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mercoledì 15 febbraio 2012

Luciano Gallino: «Come affrontare il finanzcapitalismo»


Intervento del 4 novembre 2011 alla Fiom di Torino in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Luciano Gallino, «Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi» (Einaudi, 2011), rivisto dall’autore.
Sono grato agli organizzatori, in particolare a Gianni Rinaldini, per avermi dato modo di discutere con un pubblico qualificato alcuni temi della crisi economica in corso. Comincerei suggerendo di prender nota di una frase, pronunciata da un personaggio autorevole, che per noi oggi è molto attuale: «D’ora innanzi regneranno i banchieri». Si può essere d’accordo. Oggi effettivamente i banchieri dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma perché la politica ha aperto loro le porte. Questa frase è stata pronunciata da un banchiere francese, Jacques Laffitte, alla fine della Rivoluzione di Luglio del 1830, mentre stava accompagnando il duca d’Orléans in trionfo all’Hôtel de Ville. Abbiamo pertanto a che fare con una questione che non ha fatto che ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad essa sia stato posto rimedio (sia pure per  un breve periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929.  Un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Alla luce di queste opposte considerazioni toccherò quattro-cinque punti, traendoli dal mio ultimo libro Finanzcapitalismo. Per prima cosa, la crisi ha uno dei suoi punti di origine nella creazione smodata di denaroda parte delle banche private. Lo hanno fatto anche le banche centrali e nazionali, ma sono state soprattutto le banche private che hanno creato un’immensa quantità di denaro dal nulla. La crisi – secondo punto – è nata dalla cosiddetta «finanza ombra», vale a dire dai flussi finanziari di capitale che circolano al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia dell’autorità di vigilanza. Terzo punto fondamentale, nel preparare e nel far esplodere la crisi, non gestendola e lasciandola inasprire fino a oggi, hanno avuto un ruolo fondamentale la politica, le leggi, le norme che sono state varate per liberalizzare sia i movimenti di capitale sia la creazione di denaro in nuove forme.  In questo quadro che ha visto la politica spalancare le porte alla finanza hanno svolto un ruolo centrale l’Europa, i suoi politici e le sue banche. Il punto finale lo riassumerei così: sarebbe indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale enorme problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla anche nella Ue sono del tutto inadeguate. Ora, senza una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo obiettivo dell’Unione Europea, visto che di lì nascono i suoi guai, le cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo,  dello stato sociale.
Partiamo dal primo punto: l’incredibile creazione di denaro che ha avuto luogo soprattutto negli anni 2000, sebbene fosse cominciata assai prima. Le banche private creano denaro dal nulla ogni volta che concedono prestiti. Molti pensano e sembrano dare per scontato – e fra questi, a volte, anche i commentatori in materie economiche che pur dovrebbero saperne qualcosa di più –che le banche raccolgano depositi (piccoli, medi, grandi) e sulla base di questi concedano dei prestiti alle imprese, alle famiglie, ai lavoratori. Non è affatto così:una grandissima parte del denaro viene creato dalle banche dal nulla attraverso il credito. Una volta si parlava di denaro scritturale perché veniva scritta in un libro dei conti, in una partita doppia, la somma prestata a Tizio o a Caio; oggi il denaro si crea con alcuni tocchi sulla tastiera. Una certa quantità di denaro viene ancora creata dalle banche centrali, in forma di prestiti e di  denaro contante – monete o banconote, gli unici oggetti per i quali si applichi ancora la dizione «stampare denaro» – ma quest’ultimo rappresenta meno del 3 per cento del denaro oggi in circolazione. È stata una modifica di grande portata. Basti pensare che ancora negli anni Cinquanta e Sessanta monete e banconote rappresentavano il quaranta per cento e più, a seconda dei paesi, del denaro circolante, mentre oggi in tutti i paesi sviluppati siamo intorno al tre per cento o meno. Forse un dieci per cento del denaro in circolazione è creato dalle banche centrali, compresa la Banca Centrale Europea. A questo proposito bisogna   tener conto che vi sono diversi tipi di denaro: c’è il denaro cash, il contante, il denaro  dei depositi, che vale più o meno lo stesso, e poi i prestiti  o i risparmi vincolati a tre mesi, i risparmi vincolati a due anni, le obbligazioni, i tanti titoli inventati dalla finanza.
Come hanno fatto le banche a partire degli anni Novanta e poi con una fortissima accelerazione negli anni Duemila a creare denaro senza limiti? Hanno utilizzato uno strumento micidiale che si chiamacartolarizzazione o titolarizzazione (dall’inglese titrisation o  securitisation). Esso consiste nella trasformazione di  attivi  che figurano nel  bilancio di una banca in titoli che si possono commerciare, rivendere, comprare. Il denaro viene creato concedendo un prestito: qualcuno, ad esempio, chiede un mutuo; questo prestito diventa un attivo (registrato sulla parte sinistra del bilancio che riguarda gli attivi) e si trasforma in un debito verso la banca da parte di quello che ha avuto il prestito. Le banche hanno inventato secoli fa questo particolare modo di creare denaro, ma dagli anni 90 in poi ne hanno fatto un uso eccessivo. Che cosa è avvenuto? Quando un prestito viene concesso figura tra gli attivi di una banca (una banca percepisce gli interessi), ma quel capitale è immobilizzato. Inoltre, la banca stessa è soggetta a vincoli, che derivano dalle normative della banca centrale  e dalle regole stabilite dagli accordi di Basilea 1 e 2, già da tempo operativi, e dal nuovo accordo Basilea 3  non ancora pienamente in vigore. Sulla base di questi vincoli le banche devono tenere di riserva dei capitali buoni per una certa quota rispetto a ciò che prestano. Le norme di Basilea 2 stabiliscono che una banca dovrebbe tenere di riserva e depositare presso la banca centrale, la BCE nel caso dell’Eurozona, l’8 per cento di quello che presta, vale a dire che per ogni 100 Euro che presta deve depositarne 8 in riserva. Se i prestiti sono tanti, i capitali da depositare in riserva crescono e una banca a un certo punto non è più in grado di effettuare altri prestiti. Il fatto è che concedere prestiti rende molto, sotto forma di  interessi, commissioni, spese amministrative, consulenze, plusvalenze e altro.
Ecco allora il colpo di genio.  Sviluppando un’invenzione di parecchi anni addietro, esso è consistito neltrasformare il prestito in titoli commerciali, in titoli cioè che possono andare sul mercato. Quindi, quello che è avvenuto con sempre maggiore ampiezza nei primi anni 2000 è stato che il prestito veniva concesso e  poi il titolo di debito, sovente una ipoteca, era ceduto quasi subito a una società di scopo, in molti casi istituita dalla stessa banca. La sigla più nota per designare tali società è SIV (Structured Investment Vehicle) che sta per «Veicoli di Investimento Strutturato». Altrettanto rapidamente il Siv trasformava  dei pacchi di titoli   in un supertitolo commerciabile che immetteva sul mercato finanziario. Cedendo il prestito ad un veicolo, magari da essa stessa creato e in molti casi collocato nelle isole Cayman o in altri paradisi fiscali, la banca otteneva innanzitutto di recuperare il capitale immobilizzato in attesa della scadenza,  ma soprattutto otteneva che quel prestito sparisse dal bilancio, poiché esso veniva legalmente venduto (anche se sulla effettività della vendita si possono avere dei dubbi) al  veicolo da essa stessa creato, cioè alla società di scopo. Quello spazio creato dal prestito, che diventava un titolo uscito dal bilancio, permetteva alla banca di creare nuovo denaro concedendo altri prestiti. Ciò si può fare per un primo prestito, per il secondo, il terzo, il decimo e via dicendo. Esattamente in questo modo sono stati creati migliaia di miliardi di dollari e di euro nei primi anni 2000, ma nell’agosto del 2007 scoppia la crisi e il processo di cartolarizzazione rallenta.
Questo tipo di processo è anche alla radice della questione dei mutui facili. Infatti nel fervore di creare sempre nuovo denaro, ossia di concedere sempre nuovi prestiti per poi rimuoverli dal bilancio,  le banche e i numerosi enti coinvolti nel processo – in cui entrano non solo banche ma pure compagnie di assicurazione, enti specializzati nel concedere mutui, società di ri-assicurazione dei medesimi, fondi speculativi – hanno guardato sempre meno alle qualità del creditore, preferendo non solo ignorare quanto il creditore guadagnasse o a quanto ammontasse il suo patrimonio, ma addirittura evitando accuratamente che il creditore stesso si ponesse il problema di potersi o meno permettere il prestito. In pratica, sono stati venduti quasi a forza milioni di crediti, in prevalenza mutui per la casa, ma anche prestiti per gli studenti, mutui per comprare automobili o affittare un magazzino, tutti ipotecari, e il mutuo, ovvero l’ipoteca su di esso o a esso collegato, era trasformato in un titolo che rendeva subito, intanto perché era venduto,  poi perché  continuava a rendere permettendo  di concederne molti altri.
In questo modo le banche – che negli Stati Uniti, ricordo, dovevano avere in riserva presso la FED dieci dollari ogni cento che prestavano – operavano con un effetto leva apparente intorno a uno a dieci, e uno effettivo che superava uno a trenta.  Da  secoli questo 1:10 è più o meno il tasso a cui le banche operano, nel senso che fin dell’epoca dei banchi degli orefici –  che  avevano un caveau di roccia o di ferro in cui depositivano l’oro dei propri clienti – con la diffusione dei titoli di credito e di altri titoli scritturali l’attività bancaria si è sempre fondata sul presupposto che è quasi impossibile che tutti i clienti corrano nello  stesso momento agli sportelli e ritirino i loro depositi. Quindi le banche hanno cominciato a prestare e tutt’ora prestano soldi che non hanno. E l’ipotesi è sempre stata che intorno a uno a dieci o poco più fosse un effetto leva ragionevole. Spostando i mutui, le ipoteche, i titoli da un’altra parte e facendoli sparire dal bilancio, l’effetto leva è diventato uno a quindici, uno a venti, uno a trentadue, che è considerato il valore medio prevalente tra le banche quando esplode la crisi nell’estate del 2007. Ma c’erano allora istituti finanziari, come ricordo nel mio libro, che avevano un effetto leva di uno a ottanta, perfino di uno a cento, il che significa che su un  dollaro di soldi propri gravavano 99 dollari di debiti. Quindi quello a cui  stiamo assistendo oggi è per certi aspetti un immenso processo di deleveraggio, ovvero di smontaggio dell’effetto leva, di banche che erano solite operare con rapporti di  uno a trenta e più tra capitali propri e debiti,  e adesso cercano di ridiscendere a uno a venti, uno a dieci.
Questo però è solo una parte del processo di creazione del denaro, perché le banche hanno fatto di più e di peggio. Ormai i grandi gruppi finanziari sono società che ne controllano centinaia di altre, tra cui banche di diverso tipo (dalle banche d’investimento alle banche commerciali), istituti specializzati in ipoteche, casse di risparmio, compagnie di assicurazione, società specializzate nelle re-ipotecazione di ipoteche e altro. I grandi gruppi finanziari, oltre a creare trilioni di dollari o di euro concedendo prestiti sulla casa, sull’auto o sullo stabilimento,  concedendo prestiti a famiglie e  imprese e ingigantendo questa quantità di denaro mediante la cartolarizzazione, hanno anche creato altre montagne di denaro moltiplicando i cosidetti derivati. I derivatisono nati almeno un secolo e mezzo fa e forse prima, agli inizi dell’Ottocento. Erano onesti e pratici, chiamiamoli così, titoli assicurativi. L’agricoltore, ad esempio, che a gennaio non sapeva come sarebbe andato il raccolto di grano a giugno, aveva interesse a prefissare un certo prezzo di vendita del suo grano. Il mercante, che non sapeva a sua volta come sarebbe andato il prezzo – a causa delle carestie eventualmente intervenute, delle intemperie, dei parassiti –, aveva interesse a stabilire che a luglio avrebbe comprato a un determinato prezzo una certa quantità di grano. Allora, a gennaio, i due firmavano un contratto che assicurava al contadino e al mercante un determinato prezzo. È chiaro che poi a giugno era difficile che fossero in pari: uno dei due, rispetto al mercato, ci perdeva o ci guadagnava. Ma quel contratto era uno strumento efficace per garantirsi una certa serenità in merito al prezzo di acquisto per il  mercante e di vendita per l’agricoltore.
Nel corso del Novecento, ma soprattutto dopo gli anni Novanta, la produzione di derivati è semplicemente impazzita. I motivi sono vari. Anzitutto i sottostanti sono diventati migliaia. Possono essere  indici di borsa o eventi sportivi, prezzo degli alimenti di base o fenomeni meteorologici.  Il problema  principale risiede nel fatto che è caduto l’obbligo di possedere o di acquistare la merce– il cosiddetto sottostante – su cui si basa il valore del derivato. I derivati sono quindi diventati delle pure scommesse. Uno può scommettere sull’andamente del prezzo del petrolio, ossia può comprare un derivato avente il  petrolio come sottostante, senza avere alcun interesse a commerciare in tale materia prima. Il derivato può riferirsi, per dire, a diecimila barili di petrolio, ma le due controparti non si impegnano a comperare o  a vendere il sottostante, quanto ad accollarsi la differenza positiva o negativa del prezzo che maturerà tra sei mesi o un anno, posto che i derivati possono avere scadenze anche piuttosto lunghe. La parte cosiddetta venditrice non ha nulla da vendere e la parte acquirente non si sogna di acquistare non diciamo diecimila barili di petrolio, ma nemmeno uno. È unicamente una scommessa. Moltiplicando il numero di scommesse, se uno si assume dei rischi, si può guadagnare o perdere molto.
Quel che è successo è che nel 2007/2008 il valore nominale dei derivati che giravano per il mondo – cioè il valore scritto nei contratti– si aggirava su poco  meno di settecentocinquanta trilioni  di dollari. Il PIL globale nel 2007 è stato di 57 trilioni di dollari, quindi i derivati in circolazione equivalevano a più di dodici volte il PIL del mondo. Qui bisognerebbe entrare in alcune tecnicalità, per precisare che il PIL nominale è in genere più alto del valore effettivo del contratto. Nel 2009, ad esempio, 700 trilioni nominali di derivati valevano sul mercato circa 35 – 38 trilioni di dollari. Però ci sono delle distinzioni da fare, perché un conto sono i derivati sui barili di petrolio che nessuno compra e nessuno vende; un conto ben diverso  sono i derivati del credito che sono delle specie di assicurazioni per proteggersi dal rischio di insolvenza di un creditore. La banca A paga una commissione a B (che in molti casi è un’altra banca) la quale assicura che se C non ripagherà il debito contratto verso A provvederà lei a rifondere quest’ultima.  In questo caso il valore reale del titolo è molto vicino al valore nominale perché se la banca debitrice (o altro debitore) non paga, B che ha sottoscritto quel derivato deve pagare di tasca sua l’intero valore scritto nel contratto.
In sostanza, oltre ad aver creato moltissimo denaro concedendo crediti a fiumi, ad averne creato dell’altro cartolarizzando le ipoteche sì da poter continuare a concedere prestiti, le banche americane ed europee hanno messo in circolazione nell’economia sotto forma di derivati un volume di denaro corrispondente a dodici volte il PIL del mondo. Qualcuno dice: «Ma non è veramente denaro». Bisogna invece sottolineare che all’epoca dei computer, delle transazioni ad alta frequenza, della massima e istantanea convertibilità di ogni capitale in qualsiasi altra forma,  i derivati funzionano come vero e proprio denaro. Un economista, oggi citato spesso per  ragioni sbagliate, Marvin Minsky,  aveva intravisto questo sviluppo già a metà degli anni Ottanta. Allorché  qualunque titolo è istantaneamente convertibile in denaro, quello è come se fosse denaro. Il problema con i derivati è che più dell’80 per cento di essi sono scambiati direttamente fra privati – “al banco”, come si dice –  senza che i regolatori possano esercitare alcun controllo.  Si tratta di un’enorme quantità di denaro che sfugge completamente non soltanto alla presa, ma pure alla vista dei regolatori.
A un certo punto questa montagna di denaro ha cominciato a cascare sulla testa delle banche sotto forma didebiti inevasi. Se una banca scopre una falla nella catena di debiti che essa stessa ha contribuito a creare, tipo un suo veicolo che avrebbe dovuto vendere agli investitori i titoli derivanti da una cartolarizzazione ma non ci riesce  più perché quelli li rifiutano; a questo punto, anche se la banca aveva venduto a quel veicolo i suoi titoli, in qualche modo deve far fronte alle perdite del medesimo. Può avere un bisogno urgentissimo di qualche centinaio di milioni o magari di un miliardo di dollari o di euro, ma se la banca di fronte (la banca consorella, la banca con cui si avevano comuni rapporti) ha gli stessi problemi, il tutto si incaglia. È quello che è avvenuto nel 2008,  ma che si ripropone fino ad oggi attraverso infiniti canali di contagio.
Nel generare questo incredibile processo – scrivendo il libro ho speso mesi per verificare i dati, tanto mi parevano fuori del mondo – rilevantissimo è stato il peso dei politici e delle banche europee, all’incirca dal 1980  a oggi. Alcune leggi determinanti per la deregolazione dei movimenti di capitale sono state firmate da un Presidente francese socialista, François Mitterand; per esser poi propugnate, sollecitate e messe in opera dal primo Presidente della Commissione europea, anche’egli francese e socialista, Jacques Delors. Tutti costoro avevano, certo, delle buone ragioni: i capitali scappavano e bisognava far qualcosa. Fatto sta che imponenti misure di deregolazione o cancellazione della sorveglianza sui movimenti finanziari, compresi gli scambi al banco di trilioni di euro di derivati, sono stati adottati ben presto  in Europa e si sono diffusi perché altri paesi hanno seguito la Francia. Pertanto negli anni Novanta la deregolazione in Europa era molto simile a quella che stava intervenendo negli Stati Uniti. Dopodichè non è stata più effettuata nessuna seria riforma del sistema finanziario.
Le banche  hanno avuto un ruolo di primo piano nella creazione della cosiddetta finanza ombra. Della quale fanno parte anche quei trilioni di derivati che circolano senza essere regolati da nessuno. Pure i veicoli di investimento strutturato, i SIV, fanno parte della finanza ombra, perché essendo fuori bilancio non appaiono compresi nel perimetro della banca che li sponsorizza. Vi sono molti altri soggetti della finanza ombra che operano come banche ma non sono banche: tra essi rientrano i fondi comuni dei mercati monetari, le società specializzate nel concedere prestiti, le divisioni finanziarie delle corporation. Tutti enti  che  non sono visti, e non è possibile siano visti, dal regolatore – per questo viene chiamata finanza ombra.
Nell’alimentare tanto la finanza visibile  quanto la finanza ombra, le banche europee hanno avuto un notevole ruolo, da diversi punti di vista. In primo luogo, ricerche recenti hanno dimostrato come le banche europee abbiano comprato in Usa, dal 2000 in avanti, centinaia di miliardi di dollari, di euro, di sterline e anche di franchi svizzeri,  di titoli cartolarizzati, compresi le  micidiali obbligazioni aventi per collaterale un debito, definite a disastro avvenuto titoli tossici. Sono titoli assai complicati,  caratterizzati da un taglio difficilmente alla portata di qualcuno di noi, perché esso  si colloca in genere tra uno e due miliardi di dollari). A questi titoli poi definiti tossici, che erano venduti a pezzi o trance con diverse gradazioni di rischio, le agenzie di rating, pagate dalle stesse banche che emettevano quei titoli, assegnavano la massima credibilità – ovvero il minimo rischio di insolvenza da parte del creditore – e per questo erano considerati sicuri. Le banche europee si sono gettate su quei titoli giudicati sicuri, per cui stando alle ricerche menzionate sopra centinaia di miliardi di derivati di questo tipo sono stati creati in Usa proprio per soddisfare la domanda assidua delle banche europee. Inoltre, alcune banche europee hanno loro stesse creato titoli analoghi per centinaia di miliardi di dollari.  La più impegnata è stata la Deutsche Bank, che ha creato una serie di titoli –  chiamati Gemstone –  il cui taglio medio era intorno a 1,1 miliardi di euro. Qualche banca francese si ritiene abbia fatto lo stesso e forse anche altre, ma l’«ombra» per definizione è qualcosa in cui è difficile vederci chiaro. Quando il domino ha cominciato a cadere – perché se uno fa molti debiti distribuiti in una catena di numerosi soggetti, nel caso fallisca  anche l’ultimo di questi  il problema risale la catena fino a quando i debiti arrivano al consiglio di amministrazione della banca madre – vi sono state banche quali la UBS (Unione delle Banche Svizzere), che tra il 2007 e il 2009 hanno dovuto cancellare dai propri bilanci qualcosa come cinquanta miliardi di dollari. Peraltro senza patire troppo: la UBS ha un bilancio che supera di circa dodici volte il bilancio federale della Svizzera.
La questione che ci tocca anche oggi e che secondo i governi Ue richiede per essere risolta licenziamenti facili, austerità, tagli alle pensioni, pensione a 105 anni e altre cose del genere, ha tuttora le radici nel fatto che le banche europee sono piuttosto opache, ma al tempo stesso tradiscono notevoli preoccupazioni di bilancio.  Le banche tedesche per prime si collocano piuttosto in basso quanto a indice di trasparenza o indice di visibilità del traffico bancario. Tuttavia, dietro alla coltre della finanza ombra quel che sembra via via più evidente è che le banche sono  oraimpegnate allo spasimo per ridurre il loro leverage, il citato rapporto tra capitale proprio e capitali presi in prestito, spinte in questa direzione dalle nuove regole di Basilea e dalla Autorità bancaria europea (Eba). Se non, più probabilmente, dal terrore che succeda qualche nuovo grave incidente, perché se l’ultimo anello della catena salta il problema del debito risale per forza sino ai bilanci centrali.
Concludo toccando la questione della riforma del sistema finanziario, della quale si è parlato a lungo negli Stati Uniti, dove è stata varata nel luglio 2010 una legge che si chiama Dodd Frank Act, conosciuta pure comeWall Street Reform. Si stima che, a questo proposito, che la lobby bancaria abbia speso trecentoventicinque milioni di dollari per indebolire e possibilmente bloccare tale legge di riforma, che alla fine è risultata all’acqua di rose, e per di più immensamente complicata, con un testo che conta 1652 pagine e richiederà 550 decreti attuativi. Dal luglio 2010 fino all’autunno 2011,  per quanto è a mia conoscenza, ne sono stati attuati solamente due o tre.
Pure in Europa si sta discutendo di riforme finanziarie, una discussione estesa a vertici extra Ue come il G20 dell’autunno 2011 a Cannes. La Commissione europea ha allo studio una bozza dettagliata di riforma e il Parlamento europeo farà una prima proposta a febbraio o marzo del 2012. Accade però che tutte le proposte finora avanzate siano lontanissime dal cogliere le vere radici del problema. Sarebbe necessaria una forte pressione politica, ci vorrebbero milioni di persone per le strade a chiedere la riforma finanziaria, uno scenario al momento non molto probabile. Molte ed evidenti sono le ragioni per le quali si rende necessaria una riforma finanziaria radicale. In realtà niente di rivoluzionario, sono cose dette da liberal americani o dallo stesso governatore della Bank of England, Mervyn King, che pochi mesi fa ha dichiarato: «Ci sono molti modi per organizzare l’attività bancaria. Quello che abbiamo oggi è il peggiore che possiamo immaginare». Bisognerebbe prenderlo sul serio, perché finora le riforme di cui si parla nella Ue sono affatto insufficienti.
Si dovrebbe intervenire su tre fronti. È ovvio che non si può varare una riforma finanziaria solo in Italia, ma unariforma nell’ambito dell’Unione Europea andrebbe comunque fatta per via dell’enorme peso che in essa il sistema finanziario esercita attualmente su tutto: sull’occupazione, la sanità, le pensioni, la terra, il cibo. È in gioco lo svuotamento totale della democrazia. Bisogna ricondurre il sistema finanziario alle sue funzioni, che pure sono importanti. Non si può semplicemente dire: «Chiudiamo le banche». Le banche sono indispensabili come pure il sistema finanziario allargato, ma questi devono essere un ausilio, un mezzo controllato dall’economia reale e soprattutto dai governi, dai cittadini, dai meccanismi della democrazia. Il sistema finanziario internazionale ha dimensioni eccessive e in esso il sistema finanziario europeo, il quale, si noti, è molto più grande di quello statunitense, sia come numero delle banche sia in termini di attivi controllati. C’è un elenco nel mio libro di venti gruppi finanziari che avevano nel 2009 attivi superiori al trilione di dollari; fra questi venti, le banche europee (con l’aggiunta di due non Ue, Ubs e Credit Suisse) sono ben 14.  Se non si riducono le dimensioni dei singoli gruppi finanziari, essi risulteranno sempre incontrollabili e saranno essi a dettare le misure di austerità, comprese le condizioni del mondo del lavoro, ai governi. Come stanno facendo.
In secondo luogo, larga parte di questo sistema è in ombra, per questo si chiama shadow banking, Qualcuno parla di regolare anche detto sistema, ma le ombre non si regolano. Occorrerebbe accorciare, ridurre o, meglio ancora, smantellare il sistema finanziario ombra.
In terzo luogo le grandi società finanziarie, le bank holding companies, sono troppo complesse. Seppure si costituisse un’autorità di regolazione europea dotata di grandi poteri e ampi mezzi, essa sarebbe comunque impotente a causa delle dimensioni e della struttura enorme di esse. Ricordo, per citare un solo dato, che quando fallì nel settembre 2008, Lehman Brothers era composta da più di 1800 entità giuridiche distinte. Anche in presenza di autorità di regolazione assai robuste, se mai esistessero, dinanzi a  simili castelli organizzativi è impossibile cercare di stabilire “chi fa che cosa”. Si può certo introdurre per legge, ad esempio, una norma che separi l’attività di depositi e prestiti delle banche dalle attività di investimento. Nondimeno se una banca continua ad avere una miriade di divisioni o di dipartimenti interni specializzati, ossia continua ad essere costituita sotto il controllo della casa madre da migliaia di entità giuridiche indipendenti, come si fa a controllare qual è l’atttività realmente svolta dall’una o dall’altra di esse? Controllare significa andare negli uffici, tirar fuori i libri, le carte, vuol dire impiegare decine di persone per settimane allo scopo di capire che cosa realmente fa una sola divisione di una grande banca. È semplicemente improponibile controllare chi fa che cosa se non si riduce la complessità del sistema.
A parte le bozze di riforma in discussione nel Parlamento europeo e nella Ce, ci sono in giro varie proposte provenienti da centri studi. Alcune assai interessanti sono state portate a Cannes da un centro tedesco specializzato in studi sullo sviluppo e l’ecologia per un’economia sostenibile. Ma è chiaro che tali proposte, lasciate a sé, non serviranno a nulla. Il problema vero è che sono i cittadini che ne dovrebbero discutere, e sarebbe bene che si cominciasse ad allargare la discussione in modo che il maggior numero capisca la reale entità del problema e cominci a chiedere una riforma radicale del sistema finanziario. È complicato, è politicamente arduo, certo. Ma per il futuro della democrazia, non soltanto del sistema economico, è assolutamente indispensabile ridurre a dimensioni ragionevoli i gruppi finanziari e con essi l’insieme del sistema finanziario internazionale. Un noto economista  americano ha detto che sarebbe indispensabile ridurre il sistema finanziario a un terzo di quello che è oggi. Forse è una misura eccessiva, ma è la direzione in cui appare necessario procedere.  In presenza  di troppi segnali attestanti che l’economia del mondo, e con essa la democrazia dei nostri paesi, sta viaggiando verso la catastrofe. Se non riusciamo a trasformare tutto quanto si è qui ricordato in istanza, in domanda politica, in un numero di deputati sufficienti per introdurre una riforma del genere, dovremo aspettarci una crisi, politica ed economica a un tempo,  ancora peggiore di quella che stiamo vivendo  adesso.
Finora non mi sono stati imputati molti errori nel libro da cui ho tratto queste considerazioni. Concludo rilevandone uno io. Il libro è stato pubblicato nel marzo del 2011. In esso prevedevo una nuova crisi finanziaria, o meglio una nuova grave fase di essa,  per il 2015. Mi sono sbagliato: è arrivata pochi mesi dopo.




Luciano Gallino
About Luciano Gallino: Luciano Gallino (1927) nel 1956 viene chiamato dall'ingegnere Adriano Olivetti a collaborare all’Ufficio Studi Relazioni Sociali costituito presso la Olivetti - struttura di ricerca aziendale inedita in quel periodo in Italia - e successivamente, dal 1960 al 1971, ricopre la carica di direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’organizzazione (SRSSO). Dopo aver ottenuto una Libera Docenza in Sociologia nel 1964, è diventato Fellow Research Scientist del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford in California. Dal novembre 1965 al 1971 è stato professore incaricato presso la Facoltà di Magistero e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. Successivamente, dal 1971 al 2002, è stato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione della stessa Università, nella quale attualmente è professore emerito. Tra il 1968 e il 1978 è stato direttore dell'Istituto di Sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Dal 1999 a fine 2002 è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione e della Formazione. In tale ruolo ha promosso lo sviluppo di un Centro specializzato nello studio e nella realizzazione di corsi orientati alla "Formazione aperta/assistita in rete". Parallelamente alla sua attività di ricerca e d'insegnamento, ha ricoperto diverse e prestigiose cariche istituzionali. Dal 1979 al 1988 è stato presidente del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali. Dal 1987 al 1992 ha rivestito la stessa carica nell'Associazione Italiana di Sociologia. È socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, dell'Accademia Europea e dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Dirige dal 1968 la rivista scientifica Quaderni di Sociologia. Ha collaborato inoltre con autorevoli quotidiani nazionali, in particolare tra il 1970 e il 1975 ha scritto su «Il Giorno», dal 1983 al 2001 ha collaborato con «La Stampa» e dal 2001 collabora con «La Repubblica». Fa parte del comitato scientifico della manifestazione "Biennale Democrazia". Dal 2007, è il responsabile scientifico del Centro on line «Storia e Cultura dell'Industria», progetto che promuove la conoscenza della storia industriale e del lavoro del Nord Ovest italiano dal 1850 a oggi, con finalità didattiche. Dal 2011 è Presidente Onorario e Presidente del Consiglio dei Saggi dell'AIS - Associazione Italiana di Sociologia. Tra i suoi ultimi libri: Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza, 2000); Il costo umano della flessibilità (Laterza, 2001); L’impresa responsabile. Un'intervista su Adriano Olivetti (Comunità, 2001); La scomparsa dell'Italia industriale (Einaudi, 2003); Dizionario di Sociologia (UTET, 2005); L’impresa irresponsabile (Einaudi, 2005); Italia in frantumi, (Laterza, 2006); Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici (Einaudi, 2007); Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, (Laterza, 2007); Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia (Einaudi, 2009); Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, (Einaudi, 2011).

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