giovedì 4 luglio 2013

CARO SINDACO TENDAS . STAVOLTA E' GROSSA



Gigi Sanna









Io penso che ai sindaci di tutti i comuni (sardi e non), nessuno escluso, si possano perdonare tante cose e tanti errori date le obiettive difficoltà in termini economici in cui ci troviamo. Infatti, nessuno può ergersi a giudice di coloro che oggi sono in prima linea per cercare di salvare il salvabile di quella che una volta era, in fondo, l'amministrazione normale di una città normale o a misura d'uomo. Ma non si può perdonare ad essi la mancanza di senso 'politico' della comunità che governano soprattutto quando questa gode del privilegio di avere una storia illustre. Addirittura tanto illustre da essere conosciuta e inserita nella stessa storia dell'Europa del periodo Basso Medioevale. Perché Aristanis - lo si sa - era considerata città 'metropolitana', capitale cioè di un vero e proprio stato sovrano, quello di Arborea, alla pari con gli altri stati sovrani del tempo. 


Pertanto allorché un sindaco di Oristano si reca in qualsiasi luogo d'Italia, d'Europa e del mondo, per quanto i tempi siano cambiati ed il ruolo della città divenuto (purtroppo) marginale, ha il dovere morale di mostrare fierezza del passato e possibilmente di ricordare, dove possibile e quando possibile, i momenti gloriosi di quel passato. Non deve mai umiliarlo, per improvvisazione e per superficialità nella conoscenza della storia, attribuendo all'antica capitale macchie comportamentali per nulla sue. Macchie per giunta, va precisato, di singoli individui e mai di 'comunità'.
Lasciano quindi di stucco certe parole usate dal primo cittadino di Oristano, in un momento del tutto particolare (di nuovo storico) quale è stato quello dell'audizione dei rappresentanti sardi da parte della Commissione europea incaricata di valutare la problematica legislativa circa l'istituzione della Z.F.I nel territorio della Sardegna.


Eccole (per la parte che particolarmente interessa):

“Io mi onoro di essere sindaco di una comunità che a metà dell’Ottocento si inventò le carte di Arborea per giustificare le proprie origini blasonate, in un periodo in cui tutte le nazioni europee cercavano quali erano le proprie origini perché c’era bisogno di creare le grandi nazionalità europee, a Oristano si erano inventate queste carte! Peccato che i tedeschi dopo 50 anni scoprirono che erano proprio false che tutto quello che era scritto nelle carte di Arborea erano falsificazioni, belle, per sentirci importanti! Ma la maggior parte delle cose non erano vere quindi i miti, però quelle falsità servirono a creare il mito della nazione sarda che esiste e che si sta ri- perpetuando. Domenica scorsa mille persone hanno ascoltato il presidente Cappellacci che diventava il capo-popolo di un’isola che si sente nazione e che però si trova grazie anche a questo capo-popolo nelle condizioni in cui si trova oggi e che pensa di risolvere i problemi inventandosi la zona franca”.

Come si fa , da un punto di vista concettuale, ad essere 'onorati di guidare una città di falsari per giustificare 'blasoni', Dio solo lo sa! E non so cosa abbiano pensato in quel momento i parlamentari di Bruxelles. Crediamo che mai un sindaco nella storia abbia esordito così. Mi dispiace doverlo dire ma va detto. Perché parlare a braccio rende autorevoli ma spesso gioca brutti scherzi tanto che per prudenza qualche volta bisogna scriverli con umiltà certi discorsi. Nessuna 'diminutio'. Lo fanno spessissimo i papi e non lo fanno invece quelle vere pipe che siamo noi, sindaco Tendas compreso. 


Comunque, la cosa che veramente importa non è formale ma il fatto che Guido Tendas non è sindaco di nessuna 'comunità che si invento le carte di Arborea', per il semplice motivo che quelle carte, come tutti sanno, se le inventò e le compilò su pergamene autentiche antiche (ricavate da antichi testi medioevali) Ignazio Pillitto archivista cagliaritano del Comune di Cagliari. Il falsario fu lui e mai venne coinvolto, che si sappia, nessun oristanese né degli Scolopi né di altri istituti religiosi; a meno che Guido Tendas non si riferisca a Salvatorangelo De Castro. Ma allora la cosa sarebbe ben più grave perché avrebbe svolto il ruolo di Preside (e per non poco tempo) in una scuola intitolata ad uno ...spregevole oristanese falsario. E senza mai dire niente e muovere un dito per rimuovere la lapide in latino, quella che il preside prof. Bruno Manai aveva di suo pugno scritta (e fatta collocare nell'androne che porta alla sala della Presidenza) per il canonico parlamentare e studioso che onorava, ormai da tempo, con il suo nome illustre il liceo classico. Si sa che diversi studi, compreso il saggio monografico del prof. Paolo Gaviano (oristanese), hanno dimostrato l'infondatezza di un'accusa a dir poco campata per aria. Oristano quindi non si inventò nulla, proprio nulla. Non fu capitale di ignobili invenzioni. Fu capitale grandissima, quando lo fu, di ben altro.

Circa il romanticismo sardo, sarà bene precisare che, così come tutti i romanticismi d' Europa (compreso quello dell'Italia che non era, come tutti sanno, una 'nazione' ma un insieme di 'nazioni'), esso andò correttamente e nobilmente a riscoprire le robuste origini 'nazionali' della Sardegna e le trovò, tra l'altro, soprattutto nella storia basso medioevale della Sardegna, cioè nella lunga e secolare lotta dell'indipendenza della Sardegna messa in atto dagli Arborea a partire dal rex Sardiniae Barisone I (storia questa e non certo mito, documentata in seguito dalle carte dell'Archivio della Corona d'Aragona e da altri archivi ancora di Comuni italiani). 


La Sardegna sino a che non sopraggiunse la colonizzazione italiana era ritenuta 'nazione sarda' (da 'natio', il nome che i Romani davano ai popoli uniti da una lingua comune, da comuni tradizioni e da un territorio) anche dagli spagnoli ( 'naciò sardesca'). Non c'era quindi bisogno di inventarsi nulla, proprio nulla, neppure dal punto di vista terminologico. Semmai bisognava consolidare e contemporaneamente rendere più celebre quella comune opinione di 'nazione'. Cosa che fecero gli intellettuali romantici sardi parlando (per come poterono e per quanto 'politicamente' poterono) di lingua e letteratura sarda, di storia sarda, di economia, di tradizioni e di archeologia sarda.
La letteratura e la documentazione del tempo mostrano 'ad abundantiam' questo sforzo generosissimo dei vari Giovanni Spano, di Vittorio Angius, di Antonio Soggiu (vescovo di Oristano), di Salvatore Cossu, di Salvatorangelo Maria de Martis e di altri numerosi intellettuali del tempo (soprattutto preti e religiosi della chiesa cattolica).


In questo genuino e disinteressato fervore 'nazionalista' di stampo romantico europeo si infilò, purtroppo, l'attività criminale del Pillitto che, uomo scaltro e coltissimo qual' era, trovò terreno fertile per infilarvi a scopo di lucro i suoi (e solo suoi, fino a prova contraria) falsi. Quindi i romantici di allora e tanto meno gli oristanesi (anche se i falsi riguardarono quasi tutti le vicende degli Arborea) non si inventarono nulla. Accadde solo che da un farabutto e forse da qualche altro 'mercante' compare venissero ingannati gli studiosi e i 'letterati' meno perspicaci o troppo amanti della loro nazione. Compreso il can. De Castro che ebbe come unico torto quello di credere troppo e ad oltranza alla genuinità delle pergamene, nonostante l'autorevole pronunciamento degli storici e dei filologi della formidabile scuola tedesca.

Quindi Tendas ha (lui sì) detto cose false, autoproclamandosi così comicamente, senza rendersene conto, il primo 'falsario' della storia oristanese. Lui guida, si tranquillizzi, una città onesta e gloriosa, mai macchiata da falsi di nessun genere. Se in Sardegna c'è ancora una 'resistenza' storica e non tramonta il concetto di Sardegna come 'popolo a sé', con una sua precisa identità, e cioè 'nazionale', lo si deve alla grandezza morale di Oristano e degli Arborea! Lo si deve alla loro superba legislazione estesa a tutta la Sardegna, al popolo sardo o 'nazione sarda' che la si voglia chiamare. La 'mitopoiesi' (cioè la rivisitazione falsa del passato per rendere glorioso il presente) è invenzione di una certa sinistra radicale isolana e di una scuola antropologica che intende, con questa parola fasulla e senza senso, caparbiamente negare e mortificare la storia, veramente accaduta, che ha riguardato i Sardi e la Sardegna.

Un ultimo rilievo.
L'espressione ' domenica scorsa mille persone hanno ascoltato il presidente Cappellacci che diventava il capo-popolo di un’isola che si sente nazione e che però si trova grazie anche a questo capo-popolo nelle condizioni in cui si trova oggi e che pensa di risolvere i problemi inventandosi la zona franca” è quasi non commentabile non solo perché oggettivamente confusa e pasticciata, ma soprattutto perché c'entra come i classici cavoli a merenda, dato che i rappresentanti del Parlamento europeo erano davanti al Sindaco di Oristano perché volevano sentire da lui i motivi tecnico-politici e non meschinamente partitici (quell'inventarsi una 'zona franca inventata' è saggio non edificante di sterile polemica politico-partitica) circa l'attuazione o meno di uno strumento economico singolare nuovo come la zona franca integrale e non più gli obsoleti soli punti franchi statutari. Anche in quella occasione di possibile anche se precariamente dialettica unità c'è stata una rovinosa caduta di stile e ha trionfato la maledizione storica dei 'pocos, locos e male unidos'. Io mi auguro tanto che i parlamentari europei non conoscessero l'espressione di quel re famoso, nemico dei Sardi e della loro libertà che però, ci piaccia o non ci piaccia, aveva capito molto bene di che pasta orribile eravamo e siamo tuttora fatti. Nonostante il grido esaltante di battaglia 'Arbare-e' e quello dolorosamente sublime di 'fortza paris' della e dalla trincea dei nostri nonni.
 

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)
Di comidad (del 04/07/2013 
Le notizie di stampa sullo scandalo spionistico denominato "datagate", hanno determinato in Europa lo scatenarsi di ipocriti rituali di sorpresa e di indignazione. Tra le autorità europee la parola d'ordine è stata quella di cadere dalle nuvole, di dichiararsi stupefatti o "allibiti", come se l'attività spionistica a tutto campo della National Security Agency non fosse già arcinota. A Sigonella è persino in allestimento un mega-impianto di spionaggio elettronico, il MUOS, con il quale gli USA avranno il territorio europeo sotto un controllo ancora più capillare; ed è chiaro che si tratta non soltanto di spionaggio militare, ma anche nel settore industriale e finanziario, sino alla sfera dei vizi privati, utilissimo strumento di ricatto.

Ma ad indicare la serietà di queste recite in Europa, basterebbe anche solo il fatto che ci si è immediatamente dimenticati che lo scandalo spionistico aveva coinvolto poche settimane fa un Paese europeo, cioè il Regno Unito, il cui servizio segreto, MI6, nell'aprile del 2009 aveva allestito addirittura dei falsi internet cafè per spiare i diplomatici stranieri ospitati a Londra per il G20.
Se questo è il grado di memoria degli avvenimenti, si può facilmente prevedere che tutta questa bolla di indignazione verso gli USA svanirà molto presto, e ciò vale anche per le dure dichiarazioni di monito del commissario europeo Viviane Reding, che ha minacciato conseguenze sui negoziati tra USA e UE per il mercato transatlantico (indicato dall'acronimo TTIP) che dovrebbe andare in vigore dal 2015. 
Ambasciata italiana a Washington 

A riconferma dell'inattendibilità di certe reboanti dichiarazioni di dignità offesa, ci ha pensato anche il presidente francese Hollande, il quale, mentre chiedeva una sospensione ("temporanea", per carità!) dei negoziati per TTIP, poi si calava completamente le brache nei confronti degli USA, giungendo all'atto folle ed inaudito di negare lo scalo all'areo del presidente boliviano Morales, nell'ipotesi che questi portasse con sé il ricercato Snowden; un gesto ostile che non va solo contro ogni regola del diritto internazionale, ma anche contro il semplice buonsenso.

Le parole della Reding e di Hollande sono risultate interessanti soltanto per un motivo, e cioè che hanno segnalato l'esistenza e l'importanza di un negoziato transatlantico di cui l'opinione pubblica europea non sapeva assolutamente nulla. I primi accenni in pubblico vi sono stati all'ultimo G8 tenutosi il 17-18 giugno in Irlanda del Nord, tanto da consentire al nostro Enrico Letta di citare la questione del TTIP nella sua conferenza stampa. Un po' tardi per venircelo a dire, dato che i negoziati sul TTIP erano cominciati nel 2007, anche se il trattato finale dovrebbe essere ratificato entro il 2015.

La questione del mercato transatlantico però non era mai stata affrontata nel dibattito politico, e tantomeno nelle campagne elettorali, a conferma del fatto che la politica è il luogo del futile e dell'intrattenimento. Magari, come fa la cancelliera Merkel, il proprio elettorato può essere usato come fantoccio e come alibi per decisioni già prese altrove. Ciò non vale soltanto per gli elettorati, ma anche per i parlamenti, che hanno solo una funzione di ratifica, come ha ulteriormente dimostrato la posizione del Consiglio di Difesa a proposito del business dell'acquisto dei caccia F35, per il quale al parlamento italiano è stata negata la facoltà di immischiarsi. 



La consapevolezza che la lotta politica ufficiale costituisca un rituale vuoto, o una messinscena, ha cominciato a farsi strada persino nel ceto politico tradizionale. In una recente intervista l'ex segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, ha denunciato la scomparsa della "sinistra", ed ha proposto una sua analisi della situazione europea, secondo la quale le "costituzioni materiali" degli eurocrati starebbero soppiantando le costituzioni antifasciste dei vari Stati. 

Ad indiretto sostegno delle tesi di Bertinotti è giunto un documento della mega-banca statunitense JP Morgan, nel quale si sostiene che in un'Europa integrata sarebbe urgente liberarsi delle Costituzioni antifasciste, con la loro zavorra di garanzie sociali. 




Si può comprendere che a JP Morgan dia fastidio anche solo il suono della parola "antifascismo", ma il documento dei banchieri, nel suo lamento recriminatorio, sembra volutamente ignorare che le Costituzioni antifasciste hanno già recepito al loro interno dei corpi estranei come la norma sul pareggio obbligatorio di bilancio; oppure hanno consentito ai governi accordi come quello per il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cui trattato istitutivo garantisce addirittura alla oligarchia finanziaria del MES un'assoluta immunità giudiziaria, cioè un tale grado di impunità legalizzata che il Buffone di Arcore non avrebbe osato immaginarsela neppure nei suoi sogni più pornografici. 

Si ha quindi l'impressione che la sortita di JP Morgan abbia un obiettivo di psicoguerra, cioè di indicare alle opposizioni europee una sorta di falso rifugio, che in realtà si è rivelato molto permeabile ai bombardamenti. L'analisi di Bertinotti contiene infatti un punto debole abbastanza evidente, dato che la cosiddetta "eurocrazia" non si fonda su "costituzioni materiali", bensì su istituti costituzionalmente rilevanti, come sono i trattati internazionali. Se oggi il negoziato per il trattato TTIP lo conduce Bruxelles e non Roma, non è per un abuso improvvisato, ma in virtù dei Trattati di Maastricht e di Lisbona
.
La sinistra, come soggetto politico, è effettivamente scomparsa, ma come area di opinione oggi si aggrega attorno a dei feticismi come quello per la nostra "bellissima Costituzione". Non si considera che la nostra Carta Costituzionale forse nelle intenzioni sarebbe anche "antifascista", ma si riferisce strettamente ai fascismi del passato, e nulla ha da dire sul nuovo superfascismo dei trattati internazionali. Anzi, l'articolo 75 della Costituzione pone addirittura i trattati internazionali al riparo dai rischi di referendum abrogativo.

Il fatto che si sia strutturato da tempo un articolato dominio transnazionale in forma di trattati ed organismi sovranazionali, costituisce ormai un'evidenza, ma l'opinione di sinistra continua a basarsi su un internazionalismo astratto, che non riesce ad andare oltre la categoria di solidarietà. Questo è il motivo per il quale la solidarietà dell'opinione di sinistra può essere agevolmente abbindolata e fagocitata dallo spettacolo di "rivoluzioni colorate", stranamente dirette sempre e solo contro i loro poteri interni, come se il dominio transnazionale non esistesse per niente. 

Le Costituzioni "antifasciste" non sono solo i bersagli di questa situazione, ma hanno dei risvolti ideologici che consentono parecchie stranezze. Una ventina di anni fa la tresca tra capitalismo privato e denaro pubblico era ancora uno di quegli orribili segreti di famiglia così ben custoditi che ad osare di svelarli si passava per farneticatori. Oggi invece è davanti agli occhi di tutti che il salvataggio delle banche private operato dalla Unione Europea costa ai contribuenti molto di più di una loro nazionalizzazione. 

Allo stesso modo, le SpA una volta si giustificavano come mezzo per raccogliere risparmio da destinare agli investimenti produttivi. Attualmente non c'è più bisogno di alimentare questa mitologia, ma tutti sanno che le SpA non fanno investimenti, ma distribuiscono solo dividendi e, pur di farlo, sono prontissime a distruggere posti di lavoro. Gli "investimenti produttivi" li si pretende dai governi e dalla spesa pubblica; ma anche qui le cose non vanno lisce, poiché, ad esempio, i fondi pubblici che la UE destina alle imprese servono per finanziare le delocalizzazioni, col pretesto dello "sviluppo regionale". 

In anni di denunce a riguardo da parte di parlamentari europei, la Commissione Europea ha pubblicato varie "linee guida" che avrebbero dovuto impedire le delocalizzazioni. Le ultime sono del giugno del 2013; ma il fatto che queste "gride" si ripetano, indica che il dato permane, e che non lo si vuole sostanzialmente modificare.


La Commissione europea pubblica le linee guida sugli aiuti di Stati a finalità regionale 2014-2020

Il cosiddetto "capitalismo" si basa quindi non solo sullo sfruttamento del lavoro, ma anche sul saccheggio della spesa pubblica. L'operaio è spremuto due volte, non solo come lavoratore, ma anche come contribuente; e le tasse che paga, vanno a finanziare non i servizi pubblici, ma la perdita del suo posto di lavoro.
Eppure il rancore sociale viene facilmente indirizzato contro i pensionati, gli statali, i Meridionali, i "falsinvalidi", e si alimenta l'odio generazionale, narrando la fiaba di un Paese che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi facendo debiti scaricati sulle future generazioni. 

La corruzione e l'evasione fiscale vengono additate come nostri vizi nazionali, perciò rappresenterebbero una vergogna da superare accedendo alle virtù della civilizzazione europea. Che poi la gran massa dell'evasione e dell'elusione fiscale sia da addebitare alle multinazionali, e che questa frode sia legalizzata da una legislazione internazionale che consente il riciclaggio tramite il no profit delle fondazioni private, tutto questo rimane un dettaglio insignificante. E c'è anche di peggio: una volta i paradisi fiscali erano loschi Paesi caraibici, mentre adesso ad offrire tassazioni privilegiate sono "irreprensibili e virtuosi" Paesi nord-europei come l'Austria.

Nel 1947, durante i lavori della Assemblea Costituente, il filosofo Benedetto Croce affermò che il fascismo continuava nell'antifascismo, poiché questo aveva recepito il nucleo più autentico del fascismo stesso, cioè la denigrazione dell'Italia e della sua Storia. 

Il fascismo non rappresentava un senso esasperato di dignità nazionale, ma una forma di auto-razzismo e di auto-colonialismo, cioè l'idea che i popoli siano materia bruta da plasmare per finalità superiori. 

Ancora adesso per un fascista non è che Mussolini abbia fregato gli Italiani, ma sono stati gli Italiani a non dimostrarsi degni di avere un capo come Mussolini. Il Duce spinse l'Italia a scelte folli pur di renderla degna di assidersi al banchetto coloniale insieme con i popoli superiori del Nord Europa. Chissà perché, ma questo complesso d'inferiorità del Duce ricorda molto una decisione assurda come aderire alla moneta unica pur di non rimanere esclusi dal "paradiso" europeo. 

Secondo il falso antifascismo recepito dalle nostre Costituzioni, invece le minacce per la libertà provengono sempre dall'interno, dal "nazionalismo" e dal "dittatore". Sono premesse dalle quali i sillogismi vengono automatici: Gheddafi era un "dittatore", quindi era il Male (un "mascalzone", secondo quella cima di Pietro Ingrao), la NATO invece è un'organizzazione internazionale, quindi è il Bene. E così via. Se la Grecia fosse così devastata da un "dittatore", allora sarebbe nostro dovere indignarci ed essere solidali; ma visto che la Grecia è sotto il dominio del Fondo Monetario Internazionale, allora si può far finta di niente.

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

di Ana Pardo De Vera * 
http://www.publico.es/internacional

"L'Euro è stata una delle forme attraverso le quali il neoliberalismo è entrato in Europa". Intervista all'economista portoghese Boaventura de Sousa Santos.
 Boaventura de Sousa Santos

Il professore portoghese e intellettuale di riferimento per i movimenti sociali, Boaventura de Sousa Santos, analizza per ‘Público' la crisi della UE e la trappola capitalista del debito sovrano e le politiche di austerità per distruggere l’ultimo bastione della protezione sociale e del lavoro in Europa. 

Boaventura de Sousa Santos è dottore in Sociologia del Diritto per l’Università di Yale e ha la cattedra di Sociologia nell’Università di Coímbra. 

Questo fine settimana è a Madrid con l’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), un’iniziativa che arriva per la prima volta in Spagna e riunisce per due giorni oltre 40 collettivi e movimenti sociali, professori universitari e artisti di vari paesi in cerca di formule per organizzarsi e ricostruire il malconcio sistema democratico in Europa. 

Si può già dire che il progetto della UE è un fallimento? 
Sì. La UE era un progetto di coesione sociale per creare un blocco nuovo e forte; un blocco economico, politico e sociale, con politiche di coesione molto importanti. La UE è stata concepita con due idee molto potenti: quella di non tornare alle guerre mondiali, provocate entrambe dallo stesso paese, e quella di eliminare le periferie che esistevano dal XV secolo: i paesi nordici, il sud d’Europa (Portogallo, Spagna e Italia), il sud est (Balcani e Grecia) e l’est europeo. Il progetto europeo andava a porre fine a quelle periferie, con politiche molto importanti di fondi strutturali che volevano uniformare la ricchezza in Europa. In questo senso, il progetto è fallito, ma molti di noi già sospettavamo che questo sarebbe successo, perché l’esistenza delle periferie era tropo lunga. Certo, nei primi anni dell’integrazione europea sembrava che l’UE funzionasse: per esempio, in Portogallo, il reddito medio ha raggiunto il 75% di quello europeo nel 2000; senza dubbio ci avvicinavamo e, all’improvviso, tutto il processo è fallito e i paesi ex periferici tornano a essere trattati come tali. Da allora, la logica collettiva di costruzione sociale, economica e politica è passata ad essere una dinamica di centro-periferia che ha dominato sopra tutte le altre logiche. Una logica, inoltre, in cui il centro neanche è la Commissione Europea, ma la Germania. La UE deve reinventarsi, bisogna reinventarla. 
Diversamente, il futuro in Europa si presenta molto nero. 

E il progetto dell’euro? A che punto è? 
La domanda sul progetto dell’euro non è se è fallito o no, ma cosa si voleva da lui. E in questo caso, c’è stato un inganno dall’inizio, perché l’euro è stato una delle forme attraverso cui il neoliberismo internazionale è penetrato in Europa, che fino allora era il bastione delle difesa dello Stato sociale, l’unico dove il neoliberismo non era entrato grazie al fatto che i paesi avevano dei partiti socialisti e –anche a volte all’opposizione- partiti comunisti, entrambi molto forti. I partiti venivano da una tradizione socialdemocratica molto radicata che esigeva istruzione pubblica, sanità pubblica o sistema pensionistico pubblico, per cui la resistenza all’entrata del neoliberismo era molte grande. Per questo non è entrato così, ma l’ha fatto dall’alto: attraverso la Commissione Europea prima, attraverso la banca centrale Europea (BCE) poi e alla fine con l’euro. Mediante la costruzione neoliberista dell’euro e della BCE, il paese dominante da allora –la Germania- ha imposto le sue regole e la moneta è definita nel suo valore internazionale secondo gli interessi economici della Germania, e non secondo gli interessi del Portogallo o della Spagna, per esempio. Ai paesi del sud, incredibilmente, non è mai venuto in mente che poteva succedere questo, perché credevano di essere in un blocco politico ed economico in cui non esisteva il debito greco o spagnolo o portoghese, ma che esisteva una coesione e che mai ci sarebbe stata speculazione. Invece, a causa degli interessi delle sue banche, la Germania ha deciso che ci sarebbe stato un debito greco, irlandese, portoghese o spagnolo, che ha reso questi paesi molto deboli, senza che l’Europa desse loro garanzie e promuovendo la speculazione finanziaria trasmettendo l’idea che questi paesi avrebbero trovato la soluzione dopo un intervento brutale.
Un intervento che non è servito a nulla e ora sembrano riconoscerlo anche quelli che l’hanno promosso. 

Siamo di fronte a una improvvisazione o il gioco è stato tutto calcolato?
È ancora più tragico, perché non c’è niente di nuovo. Il problema dell’Europa è che non ha nulla da insegnare al mondo né può imparare dal mondo. Niente da insegnare perché la siccità d’idee, novità o alternative qui è totale e niente da imparare perché l’arroganza coloniale di questo continente è pure assoluta e non le permette di imparare. Per esempio, quando diciamo: “In Brasile, Argentina o Ecuador si è fatto così”, subito rispondiamo: “Quelli sono paesi meno sviluppati”. 

Continuiamo con quel sentimento di superiorità?
Continuiamo con quell’arroganza coloniale. Sì. E non li prendiamo sul serio, però quello che ha detto il FMI oggi, l’ha detto in Tanzania, Monzambico e Indonesia prima, lo so bene. Quella di applicare le misure e poi dire che sono state eccessive è prassi ricorrente. E un’agenzia che ha applicato alcune misure che hanno generato tanta povertà, tanta sofferenza nei paesi, dovrebbe essere rinviata ai tribunali; non dico per un crimine, ma almeno per negligenza. Ci deve essere una risarcimento civile per i paesi colpiti, perché, inoltre, dicono di aver commesso un errore con le loro politiche, ma continuano ad applicarle. “Ci deve essere un risarcimento civile per i paesi colpiti dalle misure di austerità” Non ci sono propositi di ammenda....Nessuno. Ma, inoltre, all’UE non piace che il FMI si tiri indietro perché è compromessa con le politiche di austerità e se in Germania si percepisce che sono negative, Angela Merkel può perdere le elezioni. Tutto è organizzato perché nulla cambi fino alle elezioni tedesche, perciò l’Italia, la Grecia, il Portogallo o la Spagna devono aspettare e lo fanno, dico io sempre, con una democrazia sospesa.

E noi cittadini che subiamo i tagli, che possiamo fare? Anche noi dobbiamo aspettare che passino le elezioni tedesche per premere sui nostri governi affinché facciano qualcosa?
I governi non faranno nulla, perché, come dico, sono completamente dipendenti dal comando tedesco. E pure se la gente lo rifiuta, non lo fa in modo forte e articolato. Questo fine settimana, con il progetto dell’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), stiamo proprio cercando di vedere come si può resistere, conoscendo le differenze dei distinti gruppi, accertando il perché alcuni sono interessati a una misura e altri in un’altra, o perché alcuni credono che si dovrebbe creare un partito e altri no. La settimana scorsa, in Portogallo, ho lavorato in una iniziativa con il presidente della Repubblica, Mario Soares, nella quale abbiamo messo insieme in una sala 600 persone per chiedere la caduta del governo attuale, elezioni anticipate e un Governo di sinistra. È stata la prima volta, dopo il 25 aprile, che siamo riusciti a mettere insieme rappresentanti del Partito Comunista, del Socialista e del Blocco di Sinistra per formare un’alternativa delle sinistre. Anche se sapevamo che per ragioni storiche è molto difficile riuscirci. 

Come in Spagna... Pure qua, pure qua... E in Portogallo, alla fine, ci siamo resi conto che era impossibile, che mai ci sarebbe stata un’alternativa delle sinistre. 

Perché? 
Perché, da una parte, il Blocco di Sinistra e il Partito Comunista vogliono rinegoziare il debito e, inoltre, hanno concluso che parte di questo debito non si può pagare –è il 130% del PIL- , o porteremo all’impoverimento le generazioni successive. Tutto il denaro che entra dalla Troika va a pagare il debito, nemmeno un centesimo va alla sanità o alle famiglie delle persone. “Il movimento per democratizzare la democrazia a volte risulterà violento contro la proprietà e, a volte, illegale” D’altro canto, il Partito Socialista, che da tempo è dominato dalla logica del neoliberismo, vuole essere Governo, per di più, nel quadro europeo dominato anch’esso dal neoliberismo. Pertanto, propugna che di negoziare il debito non se ne parla: si deve pagare tutto, anche se si negozia sui tassi e i periodi di pagamento, per esempio. E qui finisce l’obiettivo della riunione, unire la sinistra. E lì è finita. 

Come vede in Spagna i partiti di sinistra? 
La stessa divisione, anche se in Portogallo è più grave, perché… Chi sono stati gli invitati spagnoli alla riunione del Club Bilderberg in Hertfordshire (Regno Unito)? Il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, il consigliere delegato del Gruppo Prisa, Juan Luis Cebrián; quello di Inditex, Pablo Isla,... Perché? Perché la presenza del Portogallo è stata molto interessante, molto illustrativa del futuro: hanno partecipato al Bilderberg il segretario del Partito Socialista e il segretario del partito di destra al Governo, ossia, l’élite internazionale ha già deciso le elezioni. I portoghesi vanno a lavorare fino alle prossime elezioni, lottando perché ci sia un Governo di sinistra –idioti-, le lezioni già sono decise e i socialisti condividono questa cosa. Per questo io credo che in Europa stiamo entrando in un periodo post istituzionale (“Dopo le istituzioni”), perché le istituzioni dello Stato non rispondono e la gente non si sente rappresentata da queste istituzioni. 

Che possiamo aspettarci da un periodo così? 
Sarà un periodo molto turbolento e lungo, a mio giudizio, e sarà una lotta per la ridefinizione della democrazia. Non è un caso che i giovani qui in Spagna o in Portogallo parlino di Democrazia Reale o facciano appello alla Democrazia Ora, perché la democrazia in Europa è sospesa e sconfitta. C’è stato un conflitto tra democrazia rappresentativa e capitalismo e ha vinto il capitale. C’è qualche possibilità che ritorni di nuovo la democrazia? Solo quando il capitalismo abbia paura. Finora, le banche sono state salvate con denaro pubblico, ma non ci sarà modo di salvarle di nuovo allo stesso modo, a meno che i cittadini non siano ridotti in condizioni di schiavitù. Ci può essere una catastrofe e dobbiamo lottare prima che arrivi, cercando tutti gli errori che sono stati commessi nelle politiche progressiste d’Europa. Per esempio, credere che solo un piccolo gruppo in ogni paese era politicizzato: i membri dei partiti, le ONG o i movimenti sociali. Il resto dei cittadini era una massa informe, non politicizzata, che non aveva alcun rilievo politico, ma sono quelli che ora sono nelle strade. Da quelli arriverà il futuro; la trasformazione democratica arriverà per mano di tutti gli indignati: pensionati, giovani, medici, professionisti,… che implica, inoltre, una unione inter-generazionale che prima non c’era e che deve portare a termine una rivoluzione democratica; ne abbiamo bisogno per non arrivare alla catastrofe. 

Come ci si avvicina a una rivoluzione democratica nella situazione attuale? Che significato ha, al di là dei termini? 
Significa democratizzare la democrazia attraverso un movimento popolare molto forte, che a volte risulterà violento, anche se mai contro le persone, e a volte risulterà illegale, perché una delle caratteristiche degli Stati neoliberisti è quella di essere sempre più repressivi. 

Con essere violento si riferisce, per esempio, a “los escraches” e con essere illegale, a iniziative come Rodea el Congreso*? 

Sì, bisogna rafforzare quei movimenti. Anche l’M15 nel suo insieme? C’è chi ha la percezione che sia un movimento nato con molto impeto e che si è sgonfiato, perdendo forza. Forse perché la Spagna è già un paese rassegnato? Non credo che siamo –e includo il mio paese, il Portogallo- paesi rassegnati, ma che abbiamo sofferto oltre 40 anni di dittatura; 48 nel mio paese, più della Spagna. Mentre ci passavano accanto i movimenti europei di partecipazione politica (movimento studentesco, quello del 1968, per la liberazione delle colonie, …). Eravamo molto isolati, per questo i nostri paesi non hanno ora la cultura democratica di resistenza. D’altro canto, ci sono elementi congiunturali che influiscono sui movimenti e per esempio, non possiamo credere che le piazze si riempiranno alla stessa maniera in inverno, in primavera e in estate. Inoltre, i movimenti, mentre maturano, si dividono: c’è gente che si concentra sugli sfratti, altra sulla salute; gente che crede che di debba creare un partito, altri che no; persone che parlano di consigli popolari, forme di controllo cittadino, … 

E come si organizza tutto questo? Che ci rimane? 
La rivoluzione democratica avrà due piedi: cambiare la democrazia rappresentativa neoliberista attraverso un cambiamento del sistema politico che porta con sé, a sua volta, un cambiamento del sistema dei partiti. Vale a dire che implica la partecipazione di indipendenti nel sistema politico, nel regolamento e nei finanziamenti dei partiti, nel sistema elettorale, … C’è molto da fare, ma soprattutto, sapendo che la riforma non verrà mai dai partiti, che sanno che usciranno perdenti da questo, ma verrà dai cittadini. La democrazia partecipativa risultante –della quale abbiamo esperienze fuori dall’Europa- ne trarrà nuove forme di attuazione: referendum, consigli popolari, consigli di settore, bilanci partecipati a livello locale o regionale, per esempio; … ossia, democrazia diretta che controlli gli eletti, che vada oltre l’autorizzazione a governare; che vada fino alla resa dei conti, deve arrivare da fuori, dai cittadini organizzati. Il problema è che ora non sono organizzati. 

Si riferisce al movimento degli indignati? Che critiche fa? 
Ne ho varie. Primo: le assemblee dove si prendono decisioni per consenso, che possono essere totalmente paralizzanti, poiché una piccola minoranza può impedire qualsiasi decisione. Con le formule dominanti di decisione non ci sarà formulazione politica; e senza formulazione politica non ci sono alternative. Secondo: il sistema di grande autonomia individuale che gestiscono (ognuno decide quando entra e quando se ne va, per esempio) è più simile al neoliberismo di quanto non pensino. Un movimento non si costruisce con una autonomia individuale, ma collettiva. E non ce l’hanno. Terzo: una caratteristica che stiamo vedendo, soprattutto, negli acampados degli USA e in alcuni di qua, è che hanno più legittimità quelli che rimangono più tempo accampati nella piazza. Non tengono conto del fatto che c’è gente molto valida, che però deve andare a lavorare o a casa per occuparsi dei bambini. 

Sono meno legittimati per questo? 
No. Perché rimanere più tempo in una piazza non è un criterio di legittimazione democratica. Tutto questo non ha impedito l’avanzare del movimento degli indignati? Io lavoro con loro come intellettuale di retroguardia, che è quello che mi considero, e credo che in questi momenti, non siano un movimento; sono presenze che non hanno proposte molto concrete e li capisco, perché è tutto il sistema che è putrefatto e vogliono ricostruirlo dal basso. 
Per farlo, chiedono una nuova Costituzione e questo è positivo; chiedono una spinta costituente, qualcosa che io difendo: una nuova Costituzione che ritiri il monopolio della rappresentanza politica ai partiti; che stabilisca diverse forme di proprietà, oltre quella statale e quella privata –si sono perdute le forma di proprietà comunale o cooperative, per esempio-; che stabilisca una nuova forma di proteggere le nostre costituzioni dalla speculazione finanziaria e dai debiti che non si possono pagare. 
Quel debito è proprio l’alibi per imporre le politiche di austerità... Guarda quello che succede in Portogallo con quelle: un debito del 130% del PIL, la disoccupazione che aumenta e una recessione sempre maggiore. Quelli che governano lo sanno, per questo io sono sempre più convinto che questa non è una crisi. 

Dobbiamo lottare anche per i termini del discorso, perché questa non è una crisi: è una grossa manovra del capitalismo internazionale finanziario per distruggere l’ultima fortezza che esisteva nel mondo di protezione sociale e di lavoro con i diritti. 
Il rimedio alla crisi sta peggiorando la crisi e, che è lo stesso, il medico sta ammazzando il paziente. E il peggio è che non necessariamente più c’è crisi più c’è resistenza. Perché ci sono livelli di crisi tanto forte e in cui la gente è tanto impoverita, tanto depressa, che non esce per strada; gente che si suicida, che prende ansiolitici; gente che interiorizza la crisi e se la prende con se stessa. Stiamo entrando in quel processo. 
Per questo credo che quest’anno sarà decisivo per sapere se abbiamo energie e ribaltiamo questo. Questo è quello che faremo questo fine settimana nella UPMS, vedere se possiamo articolare qualcosa per generare turbolenze politiche che non permettano a questi governi –questi sistemi di protettorato, in realtà- di continuare a governare. 

N.d.t. Circonda il Congresso 


(traduzione di Rosamaria Coppolino)

mercoledì 3 luglio 2013

Chi comanda in Italia? Ce lo dice lo storico Giulio Sapelli

Chi comanda in Italia? Ce lo dice lo storico Giulio Sapelli


Giulio Sapelli, professore di Storia Economica presso l'Università degli Studi di Milano
Giulio Sapelli, professore di Storia Economica presso l'Università degli Studi di Milano 
Michael Pontrelli
notizie.tiscali.it Mai come in questo difficile e confuso momento storico è stato difficile capire chi davvero detiene il potere nel nostro Paese. Ci ha provato nel suo ultimo saggio Chi comanda in Italia, edito da Guerini e Associati, Giulio Sapelli, uno dei più autorevoli storici italiani. Lo abbiamo sentito per farci raccontare la sua visione delle cose.

Professore iniziamo proprio dal titolo del suo ultimo saggio: chi comanda in Italia?
“L’Italia di oggi è un paese devertebrato ovvero un paese in cui il potere si è disgregato. I partiti e le grandi imprese di fatto non esistono più. In passato in circostanze simili sarebbero intervenuti i militari. Oggi questo non è più possibile e il potere è stato occupato dall’alta burocrazia e dalla magistratura”.

Non è eccessivo dire che i partiti non esistono più? A me sembra che siano più potenti che mai e un altro libro che parla di potere, l’intervista di Madron a Bisignani, conferma questo quadro.
“Quello di Bisignani è sostanzialmente un libro che manda dei segnali mafiosi. Un volume scritto per dire che può ricattare tutti. I partiti di oggi sono dei semplici comitati d’affari che perseguono interessi personali e lobbistici ma che di fatto non esercitano più un potere reale”.

Quindi mi sta dicendo che anche un personaggio del calibro di Silvio Berlusconi non ha potere?
“Berlusconi è potente ma non ha alleanze. E’ un uomo anti-establishment. Appena ha tirato su la testa per entrare nel salotto buono lo hanno massacrato. E’ vero che ha fatto di tutto per farsi massacrare però i miliardi spesi per intercettarlo credo siano un record mondiale”.

Secondo non pochi osservatori l’Italia sarebbe un paese a sovranità limitata ovvero sia il governo Monti che quello Letta in realtà prenderebbero ordini dall’Unione europea o peggio ancora da Berlino. Fantasie o realtà? 
“Purtroppo la mancanza di una vera sovranità nazionale è una costante del nostro paese. L’Italia è stata una costruzione geografica messa assieme dalla diplomazia inglese per contrastare il dominio francese nel Mediterraneo. Garibaldi, per esempio, venne assoldato direttamente dagli inglesi tramite la massoneria di rito scozzese. La realtà è che non abbiamo mai avuto la nostra autonomia nazionale e la nostra storia va sempre interpretata nell’ambito dei conflitti di potere internazionali”.

Mi scusi ma qui stiamo parlando del 1800. Da allora sono cambiate tantissime cose. 
“Se vuole degli esempi più recenti posso citarle lo smantellamento di alcuni settori industriali italiani voluti da potenze straniere come l’informatica, dove eravamo leader con l’Olivetti, e il nucleare con lo scandalo Ippolito. Per non parlare poi della chimica fine e delle privatizzazioni di Prodi con cui sono state svendute e chiuse intere filiere merceologiche”.

E in questo momento? Cosa sta succedendo?
“Che Francia e Germania stanno imponendo il loro potere su tutta l’Europa compresa l’Italia. Se ancora ci sono delle resistenze dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti. Gli americani non vogliono che l’Italia cada completamente nelle mani dei tedeschi e dei francesi per il semplice motivo che sul nostro territorio hanno le loro basi militari. Fino a quando gli aerei americani partiranno dai nostri aeroporti siamo in buone mani. E’ meglio stare con gli Stati Uniti che non sotto il tallone dei tedeschi”.

Prima lei accennava al ruolo della massoneria nel processo di unificazione però non l’ha citata tra i poteri che oggi comandando in Italia. 
“Oggi la massoneria non ha più il peso di una volta. I grandi intellettuali, come era per esempio Spadolini, l’hanno abbandonata. Alcuni sono morti, altri si sono messi in sonno. La degenerazione di Gelli le ha dato un colpo terribile. Esiste ancora una buona massoneria patriottica raccolta attorno al rito scozzese ma, ripeto, non conta più come prima”.

Tornando all’aspetto internazionale, lei ha parlato di un potere franco-tedesco che domina in Europa a cui si oppongono gli Usa. Questa visione presuppone un ruolo molto importante dei singoli Stati e smentisce quanti affermano che il potere del mondo ormai non sarebbe più nelle mani della politica ma in quelle dei grandi gruppi finanziari transazionali.
“Le banche hanno sicuramente un enorme peso ma allo stesso tempo hanno anche un forte legame con gli Stati nazionali. Se la Deutsche Bank non avesse delle relazioni strette con il governo tedesco avrebbe già fatto una brutta fine come le banche americane. L’oligopolio finanziario mondiale condiziona gli Stati ma ha anche bisogno di loro. Il quadro è più complesso di quanto possa apparire”.

01 luglio 2013

martedì 2 luglio 2013

L’Iran pronto ad inviare in Siria 4.000 combattenti in aiuto alle forze del presidente Assad


L’Iran pronto ad inviare in Siria 4.000 combattenti in aiuto alle forze del presidente Assad
independent.co.uk
ROBERT FISK

La decisione di Washington di armare i ribelli musulmani sunniti della Siria ha fatto precipitare gli Stati Uniti nel grande conflitto tra Sunniti e Sciiti del Medio Oriente islamico, entrando in una lotta che ormai sta arrestando lo sviluppo delle rivoluzioni arabe che hanno rovesciato le dittature in tutta la regione. Per la prima volta, tutti gli “amici” dell’America nella regione sono musulmani Sunniti e tutti i suoi nemici sono Sciiti. Rompendo tutte le consuetudini di non-allineamento del presidente Barack Obama, ora gli Stati Uniti si sono pienamente impegnati a fianco di gruppi armati che comprendono i movimenti islamici sunniti più estremisti in Medio Oriente.


L’Independent di domenica ha appreso che in Iran è stata assunta una decisione militare - anche prima delle elezioni presidenziali della scorsa settimana - per inviare un primo contingente di 4.000 Guardie Rivoluzionarie iraniane in Siria, a sostegno delle forze del presidente Bashar al-Assad contro la rivolta in gran parte sunnita, che è costata quasi 100.000 vite in poco più di due anni. Secondo fonti filo-iraniane profondamente coinvolte nella sicurezza della Repubblica Islamica, l’Iran è ormai pienamente impegnato a preservare il regime di Assad, fino al punto di proporre l’apertura di un nuovo fronte “siriano” sulle alture del Golan contro Israele.
In anni a venire, gli storici si chiederanno come gli Stati Uniti - dopo il loro fallimento in Iraq e il loro ritiro umiliante dall’Afghanistan in programma per il 2014 - possano essersi tanto sconsideratamente allineati con una fazione in una lotta titanica islamica, che risale al VII secolo, alla morte del Profeta Maometto.
Gli effetti profondi di questo grande scisma, tra Sunniti che credono che il padre della moglie di Maometto fosse il nuovo califfo del mondo musulmano e gli Sciiti, che considerano il genero di Maometto, Ali, come suo legittimo successore - un conflitto che nel VII secolo ha inondato di sangue tutta l’area attorno alle attuali città irachene di Najaf e Kerbala – si fanno sentire a tutt’oggi in tutta la regione. Un arcivescovo di Canterbury del diciassettesimo secolo, George Abbott, ha paragonato questo conflitto musulmano a quello tra “papisti e protestanti”.
L’alleanza con gli Stati Uniti include ora gli Stati più ricchi del Golfo Arabo, i vasti territori sunniti tra l’Egitto e il Marocco, così come la Turchia e la fragile monarchia in Giordania, creazione dell’impero britannico. Re Abdullah di Giordania – paese invaso, come tante nazioni confinanti, da centinaia di migliaia di profughi siriani - potrebbe addirittura trovarsi sul fulcro del conflitto siriano. Si pensa che attualmente in Giordania siano presenti fino a 3.000 “consiglieri” statunitensi, e la creazione di una “no-fly zone” nella Siria meridionale – in opposizione alle batterie antiaeree controllate dall’esercito siriano - trasformerebbe questa crisi in una guerra “calda”.
Questo, per quanto riguarda gli “amici” degli Stati Uniti d’America.
I loro nemici comprendono gli Hezbollah libanesi, il regime sciita alawita di Damasco e, naturalmente, l’Iran. E l’Iraq, una nazione in gran parte sciita, che gli Stati Uniti hanno “liberato” dalla minoranza sunnita di Saddam Hussein nella speranza di bilanciare il potere sciita dell’Iran, e che - contro tutte le previsioni statunitensi - in gran parte è finita sotto l’influenza e il potere di Teheran. Gli Iracheni sciiti, così come i membri di Hezbollah, hanno insieme combattuto a fianco delle forze di Assad.


Le scuse e le motivazioni addotte da Washington per la sua nuova avventura in Medio Oriente – vale a dire che è indispensabile armare i nemici di Assad perché il regime di Damasco ha usato il gas nervino sarin contro di loro – non convincono nessuno in Medio Oriente.
La prova cruciale che una delle parti in conflitto in Siria abbia fatto uso di gas rimane quasi nebulosa, tanto quanto l’affermazione del presidente George W. Bush che l’Iraq di Saddam possedesse armi di distruzione di massa.
Il vero motivo per cui gli Stati Uniti d’America hanno disposto la loro potenza militare a fianco dei ribelli sunniti siriani è perché questi stessi ribelli stanno ora perdendo la loro guerra contro Assad. Questo mese, la vittoria del regime di Damasco nella città di Qusayr nel centro della Siria, a prezzo della vita di combattenti Hezbollah come quella di appartenenti alle forze governative, ha gettato la rivoluzione siriana nello scompiglio, minacciando di umiliare le pretese statunitensi e dell’Unione Europea per un abbandono del potere da parte di Assad.


Si dovrebbe presumere che i dittatori arabi dovrebbero essere deposti - a meno di non essere re o emiri del Golfo in relazioni amichevoli - e non di essere sostenuti. Eppure la Russia ha garantito il suo appoggio totale ad Assad, tre volte ponendo il veto su risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbero permesso all’Occidente di intervenire direttamente nella guerra civile.

In Medio Oriente, esiste un cinico scetticismo sulla presunzione statunitense che si possano distribuire armi – inclusi quasi certamente missili terra-aria - solo alle forze ribelli laiche sunnite rappresentate in Siria dal cosiddetto Esercito Libero Siriano. Il potentissimo Fronte al-Nusrah, alleato di al-Qaeda, domina il campo di battaglia a fianco dei ribelli ed è stato accusato di atrocità, tra cui l’esecuzione di governativi siriani prigionieri di guerra e l’omicidio di un giovane quattordicenne per blasfemia.
Costoro saranno in grado di appropriarsi delle nuove armi statunitensi strappandole con poco sforzo ai loro camerati dell’Esercito Libero Siriano. D’ora in poi, quindi, ogni attentato suicida dinamitardo a Damasco - ogni crimine di guerra commesso dai ribelli - verrà considerato nella regione di responsabilità di Washington. Gli stessi islamisti Sunniti-Wahabiti che hanno ucciso migliaia di cittadini americani negli attentati dell’11 settembre 2011 - che sono i più grandi nemici degli Stati Uniti così come della Russia - stanno per diventare alleati per procura dell’amministrazione Obama.

Questa terribile ironia può venire ancor più inasprita dal deciso rifiuto del presidente russo Vladimir Putin a tollerare una qualsiasi forma di estremismo sunnita.
La sua esperienza in Cecenia, la sua retorica anti-musulmana – Putin ha rilasciato considerazioni oscene circa gli estremisti musulmani in una conferenza stampa in russo - e la sua convinzione che il vecchio alleato della Russia in Siria si trova ad affrontare la stessa minaccia che Mosca ha combattuto in Cecenia, giocano un ruolo importantissimo nella politica di Putin nei confronti di Bashar al-Assad, quanto la permanenza della base navale concessa alla Russia presso la città mediterranea siriana di Tartous.
Per i Russi, naturalmente, il “Medio Oriente” non è affatto in “oriente”, ma è a sud di Mosca, e i dati statistici sono di somma importanza. La capitale cecena di Grozny è appena 500 miglia dalla frontiera siriana. Il quindici per cento dei Russi sono musulmani. Sei delle repubbliche comuniste dell’Unione Sovietica avevano una maggioranza musulmana, di cui il 90 per cento sunnita. E i Sunniti in tutto il mondo costituiscono forse l’85 per cento di tutti i Musulmani.
Visto l’intento della Russia  di riconquistare posizioni in un ampio territorio che comprende la maggior parte della ex Unione Sovietica, i suoi principali antagonisti sono gli Islamisti Sunniti sul tipo di quelli che ora stanno combattendo il regime di Assad.
Le fonti iraniane dicono di mantenere costantemente contatti con Mosca, e che, mentre il ritiro totale di Hezbollah dalla Siria probabilmente verrà completato al più presto – però con il mantenimento di formazioni di “intelligence” di questa milizia all’interno della Siria - il sostegno iraniano a Damasco crescerà più che inaridire. Questi informatori sottolineano che i Talebani hanno recentemente inviato una delegazione ufficiale per colloqui a Teheran, e che gli Stati Uniti avranno bisogno dell’aiuto dell’Iran nella conduzione del loro ritiro dall’Afghanistan.
Gli Stati Uniti, affermano gli Iraniani, non saranno in grado di portare i loro armamenti e le loro attrezzature fuori dal paese, con la guerra contro i Talebani ancora in corso, senza l’assistenza attiva dell’Iran. Una delle fonti ci ha dichiarato - non senza una qualche ilarità - che i Francesi furono costretti a lasciarsi alle spalle 50 carri armati nel momento del loro abbandono, perché non avevano ricevuto l’aiuto di Teheran. Questo è un segno del modello storico di cambiamento in Medio Oriente per cui, nel quadro delle vecchie rivalità da “guerra fredda” tra Washington e Mosca, la sicurezza di Israele è passata in secondo piano rispetto al conflitto in Siria.
In effetti, alle politiche di Israele nella regione si sono messe di traverso le rivoluzioni arabe, che hanno lasciato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, disperatamente alla deriva in mezzo ai cambiamenti storici. Solo una volta nel corso degli ultimi due anni, Israele ha pienamente condannato le atrocità commesse dal regime di Assad, e mentre ha fornito aiuto medico per i ribelli feriti al confine israelo-siriano, teme l’insediarsi di un califfato islamico a Damasco molto più che una continuazione del governo di Assad. Un ex comandante dei servizi di spionaggio di Israele ha recentemente descritto Assad come “l’uomo di Israele a Damasco”.
Solo pochi giorni prima che il presidente Mubarak venisse rovesciato, sia Netanyahu che il re Abdullah dell’Arabia Saudita si appellavano a Washington per chiedere ad Obama di salvare il dittatore egiziano. Invano. Se il mondo arabo è stato a sua volta travolto da due anni di rivoluzioni, con l’andar del tempo nessuno più dei Palestinesi avrà sofferto tanto dalla guerra siriana e ne verrà più danneggiato. La terra che vorrebbero chiamare come loro Stato futuro è stata così occupata e popolata da coloni ebrei israeliani da non essere per i Palestinesi più sicura o “vivibile”.
I tentativi dell’inviato di “pace” Tony Blair per la creazione di un tale Stato sono stati risibili.
Una “Palestina” futura sarebbe una nazione di Sunniti. Ed oggi, Washington fa menzione appena ai Palestinesi. Un’altra delle ironie massime della regione è che Hamas, i presunti “super-terroristi” di Gaza, hanno abbandonato Damasco e ora sostengono la bramosia degli Arabi del Golfo di schiacciare Assad. Forze governative siriane denunciano che Hamas ha perfino addestrato i ribelli siriani nella fabbricazione e nell’uso di razzi fatti in casa.
Agli occhi degli Arabi, la guerra di Israele del 2006 contro gli Sciiti di Hezbollah era un tentativo di colpire al cuore l’Iran. L’appoggio dell’Occidente fornito ai ribelli siriani è un tentativo strategico di schiantare l’Iran. Ecco dunque che l’Iran sta preparandosi all’offensiva. Quindi, per il Medio Oriente è alta la posta in gioco e pesante l’ipoteca sul futuro.

In questo contesto terribile, la tragedia per i Palestinesi continua!

lunedì 1 luglio 2013

La bomba ecologica della Vinyls è innescata

La bomba ecologica della Vinyls è innescata
Stefano Deliperi

In questa nostra povera Sardegna sempre più Sardistàn, l’oscura isola nel bel mezzo del Mediterraneo, può anche accadere che 500 tonnellate di sostanze cancerogene e altamente pericolose per l’ambiente e per la salute pubblica siano formalmente abbandonate alla buona volontà di lavoratori senza stipendio e con la certezza del licenziamento dopo la dichiarazione di fallimento della propria azienda entro pochi giorni. Sembra follìa, è solo realtà e – come sempre – supera la fantasia.

Accade a Porto Torres, negli impianti della Vinyls, Gruppo Sartor, azienda chimica che sarà dichiarata fallita dal Tribunale di Venezia il 27 giugno 2013.
In fabbrica ci sono circa 500 tonnellate di dicloroetano e cloruro di vinile, sostanze altamente infiammabili, tossiche, cancerogene. In base al decreto legislativo n. 334/1999 sul controllo dei pericoli di incendi rilevanti connessi con sostanze “a rischio”, fra i vari obblighi di sicurezza c’è un presidio permanente 24 ore su 24 per prevenire gli incendi e ridurne al minimo i danni in caso di incidenti. Attualmente, però, nessuno se ne cura.

Eppure tutti sono stati avvertiti: il Governo, la Regione, l’Arpas, il Prefetto di Sassari, il Sindaco di Porto Torres, i Vigili del Fuoco.
Tutti sanno e tutti scrivono a tutti. Ma nessuno agisce.
La Vinyls ha già notificato a chiunque che non ha risorse finanziarie per occuparsene.

Fino ai giorni scorsi erano i novanta lavoratori che continuavano a presidiare, senza un soldo da cinque mesi, i serbatoi delle sostanze chimiche. Ora non più. Hanno segnalato il loro “abbandono di posto” Procuratore della Repubblica e al Sindaco di Porto Torres, ennesime tappe di un calvario.
La “loro” Vinyls è una tipica “industria orfana”, ormai ripudiata da tutti, anche se nel 2007 fatturava 247,6 milioni di euro, unica azienda italiana produttrice di pvc, con ben 370 dipendenti nei tre impianti di Porto Marghera, Ravenna e Porto Torres (130 dipendenti nel 2007).

I lavoratori le hanno tentate tutte per difendere la fabbrica, anche la “loro” Isola dei Cassintegrati è divenuta famosa. Ma tutto è stato inutile.
Eppure con 2 milioni di euro nell’arco di 7-8 mesi i lavoratori Vinyls potrebbero almeno effettuare i necessari lavori di messa in sicurezza e disinnescare una vera e propria “bomba ecologica” sulle rive del Golfo dell’Asinara.

Il minimo da fare in un sito di interesse nazionale (S.I.N. Sassari-Porto Torres, legge n. 179/2002) per la grave contaminazione di derivazione industriale.
Il minimo da fare in un‘area industriale dove fra i lavoratori, “sia per gli uomini sia per le donne sono presenti eccessi per il tumore del fegato … e la leucemia mieloide”, mentre nella popolazione residente dei Comuni interessati “sono stati osservati eccessi di mortalità per tutte le cause, le malattie dell’apparato digerente, i tumori maligni e il tumore del fegato”, inoltre “si trovano eccessi significativi per tumore del fegato, tumore polmonare e tumore della prostata”. E dove, dal locale Registro tumori, si riscontrano “sia negli uomini sia nelle donne, aumenti per tutti i tumori maligni e tumore del colon, fegato e polmone” (Rapporto S.E.N.T.I.E.R.I. – studio epidemiologico, Ministero della salute, aree industriali di Porto Torres, 2012).

Il minimo da fare, insieme alle altre bonifiche ambientali di impianti e aree industriali in disuso, prima anche solo di immaginare di avviare qualsiasi nuovo insediamento produttivo, con emissioni e immissioni connesse, come i nuovi impianti Matrìca della “chimica verde”.

E’ elementare e intuitivo: i pericoli per la sicurezza e la salute pubblica, i carichi inquinanti, in una zona a rischio ambientale e sanitario vanno diminuiti, non aumentati.

Non è necessario esser un super-esperto per capirlo. Basterebbe il banale buon senso, ma anch’esso è alla deriva.

Come la Vinyls.



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