del decreto che Sarkozy non credeva fosse già in vigore al primo incontro con Monti.
Stranissimo è stato che una riforma delle pensioni sia stata contestata con solo poche ore di sciopero da parte dei sindacati. Strano che i lavoratori del sindacato FIOM siano stati esclusi dallo stabilimento FIAT di Pomigliano, e che il brutale accordo imposto ai lavoratori in questa fabbrica sia esteso a tutti gli stabilimenti Fiat in Italia.
Strana è la mancanza di sostegno da parte dei partiti politici di centro-sinistra al sindacato FIOM, quando denunciamo la violazione della Costituzione.
Bizarra è stata l'operazione di polizia contro attivisti No Tav che ha portato a ventisei arresti il ​​26 gennaio con l'accusa di lesioni, violenza e resistenza all'arresto durante i combattimenti nel luglio del 2011, un'operazione il cui obiettivo era quello di criminalizzare il movimento di resistenza all'inutile treno dell'alta velocità. Stranissima è stata la rivolta dei Forconi in Sicilia: una rivolta popolare di una zona impoverita che le mafie e nuovi leader hanno cercato di sfruttare.
Strana è stata l'operazione mediatica da parte della polizia contro gli evasori fiscali nel bel mezzo del Natale nel cuore di Cortina D'Ampezzo, meta invernale di una classe benestante. Anche i successi di questo governo sono piuttosto rari: da un lato, questo governo non sosterrà la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020 perché vogliono evitare un indebitamento ulteriore, d'altra parte, questo governo "cattolico" è molto probabile che sia in grado di eliminare l'esenzione dal pagamento delle tasse sugli edifici di proprietà (ICI, N.d.T.) della Chiesa in cui si svolgono attività commerciali. Che strano che la Chiesa non protesta. D'altro canto, è anche molto strana questa provocazione di un abile oratore come Monti: "I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso (di lavoro) per tutta la vita. D'altra parte, diciamo la verità, che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita. E’ più bello cambiare e accettare nuove sfide".Sotto questa provocazione viene annunciata una rigida riforma del lavoro e una modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che regola il licenziamento.
Alla nascita del suo strano governo, Monti ha detto che l'orizzonte temporale del suo governo sarebbe il 2013, data della fine della legislatura, a condizione che le parti mantengano il loro sostegno fino ad allora. E' molto strano il silenzio e il sostegno di Berlusconi. Paradossalmente, la potenziale fragilità "democratica" del governo Monti si basa sulla sua solidità "tecnica". In effetti, da Il Sole 24 Oregiornale dei datori di lavoro italiani, già si chiede che questo governo "non sia solo transitorio", e i democratici suggeriscono che questo governo "di armistizio" duri cinque anni. È normale. Secondo lo storico Paul GinsburgMonti "ha ricostruito in breve tempo una vera destra classica". Che la destra governi l'Italia non ha nulla di strano.
 
Mario Monti secondo dabobabo
Un'altra opposizione è possibile: i "benecomunisti". Nella democrazia "strana", il Parlamento diventa una terra desolata. Dà speranza, tuttavia, che l'opposizione extra-parlamentare continua, lentamente, ma inesorabilmente, extramediática, maturando e compattandosi senza soldi e dal basso.
Il 12 e 13 giugno 2011, essendo Berlusconi ancora il presidente, 26 milioni di italiani hanno difeso diversi beni pubblici: acqua, servizi pubblici locali, il No alle centrali nucleari, e l'uguaglianza davanti alla legge. Da allora, su questo successo si è basato un nuovo soggetto politico. Alla fine di gennaio si è svolto a Napoli un Forum dei Beni Comuni, che stabilisce come essenziale la creazione una piattaforma politica per sostenere ed implementare i risultati del referendum vinto da quei 26 milioni di cittadini di fronte ad un altro attacco, questa volta in forma di decreto del governo Monti, che riprende e intensifica la legislazione del governo Berlusconi che voleva, ma non ha potuto imporre. Qui si leggere la relazione introduttiva del Forum, con proposte di azione molto concrete.
Il 10, 11 e 12 febbraio nell'ambito del Teatro Valle Occupato, un bene pubblico che era sul punto di essere smantellato, ha accolto con favore la campagna europea per un'Europa dei popoli per costruire una alternativa europea. Una costituente europea dal basso che risponda a questa "rivoluzione dall'alto",come le chiama Etienne Balibar, che sta scuotendo l'Europa.Esiste già una Carta europea dei Comuni. A poco a poco si sta creando un concetto semplice e convincente. Quello comune. Un movimento che si rivolge al presente, l'ecologia sociale, evocando la tradizione politico comunista, aggregando e non dividendo.
La bellezza di questo movimento è che espande l'idea di bene comune. L'Europa, l'informazione, i servizi pubblici, l'ambiente, la cultura, le Costituzioni, il reddito di cittadinanza garantito, il lavoro e la bellezza non possono essere "strani" o "insoliti" perché sono proprio questo: beni comuni.


Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=6875

mercoledì 22 febbraio 2012

EUROBANKSTERS Anche Sassari contesta duramente Napolitano

 

di: 
Matteo Mascia

rinascita.eu



Alcuni manifestanti contestano Napolitano a Sassari

Nelle ultime ore la Sardegna è stata particolarmente unita. Con il collante della visita del capo dello Stato. Anche nella sua tappa a Sassari, il presidente Napolitano ha difatti subito una pesante contestazione. All’arrivo nella città è stato accolto da slogan contro il governo e lo strapotere della finanza internazionale. In prima linea i militanti del Movimento pastori sardi ed i “Commercianti ed Artigiani liberi antiEquitalia”, Sardigna Natzione Indipendentzia , il gruppo storico dei movimenti indipendentisti sardi con il suo leader Bustianu Cumpostu in prima fila nella contestazione del presidente Italiota Giorgio Napolitano. Che innalzavano striscioni contro l'esecutivo di Monti per denunciare il particolare legame che lega il Quirinale a Palazzo Chigi. 

 Nella città turritana erano presenti anche nuclei del Partito comunista dei lavoratori e dell'Unione sindacale di base. Organizzazioni che combattono l’attacco al diritto del lavoro, “riforme” che Napolitano ha definito “auspicabili e necessarie” nel suo discorso al Consiglio regionale di Cagliari. “Rifiutiamo ipocrisia e reverenze retoriche”, ha dichiarato in una nota il leader del Pcl Marco Ferrando. “Giorgio Napolitano è oggi il supporto politico fondamentale di un governo di Confindustria e banche che attacca pensioni, lavoro, diritti” - ha spiegato il leader trotzkista – La contestazione di Napolitano è parte insostituibile dell'opposizione al governo. Da oggi le visite del Capo dello Stato non rappresenteranno più una zona franca”. 


I partiti indipendentisti hanno rincarato la dose invitando l'ex politico del pci a non presentarsi più in terra sarda. Parole dure e scandite più volte. Tanto che il Presidente, sulla falsariga di quanto avvenuto a Cagliari, si è trovato costretto a replicare in qualche modo. “Non si può pretendere di battere la crisi economica con le ideologie – ha pontificato Napolitano dalle aule dell'Università di Sassari – Occorre gettare le basi per lo sviluppo di un contesto europeo che garantisca lo sviluppo”. Parole accolte dai fischi di chi manifestava. Il “garante della Costituzione” si è poi lasciato andare nella solita apologia del governo di Mario Monti, che avrebbe permesso di “fornire rinnovata credibilità in sede europea al Paese”. Retorica che non trova riferimenti concreti nella realtà. Solo un ipocrita o un bugiardo patentato potrebbe sostenere che la “terapia del rigore” varata dai Tecnici possa avere effetti positivi. 


 I dati relativi alla recessione testimoniano di come non ci possa essere sviluppo senza gli stimoli di una oculata spesa pubblica. Napolitano ha poi omesso di analizzare la cosiddetta “riforma” del mercato del lavoro. Rimuovendo la sua giovanile idealità (evidentemente ipocrita), l'inquilino del Quirinale ha continuato a spingere per un totale superamento dell'attuale architettura normativa. Una visione ideologica che mette in pericolo le garanzie a tutela di milioni di lavoratori. Non possiamo però aspettarci troppo da chi si ostina a fornire analisi partigiane. Parole che diventano gravissime quando ci si complimenta con la “troika” per quanto accaduto ad Atene. 


Una difesa d'ufficio per un pacchetto “lacrime e sangue” che rischia di sprofondare nel baratro un Paese vicino e fratello. Una soddisfazione che si staglia contro il dolore e le difficoltà della popolazione greca. Un atteggiamento che molti sardi non si sono sentiti in grado di sostenere. Compresi i Sindaci del territorio. Rappresentanti dello Stato che ormai non sanno come venire incontro alle esigenze delle comunità amministrate. Per loro Napolitano è lo specchio di uno Stato che fa finta di non vedere. Un presidente della Repubblica che non ha mosso un dito di fronte alle norme sulla finanza pubblica che rischiano di stravolgere il Titolo V della Costituzione e le prerogative locali. Siamo sicuri che una volta tornato a Roma il silenzio continuerà. Conta solo ciò che interessa alla finanza. 

mercoledì 15 febbraio 2012

Luciano Gallino: «Come affrontare il finanzcapitalismo»


Intervento del 4 novembre 2011 alla Fiom di Torino in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Luciano Gallino, «Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi» (Einaudi, 2011), rivisto dall’autore.
Sono grato agli organizzatori, in particolare a Gianni Rinaldini, per avermi dato modo di discutere con un pubblico qualificato alcuni temi della crisi economica in corso. Comincerei suggerendo di prender nota di una frase, pronunciata da un personaggio autorevole, che per noi oggi è molto attuale: «D’ora innanzi regneranno i banchieri». Si può essere d’accordo. Oggi effettivamente i banchieri dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma perché la politica ha aperto loro le porte. Questa frase è stata pronunciata da un banchiere francese, Jacques Laffitte, alla fine della Rivoluzione di Luglio del 1830, mentre stava accompagnando il duca d’Orléans in trionfo all’Hôtel de Ville. Abbiamo pertanto a che fare con una questione che non ha fatto che ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad essa sia stato posto rimedio (sia pure per  un breve periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929.  Un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Alla luce di queste opposte considerazioni toccherò quattro-cinque punti, traendoli dal mio ultimo libro Finanzcapitalismo. Per prima cosa, la crisi ha uno dei suoi punti di origine nella creazione smodata di denaroda parte delle banche private. Lo hanno fatto anche le banche centrali e nazionali, ma sono state soprattutto le banche private che hanno creato un’immensa quantità di denaro dal nulla. La crisi – secondo punto – è nata dalla cosiddetta «finanza ombra», vale a dire dai flussi finanziari di capitale che circolano al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia dell’autorità di vigilanza. Terzo punto fondamentale, nel preparare e nel far esplodere la crisi, non gestendola e lasciandola inasprire fino a oggi, hanno avuto un ruolo fondamentale la politica, le leggi, le norme che sono state varate per liberalizzare sia i movimenti di capitale sia la creazione di denaro in nuove forme.  In questo quadro che ha visto la politica spalancare le porte alla finanza hanno svolto un ruolo centrale l’Europa, i suoi politici e le sue banche. Il punto finale lo riassumerei così: sarebbe indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale enorme problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla anche nella Ue sono del tutto inadeguate. Ora, senza una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo obiettivo dell’Unione Europea, visto che di lì nascono i suoi guai, le cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo,  dello stato sociale.
Partiamo dal primo punto: l’incredibile creazione di denaro che ha avuto luogo soprattutto negli anni 2000, sebbene fosse cominciata assai prima. Le banche private creano denaro dal nulla ogni volta che concedono prestiti. Molti pensano e sembrano dare per scontato – e fra questi, a volte, anche i commentatori in materie economiche che pur dovrebbero saperne qualcosa di più –che le banche raccolgano depositi (piccoli, medi, grandi) e sulla base di questi concedano dei prestiti alle imprese, alle famiglie, ai lavoratori. Non è affatto così:una grandissima parte del denaro viene creato dalle banche dal nulla attraverso il credito. Una volta si parlava di denaro scritturale perché veniva scritta in un libro dei conti, in una partita doppia, la somma prestata a Tizio o a Caio; oggi il denaro si crea con alcuni tocchi sulla tastiera. Una certa quantità di denaro viene ancora creata dalle banche centrali, in forma di prestiti e di  denaro contante – monete o banconote, gli unici oggetti per i quali si applichi ancora la dizione «stampare denaro» – ma quest’ultimo rappresenta meno del 3 per cento del denaro oggi in circolazione. È stata una modifica di grande portata. Basti pensare che ancora negli anni Cinquanta e Sessanta monete e banconote rappresentavano il quaranta per cento e più, a seconda dei paesi, del denaro circolante, mentre oggi in tutti i paesi sviluppati siamo intorno al tre per cento o meno. Forse un dieci per cento del denaro in circolazione è creato dalle banche centrali, compresa la Banca Centrale Europea. A questo proposito bisogna   tener conto che vi sono diversi tipi di denaro: c’è il denaro cash, il contante, il denaro  dei depositi, che vale più o meno lo stesso, e poi i prestiti  o i risparmi vincolati a tre mesi, i risparmi vincolati a due anni, le obbligazioni, i tanti titoli inventati dalla finanza.
Come hanno fatto le banche a partire degli anni Novanta e poi con una fortissima accelerazione negli anni Duemila a creare denaro senza limiti? Hanno utilizzato uno strumento micidiale che si chiamacartolarizzazione o titolarizzazione (dall’inglese titrisation o  securitisation). Esso consiste nella trasformazione di  attivi  che figurano nel  bilancio di una banca in titoli che si possono commerciare, rivendere, comprare. Il denaro viene creato concedendo un prestito: qualcuno, ad esempio, chiede un mutuo; questo prestito diventa un attivo (registrato sulla parte sinistra del bilancio che riguarda gli attivi) e si trasforma in un debito verso la banca da parte di quello che ha avuto il prestito. Le banche hanno inventato secoli fa questo particolare modo di creare denaro, ma dagli anni 90 in poi ne hanno fatto un uso eccessivo. Che cosa è avvenuto? Quando un prestito viene concesso figura tra gli attivi di una banca (una banca percepisce gli interessi), ma quel capitale è immobilizzato. Inoltre, la banca stessa è soggetta a vincoli, che derivano dalle normative della banca centrale  e dalle regole stabilite dagli accordi di Basilea 1 e 2, già da tempo operativi, e dal nuovo accordo Basilea 3  non ancora pienamente in vigore. Sulla base di questi vincoli le banche devono tenere di riserva dei capitali buoni per una certa quota rispetto a ciò che prestano. Le norme di Basilea 2 stabiliscono che una banca dovrebbe tenere di riserva e depositare presso la banca centrale, la BCE nel caso dell’Eurozona, l’8 per cento di quello che presta, vale a dire che per ogni 100 Euro che presta deve depositarne 8 in riserva. Se i prestiti sono tanti, i capitali da depositare in riserva crescono e una banca a un certo punto non è più in grado di effettuare altri prestiti. Il fatto è che concedere prestiti rende molto, sotto forma di  interessi, commissioni, spese amministrative, consulenze, plusvalenze e altro.
Ecco allora il colpo di genio.  Sviluppando un’invenzione di parecchi anni addietro, esso è consistito neltrasformare il prestito in titoli commerciali, in titoli cioè che possono andare sul mercato. Quindi, quello che è avvenuto con sempre maggiore ampiezza nei primi anni 2000 è stato che il prestito veniva concesso e  poi il titolo di debito, sovente una ipoteca, era ceduto quasi subito a una società di scopo, in molti casi istituita dalla stessa banca. La sigla più nota per designare tali società è SIV (Structured Investment Vehicle) che sta per «Veicoli di Investimento Strutturato». Altrettanto rapidamente il Siv trasformava  dei pacchi di titoli   in un supertitolo commerciabile che immetteva sul mercato finanziario. Cedendo il prestito ad un veicolo, magari da essa stessa creato e in molti casi collocato nelle isole Cayman o in altri paradisi fiscali, la banca otteneva innanzitutto di recuperare il capitale immobilizzato in attesa della scadenza,  ma soprattutto otteneva che quel prestito sparisse dal bilancio, poiché esso veniva legalmente venduto (anche se sulla effettività della vendita si possono avere dei dubbi) al  veicolo da essa stessa creato, cioè alla società di scopo. Quello spazio creato dal prestito, che diventava un titolo uscito dal bilancio, permetteva alla banca di creare nuovo denaro concedendo altri prestiti. Ciò si può fare per un primo prestito, per il secondo, il terzo, il decimo e via dicendo. Esattamente in questo modo sono stati creati migliaia di miliardi di dollari e di euro nei primi anni 2000, ma nell’agosto del 2007 scoppia la crisi e il processo di cartolarizzazione rallenta.
Questo tipo di processo è anche alla radice della questione dei mutui facili. Infatti nel fervore di creare sempre nuovo denaro, ossia di concedere sempre nuovi prestiti per poi rimuoverli dal bilancio,  le banche e i numerosi enti coinvolti nel processo – in cui entrano non solo banche ma pure compagnie di assicurazione, enti specializzati nel concedere mutui, società di ri-assicurazione dei medesimi, fondi speculativi – hanno guardato sempre meno alle qualità del creditore, preferendo non solo ignorare quanto il creditore guadagnasse o a quanto ammontasse il suo patrimonio, ma addirittura evitando accuratamente che il creditore stesso si ponesse il problema di potersi o meno permettere il prestito. In pratica, sono stati venduti quasi a forza milioni di crediti, in prevalenza mutui per la casa, ma anche prestiti per gli studenti, mutui per comprare automobili o affittare un magazzino, tutti ipotecari, e il mutuo, ovvero l’ipoteca su di esso o a esso collegato, era trasformato in un titolo che rendeva subito, intanto perché era venduto,  poi perché  continuava a rendere permettendo  di concederne molti altri.
In questo modo le banche – che negli Stati Uniti, ricordo, dovevano avere in riserva presso la FED dieci dollari ogni cento che prestavano – operavano con un effetto leva apparente intorno a uno a dieci, e uno effettivo che superava uno a trenta.  Da  secoli questo 1:10 è più o meno il tasso a cui le banche operano, nel senso che fin dell’epoca dei banchi degli orefici –  che  avevano un caveau di roccia o di ferro in cui depositivano l’oro dei propri clienti – con la diffusione dei titoli di credito e di altri titoli scritturali l’attività bancaria si è sempre fondata sul presupposto che è quasi impossibile che tutti i clienti corrano nello  stesso momento agli sportelli e ritirino i loro depositi. Quindi le banche hanno cominciato a prestare e tutt’ora prestano soldi che non hanno. E l’ipotesi è sempre stata che intorno a uno a dieci o poco più fosse un effetto leva ragionevole. Spostando i mutui, le ipoteche, i titoli da un’altra parte e facendoli sparire dal bilancio, l’effetto leva è diventato uno a quindici, uno a venti, uno a trentadue, che è considerato il valore medio prevalente tra le banche quando esplode la crisi nell’estate del 2007. Ma c’erano allora istituti finanziari, come ricordo nel mio libro, che avevano un effetto leva di uno a ottanta, perfino di uno a cento, il che significa che su un  dollaro di soldi propri gravavano 99 dollari di debiti. Quindi quello a cui  stiamo assistendo oggi è per certi aspetti un immenso processo di deleveraggio, ovvero di smontaggio dell’effetto leva, di banche che erano solite operare con rapporti di  uno a trenta e più tra capitali propri e debiti,  e adesso cercano di ridiscendere a uno a venti, uno a dieci.
Questo però è solo una parte del processo di creazione del denaro, perché le banche hanno fatto di più e di peggio. Ormai i grandi gruppi finanziari sono società che ne controllano centinaia di altre, tra cui banche di diverso tipo (dalle banche d’investimento alle banche commerciali), istituti specializzati in ipoteche, casse di risparmio, compagnie di assicurazione, società specializzate nelle re-ipotecazione di ipoteche e altro. I grandi gruppi finanziari, oltre a creare trilioni di dollari o di euro concedendo prestiti sulla casa, sull’auto o sullo stabilimento,  concedendo prestiti a famiglie e  imprese e ingigantendo questa quantità di denaro mediante la cartolarizzazione, hanno anche creato altre montagne di denaro moltiplicando i cosidetti derivati. I derivatisono nati almeno un secolo e mezzo fa e forse prima, agli inizi dell’Ottocento. Erano onesti e pratici, chiamiamoli così, titoli assicurativi. L’agricoltore, ad esempio, che a gennaio non sapeva come sarebbe andato il raccolto di grano a giugno, aveva interesse a prefissare un certo prezzo di vendita del suo grano. Il mercante, che non sapeva a sua volta come sarebbe andato il prezzo – a causa delle carestie eventualmente intervenute, delle intemperie, dei parassiti –, aveva interesse a stabilire che a luglio avrebbe comprato a un determinato prezzo una certa quantità di grano. Allora, a gennaio, i due firmavano un contratto che assicurava al contadino e al mercante un determinato prezzo. È chiaro che poi a giugno era difficile che fossero in pari: uno dei due, rispetto al mercato, ci perdeva o ci guadagnava. Ma quel contratto era uno strumento efficace per garantirsi una certa serenità in merito al prezzo di acquisto per il  mercante e di vendita per l’agricoltore.
Nel corso del Novecento, ma soprattutto dopo gli anni Novanta, la produzione di derivati è semplicemente impazzita. I motivi sono vari. Anzitutto i sottostanti sono diventati migliaia. Possono essere  indici di borsa o eventi sportivi, prezzo degli alimenti di base o fenomeni meteorologici.  Il problema  principale risiede nel fatto che è caduto l’obbligo di possedere o di acquistare la merce– il cosiddetto sottostante – su cui si basa il valore del derivato. I derivati sono quindi diventati delle pure scommesse. Uno può scommettere sull’andamente del prezzo del petrolio, ossia può comprare un derivato avente il  petrolio come sottostante, senza avere alcun interesse a commerciare in tale materia prima. Il derivato può riferirsi, per dire, a diecimila barili di petrolio, ma le due controparti non si impegnano a comperare o  a vendere il sottostante, quanto ad accollarsi la differenza positiva o negativa del prezzo che maturerà tra sei mesi o un anno, posto che i derivati possono avere scadenze anche piuttosto lunghe. La parte cosiddetta venditrice non ha nulla da vendere e la parte acquirente non si sogna di acquistare non diciamo diecimila barili di petrolio, ma nemmeno uno. È unicamente una scommessa. Moltiplicando il numero di scommesse, se uno si assume dei rischi, si può guadagnare o perdere molto.
Quel che è successo è che nel 2007/2008 il valore nominale dei derivati che giravano per il mondo – cioè il valore scritto nei contratti– si aggirava su poco  meno di settecentocinquanta trilioni  di dollari. Il PIL globale nel 2007 è stato di 57 trilioni di dollari, quindi i derivati in circolazione equivalevano a più di dodici volte il PIL del mondo. Qui bisognerebbe entrare in alcune tecnicalità, per precisare che il PIL nominale è in genere più alto del valore effettivo del contratto. Nel 2009, ad esempio, 700 trilioni nominali di derivati valevano sul mercato circa 35 – 38 trilioni di dollari. Però ci sono delle distinzioni da fare, perché un conto sono i derivati sui barili di petrolio che nessuno compra e nessuno vende; un conto ben diverso  sono i derivati del credito che sono delle specie di assicurazioni per proteggersi dal rischio di insolvenza di un creditore. La banca A paga una commissione a B (che in molti casi è un’altra banca) la quale assicura che se C non ripagherà il debito contratto verso A provvederà lei a rifondere quest’ultima.  In questo caso il valore reale del titolo è molto vicino al valore nominale perché se la banca debitrice (o altro debitore) non paga, B che ha sottoscritto quel derivato deve pagare di tasca sua l’intero valore scritto nel contratto.
In sostanza, oltre ad aver creato moltissimo denaro concedendo crediti a fiumi, ad averne creato dell’altro cartolarizzando le ipoteche sì da poter continuare a concedere prestiti, le banche americane ed europee hanno messo in circolazione nell’economia sotto forma di derivati un volume di denaro corrispondente a dodici volte il PIL del mondo. Qualcuno dice: «Ma non è veramente denaro». Bisogna invece sottolineare che all’epoca dei computer, delle transazioni ad alta frequenza, della massima e istantanea convertibilità di ogni capitale in qualsiasi altra forma,  i derivati funzionano come vero e proprio denaro. Un economista, oggi citato spesso per  ragioni sbagliate, Marvin Minsky,  aveva intravisto questo sviluppo già a metà degli anni Ottanta. Allorché  qualunque titolo è istantaneamente convertibile in denaro, quello è come se fosse denaro. Il problema con i derivati è che più dell’80 per cento di essi sono scambiati direttamente fra privati – “al banco”, come si dice –  senza che i regolatori possano esercitare alcun controllo.  Si tratta di un’enorme quantità di denaro che sfugge completamente non soltanto alla presa, ma pure alla vista dei regolatori.
A un certo punto questa montagna di denaro ha cominciato a cascare sulla testa delle banche sotto forma didebiti inevasi. Se una banca scopre una falla nella catena di debiti che essa stessa ha contribuito a creare, tipo un suo veicolo che avrebbe dovuto vendere agli investitori i titoli derivanti da una cartolarizzazione ma non ci riesce  più perché quelli li rifiutano; a questo punto, anche se la banca aveva venduto a quel veicolo i suoi titoli, in qualche modo deve far fronte alle perdite del medesimo. Può avere un bisogno urgentissimo di qualche centinaio di milioni o magari di un miliardo di dollari o di euro, ma se la banca di fronte (la banca consorella, la banca con cui si avevano comuni rapporti) ha gli stessi problemi, il tutto si incaglia. È quello che è avvenuto nel 2008,  ma che si ripropone fino ad oggi attraverso infiniti canali di contagio.
Nel generare questo incredibile processo – scrivendo il libro ho speso mesi per verificare i dati, tanto mi parevano fuori del mondo – rilevantissimo è stato il peso dei politici e delle banche europee, all’incirca dal 1980  a oggi. Alcune leggi determinanti per la deregolazione dei movimenti di capitale sono state firmate da un Presidente francese socialista, François Mitterand; per esser poi propugnate, sollecitate e messe in opera dal primo Presidente della Commissione europea, anche’egli francese e socialista, Jacques Delors. Tutti costoro avevano, certo, delle buone ragioni: i capitali scappavano e bisognava far qualcosa. Fatto sta che imponenti misure di deregolazione o cancellazione della sorveglianza sui movimenti finanziari, compresi gli scambi al banco di trilioni di euro di derivati, sono stati adottati ben presto  in Europa e si sono diffusi perché altri paesi hanno seguito la Francia. Pertanto negli anni Novanta la deregolazione in Europa era molto simile a quella che stava intervenendo negli Stati Uniti. Dopodichè non è stata più effettuata nessuna seria riforma del sistema finanziario.
Le banche  hanno avuto un ruolo di primo piano nella creazione della cosiddetta finanza ombra. Della quale fanno parte anche quei trilioni di derivati che circolano senza essere regolati da nessuno. Pure i veicoli di investimento strutturato, i SIV, fanno parte della finanza ombra, perché essendo fuori bilancio non appaiono compresi nel perimetro della banca che li sponsorizza. Vi sono molti altri soggetti della finanza ombra che operano come banche ma non sono banche: tra essi rientrano i fondi comuni dei mercati monetari, le società specializzate nel concedere prestiti, le divisioni finanziarie delle corporation. Tutti enti  che  non sono visti, e non è possibile siano visti, dal regolatore – per questo viene chiamata finanza ombra.
Nell’alimentare tanto la finanza visibile  quanto la finanza ombra, le banche europee hanno avuto un notevole ruolo, da diversi punti di vista. In primo luogo, ricerche recenti hanno dimostrato come le banche europee abbiano comprato in Usa, dal 2000 in avanti, centinaia di miliardi di dollari, di euro, di sterline e anche di franchi svizzeri,  di titoli cartolarizzati, compresi le  micidiali obbligazioni aventi per collaterale un debito, definite a disastro avvenuto titoli tossici. Sono titoli assai complicati,  caratterizzati da un taglio difficilmente alla portata di qualcuno di noi, perché esso  si colloca in genere tra uno e due miliardi di dollari). A questi titoli poi definiti tossici, che erano venduti a pezzi o trance con diverse gradazioni di rischio, le agenzie di rating, pagate dalle stesse banche che emettevano quei titoli, assegnavano la massima credibilità – ovvero il minimo rischio di insolvenza da parte del creditore – e per questo erano considerati sicuri. Le banche europee si sono gettate su quei titoli giudicati sicuri, per cui stando alle ricerche menzionate sopra centinaia di miliardi di derivati di questo tipo sono stati creati in Usa proprio per soddisfare la domanda assidua delle banche europee. Inoltre, alcune banche europee hanno loro stesse creato titoli analoghi per centinaia di miliardi di dollari.  La più impegnata è stata la Deutsche Bank, che ha creato una serie di titoli –  chiamati Gemstone –  il cui taglio medio era intorno a 1,1 miliardi di euro. Qualche banca francese si ritiene abbia fatto lo stesso e forse anche altre, ma l’«ombra» per definizione è qualcosa in cui è difficile vederci chiaro. Quando il domino ha cominciato a cadere – perché se uno fa molti debiti distribuiti in una catena di numerosi soggetti, nel caso fallisca  anche l’ultimo di questi  il problema risale la catena fino a quando i debiti arrivano al consiglio di amministrazione della banca madre – vi sono state banche quali la UBS (Unione delle Banche Svizzere), che tra il 2007 e il 2009 hanno dovuto cancellare dai propri bilanci qualcosa come cinquanta miliardi di dollari. Peraltro senza patire troppo: la UBS ha un bilancio che supera di circa dodici volte il bilancio federale della Svizzera.
La questione che ci tocca anche oggi e che secondo i governi Ue richiede per essere risolta licenziamenti facili, austerità, tagli alle pensioni, pensione a 105 anni e altre cose del genere, ha tuttora le radici nel fatto che le banche europee sono piuttosto opache, ma al tempo stesso tradiscono notevoli preoccupazioni di bilancio.  Le banche tedesche per prime si collocano piuttosto in basso quanto a indice di trasparenza o indice di visibilità del traffico bancario. Tuttavia, dietro alla coltre della finanza ombra quel che sembra via via più evidente è che le banche sono  oraimpegnate allo spasimo per ridurre il loro leverage, il citato rapporto tra capitale proprio e capitali presi in prestito, spinte in questa direzione dalle nuove regole di Basilea e dalla Autorità bancaria europea (Eba). Se non, più probabilmente, dal terrore che succeda qualche nuovo grave incidente, perché se l’ultimo anello della catena salta il problema del debito risale per forza sino ai bilanci centrali.
Concludo toccando la questione della riforma del sistema finanziario, della quale si è parlato a lungo negli Stati Uniti, dove è stata varata nel luglio 2010 una legge che si chiama Dodd Frank Act, conosciuta pure comeWall Street Reform. Si stima che, a questo proposito, che la lobby bancaria abbia speso trecentoventicinque milioni di dollari per indebolire e possibilmente bloccare tale legge di riforma, che alla fine è risultata all’acqua di rose, e per di più immensamente complicata, con un testo che conta 1652 pagine e richiederà 550 decreti attuativi. Dal luglio 2010 fino all’autunno 2011,  per quanto è a mia conoscenza, ne sono stati attuati solamente due o tre.
Pure in Europa si sta discutendo di riforme finanziarie, una discussione estesa a vertici extra Ue come il G20 dell’autunno 2011 a Cannes. La Commissione europea ha allo studio una bozza dettagliata di riforma e il Parlamento europeo farà una prima proposta a febbraio o marzo del 2012. Accade però che tutte le proposte finora avanzate siano lontanissime dal cogliere le vere radici del problema. Sarebbe necessaria una forte pressione politica, ci vorrebbero milioni di persone per le strade a chiedere la riforma finanziaria, uno scenario al momento non molto probabile. Molte ed evidenti sono le ragioni per le quali si rende necessaria una riforma finanziaria radicale. In realtà niente di rivoluzionario, sono cose dette da liberal americani o dallo stesso governatore della Bank of England, Mervyn King, che pochi mesi fa ha dichiarato: «Ci sono molti modi per organizzare l’attività bancaria. Quello che abbiamo oggi è il peggiore che possiamo immaginare». Bisognerebbe prenderlo sul serio, perché finora le riforme di cui si parla nella Ue sono affatto insufficienti.
Si dovrebbe intervenire su tre fronti. È ovvio che non si può varare una riforma finanziaria solo in Italia, ma unariforma nell’ambito dell’Unione Europea andrebbe comunque fatta per via dell’enorme peso che in essa il sistema finanziario esercita attualmente su tutto: sull’occupazione, la sanità, le pensioni, la terra, il cibo. È in gioco lo svuotamento totale della democrazia. Bisogna ricondurre il sistema finanziario alle sue funzioni, che pure sono importanti. Non si può semplicemente dire: «Chiudiamo le banche». Le banche sono indispensabili come pure il sistema finanziario allargato, ma questi devono essere un ausilio, un mezzo controllato dall’economia reale e soprattutto dai governi, dai cittadini, dai meccanismi della democrazia. Il sistema finanziario internazionale ha dimensioni eccessive e in esso il sistema finanziario europeo, il quale, si noti, è molto più grande di quello statunitense, sia come numero delle banche sia in termini di attivi controllati. C’è un elenco nel mio libro di venti gruppi finanziari che avevano nel 2009 attivi superiori al trilione di dollari; fra questi venti, le banche europee (con l’aggiunta di due non Ue, Ubs e Credit Suisse) sono ben 14.  Se non si riducono le dimensioni dei singoli gruppi finanziari, essi risulteranno sempre incontrollabili e saranno essi a dettare le misure di austerità, comprese le condizioni del mondo del lavoro, ai governi. Come stanno facendo.
In secondo luogo, larga parte di questo sistema è in ombra, per questo si chiama shadow banking, Qualcuno parla di regolare anche detto sistema, ma le ombre non si regolano. Occorrerebbe accorciare, ridurre o, meglio ancora, smantellare il sistema finanziario ombra.
In terzo luogo le grandi società finanziarie, le bank holding companies, sono troppo complesse. Seppure si costituisse un’autorità di regolazione europea dotata di grandi poteri e ampi mezzi, essa sarebbe comunque impotente a causa delle dimensioni e della struttura enorme di esse. Ricordo, per citare un solo dato, che quando fallì nel settembre 2008, Lehman Brothers era composta da più di 1800 entità giuridiche distinte. Anche in presenza di autorità di regolazione assai robuste, se mai esistessero, dinanzi a  simili castelli organizzativi è impossibile cercare di stabilire “chi fa che cosa”. Si può certo introdurre per legge, ad esempio, una norma che separi l’attività di depositi e prestiti delle banche dalle attività di investimento. Nondimeno se una banca continua ad avere una miriade di divisioni o di dipartimenti interni specializzati, ossia continua ad essere costituita sotto il controllo della casa madre da migliaia di entità giuridiche indipendenti, come si fa a controllare qual è l’atttività realmente svolta dall’una o dall’altra di esse? Controllare significa andare negli uffici, tirar fuori i libri, le carte, vuol dire impiegare decine di persone per settimane allo scopo di capire che cosa realmente fa una sola divisione di una grande banca. È semplicemente improponibile controllare chi fa che cosa se non si riduce la complessità del sistema.
A parte le bozze di riforma in discussione nel Parlamento europeo e nella Ce, ci sono in giro varie proposte provenienti da centri studi. Alcune assai interessanti sono state portate a Cannes da un centro tedesco specializzato in studi sullo sviluppo e l’ecologia per un’economia sostenibile. Ma è chiaro che tali proposte, lasciate a sé, non serviranno a nulla. Il problema vero è che sono i cittadini che ne dovrebbero discutere, e sarebbe bene che si cominciasse ad allargare la discussione in modo che il maggior numero capisca la reale entità del problema e cominci a chiedere una riforma radicale del sistema finanziario. È complicato, è politicamente arduo, certo. Ma per il futuro della democrazia, non soltanto del sistema economico, è assolutamente indispensabile ridurre a dimensioni ragionevoli i gruppi finanziari e con essi l’insieme del sistema finanziario internazionale. Un noto economista  americano ha detto che sarebbe indispensabile ridurre il sistema finanziario a un terzo di quello che è oggi. Forse è una misura eccessiva, ma è la direzione in cui appare necessario procedere.  In presenza  di troppi segnali attestanti che l’economia del mondo, e con essa la democrazia dei nostri paesi, sta viaggiando verso la catastrofe. Se non riusciamo a trasformare tutto quanto si è qui ricordato in istanza, in domanda politica, in un numero di deputati sufficienti per introdurre una riforma del genere, dovremo aspettarci una crisi, politica ed economica a un tempo,  ancora peggiore di quella che stiamo vivendo  adesso.
Finora non mi sono stati imputati molti errori nel libro da cui ho tratto queste considerazioni. Concludo rilevandone uno io. Il libro è stato pubblicato nel marzo del 2011. In esso prevedevo una nuova crisi finanziaria, o meglio una nuova grave fase di essa,  per il 2015. Mi sono sbagliato: è arrivata pochi mesi dopo.




Luciano Gallino
About Luciano Gallino: Luciano Gallino (1927) nel 1956 viene chiamato dall'ingegnere Adriano Olivetti a collaborare all’Ufficio Studi Relazioni Sociali costituito presso la Olivetti - struttura di ricerca aziendale inedita in quel periodo in Italia - e successivamente, dal 1960 al 1971, ricopre la carica di direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’organizzazione (SRSSO). Dopo aver ottenuto una Libera Docenza in Sociologia nel 1964, è diventato Fellow Research Scientist del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford in California. Dal novembre 1965 al 1971 è stato professore incaricato presso la Facoltà di Magistero e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. Successivamente, dal 1971 al 2002, è stato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione della stessa Università, nella quale attualmente è professore emerito. Tra il 1968 e il 1978 è stato direttore dell'Istituto di Sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Dal 1999 a fine 2002 è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione e della Formazione. In tale ruolo ha promosso lo sviluppo di un Centro specializzato nello studio e nella realizzazione di corsi orientati alla "Formazione aperta/assistita in rete". Parallelamente alla sua attività di ricerca e d'insegnamento, ha ricoperto diverse e prestigiose cariche istituzionali. Dal 1979 al 1988 è stato presidente del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali. Dal 1987 al 1992 ha rivestito la stessa carica nell'Associazione Italiana di Sociologia. È socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, dell'Accademia Europea e dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Dirige dal 1968 la rivista scientifica Quaderni di Sociologia. Ha collaborato inoltre con autorevoli quotidiani nazionali, in particolare tra il 1970 e il 1975 ha scritto su «Il Giorno», dal 1983 al 2001 ha collaborato con «La Stampa» e dal 2001 collabora con «La Repubblica». Fa parte del comitato scientifico della manifestazione "Biennale Democrazia". Dal 2007, è il responsabile scientifico del Centro on line «Storia e Cultura dell'Industria», progetto che promuove la conoscenza della storia industriale e del lavoro del Nord Ovest italiano dal 1850 a oggi, con finalità didattiche. Dal 2011 è Presidente Onorario e Presidente del Consiglio dei Saggi dell'AIS - Associazione Italiana di Sociologia. Tra i suoi ultimi libri: Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza, 2000); Il costo umano della flessibilità (Laterza, 2001); L’impresa responsabile. Un'intervista su Adriano Olivetti (Comunità, 2001); La scomparsa dell'Italia industriale (Einaudi, 2003); Dizionario di Sociologia (UTET, 2005); L’impresa irresponsabile (Einaudi, 2005); Italia in frantumi, (Laterza, 2006); Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici (Einaudi, 2007); Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, (Laterza, 2007); Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia (Einaudi, 2009); Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, (Einaudi, 2011).

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