AJNAS PRO SA DEBATA INTRA IS INDIPENDENTISTAS
Fonte: Sassarisera
Sa Defenza circat de ponner a dispositzioni su chi arrenescit at agatai, po su studiu de is teorias e de sa pratica politica po arribai a sa liberatzione de sa terra sarda, chen'e prus meris dde serbir e liberus e soberanus in domu noshta
Sa Defenza
de: Giampiero Marras noto Zampa
dirigenti de Sardigna Natzione Indipendentzia
Antonio Simon Mossa
[...] Radio Sardegna l'8 maggio del 1945, interrompendo un programma di musica leggera e anticipando di ben 20 minuti la mitica BBC, fu la prima emittente europea, come ebbe a dire Antonio Simon Mossa, a dare (a seguito della resa incondizionata offerta dalla Germania nazista agli Alleati che, a Reims, pose termine alla seconda guerra mondiale), lo storico annuncio che la Germania nazista era caduta, e che la guerra era finita, attraverso la voce concitata di un suo speaker [...]
A distanza di un anno e mezzo dalla celebrazione del Primu Cumbénniu Internassionale de Istúdios subra de Antoni Simon Mossa (1916-1971): s’Archimastru, s’Intelletuale, su Federalista: Dai s’Utupía a su Pruzétu, organizzato dalla «Consulta intercomunale per la promozione e la valorizzazione della Lingua, della Storia e della Cultura della Sardegna», dei Comuni di Sassari, Portotorres, Sorso, Sénnori e Stintino, e a circa 34 dalla Sua scomparsa, questa raccolta di contributi in sardo, in catalano e in italiano su Antonio Simon Mossa, vede finalmente la luce.
Convegno, quello sopra richiamato, che si poté realizzare, grazie soprattutto alla sensibilità politico-culturale e al concorso finanziario della Presidenza del Consiglio Regionale della Sardegna, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Sassari (capofila della «Consulta»), e dell’Assessorato alla Cultura della Regione Autonoma della Sardegna, nonché con il prezioso contributo della Fondazione “S’Iscola Sarda” e con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Sassari e della Facoltà di Architettura, sede di Alghero dell’Ateneo turritano, cui va la nostra più viva e profonda gratitudine.
A tale importante Convegno il 7 aprile 2003, il Presidente della Generalità di Catalogna, Jordi Pujol i Soley fece pervenire, per il tramite del professor Pere Català i Roca – con una lettera su carta intestata del Governo catalano indirizzata al sindaco di Sassari, il prof. Gian Vittorio Campus – la sua adesione istituzionale, «que constitueix un merescut homenatge e reconeixement a la figura de Antoni Simon Mossa», come egli stesso ebbe modo di manifestare in quel breve e commosso messaggio.
Lo scopo di questa raccolta è chiaro: tramandare ai posteri la figura di Antonio Simon Mossa, sottraendola ad un lungo e ingiustificato oblio, attraverso quanto è stato messo in evidenza nei loro interventi (una cinquantina) dai vari relatori, nel corso delle sei sessioni di studio in cui si articolava il Convegno, svoltosi a Sassari per quattro giorni consecutivi, dal 10 al 13 aprile 2003, presso l’ampio ed elegante Salone delle Conferenze “I Candelieri” dell’Hotel Grazia Deledda, e da me in un libro di circa trecento pagine, licenziato il 17 febbraio 2002, dal titolo: Antonio Simon Mossa visto da vicino, dal 1960 fino all’anno della sua morte, con Introduzione del professor Giovanni Lilliu, accademico nazionale dei Lincei e archeologo di fama internazionale (Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, Marzo 2003).
Delle sei sessioni del Convegno di Studi, di cui tre antimeridiane e tre pomeridiane (che sono state filmate «a futura memoria» dalla Aservice group di Cagliari, una società di comunicazione e immagine, e riprodotte in altrettante videocassette), la prima venne riservata alle «Testimonianze e Attualità», la seconda a «L’Intellettuale e il Giornalista», la terza ad «Antonio Simon Mossa tra lingua, cultura e letteratura», la quarta ad «Antonio Simon Mossa tra Sardismo nazionalitario e Federalismo», la quinta ad «Antonio Simon Mossa per il riscatto economico e sociale della Sardegna», e la sesta ed ultima alle «Opere architettoniche di Antonio Simon Mossa: visione di un’idea». Al termine di ciascuna sessione venne inoltre aperto un dibattito tra i relatori e i presenti – che fu particolarmente animato – a cura del professor Federico Francioni, che ne presiedette e diresse sapientemente i lavori.
Nei loro interventi, i relatori hanno avuto modo di scandagliare i vari aspetti della poliedrica personalità del grande intellettuale sassarese, anche se non di nascita (ma allo stesso tempo algherese per sua libera scelta), scomparso nel 1971, che fu non solo il primo etnolinguista sardo del XX secolo, ma anche il «Padre del Risorgimento nazionale dell’Isola» e del rifiorimento della Lingua Sarda e delle sue varianti linguistiche, nonché delle varie parlate alloglotte, nessuna esclusa, presenti nel territorio nazionale sardo.
D’altro canto, con la stesura della presente nota introduttiva, ad integrazione e a complemento di quanto già da me esposto nel libro appena citato, intendo ora dare un ulteriore mio contributo personale, portando a conoscenza dei politici, degli intellettuali, degli studiosi e dei giovani sardi che ancora lo ignorano, alcuni aspetti della straordinaria figura di quel grande intellettuale ed eminente uomo politico che fu Antonio Simon Mossa, da me involontariamente trascurati nel testo dato alle stampe.
L’impegno di Antonio Simon Mossa nel giornalismo radiofonico
Antonio Simon Mossa, come è noto – oltre che sulla carta stampata – svolse anche un ruolo molto importante in Radio Sardegna, la prima emittente libera del Mediterraneo e dell’Europa continentale, nata come radio mobile il 10 ottobre 1943, poco più di un mese dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, su un vecchio autocarro militare dismesso e mezzo sgangherato, già utilizzato dall’Esercito per le trasmissioni radiotelegrafiche. Autocarro che si spostava di continuo da un paese all’altro dell’isola per diffondere giornalmente un «Notiziario-radio», che era alternato con le note musicali della «Cavalcata delle Valchirie», scandite da un vecchio disco in vinile a 78 giri, ormai usurato e gracchiante.
Il sogno più grande di Antonio Simon Mossa era, comunque, quello di rendere la Radio dei Sardi del tutto autonoma dallo E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), se non addirittura indipendente come Radio Andorra – la radio dell’unico Stato al mondo la cui lingua ufficiale è il catalano – per farla divenire «un’emittente assolutamente libera in una Sardegna finalmente liberatasi dal giogo coloniale italiano, e con una propria soggettività statuale, riconosciuta internazionalmente, non solo per i sardi, ma per tutti i popoli del Mediterraneo, sottraendola in tal modo all’odioso, occhiuto e soffocante controllo monopolistico dell’ente radiofonico di Stato gestito dal padrone d’oltremare», contro il quale lottò con tutte le sue forze, ma purtroppo invano!, per la cecità politica di quella che sarebbe divenuta la futura classe dirigente locale dei Partiti colonialisti e centralisti italiani, dei quali era ed è vergognosamente succube, subalterna e succursalista.
Sulla vicenda di Radio Sardegna è comunque consigliabile la lettura di un interessante saggio di Simona De Francisci, dal titolo: La Voce della Libertà. Un contributo alla storia di Radio Sardegna, pubblicato nel 1992 dalla STEF di Cagliari per conto della «Fondazione Sardínia», dal quale si evince con estrema chiarezza il forte impegno politico-culturale profuso dall’architetto Antonio Simon Mossa per la difesa ad oltranza dell’autonomia della Radio dei Sardi, l’emittente diretta da Armando Rossini, che fu la prima «radio autonoma e veramente libera» a sorgere in Italia, e che – oltre ad attingere notizie di prima mano da Radio Algeri e Radio Londra, e ad intercettare i dispacci della Reuter – faceva informazione locale con grande professionalità e obiettività.
1.0 – «Radio Sardegna Libera»: il sogno di Antonio Simon Mossa
Quella stessa emittente aveva stabilito la sua prima sede di fortuna in una grotta del comune di Bortigali, in provincia di Nùoro, ove era di stanza il Comando generale per la Sardegna delle Forze Armate Italiane. Antonio Simon Mossa era divenuto redattore-capo della redazione turritana, della quale facevano parte, oltre ad Antonio Santoni Rúgiu, anche altri due o tre corrispondenti che collaboravano alla messa in onda della «Gazzetta Sassarese», (un settimanale di 45 minuti, ricco di notizie locali, interviste e rubriche, sia di arte sia di cultura, che si era dotato da subito anche di una rubrica fissa in catalano).
Bene, quella radio annunciò al mondo – grazie anche alle potenti apparecchiature radiofoniche fornite dalla Psycological Warfare Branch-PWB, l’«Agenzia per la Guerra Psicologica» dell’Ufficio Stampa e Propaganda del Comando delle Forze Militari Alleate – l’inizio della liberazione dell’Europa dall’occupazione nazifascista, sia in catalano che nelle altre lingue minoritarie dell’Occidente Europeo e del bacino del Mediterraneo. Così mi riferirono più avanti negli anni i miei genitori ed inoltre Ferruccio Oggiano, Antoneddu Bua, Ovidio Addis, Antonino Càmbule, il generale Antonio Tedde, Bartolomeo Sotgiu-Pesce, Giangiorgio Casu e il giornalista Milvio Atzori.
Radio Sardegna ai primi del mese di gennaio del 1944 trasferì poi la sua sede nazionale a Cagliari, nelle grotte di Tuvixeddu in località Is Mirrionis che sul finire di quello stesso anno venne assorbita dalla RAI-Radio Audizioni Italiane. Sempre dai microfoni di quella stessa emittente, sia sulla lunghezza delle onde medie sia di quelle corte, Antonio Simon Mossa (il quale era anche un collaboratore fisso delle emissioni cagliaritane, oltre che un amico personale del direttore della RAI-Sardegna, Amerigo Gomez, da lui conosciuto a Firenze) trasmise – per incarico del generale Pietro Pinna-Parpaglia, alto commissario per la Sardegna, investito di ampi poteri sia civili che militari – una lunga serie di messaggi criptati indirizzati ai nostri soldati impegnati al fronte e nella Resistenza.
Va ricordato inoltre, per la cronaca, che Radio Sardegna l’8 maggio del 1945, interrompendo un programma di musica leggera e anticipando di ben 20 minuti la mitica BBC, fu la prima emittente europea – come m’ebbe a dire Antonio Simon Mossa – a dare (a seguito della resa incondizionata offerta dalla Germania nazista agli Alleati che, a Reims, pose termine alla seconda guerra mondiale), lo storico annuncio che la Germania nazista era caduta, e che la guerra era finita, attraverso la voce concitata di un suo speaker; come anche fu la prima, precedendo di ben 10 minuti Radio Londra, a dare la notizia della liberazione, da parte dell’Armata Rossa, di Kiev, la capitale dell’Ucraina, grazie anche all’intercettazione di un flash d’agenzia della Reuter, operato dai suoi radiotelegrafisti. Si vedano in proposito le relazioni di Antonio Santoni Rugiu, Manlio Brigaglia, Vindice G. Ribichesu, Pino Careddu e Mario Melis.
Antonio Simon Mossa visita le «Nazioni senza Stato» e le «Comunità Etniche» d’Europa
Antonio Simon Mossa fu un poliglotta e un viaggiatore colto e attento alle problematiche delle comunità etniche europee e di tutti i popoli oppressi del mondo. Egli effettuò viaggi di studio e di presa di contatto con tutti i maggiori esponenti dei partiti e dei Movimenti (più o meno clandestini) di liberazione nazionale d’Europa, nonché con linguisti, intellettuali e scrittori delle Nazioni senza Stato, e con i rappresentanti dei principali Sindacati Etnici Europei da lui conosciuti personalmente, con i quali intrattenne stretti contatti telefonici ed epistolari. Essi sono stati da me segnalati nel libro più sopra ricordato, intitolato Antonio Simon Mossa visto da vicino. Insieme fummo nel 1964 in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia, nonché in Occitania, in Bretagna e in Alsazia. E nel 1965 tra i Fiamminghi, oltreché nel Galles e in Scozia, e nel 1967 nella Frìsia (Olanda). Al riguardo si rimanda ai contributi di Giovanni Lilliu, Antonio Ballero De Candia, Sergio Salvi e Gustavo Buratti.
2.0–Escursione in Corsica nei luoghi ove Antonio Simon Mossa prestò servizio militare
Nell’aprile del 1960 Antonio Simon Mossa ed io ci recammo in Corsica, ove trascorremmo una decina di giorni a ripercorrere i luoghi, in mezzo ai boschi e alle marine mozzafiato, tra Alèria e Bastia, in cui Antonio Simon Mossa aveva prestato servizio militare, come sergente, tra i cineoperatori di guerra del Genio Militare dell’Esercito.
Mi presentò, quindi, alcuni intellettuali còrsi, tra i quali: Petru Rocca, fondatore della rivista «A Muvra» («La Mufla», che è la femmina del muflone), il quale – essendo un irredentista filo-italiano – andava sostenendo che «il còrso è un dialetto dell’Italia, non una lingua di Francia»; Petru Ciabatti, fondatore del mensile della lingua e delle tradizioni còrse «U Muntese» («Il Vento montano», «che soffia in ogni paese» della Còrsica, e che – a seconda che salga o scenda lungo i pendii dei monti – è caldo o freddo), all’epoca un indipendentista dichiarato, morto il 7 giugno del 1966, il quale sosteneva che «la lingua còrsa è la lingua della Nazione e del Popolo Còrso»; e diversi storici di «Études Corses», una rivista trimestrale di storia ed altro, edita dalla «Société des Sciences Historiques et Naturelles de la Corse».
Ed ancora: Fernandu Ettori di Santa Lucia di Porto Vecchio, docente di lingua còrsa presso l’Università di Aix-en-Provence; Gisèle Poli, Ghjannettu Notini, Paulu Arrighi, Ghjacintu Yvia Croce, Antone Flori, Ghjacumu Simonpoli, Peppu Flori, Renè Peroni, Ghjuan Batista Stromboni, Ignaziu Colombani, Carulu Giovoni, Geneviève Moracchini-Mazel, Renè Emmanuelli, e Jean Marie Arrighi, nonché alcuni studenti di Giuventù còrsa, quali: Jean Baggioni, Jean-Jacques Albertini, Dominique Geronimi, e René Coti, che studiavano presso le Università di Nizza, Marsiglia, Aix-en-Provence e Grenoble, e che nel 1967 dettero vita all’ARC-Azione di a Rinascita Còrsa, un’associazione culturale dalla quale, poi, scaturirono – nel corso degli anni Settanta – altre organizzazioni culturali, di cui alcune particolarmente importanti.
Sette anni dopo, e precisamente il 10 giugno del 1967, Antonio Simon Mossa – in ordine al grado di coscienza nazionale rilevato all’epoca in Còrsica, e verificato a più riprese negli anni successivi – così scriveva: «I Còrsi non hanno alcuna coscienza etnica. Si sentono francesi, anche se di lingua sono italiani». Ma poi in parte si correggeva: «(Quella còrsa) è una minoranza che per due terzi vive fuori dalla Còrsica. Una minoranza decaduta, che ha dato alla Francia un enorme numero di caduti nelle due guerre mondiali. Una minoranza però che, di recente ha chiesto l’autonomia speciale. Una minoranza quindi che, almeno in parte, ha la coscienza di esserlo».
è perciò alla Federazioni Culturali «Scola Còrsa» di Corti – nata nel 1972 per impulso del professor Ghjuan Batista Stromboni, sull’esempio della Federazione Culturale «Iscola Sarda» di Sassari, fondata il 14 ottobre del 1969 da Antonio Simon Mossa – che si deve soprattutto il risveglio nei Còrsi della coscienza etnica. Coscienza che ha spinto il Popolo Còrso, tra la prima e la seconda metà degli anni Settanta, a lottare per la lingua e per la liberazione nazionale, politica e culturale della Còrsica, come pure per la riapertura a Corti dell’Università «Pasqual Paoli» che era stata chiusa dalla Francia dopo il 1769.
Alla Federazioni Culturali «Scola Còrsa» si deve anche la promozione, a partire dall’agosto del 1973 e fino all’agosto del 1981 – insieme alla Federazione degli Studenti Còrsi del Sud-Est della Francia e ad alcuni docenti del «Centro di Studi Còrsi» della Facoltà di Lettere Moderne e Romanze di Aix-en-Provence – della Università estiva di Corti, che contribuì alla nascita nell’isola di una vera e propria Università degli Studi, ove da allora si tengono corsi regolari di studio, la quale venne aperta ufficialmente nell’isola il 26 ottobre del 1981.
Invece le prime mobilitazioni nazionali in Còrsica si ebbero soltanto nel 1975, e precisamente il 21 agosto, allorquando per i «Fatti di Alèria» venne incarcerato Edmond Simeoni, che fu condannato a cinque anni di reclusione, dei quali scontò solo 509 giorni. Venne liberato infatti il 22 gennaio 1977, e da allora in poi si verificarono nell’isola – promosse dagli indipendentisti dello FLNC-Fronti di Liberazioni Naziunali di a Còrsica e dagli autonomisti dell’APC-Associazioni di i Patrioti Còrsi – una lunga serie di attentati, cui seguirono rappresaglie, carcerazioni, scioperi e manifestazioni di protesta e di sostegno ai patrioti còrsi reclusi, che portarono alla conquista di uno Statuto politico d’Autonomia.
Infine, nell’estate del 1977, si consumò una rottura tra l’APC e lo FLNC, e si produsse inoltre una scissione nell’APC, dalla quale – il 17 luglio di quello stesso anno – nacque l’UPC-Unioni di u Populu Còrsu con sede centrale a Bastia. Sorsero poi negli anni altri movimenti indipendentisti, tra i quali la Cuncolta, l’Accolta e Corsica Nazione. Quest’ultima organizzazione nacque nel 1992, e si rifece – adattandoli alla particolare situazione della Còrsica – allo Statuto e al Manifesto politico-programmatico della seconda formazione politica sardista-indipendentista, nazionalitaria ed etnofederalista sorta in Sardegna dopo il MIRSA, denominata OSSN-Organisassyone Sotzialista «Sardínnya Nassyone», che venne fondata a Sassari nel lontano settembre del 1976 dall’estensore della presente nota e dall’amico Antonio Lépori di Càgliari ed altri.
2.1–Antonio Simon Mossa visita il grande complesso carcerario di «Torrero», nella città di Saragozza, ove era detenuto Jordi Pujol i Soley
Nel mese di maggio del 1961 Antonio Simon Mossa ed io ci recammo in Catalogna, ove ci trattenemmo non più di una settimana, per rendere visita al futuro leader della CDC (Convergència Democràtica de Catalunya, nata nel novembre del 1974), Jordi Pujol i Soley, «nazionalista e patriota catalano» di primissimo piano che molti anni dopo verrà eletto Presidente della Generalitat de Catalunya. Egli era detenuto nel grande Complesso carcerario di Torrero (che sorge sul monte omonimo, nella città di Saragozza). Carcere, quello di Saragozza, in cui venne imprigionato il 24 maggio 1960 e condannato in tempo di pace il 13 giugno di quello stesso anno a sette lunghi anni di detenzione da un Consiglio di Guerra di un tribunale militare, anziché da un tribunale penale ordinario, con l’accusa di ribellione allo Stato spagnolo e di vilipendio al suo capo supremo, il generalissimo Francisco Franco Bahamonde.
Arresto dovuto al fatto che il 19 maggio del 1960 – in presenza di alcune personalità franchiste, tra cui i ministri Camilo Alonso, Solís, Ullastres e Rubio García-Mina – Jordi Pujol i Soley intonò coraggiosamente, in omaggio a Joan Maragall, autore del testo poetico musicato da Lluís Millet, durante una festa al Palau de la Música Catalana di Barcellona, insieme ad un gruppo di catalanisti che «non accettavano né la disfatta né l’occupazione del proprio Paese», El cant de la Senyera (Il canto della Bandiera). Si tratta di un vero e proprio inno al vessillo del Coro dell’Orfeó Catalá, il quale allora era assolutamente vietato dal regime franchista. Arresto, che era stato preceduto il 22 maggio dello stesso anno da un fermo di polizia, a seguito del quale venne trasferito al commissariato di via Laietana, dove venne sottoposto a tortura per tre giorni consecutivi.
Un canto, quello dedicato alla bandiera catalana, formato da una terzina e da tre sestine, che riporto di seguito, nella traduzione in italiano da me eseguita: «1. Sopra i nostri canti / innalziamo una bandiera verso il cielo / che ci renderà trionfanti. /// 2. Orsù, compagni, inalberiamola / in segno di amicizia. / Orsù, fratelli, al vento sciogliamola / in segno di libertà / Che voli! Ammiriamola / nella sua dolce maestà. /// 3. Orsù, bandiera catalana / il nostro cuore ti è ben fedele. / Volerai come un uccello leggiadro / sopra il nostro più forte desiderio; / per ammirare te, sovrana! / solleveremo gli occhi al cielo. /// 4. Eppure noi resteremo nell’aria / e vi rimarremo come ci resti tu; / volteggiando a piacimento nell’aria / la strada ci mostrerai... / Dài voce al tuo cantare / luce agli occhi, e forza al braccio».
Alle 11 del mattino in punto - dopo aver visitato, a partire dal primo pomeriggio del giorno precedente, la piazza e il tempio di Nostra Signora del Pilar, l’Università, la cattedrale gotica a cinque navate e la chiesa di San Paolo – ci presentammo al carcere di Saragozza e l’architetto, esibiti i nostri passaporti, chiese in castigliano alla guardia di sorveglianza all’ingresso dello stabilimento penitenziario di poter conferire col direttore. Questa ci fece accomodare in una sala d’attesa, e mandò a dire al comandante del carcere militare che vi erano degli italiani che desideravano conferire con lui.
Alcuni minuti dopo, forse una decina, fece la sua apparizione il capo dell’istituto di pena in alta uniforme con galloni, greche, mostrine e tante medaglie sul petto e con in testa un cappello con alzata rigida e visiera, che ci accompagnò nel suo ufficio e ci invitò gentilmente a sedere di fronte alla sua scrivania. Iniziò quindi a conversare amabilmente in spagnolo con l’architetto del più e del meno, poi quando Antonio Simon Mossa gli chiese di poter parlare con Jordi Pujol i Soley si irrigidì e il tono della sua voce divenne immediatamente brusco. Chiamò al telefono una guardia e, nel congedarci con un tono di voce evidentemente alterato, disse: «Andate subito via e non fatevi più vedere! Ringraziate che siete italiani, perché in caso contrario vi avrei fatto arrestare!».
Dal canto suo l’architetto – per nulla intimorito dal tono minaccioso della voce del comandante dello stabilimento penitenziario, e incurante delle eventuali conseguenze cui si andava esponendo – ribatté prontamente alle sue affermazioni in questi termini: «No!, noi siamo Sardi, non italiani! Veniamo dalla Sardegna, che è sì una colonia dell’Italia, ma noi apparteniamo ad una nazione, la Nazione Sarda, una Nazione senza Stato, non riconosciuta dallo Stato italiano, ma pur sempre una nazione!
«Una nazione fiera delle sue radici, che prima o poi riconquisterà con la libertà, la sua Indipendenza! Quell’Indipendenza che perdette nei secoli passati per una grave ingiustizia della Storia!». «Comunque, per me – tagliò corto il capo dell’istituto di pena, prima che la guardia potesse eseguire l’ordine di accompagnarci all’uscita del carcere, con diffida a mettervi più piede – fino a prova contraria, la Sardegna è Italia, e voi siete Italiani! Lo dimostrano d’altronde anche i vostri passaporti».
Nel novembre del 1963 Jordi Pujol i Soley, dopo due anni e mezzo di prigionia, venne scarcerato grazie ad una amnistia della quale poté beneficiare per la morte dell’allora pontefice, Giovanni XXIII, e confinato a Girona, ove venne sottoposto a sette mesi di libertà vigilata. Il 28 dicembre di quello stesso anno – appresa la notizia della sua scarcerazione – Antonio Simon Mossa e Italo Motroni andarono a trovarlo, senza però riuscire ad incontrarlo, perché pare si fosse trasferito per un periodo di assoluto riposo, da amici, in una villetta immersa nel verde nelle campagne del paese; ma molto più probabilmente perché non gli era consentito di avere contatti con stranieri ed esponenti politici locali.
Dal canto suo Jordi Pujol i Soley venne in Sardegna per la prima volta nel 1958 – ove suppongo si sia incontrato con Antonio Simon Mossa – per visitare le città di Alghero, Sassari, Nùoro, Oristano, Cagliari e Iglesias; e i paesi di Santulussúrgiu (con una puntata a San Leonardo di Siete Fuentes), di Ghilarza (con una sosta al lago Omodeo, creato artificialmente nel 1920 dall’ingegnere che gli dette il nome, con uno sbarramento lungo il fiume Tirso) e di Orune. Tornò poi a Cagliari e ad Alghero nel 1985 per la presentazione del libro I catalani in Sardegna (Silvana Edizioni, Cinisello Balsamo, 1985) a cura di Jordi Carbonell e Francesco Manconi: libro che si apre con una sua Prefazione.
In essa egli così scrisse: «...Noi catalani guardiamo alla Sardegna con profonda cordialità e simpatia. Nutriamo una speciale predilezione per Alghero, dove la nostra lingua è parlata ancora oggi: non c’è ragione per nascondere questo sentimento, che consideriamo legittimo. Però oggi non vogliamo assolutamente usare quella splendida città come una base per la penetrazione nell’isola, ma come una strada aperta verso l’amicizia tra il popolo catalano e il popolo sardo, del quale gli algheresi sono parte integrante ed indissolubile...».
2.2–Antonio Simon Mossa partecipa, con una delegazione di «Sardigna Libera», al XVII Congresso Internazionale dell’«Unione Federalista delle Comunità Etniche Europee - U.F.C.E.E.», Åbernå (Danimarca), 20-22 Maggio 1967
Nella primavera del 1967 Antonio Simon Mossa, Ferruccio Oggiano, Antonino Càmbule ed io facemmo un viaggio in Danimarca, ove ci trattenemmo una quindicina di giorni, dall’8 al 23 maggio, per partecipare ad Åbernå (pronunzia: Aabernaa), nell’arcipelago dello Seeland, ai lavori del «XVII Congresso Internazionale dell’Unione Federalista delle Comunità Etniche Europee - U.F.C.E.E.», che si sarebbe dovuto svolgere nei giorni 20-22 di quello stesso mese, in rappresentanza del «Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda “Sardigna Líbera”».
Nei giorni precedenti l’inizio della su citata assise congressuale – facendo uso per gli spostamenti dell’automobile di Antonio Simon Mossa – visitammo dapprima la città di Copenaghen, il cantiere navale, lo scalo portuale dei pescherecci, i palazzi in stile rococò e il colonnato in stile classico di Amaliemborg, il Museo con le sculture votive del «Carro Solare» e la pinacoteca, la Chiesa eretta a commemorazione dell’intellettuale, storico, poeta, teorico e parlamentare danese Nicolai Frederick Severin Grundtvig (pron. Grùntviigh), a cui si deve il ricupero e la ricostruzione della mitologia scandinava. Indi visitammo il birrificio della «Tuborg» e della «Carlsberg», poi la città di Frederiksberg e lo stupendo castello di Hilleröd, nella contea di Frederiksborg.
Successivamente ci recammo alle isole Faeröer, un arcipelago dell’oceano atlantico settentrionale, costituito da 18 isole, più vari scogli, che formano il dorso di un vasto territorio vulcanico subacqueo che unisce la Scozia all’Islanda e chiude a Ovest il Mar di Norvegia. E che è diviso in due da un canale, lo Skopen Fjord, a Nord del quale si trovano 13 isole e 5 a Sud. Giunti sul posto, dopo aver costeggiato le alte pareti rocciose sulle coste delle Faeröer nelle quali nidificano a stuoli gli uccelli marini, visitammo dapprima l’isola di Strömö, in cui si trova la capitale dell’arcipelago Thorshavn, poi le isole di Österö, Syderö, Vaagö, Sandö, Bordö e Viderö, ove incontrammo diversi uomini di cultura e alcuni esponenti del Movimento indipendentista Faeringio, il Folkeflokken, conosciuti da Simon in vari convegni internazionali.
Quattro giorni dopo, rientrati a Copenaghen, venimmo ricevuti da alcuni esponenti delle minoranze linguistiche tedesche e frisone dello Schleswig settentrionale, con i quali Antonio Simon Mossa aveva preso da tempo contatti telefonici, e poi riprendemmo a peregrinare per il paese. Ci recammo quindi a Nyborg, nell’isola di Fionda, e da lì proseguimmo per Svendborg, ove vedemmo il cantiere navale e il porto per imbarcazioni da pesca, per poi sostare ad Ödense, ove visitammo la Cattedrale di San Canuto, realizzata in stile gotico-germanico, con sarcofaghi, altari in legno scolpito e affreschi.
Dopodiché lasciammo l’isola e ci recammo nella penisola dello Jutland, ove – dopo aver ammirato il meraviglioso ponte ferroviario che sovrasta il Piccolo Belt tra Fredericia e Strib – visitammo la «Fontana dei porci» nella città di Aarhus, l’industria tessile, gli oleifici e il porto da pesca; poi la città di Randers, circondata da grandi colture intensive specializzate e da colture estensive e allevamenti; dopo la città industriale di Aalborg, circondata da grandi prati e pascoli con allevamento estensivo di bovini e suini, e da industrie metallurgiche, tessili, zuccherifici e industrie lattiero-casearie.
In seguito – dopo aver visto, sempre nello Jutland, le cattedrali dei paesi di Ribe e di Viborg, e la città portuale di Frederikshavn, con porto marittimo commerciale e scalo portuale per pescherecci, ed una fiorente agricoltura e industria zootecnica – ci dirigemmo verso il porto peschereccio di Skagen, la cittadina più settentrionale della Danimarca, circondata da paludi, dune e terreni incolti, che si affaccia sul Mare del Nord, tra gli stretti dello Skagerrak e del Kattegatt; ed infine ci recammo nell’isola di Bornholm, che è situata nella parte meridionale del Mar Baltico, ove visitammo il borgo di Rønne, le rovine di Hammershus e la chiesa a pianta circolare di Österlas.
2.3–Il discorso di Antonio Simon Mossa al XVII Congresso Internazionale dell’U.F.C.E.E.
Dal 20 al 22 Maggio, prendemmo poi parte – in rappresentanza del «Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda “Sardigna Líbera”» – ai lavori del Congresso U.F.C.E.E.. Alle 10.30 del giorno successivo Antonio Sìmon Mossa – che era un conoscitore profondo delle culture delle Minoranze nazionali di tutta Europa e delle «lingue minoritarie» di otto tra le principali etnìe europee e africane – prese la parola, intervenendo in francese e presentando un interessante rapporto sulla situazione storica, politica, giuridica, economica, culturale e linguistica della Comunità Sarda, suscitando l’interesse e l’apprezzamento corale degli altri congressisti, i quali sottolinearono con lunghi e calorosi applausi le parti più salienti del suo discorso.
Discorso che concluse chiedendo l’appoggio di tale organismo «in nome della libertà e dei diritti dell’uomo», «perché il problema dell’insegnamento della Lingua Sarda nelle scuole dell’Isola, parallelamente a ciò che avviene in Valle d’Aosta per la lingua francese, sia risolto secondo lo spirito dei princìpi dell’Unesco, così da fornire alla Comunità Sarda lo strumento più adatto per esprimersi nella propria lingua alla stregua degli altri cittadini della Repubblica». (Si veda in proposito il Rapport sur la Communauté Sarde, costituito da 12 pagine stampate per conto delle Edizioni di «Sardegna Libera», nel giugno del 1967, dalla Tipografia Giovanni Gallizzi di Sassari).
La battaglia culturale di Antonio Simon Mossa in difesa della Lingua Sarda, delle sue varianti linguistiche e delle parlate alloglotte dell’Isola
Nella storia della Sardegna, Antonio Simon Mossa fu indubbiamente, tra gli intellettuali isolani, il primo etnolinguista sardo del ventesimo secolo ad aver compreso la valenza politico-rivoluzionaria della Lingua Sarda, come «elemento cementante dell’unità del Popolo e della Nazione Sarda». Fu colui che portò avanti in perfetta solitudine, tra l’indifferenza pressoché generale dei politici e dei cosiddetti uomini di cultura e della gente sarda, a partire dagli anni Quaranta e fino agli inizi degli anni Settanta, la battaglia politico-culturale per la rinascenza, l’uso e il riconoscimento giuridico della Lingua Sarda come prima lingua nazionale del popolo sardo, della quale – come ogni nazionalista che si rispetti – auspicava l’unificazione e la normalizzazione.
Egli si battè per il potenziamento, la rivitalizzazione e lo sviluppo delle sue tre varianti linguistiche: il sardo-campidanese, il sardo-logudorese e il sardo-còrso (sassarese e gallurese); nonché per l’uso e la promozione delle quattro parlate sardo-alloglotte, che – a suo giudizio – dovevano servire a completare e ad arricchire l’identità nazionale e culturale dei Sardi: il catalano di Alghero, il còrso di La Maddalena e Santa Teresa di Gallura, il tabarchino di Carloforte e Calasetta, e l’arromanìsca di Isili. E nel contempo sostenne anche la battaglia per la difesa, la valorizzazione e lo sviluppo della cultura etnica isolana, sia in sardo che in italiano, della quale riporterò soltanto alcuni ulteriori elementi trascurati nel libro più sopra richiamato.
3.0–Antonio Simon Mossa predispone la «Gramàtica del Bon Pescaró» e avvia ad Alghero i primi corsi di catalano
Sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso Antonio Simon Mossa, sardista e catalanista convinto, predispose a Sassari una grammatica dell’algherese che chiamò Gramàtica del Bon Pescarò (Grammatica del Buon Pescatore), tuttora inedita, e della quale esistono in circolazione soltanto un dattiloscritto in originale, in possesso della famiglia, e un’altra cinquantina di copie fotostatiche. Testo che egli distribuì a dispense settimanali, e a titolo gratuito, a tutti i partecipanti ai «Corsi di lingua catalano-algherese, di grammatica, sintassi e fonetica», che venivano organizzati dall’Escoleta del Bon Pescador (1959-1970), da lui fondata nel settembre del 1959.
Tali corsi avevano una durata di non più di sette mesi. Iniziavano dalla terza decade del mese di ottobre di ogni anno e si concludevano alla fine di maggio dell’anno successivo. In essi egli teneva delle lezioni regolari in catalano di archeologia, di cultura sardo-algherese, di storia dell’arte e di lingua catalano-algherese, in ciò coadiuvato da Rafael Catardi e da diversi altri amici di Alghero. I corsi avevano luogo nella sala della «Pia Union dels Pescadors», dapprima tutti i lunedì, e poi - dall’ottobre del 1960 e per tutti gli anni a seguire - anche in altri giorni della settimana, dalle ore 20.30 alle ore 23.00.
Purtroppo quella scuola chiuse definitivamente i battenti nel maggio del 1970, quando Antonio Simon Mossa – dopo undici anni di onorato servizio in favore della comunità catalana di Alghero, cui insegnò a scrivere correttamente il catalano-algherese, secondo le norme dell’ortografia dello standard linguistico della Catalogna – sebbene a malincuore, dovette cessare l’attività didattico-pedagogica intrapresa, per l’aggravarsi della malattia che lo aveva colpito. Morbo che, come è noto, lo condusse inesorabilmente alla morte il 14 luglio del 1971.
Sull’impegno in favore di Alghero spunti interessanti si trovano nella relazione di Carlo Sechi.
3.1–Antonio Simon Mossa vince alcuni premi internazionali di poesia e letteratura in lingua catalana
Nel 1958 Antonio Simon Mossa si guadagnò a Mendoza, in Argentina, un primo premio nell’ambito del «Premio letterario “Combat”» con una deliziosa novella di stampo marinaro; e nel 1959 conquistò a Parigi, nel corso dei Giochi Floreali, il «Premio “Serra Hunter”» con un saggio di glottologia avente per titolo: Introduccio a l’estudi sobre la influència de la cultura catalana à l’illa de Sardenya (Introduzione allo studio sull’influenza della cultura catalana nell’isola di Sardegna).
3.2–L’incontro ad Alghero tra Antonio Simon Mossa e Pere Català i Roca nel 1959
Nel 1959 Pere Català i Roca – uno storico, studioso del folklore, nonché un linguista divulgatore della lingua e della cultura catalana, e uno scrittore e un fotografo d’eccezione (che era stato ad Alghero anche negli anni 1956 e ‘57) – conobbe personalmente Antonio Simon Mossa nella cittadina catalana, in occasione del suo terzo viaggio in Sardegna, e tra i due nacque da subito un rapporto di cordiale, sincera amicizia, seguito da un fitto scambio di corrispondenza, che durò negli anni fino agli albori del 1971.
Pere Català i Roca ritornò in Sardegna nel 1960 e nel 1962. Non poté invece partecipare nel settembre del 1961 – essendosi sposato alla fine d’agosto di quello stesso anno con la signora Maria del Carme Dalmau, figlia dell’editore barcellonese Rafael Dalmau – alla prima edizione di Els Jocs Florals de la llengua catalana di Alghero. Della Commissione Organizzatrice di tali Giochi facevano parte, oltre a Rafael Catardi, in qualità di presidente; Fidel Cilliano (sindaco di Alghero), in veste di tesoriere; Antoni Simon Mossa in qualità di segretario; Antoni Era, Josep Giglio, Pasqual Nonis, Pasqual Scanu e Rafael Sari in veste di consiglieri.
In ordine a El viatge del Retrobament, il primo viaggio collettivo organizzato dai catalani della penisola iberica, dopo quasi due secoli e mezzo in cui si erano interrotti i contatti tra la Sardegna e la Catalogna – al quale partecipò, tra gli altri, anche Pere Català i Roca col padre Pere Català i Pic – va detto che tra il 25 e il 26 agosto del 1960 arrivò ad Alghero, con la nave da crociera «Virginia Churruca», una delegazione di 150 catalani con l’intento di incontrare i «Fratelli catalani di Sardegna» e di rinsaldare con essi l’antico legame che li legava alla Catalogna. Venne celebrata una gioiosa «Festa del ricongiungimento e della riconciliazione» tra appartenenti alla stessa famiglia linguistica, cui fece seguito nel settembre del 1961 un’altra crociera di 150 catalani che giunsero in Sardegna per la celebrazione dei «Giochi Floreali della lingua catalana» su menzionati: giochi che si tennero il 10 di quello stesso mese.
In proposito va detto che Antonio Simon Mossa, il quale conosceva personalmente gran parte degli escursionisti, sia nel 1960 che nel 1961 fu uno degli ispiratori con Rafael Catardi e Antoni Era di El viatge del Retrobament, e uno dei principali protagonisti - insieme alle autorità locali - della festosa accoglienza riservata ai catalani giunti in Sardegna via mare dalle Isole Baleari, dal Rossiglione, dal Paese Valenziano, dalla Catalogna e da ogni angolo del mondo, con due viaggi collettivi organizzati su navi da crociera, per ritrovarsi all’insegna dell’amicizia con i fratelli separati di Alghero, parlanti la loro stessa lingua, e fondersi con loro in una sorta di unione spirituale.
3.3–Nel 1970, decimo anniversario del «Viatge del Retrobament», Pere Català i Roca fa scalo ad Alghero per preparare l’arrivo dell’«Orfeó Català»
Ricordo inoltre che Pere Català i Roca venne in Sardegna nel luglio del 1970, nel decimo anniversario di El viatge del Retrobament, lingüístic i cultural dels germans catalans de L’Alguer (Il viaggio del Ritrovamento, linguistico e culturale dei fratelli catalani di Alghero) – che ebbe luogo il 25-26 agosto del 1960, dopo un silenzio che durava dal XVIII secolo – per preparare e fotografare l’arrivo dell’«Orfeó Català», che avrebbe dovuto tenere un concerto nella cittadina catalana, nota come la Barcelloneta sarda.
L’«Orfeó Català», partì da Barcellona con la motonave «Monte Umbe» – non tanto per una crociera turistica, quanto per una ambasciata artistica, spirituale e sentimentale nelle terre catalane del Mediterraneo – il 20 di quello stesso mese. Il viaggio si concluse in quella stessa città il giorno 26. La mattina del 22 luglio Pere Català i Roca si recò a Sassari a casa di Antonio Simon Mossa per invitarlo al concerto dell’«Orfeó Català». Suonò quindi il campanello e l’architetto, aperta la porta, lo accolse dicendo: «Sono in riunione con alcuni amici di vecchia data ed esponenti del Partito Sardo d’Azione. Ma non ti preoccupare, entra pure! Alla riunione puoi assistere anche tu, perché sei uno dei nostri».
E proseguì dicendo: «Infatti il 25 luglio, fra tre giorni, e precisamente di sabato dobbiamo eleggere, alla presenza del nostro Segretario politico, l’On.le Giovanni Battista Melis, il Comitato Direttivo Distrettuale e l’Esecutivo Distrettuale “provvisori” della Federazione di Sassari, e il giorno successivo i medesimi organismi della Federazione Distrettuale della Gallura». Fu quella la prima volta che ebbi modo di vedere Pere Català i Roca, il quale all’epoca pensai che poteva avere all’incirca la stessa età dell’architetto, ma non ebbi il tempo di approfondirne la conoscenza. Come di fatto fu quella l’ultima volta che egli poté abbracciare Antonio Simon Mossa.
3.4 - La nascita di un rapporto d’amicizia tra me e Pere Català i Roca
Molti anni dopo capitò anche a me di stabilire con Pere Català i Roca – un personaggio esuberante, estroverso, affabile e cordiale – un intenso scambio di lettere e uno stretto e affettuoso rapporto di amicizia.
Ciò avvenne a Sassari in aprile e a Sanluri il 28 giugno del 2003 (ove si trattenne sino al giorno 30), in occasione della sua venuta in Sardegna con la consorte, perché invitato in quanto storico a partecipare come relatore alla quarta Rievocazione della Battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409, che vide contrapposte le armate della Corona d’Aragona comandate da Martino il Giovane, re di Sicilia, a quelle dei Giudici d’Arborea, guidate da Gugliemo III, che non volevano sottostare ad un rapporto di dipendenza feudale imposto dalla Corona aragonese.
Come pure ho avuto il piacere di conoscere – dapprima per telefono, poi per corrispondenza, ed infine di persona – per il tramite di Pere Català i Roca, un suo amico ed ora anche mio, il giornalista Joan Gala i Fernández, che ha scritto dal settembre del 1979 ad oggi, almeno un’ottantina di articoli su Alghero e la Sardegna, per diversi periodici, quali: «Som» (Siamo), «Avui» (Oggi), «L’eco de Sitges» (L’eco di Sitges), «El Correo Catalán» (Il Corriere Catalano), il «Diari d’Andorra» (Giornale di Andorra) e «àrnica», e che nel numero 233 di Gennaio-Febbraio 2004, Anno XXV, della pubblicazione di cultura popolare catalana «Som», alle pagine 29 e 30, ha recensito, per la rubrica «Libri», il saggio da me scritto sul mio Maestro politico e di vita, dal titolo già ricordato.
3.5 –L’incontro tra lo scrittore catalano Josep Pla e l’architetto Antonio Simon Mossa a Sassari
Nel lontano 1962 partecipai, inoltre, all’incontro tra lo scrittore catalano Josep Pla e Antonio Simon Mossa, come pure al «rinfresco» al quale l’architetto invitò me e i suoi più stretti collaboratori dello studio per festeggiare l’evento. Nel corso dell’incontro ci disse che gli avrebbe fatto da guida e che lo avrebbe accompagnato in lungo e in largo per la Sardegna con la sua macchina.
Sapemmo poi dallo stesso Josep Pla, al suo rientro a Sassari, che l’architetto durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che parlargli in un «catalano arcaico e coloniale», quello della sua Alghero, di architettura, di sociologia, di storia, di politica, di arte, di economia, di catalano e di lingua sarda, «come avrebbe potuto fare soltanto un sardo integrale di vastissima cultura come lui». Su questo incontro si soffermano più specificatamente i testi di Antoni Arca e di Vindice Ribichesu contenuti nel presente volume.
3.6 – Antonio Simon Mossa e il «Primo Convegno sulla Lingua e la Cultura della Sardegna»
Nella prima metà degli anni Sessanta, e per l’esattezza il 9 settembre del 1965 in Bosa – promosso dal locale Centro di Cultura Popolare, presieduto da Giovanni Battista Columbu, dietro sollecitazione e per impulso di Antonio Simon Mossa (Segretario, fondatore e principale animatore del Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda «Sardigna Líbera»), in collaborazione con gli omologhi Centri di Ollolai, Scano Montiferro e Santulussúrgiu – si svolse nel capoluogo della Planàrgia il «Primo Convegno Nazionale sulla Lingua, la Storia e la Cultura della Sardegna», che risultò il primo in assoluto non solo del ventesimo secolo, ma anche dell’Ottocento, tanto da destare l’interessamento del SID, il «Servizio Informativo della Difesa» (cioè dei servizi segreti italiani).
Ad esso presero parte – oltre, naturalmente, a Giovanni Battista Columbu e ad Antonio Simon Mossa – anche Ferruccio Oggiano, Antonino Càmbule ed io da Sassari, Michele Zedde e Michele Columbu di Ollolai, Batore Corronca e Fidelino Carta di Scano Montiferro, e tantissimi altri amici, tra i quali meritano soprattutto di essere ricordati Italo Ortu di Bauladu, Francesco Salis di Santulussúrgiu ed Emanuele Cau di Samugheo.
Al Convegno di Bosa, che precedette di ben dieci anni i Convegni di Ozieri – organizzati nell’ambito del «Premio di Poesia e Letteratura Sarda» per la promozione dell’unificazione ortografica del sardo – seguirono numerosi altri incontri, convegni e seminari di studio e ricerche sulla Lingua, la Storia e la Cultura della Sardegna nelle quattro roccaforti del Partito Sardo d’Azione in provincia di Sassari (Castelsardo, Laerru, Pàdria e Pérfugas, tutti Comuni a guida sardista) e nei paesi sopra richiamati. (Si veda in proposito anche la Testimonianza di un vecchio militante sardista pubblicata nel libro La Sardegna sarà redenta dai Sardi – Viaggio nel pensiero sardista, a cura di Antonio Lépori, con presentazione di Efisio Pilleri, Cagliari, Edizioni Castello, 1991).
3.7-Antonio Simon Mossa organizza la quinta edizione dei «Giochi Floreali della Lingua Catalana» (Alghero 1969)
Il 25 maggio del 1969 Antonio Simon Mossa, come convenuto la settimana prima, venne a prendermi sotto casa, a Sassari, perché voleva che almeno per una volta partecipassi alla Gaia Festa algueresa dels «Jocs Florals de la Llengua Catalana». Festa, che si sarebbe dovuta svolgere – di regola – come ogni anno il 6 Gennaio, nel Dia dels Reis (nel Giorno dell’Epifania, dei Re Magi), anziché il 25 Maggio, nella «Diada de “Pasqua de Roses”».
Quell’anno, i Giochi Floreali della Lingua Catalana – cui parteciparono ben 93 concorrenti, di cui 24 di Alghero e 69 provenienti dalla Catalogna, dal Paese Valenziano, dalle Isole Baleari, dal Rossiglione, dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Inghilterra – vennero celebrati per la quinta volta nella Barcelloneta nostrana, con grande solennità nel chiostro della Chiesa di San Francesco, gremito come non mai di gente: autorità, uomini di cultura e soprattutto giovani.
Della giuria del «Premio di poesia e letteratura catalana» facevano parte: Antonio Sanna, cattedratico di Lingua Sarda e Filologia Romanza dell’Università di Cagliari; Josep Ma di Casacuberta, prestigioso editore catalano; Rafael Catardi, animatore instancabile del Centro e della cultura catalano-algherese; Pasqual Scanu, stimato docente e storico di Alghero; Gaudenci Calciati e Josep Sanna, e Antoni Sìmon Mossa, Presidente del Centre de Estudis Algueresos e segretario della giuria.
La Commissione organizzatrice della quinta edizione dei Jocs Florals de la Llengua Catalana de L’Alguer era invece composta da: Rafael Sari, presidente, Francesco C. Nonis, Fedele Cilliano, Alba Branca, Antonio Coronzu, Franco Sério, e Antonella Salvietti, segretaria. La giornata venne, quindi, aperta da Rafael Sari con il motto tradizionale «Amics, s’obre la Festa!» («Amici, s’apre la Festa!»), e subito dopo i Cantori del Centro, con il tenore Pasqual Gallo, eseguirono una di quelle vecchie canzoni catalane che Alghero ha mantenuto sino ai giorni nostri.
3.8 – Il discorso pronunciato in quell’occasione da Antonio Simon Mossa
Antonio Simon Mossa, nella sua veste di segretario – dopo aver dato lettura delle lettere e dei telegrammi di adesione pervenuti alla segreteria del premio letterario – lesse poi le motivazioni e i verdetti espressi dalla giuria, non prima però di aver detto, esprimendosi «a braccio» in un catalano forbito ed estremamente fluido e accattivante, tra le altre cose, che «la nostra Festa non è né folclorica né sentimentale. è al contrario la celebrazione, in un clima di unità spirituale e fraterna, della sopravvivenza di quel patrimonio culturale che ci hanno lasciato gli antichi, la nostra lingua, la nostra tradizione, la nostra speranza, la nostra illusione.
«Tutt’intorno alle muraglie, alla marina, alla spiaggia, alla caletta, agli uliveti, alle vigne, fino alla montagna, in questa luce d’un cromatismo assurdo, ogni cosa ci parla d’un presente che è riflesso del passato: presente che non esisterebbe, se non avessimo avuto quel passato. E dobbiamo oggi ringraziare gli antichi di aver così felicemente scelto questa parte della Sardegna per insediarsi. E la nostra gratitudine per gli antenati dovrà essere concreta. Perciò lavoriamo in silenzio per salvare e conservare questa eredità piena di gloria.
«Il “Centro di Studi Algheresi” non ha perciò altro obiettivo, se non quello di far rivivere in senso moderno e attuale, in un mondo che si fa sempre più difficile e ostile, lo spirito dei nostri padri, svegliando nel corpo vivo della nostra gente quelle energie che per molto tempo erano dormienti. Perciò siamo sicuri che tutti noi, algheresi nuovi e vecchi, potremmo uscire dalla situazione di degrado nella quale viviamo soprattutto per mancanza di cultura. E se diciamo cultura, diciamo amore. E amore vuol dire fare, vuol dire patria, vuol dire poesia. E dove c’è poesia c’è virtù umana e civile, c’è la vocazione comunitaria, c’è finanche la solidarietà sociale».
E poi, avviandosi rapidamente alla conclusione, disse: «Crediamo nella poesia e nella sua forza di coesione, come il maestro muratore crede nei pilastri del palazzo che ne garantiscono la stabilità, come il marinaio crede nella chiglia dell’imbarcazione che gli consente di solcare il mare, come l’uomo timorato di Dio crede nella preghiera che eleva al Signore pieno di speranze. In ciò troviamo la ragione essenziale di celebrare questa “Gioiosa Festa dei Giochi Floreali di Alghero”, come in Catalogna, come in Valenza, come nel Rossiglione, giacché sappiamo che sarà oggi e domani, questo, il legame più concreto tra noialtri, dal momento che parliamo tutti lo stesso linguaggio, che è quello dell’elevazione spirituale dell’uomo, quello d’una solidarietà duratura e forte».
3.9 – La consegna dei premi ai vincitori delle varie sezioni
Infine, a consegnare i premi ai vincitori – tra gli applausi calorosi dei presenti – furono il presidente Antonio Sanna, Rafael Catardi e la vedova di Antonio Era. A Joan Arùs i Colomer, di Castellar del Vallès (Barcellona) venne assegnato il «Premio Barcelloneta» per il poema El Poeta i la nit (Il Poeta e la notte); mentre a Gabriel Mora i Arana, di Manresa, a Josep Serra Janer, di Barcellona, e ad Anfós Ramon i Garcia, di València, vennero consegnate delle menzioni d’onore.
Invece Joan Noves i Oriol, di Barcellona, e Maria Piga, di Alghero, si aggiudicarono ex-aequo, il «Premio Recasens», rispettivamente, con le opere Petits poemes a Imma (Piccoli poemi a Emma) e Illusió i altres poesies (Illusione e altre poesie); mentre David Jou Mirabent, di Sitges, Antonello Dessì e Tina Piga, di Alghero, furono gratificati, rispettivamente, con una menzione d’onore.
Poi venne attribuito a Oriol Pi de Cabanies, di Barcellona, il «Premio Antonio Era» per il racconto: Animicament, soc un assassí fracassat (Con poca salute, sono una assassino rovinato), e assegnata una menzione d’onore a Oleguer Sarsanedas, di Barcellona. Si passò, quindi, alla consegna di alcuni premi straordinari, tra i quali, il «Premio Carmen Dore», che si aggiudicarono, ex-aequo, Josep Martí i Bodí, di València, con il poema El niu de cada estació (Il nido di ogni stazione) e Anna Fenu, di Alghero, con il poema Senyor (Signore).
Il «Premio Pasqual Nonis» venne vinto, invece, da Pere Elies i Busqueta, di Barcellona, con la prosa artistica El vianant (Il viandante); il «Premio Rafael Tasis» lo vinse Oleguer Sarsanedas, di Barcellona, con il racconto Mala sort (Cattiva sorte); mentre il «Premio Ramon Xuriguera» andò a Josep Maria Poblet, di Barcellona, per il saggio storico Del 1714 a les bases de Manresa (Dal 1714 alle basi di Manresa); e il «Premio Escolar del Bon Pescador» se lo aggiudicarono, ex-aequo, Joan Franc Zidda, di Alghero, con la poesia L’Alba e Antoni Piga, anche lui algherese, con la poesia La mia solitud (La mia solitudine). Vennero inoltre conferite diverse menzioni d’onore a Eugeni Molero i Pujós, di Vilanova i la Geltrú (Barcellona), a Ramon Via, di Prat de Llobregat (Barcellona) e a Jordi Planes Casals, di Parigi.
3.10–Il discorso finale del Presidente della Giuria del «Premio di poesia e letteratura catalana», Antonio Sanna, cattedratico di Lingua Sarda e Filologia romanza nell’Università di Cagliari
Dopodiché prese la parola il Presidente della Giuria, Antonio Sanna, che pronunciò un appassionato discorso in italiano, per la presenza di molte autorità e personalità italiane, nel corso del quale – dopo aver sostenuto che «i Giochi Flo-reali di questa città hanno il merito di aver difeso e di difendere, con sempre maggiore efficacia, la parlata catalana di Alghero e la sua eredità storica, che ha ragioni profonde per essere mantenuta e conservata» – disse: «Il valore del “catalano” di Alghero, come pure di quelle lingue che vanno scomparendo, è molto grande, poiché in queste lingue è contenuta la storia dei popoli, e sono questi il riflesso della dimensione storica nella quale dobbiamo vivere...».
E poi proseguì dicendo: «Non molto tempo fa hanno detto che gli idiomi locali e le lingue subalterne sono il linguaggio dei popoli vinti: vinti nella loro cultura e nella loro personalità individuale storica, di fronte alle lingue nazionali e ufficiali, imposte dai popoli vincitori! E così è tanto più vero per Alghero e tutta l’isola di Sardegna! Però come ha dimostrato chiaramente la Catalogna, una terra può essere occupata, un popolo può essere vinto, ma non distrutto o affossato. Un popolo è veramente vinto, solo quando perde la coscienza d’essere stato un tempo libero e distinto, spiritualmente e culturalmente. Un popolo è veramente vinto quando rinuncia al suo spirito, alla sua anima.
«Ciò che è nel desiderio di tutti voi che siete qui, di tutti coloro che hanno fiducia in questi valori di lingua e poesia che sono, come abbiamo già detto, valori di civiltà, è che il miracolo dell’Alghero catalana, che dura da circa seicento anni, possa durare fino ai termini estremi del tempo. Viva Alghero! Viva la parlata e la poesia catalana di Alghero!». La Festa, poi, dopo un breve discorso di ringraziamento del gen. Catardi, si concluse con il canto di vecchie e nuove melodie algheresi. Su questo punto si rinvia in particolare alle pagine di Pere Català i Roca, di Leonardo Sole e di Antonio Lepori.
La posizione politica di Antonio Simon Mossa in ordine all’assetto economico, sociale e istituzionale della Sardegna
Antonio Simon Mossa, che era particolarmente aperto e sensibile alle tematiche identitarie, fu il primo intellettuale e pensatore sardo e sardista ad elaborare, proprio in quanto nazionalista, anticolonialista ed internazionalista, e perciò stesso «antiseparatista» – come avrebbe potuto e dovuto fare ogni altro patriota che si rispetti, ed ogni uomo politico o di cultura che avesse avuto «intelletto d’amore» per la sua Terra – la teoria dell’indipendentismo per il Popolo e la Nazione Sarda, insieme alla teoria federale e confederale della Confederazione universale dei Popoli e delle Etnie, e del Federalismo europeo delle «Nazioni senza Stato» e delle minoranze etniche.
Infatti egli sostenne, in un convegno di indipendentisti che si svolse a San Leonardo di Siete Fuentes (Santulussúrgiu) il 22 giugno del 1969, a chiarimento della «posizione rivoluzionaria sardista»: «Che si sappia finalmente, e una volta per tutte, che il nostro obiettivo è la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, la redenzione sociale del Popolo Sardo e che la nostra lotta assumerà le forme e la durezza che i momenti storici avvenire le riserveranno». Ed aggiungeva: «...la liberazione del Popolo Sardo non può avvenire che con la conquista dell’indipendenza, e [...] la redenzione sociale che auspichiamo, e che ci siamo configurata in modo preciso, è legata esclusivamente a quella conquista». Adesso, ad integrazione di quanto contenuto nel mio libro, riporterò di seguito alcuni eventi in esso tralasciati.
4.0 - Il Congresso provinciale sardista di Ozieri del 1965, nel quale vinsero Antonio Simon Mossa e la corrente indipendentista del Partito Sardo d’Azione
Ai lavori del Congresso sardista di Ozieri del 21 novembre 1965, dietro preciso invito di Antonio Simon Mossa (che a conclusione di quell’assise venne eletto Direttore provinciale per la provincia di Sassari) presenziò, per la prima volta nella storia del Partito Sardo d’Azione, una folta delegazione di catalani, capeggiata da Josep Maria Batista i Roca, docente universitario presso l’Università di Cambridge; mentre nell’impossibilità di parteciparvi, inviarono la loro calorosa adesione, dalla Francia: Henri Garidou, esponente dei «Catalani del Rossiglione» di Port Vendres; Eneko Irigaray, esponente dei «Baschi di Spagna», in esilio a Biarritz; Ambrosi Carrion, presidente del «Casal de Catalunya» ed esponente dei «Catalani di Spagna», in esilio a Parigi; e il direttore e la redazione di «Enbata», il «Giornale Nazionalista Basco e Federalista Europeo» di Bayonne, in rappresentanza dei loro rispettivi Movimenti e dei Partiti indipendentisti delle altre Nazionalità Minoritarie dell’Europa Occidentale.
[Si veda in proposito L’autonomia politica della Sardegna 1965, a cura di A. Simon, F. Oggiano, A. Càmbule e G. Marras (Tipografia Giovanni Gallizzi, Edizioni di «Sardegna Libera» - Sassari, 22 gennaio 1966), sulla cui prima pagina campeggiava la seguente frase di sapore profetico, pronunciata da Giovanni Battista Tuveri nel 1867, in sede di dibattito parlamentare, nel corso di una delle tante sedute del Parlamento del Regno d’Italia: «Un’isola qualunque non può prosperare ove non si governi da sé e non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi con le prerogative del potere centrale più limitato»].
4.1 –Antonio Simon Mossa e le prime elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Portotorres col sistema proporzionale (27-28 novembre 1966)
Ricordo ancora come se fosse adesso il grande comizio di chiusura della campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale di Porto Torres, per il quale si votò per la prima volta col sistema proporzionale, che Antonio Simon Mossa e Giovanni Battista Melis tennero in quella cittadina nella Piazza del Municipio – gremita fino all’inverosimile per l’enorme richiamo che all’epoca aveva suscitato tra la gente la discesa in campo, come capolista, del valente e geniale architetto del primo Piano di sviluppo turistico della Costa Smeralda – nella giornata di Venerdì 26 novembre dell’anno 1966. Il mio Maestro illustrò alla popolazione, con un discorso ad ampio spettro ed un linguaggio piano e accessibile a tutti i lineamenti politico-programmatici per il Comune di Porto Torres, da lui stesso elaborati e fatti stampare in tremila esemplari per conto delle Edizioni di «Sardegna Libera», dal titolo: L’impegno Sardista per una Amministrazione Democratica, Popolare e Progressista (Tipografia G. Gallizzi, Sassari, Ottobre 1966). Programmi che fece distribuire, sia nelle case che tra la gente del luogo, nel corso dei quindici giorni antecedenti la conclusione della campagna elettorale.
Poi toccò all’On. Melis, con la sua trascinante oratoria, il compito di infiammare la piazza e di concludere. Nel suo intervento Titino Melis, continuamente interrotto da scroscianti applausi, ricordò dapprima i martiri della «Brigata Sassari», il ritorno dei reduci nell’isola derelitta e la nascita del Movimento dei Combattenti da cui scaturì il Partito Sardo d’Azione, poi le battaglie sardiste in favore dell’Autonomia e del progresso della nostra terra. Concluse, infine, invitando i Portotorresi a votare compatti per la lista dei «Quattro Mori-bendati». E fu così che al termine di quella tornata elettorale combattuta senza esclusione di colpi, e svoltasi per la prima volta col sistema proporzionale, il Partito Sardo d’Azione – che era ormai assente dai banchi del Consiglio comunale di Porto Torres da più di dieci anni – riconquistò con Antonio Simon Mossa un seggio nel parlamentino turritano.
In quell’organismo, seppure dai banchi dell’opposizione, egli fece sentire alta la sua voce, e nei due anni e mezzo in cui sedette nel Consiglio comunale prima di ammalarsi, dette un contributo essenziale per lo sviluppo di quella città e del suo territorio, depositando agli atti del Comune copia dei suoi interventi, che per la loro rilevanza politica la Municipalità di Porto Torres dovrebbe mettere a disposizione degli studiosi. Si veda al riguardo il contributo di Giancarlo Pinna in questo volume.
4.2 – Antonio Simon Mossa e l’indipendentismo
Il 10 giugno del 1967, nel corso di un convegno di indipendentisti tenutosi ad Ollolài (NU) nella “località-santuario” di San Basilio, Antonio Simon Mossa – anche a nome di Sardegna Libera, la componente politico-movimentista interna al Partito Sardo d’Azione, costituita nel 1961 – manifestò il suo pensiero, in merito all’esigenza di battersi per la conquista dell’Indipendenza nazionale della Sardegna, in questi termini: «Noi riteniamo che... l’indipendenza della Comunità Sarda... sia indispensabile per la riforma radicale della struttura sociale e la possibilità di una reale crescita economica del Popolo Sardo.
«Ottenere l’indipendenza significa acquisire i poteri dello Stato, quindi promuovere e attuare riforme, disporre dell’avvenire del popolo sardo. L’indipendenza significherebbe per i sardi essere collettivamente padroni del loro destino in un mondo di liberi e di uguali, sottraendosi definitivamente alla tutela di una potenza coloniale. Le obiezioni che la classe intellettuale isolana, perfetta ripetitrice delle ragioni italiane, è – in principio – una sola, apparentemente dogmatica: come farebbe la Sardegna a vivere da sola? Fra le mille risposte una sola è sufficiente per chiarire le nostre ragioni: forse che oggi la Sardegna non vive da sola?
«E aggiungiamo: che cosa ci ha dato lo Stato Italiano di più di quello che abbiamo restituito, e con gli interessi? Ma ci domandiamo ancora: quale paese del mondo riesce a vivere da solo? Forse che la Gran Bretagna o gli Stati Uniti non hanno bisogno dei mercati di tutto il mondo? Forse che l’Italia, il paese che temporaneamente ci amministra come un qualsiasi possedimento coloniale potrebbe vivere senza la solidarietà di altri paesi? E ci chiediamo infine: a che cosa serve l’indipendenza? Se il principio non valesse per noi a maggior ragione non vale per gli altri paesi. Un fatto è certo: noi stiamo vivendo con le nostre risorse e con quelle di duecentomila emigrati...
«I redditi continuano a calare in rapporto alla crescita di quelli delle regioni più ricche; siamo costretti ad acquistare tutto in Italia ai prezzi elevatissimi che questa ci impone..., le poche merci che (essa) acquista in Sardegna vengono pagate di norma a prezzo vile. Inoltre... l’Italia dispone dei trasporti, che sono una parte notevole della nostra bilancia commerciale... Non ha sufficienti capitali, e non vuole investire per la trasformazione della nostra economia e, d’altro canto, ci impedisce di cercare i capitali altrove. […] Condiziona e frena la nostra pianificazione economica..., ci impedisce la ricerca petrolifera nello zoccolo marino, (e) dandoci un’autonomia fasulla, ci ha tolto (perfino) la libertà dell’autogoverno».
Il 29 ottobre del 1967 a Bosa (NU), in occasione del secondo Convegno Sardista – svoltosi nel Salone delle Adunanze del locale Centro di Cultura Popolare – Antonio Simon Mossa – osservatore acuto della realtà isolana, politologo e massimo ideologo del Sardismo nazionalitario, rivoluzionario e libertario – in ordine alle accuse di separatismo che venivano mosse al Partito Sardo d’Azione per le sue posizioni indipendentiste, così si espresse: «Il nostro “separatismo” – ché con tale termine è definito in senso sprezzante dai nostri avversari il nostro indipendentismo – non deve confondersi con analoghi movimenti reazionari o sentimentali che si manifestarono in passato e che, perché privi di contenuto sociale e politico, si erano esauriti nello spazio di un mattino.
«Esso significa soltanto lotta del Popolo Sardo per il riscatto da un regime coloniale che dura da secoli e che la Repubblica Italiana ha mantenuto e, direi, rafforzato, contro tutti i principi di libertà proclamati dalla Costituzione dello Stato, contro i principi della Carta delle Nazioni Unite, contro le stesse norme dello Statuto Speciale della Sardegna. Lotta, la nostra, che significa soltanto conquista dell’Indipendenza, della libertà civile ed economica, e del riscatto civile dell’intero Popolo Sardo».
Il 22 giugno del 1969, nell’ambito di un convegno di indipendentisti, tenutosi a San Leonardo di Siete Fuentes, in agro di Santulussúrgiu, Antonio Simon Mossa così si espresse in ordine allo stato in cui veniva a trovarsi la nostra isola rispetto all’Italia: «Noi possiamo risorgere soltanto se alla nostra cultura, alle nostre caratteristiche etniche, alla nostra posizione geografica, alla nostra tradizione e - soprattutto - alla nostra ansia di rinnovamento e di redenzione sociale si lascia lo spazio necessario. Tale spazio, come abbiamo dimostrato, non può esistere sino a che la Sardegna sarà sottoposta alla dominazione coloniale. Tale spazio potremo averlo soltanto con la conquista dell’indipendenza, quando saremo veramente padroni e arbitri di quei valori fondamentali che caratterizzano la nostra etnìa e che, se rivalutati in una atmosfera nuova, potranno consentire al popolo sardo quel balzo in avanti sulla strada del progresso in un consorzio di uguali.
«[…] L’Italia ha dimostrato la sua incapacità e la sua impotenza nel risolvere i nostri problemi. Troppe volte e per troppo tempo abbiamo concesso una dilazione allo Stato italiano perché facesse ammenda dei passati errori. Ma lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi. Fare a meno dell’Italia diviene oggi per noi una necessità, in assoluto. Non vi sono altre strade da percorrere. Noi vogliamo conquistare l’indipendenza per integrarci, non per separarci, nel mondo moderno. E la scelta non può essere che nostra, autonoma, cosciente, decisiva. Noi siamo nella stessa posizione di quei pae-si del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, hanno già compiuto i primi passi verso l ‘indipendenza.
«Ma noi siamo rimasti indietro. Abbiamo dato credito allo Stato italiano. Abbiamo perso venti e più anni nutrendoci di speranze e promesse mai mantenute. Non vi sono per noi altri tipi di libertà se non quella che otterremo con la conquista della piena indipendenza. La strada è aperta, ma è dura e cosparsa di ostacoli. Noi siamo certi che la “Questione Sarda” che si trascina senza speranza da centoventi anni, da quando cioè il Piemonte con un colpo di mano procedette all’annessione della nostra isola, potrà avere una soluzione soddisfacente soltanto quando avremo il nostro “Stato”. E su questa strada ci incamminiamo con la certezza che i sardi acquisiranno quella coscienza che tanti secoli di dominazioni, di oppressione e di persecuzione hanno in parte sopito. E così costruiremo la nostra storia, la nostra economia, la nostra redenzione sociale: in un mondo di popoli liberi e uguali». Su questi punti raccomandiamo la lettura delle relazioni di Paolo Fois e Giuseppe Usai.
4.3 –La battaglia politica di Antonio Simon Mossa contro l’installazione di uno stabilimento petrolchimico a Lula
Tra il 1968 e il 1969 Antonio Simon Mossa – da sempre impegnato in prima linea nella difesa ad oltranza dell’integrità dell’ambiente e del territorio sardo contro tutti i piani di espansione incontrollata nell’isola delle «industrie di base» (chimica e petrolchimica), nei cui confronti manifestava di continuo una forte e irriducibile avversità – suggerì ai Sardisti di Lula, che si apprestavano a scendere in lizza per conquistare il Comune e diventare i futuri amministratori di quella Comunità locale, di opporsi con tutti i mezzi a loro disposizione alla «petrolizzazione» del proprio territorio e a schierarsi decisamente contro il paventato insediamento di uno stabilimento di tal fatta.
Inoltre raccomandò loro, in mancanza di adeguate garanzie da parte del Consorzio contro l’inquinamento industriale, di non concedere alla SIR-Società Italiana Resine dell’Ingegner Nino Rovelli, la licenza edilizia per la costruzione di uno stabilimento petrolchimico nel proprio territorio. E nel malaugurato caso in cui avessero deciso di rilasciargliela comunque, di inserire almeno, tra i vari punti dell’accordo, anche una «condizione-capestro», in grado di impegnare la Società a bloccare immediatamente la produzione e a pagare ugualmente i salari e gli stipendi ai propri dipendenti, qualora gli impianti di depurazione che il Consorzio avrebbe dovuto costruire e gestire non fossero stati in grado di funzionare.
Spinse infine il Consiglio comunale lulese, uscito vittorioso dalla consultazione elettorale del 7 giugno 1970, con in testa il Sindaco sardista Giuseppe Deiana, di area indipendentista (che per i primi due anni ricoprì la carica di Vice-sindaco di quella Comunità), a schierarsi decisamente contro tutti i sindacati e i partiti dell’allora «arco costituzionale» (Sardisti, compresi!), tutti favorevoli alla locazione in quel territorio dell’insediamento industriale, e ad opporvisi con tutte le forze, fino alla vittoria finale. Vittoria che nel 1975, quattro anni dopo la morte di Antonio Simon Mossa, arrise al Comune di Lula dopo due anni di lotte difficili ed estenuanti, ingaggiate tra il 1973 e il 1974, allorché, senza ulteriori ripensamenti, espresse il proprio definitivo diniego all’installazione nel proprio territorio dello stabilimento SIR.
Antonio Simon Mossa – che per tutta la vita si era battuto e continuava a battersi per garantire l’unità e l’identità nazionale del Popolo Sardo (attraverso l’introduzione della Storia e della Cultura della Sardegna, e lo studio, la promozione, la valorizzazione e l’uso della Lingua Sarda, quale «elemento fondante e imprescindibile dell’identità del Popolo Sardo», nelle Scuole dell’isola di ogni ordine e grado) – aveva inoltre raccomandato ai lulesi di dirsi disponibili a porre parte del proprio territorio a disposizione di quanti avessero voluto installarvi delle piccole e medie industrie manifatturiere. Questi impianti – contrariamente a quelli delle industrie di base – sono notoriamente a basso costo pro-capite e ad elevata occupazione di mano d’opera. Dovevano però essere strettamente collegati al turismo e alla trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, come anche alla valorizzazione dei prodotti e di tutte le risorse minerarie locali.
4.4 –Antonio Simon Mossa incontra gli esponenti di maggior spicco del Circolo «Città-Campagna» ad Ollolai
Tra il 1968 e il 1969 Antonio Simon Mossa, leader carismatico del MIRSA, il Movimento Indipendentista Rivoluzionario Sardo, costituito il 3 febbraio del 1964 a Sassari, si incontrò «clandestinamente» – in presenza mia, di Michele Zedde, di Michele Columbu, di Ferruccio Oggiano, di Antonino Càmbule e di Mario Sedda di Ovodda – due, o forse tre volte, nella località-santuario di San Basilio di Ollolai, per discutere di politica con alcuni tra gli esponenti di maggior spicco del Circolo «Città-Campagna», tra i quali, oltre ai fondatori Antonello Satta ed Eliseo Spiga, erano presenti anche Francesco Màsala, Peppino Bàrranu, Gianfranco Contu, Pino Usai, Antonio Cossu, Dino Giacobbe, Costantino Nivòla e Sebastiano Dessanay. Per inciso dirò che il Circolo «Città-Campagna», al quale aderirono da subito numerosi studenti universitari e diversi esponenti del mondo della cultura di varia estrazione politica, nacque sul finire degli anni Sessanta su posizioni indipendentiste e divenne ben presto il collettore dei fermenti libertari e anticolonialisti della sinistra extraparlamentare sarda.
Tali iniziative furono, in un certo qual modo, “clandestine”. Questo carattere (desidero chiarirlo a scanso di equivoci) era dovuto allo stretto controllo cui erano sottoposti allora coloro che coltivavano determinati ideali. Lo stesso Simon Mossa era “sorvegliato speciale” del dottor Grandino, dirigente della squadra politica della Questura.
Ricordo che, in occasione dell’ultimo incontro, Antonio Simon Mossa – noto in tutta l’isola sul piano politico per le sue posizioni rivoluzionarie, anticolonialiste, indipendentiste, nazionalitarie e terzomondiste, e sul piano sociale per le sue posizioni liberal-socialiste, progressiste e solidaristiche – illustrò a grandi linee, da quel grande affabulatore che era, la situazione politica, economica e sociale di Popoli e Nazioni senza Stato, quali: gli Alsaziano-lorenaici, i Baschi, i Brètoni, i Catalani, i Còrnici (i «nativi» della Cornovaglia), i Còrsi, i Croati, gli èstoni, i Faeringi, i Fiamminghi, i Galàico-portoghesi, i Gallesi, gli Irlandesi dell’Ulster, i Ladini, i Lèttoni, i Lituani, gli Occitani, gli Scozzesi, gli Sloveni eccetera, e parlò poi delle lotte che alcuni di essi da tempo andavano sostenendo per il ricupero delle loro identità nazionali e linguistiche, e che altri stavano conducendo per la liberazione nazionale, l’Indipendenza e la sovranità del proprio Paese.
Lotte, quest’ultime, tutte di carattere ecumenico che vedevano il coinvolgimento – senza distinzione di classi – di tutti quei popoli e dei rispettivi partiti marxisti-rivoluzionari o democratico-progressisti di sinistra, di quelli democratico-popolari e liberal-conservatori di centro e di quelli nazionalisti e conservatori di destra (con la sola esclusione di quelli nazifascisti, razzisti e xenofobi dell’ultra-destra), volte al raggiungimento della piena libertà dei rispettivi Paesi e dei popoli e delle Nazioni senza Stato che li abitano. Libertà che, da che mondo è mondo, è stata quasi ovunque, conquistata pacificamente o mediante azioni rivoluzionarie cruente, solo con l’unità di tutte le forze della società civile, attraverso il superamento delle divisioni di classe fino al raggiungimento dell’obiettivo primario, che è per l’appunto quello dell’indipendenza e della sovranità nazionale, salvo poi a dividersi in base alle proprie convinzioni ideologiche.
4.5 – L’inno che il poeta Francesco Màsala dedicò, a ricordo di quell’incontro, ad Antonio Simon Mossa, e il giudizio espresso da quest’ultimo su di esso
Nel 1971, due mesi dopo la morte di Antonio Simon Mossa avvenuta il 14 luglio, lo scrittore e poeta Francesco Màsala, in una lettera a me indirizzata, datata Cagliari 5 ottobre 1971 – allegò un suo componimento ad integrazione e a completamento dell’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu di Ozieri. Egli così rievocò quell’incontro: «Questi Paralipomeni all’inno angioyano sono nati nella Barbàgia di Ollolai dove Antonio Simon Mossa mi aveva chiamato, assieme ad altri amici (pochi, mi ricordo di Michele Columbu, Antonello Satta, Peppino Bàrranu, Giuliano Cabitza) per vedere se si poteva fare “ancora” qualcosa per la Sardegna inondata dal “petrolio”.
«Sotto le alte rocce di Ollolai, sembravamo “congiurati”, “rivoluzionari” ed eravamo, invece, bravissime ed “innocue” persone che, al di là delle parole, non avevano altre armi per cacciare lo “straniero”. Antonio Simon Mossa mi parlò dei Baschi, degli Irlandesi, dei Canadesi del Quebec: credeva fermamente all’esistenza di una “gente sarda” che popola la terra di Sardegna. Non potei fare a meno di dirgli che esistono le “classi”, all’interno della “gente sarda”, che vogliono cose differenti. Dissi che noi, Sardi, non siamo i “fiori del male” ma siamo i “fiori nel male”.
«Il “male” è la struttura economica della società borghese e il «fiore» non può non essere che “malefico”: modifichiamo le strutture e nasceranno altri “fiori”. Dissi: Noi sardi non siamo né schiavi né liberi: siamo bastardi, “canes de isterzu”. Antonio Simon Mossa mi guardò, addolorato, veramente addolorato: sembrava un capo tribù nuragico che, dopo essere scampato ai cani mastini dei consoli romani, ai cavalli verdi degli alcaldi aragonesi, alle forche del conte Bogino, alla “caccia grossa” del colonnello Bechi, ai mazzieri di Giolitti, ai manganelli di Mussolini, stesse per tirare le cuoia affogato nel “petrolio”. Non l’ho più rivisto. è giusto che, ora, sopra la sua tomba (“sa losa”) metta questo “inno”».
Ricordo che durante il viaggio di ritorno da Ollolai a Sassari, Antonio Simon Mossa, profondamente deluso e amareggiato dall’esito di quell’incontro, non riuscendo più a contenere il suo disappunto, ad un tratto così sbottò: «Come hai avuto modo di constatare, caro Giampiero, ancora una volta le ideologie d’Oltremare, quasi per una maledizione biblica, risultano essere del tutto perniciose per gli intellettuali isolani e per i Sardi, in generale – che gli spagnoli, a ragion veduta, consideravano pocos, locos y male unidos (pochi, stolti e disuniti) – in quanto impediscono loro di ritrovare innanzitutto quella coesione nazionale e sociale che è assolutamente indispensabile per conquistare l’Indipendenza e affrancarsi definitivamente dal colonialismo italiano, per poi tornare ad aggregarsi – una volta liberatisi – in base alle rispettive visioni del mondo e della società sarda, in quelle formazioni politiche (progressive, moderate o conservatrici) che dovessero essere più congeniali alle loro sensibilità in campo sociale, e al loro modo di vivere, di pensare, di agire e di vedere le cose».
Nella poesia di Francesco Màsala, intitolata Subra sa losa de Antoni Simon Mossa-Paralipomeni all’inno sardo contro i feudatari, ovvero del colonialismo vecchio e nuovo si parla del fatto che «col Piano di Rinascita / i soldi vanno a Milano», delle «case del petrolio / di Sarrock e Portotorres» e del «lavoro da catena» degli operai petrolchimici, dei minatori di Carbonia che lavorano «per un po’ di silicosi / dentro i pozzi acquitrinosi», dei pastori di Pratobello che vanno «allo sbaraglio» e che devono stare «attenti all’artiglieria / che fa i tiri sul bersaglio», dei grassatori di Barbàgia che «nelle banche dei padroni / si nascondono i milioni», dei muratori di Gallura che dopo aver costruito «case d’oro» per l’Aga Khan vanno a coricarsi «sulla paglia», degli emigrati di Sardegna «nelle fabbriche di guerra / di Germania e d’Inghilterra», e dei «politici di Sardegna / pochi, stolti e male uniti».
La visione di Antonio Simon Mossa appare comunque lontanissima dal ridimensionamento che Màsala operava intorno al patrimonio storico della comunità isolana, e dal misconoscimento di Sa die de sa Sardigna (che i sardi considerano invece come la loro vera “Festa nazionale”), quale è emerso anche di recente attraverso alcune distruttive polemiche. Ciò – sia ben chiaro – va affermato con tutto il rispetto dovuto alla personalità dello stesso Masala.
L’architettura mediterranea e la sua visione di un’idea
Antonio Simon Mossa fu un valente urbanista e un arredatore d’interni, nonché uno studioso di problemi dell’insediamento umano, un disegnatore e un geniale architetto dotato di una scalpitante e irrefrenabile fantasia – in virtù della quale creò una forma compositiva inedita, la cosiddetta architettura mediterranea – che per la sua naturalezza incontrò il favore dei committenti.
Architettura nella quale fuse in modo impeccabile, piacevole ed armonico i sette «moduli costruttivi» dell’isola con alcuni elementi architettonici delle abitazioni catalane, castigliane, andaluse, arabe e africane. Moduli, che sono ampiamente descritti nel libro di Vico Mossa, dal titolo: L’architettura domestica in Sardegna (Cagliari, Edizioni della Zattera, Aprile 1957), del quale si consiglia la lettura a quanti volessero approfondire di più l’argomento. Com’è noto, egli – laureatosi in architettura a Firenze nel 1941 – prediligeva l’architettura domestica a dimensione umana e l’impiego nelle sue creazioni architettoniche irrorate di calce, non solo del patio fiorito, dei loggiati con l’arco a pieno tondo, ma anche delle formelle maiolicate. Inoltre vi è da dire che la fantasia e il gusto di Antonio Simon Mossa si accordavano in modo perfetto con le esigenze e i problemi dell’arredamento.
Vico Mossa in L’architetto-La rivincita della fantasia, – articolo apparso nell’inserto speciale de “La Nuova Sardegna” del 18 agosto 1971, dedicato ad Antonio Simon Mossa a poco più di un mese dalla sua scomparsa – così scrisse: «Detestava l’architettura fascista che era sopravvissuta burocraticamente al fascismo; e irrideva a quanti scambiavano per moderno la semplificazione di forme in architettura». Al termine del lungo articolo appena citato sostenne: «Gli imitatori di quei ritmi arcuati sono andati via via moltiplicandosi, senza peraltro cogliere lo spirito che anima quelle forme. è auspicabile, per il buon ricordo dell’artista che le creò, che non si espandano ulteriormente in total guisa, onde non finisca per risultare stucchevole quanto finora è stata una trovata originale e gentile, d’un singolare mondo da favola. Poiché anche le belle favole occorre saperle raccontare».
5.0 – La riunione a Castelsardo con alcuni emissari dell’Aga Khan Karim
Nel febbraio del 1962, per tre giorni consecutivi si riunirono in “conclave” a Castelsardo – presso l’abitazione privata dell’imprenditore Guglielmo Capolino, che si erge a Punta Spinosa, una località panoramica dalla quale si domina il porto castellanese – gli architetti Antonio Simon Mossa, Jacques Coüelle, Raymond Martin, Michele e Giancarlo Busiri Vici, Leopoldo Mastrella, Madame Rohan, Luigi Vietti e lo scultore Giò Pomodoro, alla presenza mia e dell’imprenditore D’Agostino, titolare dell’omonima fabbrica di ceramiche, smaltate e decorate a mano, con stabilimenti a Salerno e a Terni.
Nel corso di quelle tre giornate vennero visionati e analizzati minuziosamente dagli emissari dell’Aga Khan Karim tutti i progetti realizzati dall’architetto Antonio Simon Mossa, comprese le diapositive delle opere già eseguite, e alcuni giorni dopo, per la sua genialità e la sua straordinaria bravura, venne chiamato a far parte dello staff di architetti della Costa Smeralda, che di lì a poco iniziò a riunirsi all’hotel Jolly di Olbia.
5.1 – Le opere architettoniche di Antonio Simon Mossa
Antonio Simon Mossa, nel corso della sua breve ma intensa vita terrena, realizzò una moltitudine di piacevolissime opere architettoniche, ad iniziare dalla Escala del Cabirol (la Scala del Daino), che è un’ardita e straordinaria scala a rampe di 670 gradini, costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso sul costone roccioso del promontorio calcareo di Capo Caccia, in territorio di Alghero, che s’erge a picco sul mare per circa 170 metri. Nelle sue viscere è racchiusa la famosa e caratteristica Grotta di Nettuno, il cui ingresso si apre a circa un metro di distanza dal livello del mare.
Si tratta di una scala perfettamente mimetizzata nell’ambiente circostante e quasi impercettibile dal mare, dalla quale si può accedere da terra all’Antro di Nettuno, anche quando le condizioni proibitive del mare non consentono l’accesso marino. Poi, sempre ad Alghero, progettò il Palàu de València e il Palàu del Sol; sorsero anche, sulla base dei suoi progetti, gli alberghi: Hotel Capo Caccia, Porto Conte, El Faro, Corte Rosada, La Lepanto, Coral, Punta Negra e Dei Pini in Alghero; l’Hotel Cala Reale a Stintino.
Progettò inoltre gli Hotel Mirage, Moresco, Dei Due Mari di Hoeffler, e il complesso residenziale di Guardia del Corsaro in Santa Teresa di Gallura; l’Hotel L’Altura a Palau; l’Hotel L’Abi d’Oru di Marinella in Olbia; gli Hotel Del Golfo e Villaggio La Plata in Sorso, lungo la così detta Riviera di Platamona; le ville Plaisant e Risso in Alghero, quest’ultima in località Lazzaretto; la villa Padùla in Fertilia; le ville: Riccardi, della Begum (moglie dell’Aga Khan), del geom. Scano e Fèrgusson in Arzachena; le ville: dello Svizzero, in località La Pelosa e Silvestrini a Stintino.
Ad Antonio Simon Mossa si devono pure la realizzazione di El cavall marí e la ristrutturazione ad Alghero del Molo vecchio di Turilli, nei pressi dei bastioni Colombo, ed un’altra serie di interventi nel centro storico; il piano regolatore generale del Comune; la progettazione e realizzazione dell’aerostazione di Alghero-Fertilia (quella «vecchia», per intenderci!, che l’allora Ministero dell’Aviazione Civile adottò come modello per la costruzione di una serie di piccoli aeroporti che vennero poi programmati, finanziati e realizzati nell’Italia Meridionale); la progettazione dell’ospedale civile e la realizzazione dell’ospedale marino; la casa di riposo per anziani, e le ristrutturazioni della cattedrale di San Francesco e della cupola della chiesa di San Michele; nonché la costruzione di svariati edifici condominiali con appartamenti residenziali di civile abitazione.
In Nùoro realizzò il Museo del Costume, e ristrutturò la chiesa di Santa Maria della Neve e la chiesetta della Solitudine (ove riposano le spoglie mortali di Grazia Deledda), per la cui messa in pristino si avvalse della collaborazione del pittore nuorese Giovanni Ciusa-Romagna; in Sorso costruì l’asilo «Catta», le scuole elementari e la scuola media, e ristrutturò la chiesa parrocchiale di San Pantaleo; in Sassari il Brefotrofio di viale delle Croci (ex ospizio per bambini abbandonati, che attualmente ospita alcuni uffici dell’Università).
Sempre a Sassari progettò la sede provinciale dell’Automobil Club Italiano; la ristrutturazione della chiesa di San Sisto e della chiesa di Sant’Apollinare; alcune eleganti ville padronali in San Pietro di Silki; diverse palazzine del Banco di Sardegna, e numerosi edifici di civile abitazione, tra i quali l’edificio «Las Floridas», nonché il bar «Pirino» (attuale bar Maraviglia), ove realizzò la scala che porta al soppalco, il bar Cafezinho e il bar Aroni tra corso Vico e piazza Santa Maria.
Intorno agli anni Sessanta progettò inoltre a Sassari con grande lungimiranza un’autostazione, che si sarebbe dovuta edificare nel giardino antistante l’emiciclo Garibaldi, ove attualmente sta per sorgere la stazione della Metropolitana di superficie. In Santa Teresa di Gallura progettò e realizzò la chiesetta di Capo Testa; provvide ad elaborare i piani regolatori dei Comuni di Padria e Thiesi; costruì la scuola media di San Gavino Monreale; in Olbia progettò la villa di Paolo Riccardi e tracciò e realizzò la strada litoranea, con piazzuole panoramiche, che, passando per Portisco, congiunge Olbia alla Costa Smeralda, per la cui società progettò il Borgo dei pescatori mai realizzato.
A Fertilia ristrutturò la chiesa parrocchiale di San Marco, il Belvedere a Mare e il centro storico; a Porto Raphael progettò la villa Raphael e le prime case di quell’insediamento turistico; in Siniscola alcune opere di interesse pubblico; in La Maddalena ristrutturò la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena, progettò e costruì le case popolari e il palazzo delle poste; in Valledoria la chiesa parrocchiale, in Laerru il palazzo comunale, in Nuoro gli alloggi popolari INA Casa.
In Alghero Antonio Simon Mossa si occupò anche della ristrutturazione della cattedrale di Santa Maria in piazza Duomo; della progettazione dell’Hotel Carlos V, di una villa nel Condominio turistico di Calabona, e del complesso edilizio-abitativo «L’asfodelo» di Gian Battista Muzio, figlio dell’avv. Muzio, che era il decano dei rotariani della Sardegna, e in Sorso della ristrutturazione di varie chiese.
A Platamona (Sassari) si interessò della progettazione della villa Padùla; a Perdasdefogu, in provincia di Nùoro, realizzò la residenza degli ufficiali; mentre in Santa Teresa di Gallura progettò il condominio turistico Benassi, all’interno del quale realizzò la villa Benassi, un’elegante ed ardita costruzione, edificata su più piani e a diversi livelli, sulle rocce a strapiombo sul mare. Inoltre studiò e realizzò per conto del Centro Regionale di Programmazione un progetto organico per il comprensorio agro-turistico della Costa orientale del Nord Sardegna, da Capo Coda Cavallo a Cala Luna, e pubblicò numerosi saggi sul turismo e l’architettura sarda, tra i quali mi piace soprattutto ricordare le Considerazioni sul turismo in Sardegna del 1966 e le Note sulla politica turistica (regionale) del 1969; nonché un libro intitolato: L’arquitectura gòtica catalana a Sardenya (L’architettura gotico-catalana in Sardegna), scritto a quattro mani da Antonio Simon Mossa con il collega catalano Adolf Florensa i Ferrer.
5.2 –Gli Enti Pubblici regionali e statali estromettono Antonio Simon Mossa da tutti gli incarichi professionali per la sua insofferenza a piegarsi alle pressioni politiche
Per le sue irriducibili posizioni ideologiche, il suo profondo attaccamento agli ideali di libertà e di indipendenza politica, economica, culturale e linguistica della Nazione Sarda – nonché per il suo rifiuto a piegarsi ai riti della politica praticata da una classe dirigente sarda che, ammantandosi di solennità nella forma, voleva apparire onesta, costumata e ligia alla morale sociale comune, ma che era solo ed esclusivamente succursalista e clientelare nella sostanza – Antonio Simon Mossa venne escluso da tutti gli incarichi professionali degli Enti Pubblici, ma non per questo si perse d’animo perché era pienamente cosciente della sua eccezionale abilità professionale. Abilità per la quale venne chiamato nel settembre 1961 dall’Aga Khan Karim a far parte dello staff di ingegneri e architetti che doveva progettare la Costa Smeralda.
Collaborazione prestigiosa, questa, che però interruppe alcuni anni dopo, quando si accorse che – una volta realizzato il nucleo storico della Costa, nel più assoluto rispetto dell’ambiente e del paesaggio – il Principe, forse in ciò spinto dagli altri finanziatori del Consorzio, mostrava in modo sempre più evidente di essere interessato ad avviare nell’isola una speculazione turistico-immobiliare di enormi proporzioni. Fatto, questo, che convinse il Nostro a ritirarsi dall’affare e a non presentare al Consorzio per il pagamento le sue parcelle professionali per i progetti commissionatigli, come pure a rifiutare sdegnosamente tutti gli emolumenti a lui spettanti.
In proposito va detto che Antonio Simon Mossa, nell’accettare «con riserva» il prestigioso incarico professionale e la collaborazione con il Consorzio Costa Smeralda, aveva posto alcune condizioni, tra le quali, in primo luogo, quella che tutte le ville non dovessero superare i sedici metri di altezza nella parte più elevata del tetto e i quattordici sul lato spiovente, che gli infissi dovessero essere in legno e che gli archi dovessero essere a tutto tondo. Le maestranze ricordano che egli in Costa si spostava dappertutto, a piedi, con al seguito l’Aga Khan, gli architetti Jacques Coüelle, i Busiri Vici, Raymond Martin, Luigi Vietti e un gruppo di operai che portavano con loro delle pertiche di 16 e 14 metri per stabilire l’altezza che dovevano avere le ville rispetto alle collinette.
5.3 – Alcuni giudizi espressi sulle sue creazioni architettoniche
La rivista madrilena “Arquitectura” nel n. 8-9 dell’Agosto-Settembre 1971 così ebbe a definirlo per la leggiadra genialità delle sue opere architettoniche, all’indomani della morte: «Antoni Simon Mossa ha estado el mejor arquitecto de la Italia centro-meridionale y uno de los mejores de Europa por la forma genial con que ha sabido proponer de nuevo, adaptándolo a los tiempos
modernos, el viejo y desusado estilo árabe-mediterráneo de las construcciones de arco y fundirlo a los siete modulos constructivos de las habitaciones de Çerdeña» («Antonio Simon Mossa è stato il miglior architetto dell’Italia centro-meridionale e uno dei migliori d’Europa per il modo geniale con cui ha saputo riproporre, adattandolo ai tempi moderni, il vecchio e desueto stile arabo-mediterraneo delle costruzioni ad arco e fonderlo ai sette moduli costruttivi delle abitazioni di Sardegna»).
Respingiamo invece il severo giudizio espresso da Richard Price in una sua monografia sul turismo in Sardegna, dal titolo: Una geografia del turismo: paesaggio e insediamenti umani sulle coste della Sardegna – pubblicata per conto del Formez (Tipografia G. Gallizzi srl, Sassari, 1983), con Introduzione di Fernando Clemente, e traduzione, dall’inglese in italiano, a cura di Manlio Brigaglia – sul ruolo svolto dall’architetto Antonio Simon Mossa con le sue opere architettoniche. Esso ci appare del tutto frettoloso, superficiale e fondamentalmente errato (oltreché dettato da taluni insipienti ingegneri e architetti sardi di cui Price si circondava, privi totalmente di creatività, e perciò stesso invidiosi della fama che al Simon derivava dalla sua bravura professionale).
Egli attribuisce al Nostro soprattutto quelle creazioni di cattivo gusto progettate da alcuni suoi incapaci e pedestri imitatori, anziché prendere in esame il progetto urbanistico del Borgo dei Pescatori che sarebbe dovuto sorgere in Costa Smeralda, l’architettura delle ville, delle chiese, e delle costruzioni di edilizia abitativa e dei numerosi complessi alberghieri realmente progettati dal Simon in tutta l’isola, ove compaiono sia l’arco decorativo «a tutto tondo» sia i cortili delle lolle campidanesi, nonché i tetti realizzati con le tegole sarde arcuate o coppi.
Per approfondire al riguardo l’analisi e il giudizio rinviamo alle qualificanti relazioni di Vanni Maciocco, Stefano Gizzi, Giuseppe Bertulu, Franco Masala, Giovanni Oliva e Giovanni Pigozzi.
5.4 –Antonio Simon Mossa e la sua battaglia ecologista in difesa dell’ambiente, della natura e del territorio dell’isola
Antonio Simon Mossa nel numero 11 della rivista «Realtà del Mezzogiorno» (edita nel novembre del 1969 a Roma da De Luca Editore), pubblicò un suo saggio dal titolo: Note sulla politica turistica operata dal Governo Regionale Sardo nel ventennio precedente, «sia direttamente, cioè attraverso i suoi organi istituzionali, o indirettamente, mediante gli istituti collaterali e le incentivazioni». Egli manifestò, da quel grande ambientalista ed ecologista ante litteram qual era, con estrema chiarezza e nei termini seguenti il suo pensiero in ordine all’esigenza di salvaguardare le coste e i centri abitati dell’isola dalla speculazione edilizia e dall’aggressione selvaggia del cemento:
«In Sardegna le risorse paesistiche sono notevoli tanto sulle coste come nell’entroterra, cui è doveroso aggiungere l’aspetto dei nuclei abitati ad insediamento antico, che si inserisce stupendamente nelle zone di maggior interesse. Il pericolo di aggressione al paesaggio, dal quale ci si difende con i piani territoriali paesistici, rappresentato dall’avanzata del cemento è presente in Sardegna tanto sulle coste e nei territori vergini, quanto nei nuclei abitati, ove un’edilizia e un’urbanistica balorde stanno lentamente distruggendo i valori ambientali più genuini. Sulla conservazione di tali risorse che hanno per il turismo un valore incalcolabile, l’amministrazione regionale non ha dimostrato, almeno sino ad oggi, alcuna particolare sensibilità. Ma nemmeno, purtroppo, le stesse Soprintendenze ai Monumenti e Gallerie hanno saputo difendere tali elementi di paesaggio umano, preoccupandosi quasi esclusivamente del paesaggio naturale e di qualche monumento sparso.
«Riteniamo, al contrario, che proprio il paesaggio urbano che si è conservato in moltissime località, soprattutto in quelle a vocazione turistica, debba essere difeso con vincoli assai forti, come del resto hanno proposto in tutto o in parte gli stessi piani turistici regionali. Con la politica dei nuovi programmi di fabbricazione, resi obbligatori dalla Legge 765, non vi è dubbio che si corre il rischio, ove le Soprintendenze e il Governo Regionale non agiscano di conserva e in perfetto accordo, di snaturare completamente alcune zone di interesse notevolissimo, in cui, come dicevamo, il paesaggio umano costituisce il necessario complemento di quello naturale. Tale problema non è stato nemmeno sfiorato in campo assembleare, e ciò perché miraggi di sviluppo economico, su rapporto sbagliato, in quanto basato su raffronto con altre zone del continente aventi caratteristiche completamente diverse, hanno accecato del tutto il “visus” dei consiglieri regionali, facendo loro dimenticare, se non ignorare, risorse di tipo differente, ma altrettanto valide per lo sviluppo dell’economia isolana.
«Se nella nuova legge urbanistica non si terrà nel dovuto conto la difesa ambientale, necessario corollario urbanistico (a parte i conflitti di competenza tra Stato e Regione), si continuerà ad operare in modo negativo, in quanto verranno cancellate molte delle risorse che invece appaiono fondamentali, anche se complementari a quelle del paesaggio naturale. Ma la politica turistica regionale dovrà soprattutto articolarsi in un approfondimento dei problemi economici direttamente e indirettamente legati al turismo, all’organizzazione in parallelo dei trasporti e della ricettività, alla programmazione delle opere infrastrutturali secondo scale prioritarie chiaramente precisate e in rapporto al piano di sviluppo globale, al coordinamento generale di tutte le attività connesse col turismo».
6.0 – Conclusioni
Con la presentazione di questo importante volume degli atti del convegno su Antonio Simon Mossa, celebratosi a Sassari il 10-13 Aprile 2003 sotto la presidenza di Federico Francioni, mi auguro che finalmente la figura di questo grande intellettuale ed eminente uomo politico vissuto nel secolo scorso, al quale mi legava sia un rapporto di profonda amicizia e di sincero affetto sia una totale condivisione del suo pensiero politico, riemerga alla Storia della Sardegna dall’oblio nel quale è stato deliberatamente cacciato ad opera di intellettuali subalterni, da sempre nemici – dichiarati e conclamati – della Cultura e della Lingua Sarda, da essi considerata «arcaica», «rozza», «passatista», e incapace di veicolare la cultura moderna.
Ecco quanto sosteneva in quel lontano 1969 (e precisamente nella giornata del 22 giugno, in San Leonardo di Siete Fuentes) Antonio Simon Mossa, con grande lucidità e lungimiranza: « [...] Non vi è che la strada della verità, da percorrere sino in fondo. Quella strada sulla quale si sono incamminati da tempo altri popoli, come i Baschi, i Curdi, i Gallesi, gli Scozzesi, i Brètoni, i Catalani, i Làpponi e gli stessi Còrsi: popoli che resistono con ostinazione disperata alla prepotenza dei governi oppressori, e nella loro resistenza tenace e spesso eroica – che assume forme diverse a seconda del grado di civiltà e della situazione politica generale dei loro paesi – ottengono successi sempre più clamorosi. Ma quei popoli sono guidati nella lotta da minoranze vivaci, colte, intelligenti, decise, coraggiose. Minoranze che a poco a poco creano una opinione pubblica favorevole, minoranze e nuclei attivi che riescono a risuscitare e rianimare la coscienza di popoli ormai stanchi di servire e soffrire, di popoli senza speranza, come il Popolo Sardo».
Ed ancora: «Ma sino a che non daremo un contenuto socialmente avanzato a questa lotta, sino a che non chiariremo a tutte lettere quali dovranno essere le condizioni della nostra società futura, sino a che non definiremo con decisione i precisi termini di una pianificazione realistica e – allo stesso tempo – avveniristica, nessuno dei sardi potrà darci ascolto, né potrà credere alla nostra sincerità. In quanto noi continueremmo a esprimerci in un linguaggio che per loro sarà incomprensibile, in quanto modellato su quello dell’oppressore: un linguaggio privo di chiarezza e ricco di demagogico paternalismo: quello stesso linguaggio di una classe di oppressori che niente altro trovano che servire le ideologie e i mezzi di governo di importazione...».
Ed inoltre nel 1967, il 10 giugno, in un convegno di indipendentisti in Ollolai, nella Barbàgia: «Ciò che è ben grave è il fatto che in larghissima parte degli intellettuali sardi si sia radicata l’idea che l’integrazione è ineluttabile e indispensabile perché la Sardegna risorga. Se la nostra storia fosse stata parallela a quella italiana per un lungo periodo, se la cultura della nostra gente fosse identica a quella italiana, se le tradizioni e la lingua fossero state le stesse della vicina Italia, se i presupposti di sviluppo economico avessero coinciso con quelli italiani, allora l’integrazione sarebbe stata indispensabile, ma soprattutto saggia. Ma in tal caso non avremmo potuto parlare di una Comunità Etnica Sarda, e le nostre condizioni (anche se di meridionali depressi) sarebbero state assai differenti, e tutti questi problemi, tutte queste riserve, non si sarebbero mai posti».
Ed infine: «In realtà, dopo quasi duecentocinquanta anni di dominio italo-piemontese l’integrazione non è avvenuta, non ostante la costante opera di spersonalizzazione e snazionalizzazione compiuta dai piemontesi prima e dagli italiani in seguito. Non è colpa nostra (e potrebbe essere anche la nostra sventura) se noi non siamo italiani e non potremmo mai esserlo. Ma non dimenticate che la cultura ancestrale non si uccide se non si uccide materialmente ogni uomo di quel popolo. Avete visto gli Ebrei? Mi direte: altra cultura, altra civiltà, altra spiritualità. Sì, questo è vero. Ma il principio è identico. Storicamente siamo una Comunità Etnica distinta e omogenea, e in nome di questa realtà reclamiamo i nostri diritti non solo di fronte all’Italia, ma a tutto il mondo civile».
A questo punto la domanda che mi pongo è la seguente: come mai una personalità di tanta intelligenza e di così alto ingegno è stata pressoché dimenticata o non adeguatamente valorizzata dagli intellettuali accademici ed “ufficiali”? Forse – io credo – le sue intuizioni politiche, culturali, linguistiche e letterarie erano troppo avanti rispetto ai tempi e controcorrente, perché qualcuno le potesse recepire. Ed è per questo che la sua figura e le sue geniali intuizioni nei fatti sono state a lungo oscurate.
Ma egli fu il leader indiscusso e incontrastato della componente nazionalitaria e indipendentista del Partito Sardo d’Azione e un caposcuola le cui idee si diffusero lentamente, e progressivamente – tra gli studiosi e i cultori della Lingua Sarda e della cultura del Popolo che la parla, tra gli intellettuali e gli operatori culturali, e tra i politici impegnati nel cambiamento delle condizioni economiche, sociali, culturali e ambientali della nostra isola, e maggiormente aperti e sensibili alle tematiche identitarie – fino a permeare in profondità l’intera società sarda.
Sulle orme del suo magistero nacquero alcuni circoli politico-culturali, quali «Città-Campagna» e il «Circolo giovanile di Orgòsolo». Dopo la Sua scomparsa si formarono altre associazioni politico-culturali e sindacali, emittenti radiofoniche libere (anticolonialiste e di controinformazione politica), circoli, organizzazioni e movimenti politici, nonché partiti e periodici di ispirazione “sardista”, anticolonialista e nazionalitaria, indipendentista e identitaria, etnofederalista ed antimperialista, che determinarono sul finire degli anni sessanta e seguenti – con l’abbandono della Questione sarda per la “Questione nazionale sarda” – la nascita del cosiddetto Terzo Sardismo, o “Neosardismo” che dir si voglia.
Circoli, associazioni, radio libere, organizzazioni, movimenti e partiti politici che propugnavano le stesse tematiche portate avanti da Antonio Simon Mossa, quali il riconoscimento della Nazione Sarda e del suo idioma materno come prima lingua nazionale del Popolo Sardo, la difesa della cultura etnica, il ricupero dell’Identità nazionale dei Sardi, la rivendicazione per questa nostra Terra di un «Federalismo delle Nazionalità», l’ottenimento di un nuovo Statuto di Autonomia Statuale della Sardegna (da strappare a Roma), con i più ampi poteri decisionali nell’ambito di una Repubblica Federale Sovrannazionale. Tali organismi, come è noto, si proponevano di raggiungere gli stessi obiettivi, o quantomeno finalità analoghe, ma con accenti e modalità diversi.
Ma ora che ci stiamo avvicinando all’alba del 2005 tutto ciò che disse Simon Mossa nei lontani anni Sessanta del secolo scorso, in ordine alla Lingua Sarda, alla battaglia ecologista in difesa della natura, dell’ambiente e del territorio della Sardegna, alla creazione di un grande e organizzato Movimento indipendentista della Nazione Sarda in grado di condizionare tutti i partiti – «sardo-nazionali» o «italo-succursalisti» – operanti nell’isola, alla Confederazione Europea dei Popoli e non degli Stati, e alla formazione di un Sindacato Nazionale dei Lavoratori Sardi, nonché lo stesso giudizio da lui espresso sugli Stati ottocenteschi europei, che considerava come delle carcasse storiche del ventesimo secolo da abbattere, e dalla cui ceneri far nascere la nuova Europa dei Popoli e delle «Nazioni senza Stato», ha il sapore delle profezie che si avverano.
Ed è per questo che nel Convegno – come pure all’indomani della sua morte – molti intellettuali, uomini di cultura, architetti, giuristi, scrittori, storici, letterati, linguisti, giornalisti, politici, sindacalisti ed economisti (italiani, sardi e catalani), forse ricredendosi, hanno voluto commemorare questo intellettuale scomodo per i tempi, nel modo più degno possibile. Per quel che riguarda me, e tutti coloro che hanno creduto e che continuano a credere nelle sue idee, mi auguro che la sua eredità professionale, politica e culturale diventi una sorta di “stella polare” cui possano guardare tutti i popoli oppressi del mondo e le Nazioni senza Stato, da sempre in lotta per decidere liberamente il proprio destino.
Giampiero Marras
Florinas, 2
Convegno, quello sopra richiamato, che si poté realizzare, grazie soprattutto alla sensibilità politico-culturale e al concorso finanziario della Presidenza del Consiglio Regionale della Sardegna, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Sassari (capofila della «Consulta»), e dell’Assessorato alla Cultura della Regione Autonoma della Sardegna, nonché con il prezioso contributo della Fondazione “S’Iscola Sarda” e con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Sassari e della Facoltà di Architettura, sede di Alghero dell’Ateneo turritano, cui va la nostra più viva e profonda gratitudine.
A tale importante Convegno il 7 aprile 2003, il Presidente della Generalità di Catalogna, Jordi Pujol i Soley fece pervenire, per il tramite del professor Pere Català i Roca – con una lettera su carta intestata del Governo catalano indirizzata al sindaco di Sassari, il prof. Gian Vittorio Campus – la sua adesione istituzionale, «que constitueix un merescut homenatge e reconeixement a la figura de Antoni Simon Mossa», come egli stesso ebbe modo di manifestare in quel breve e commosso messaggio.
Lo scopo di questa raccolta è chiaro: tramandare ai posteri la figura di Antonio Simon Mossa, sottraendola ad un lungo e ingiustificato oblio, attraverso quanto è stato messo in evidenza nei loro interventi (una cinquantina) dai vari relatori, nel corso delle sei sessioni di studio in cui si articolava il Convegno, svoltosi a Sassari per quattro giorni consecutivi, dal 10 al 13 aprile 2003, presso l’ampio ed elegante Salone delle Conferenze “I Candelieri” dell’Hotel Grazia Deledda, e da me in un libro di circa trecento pagine, licenziato il 17 febbraio 2002, dal titolo: Antonio Simon Mossa visto da vicino, dal 1960 fino all’anno della sua morte, con Introduzione del professor Giovanni Lilliu, accademico nazionale dei Lincei e archeologo di fama internazionale (Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, Marzo 2003).
Delle sei sessioni del Convegno di Studi, di cui tre antimeridiane e tre pomeridiane (che sono state filmate «a futura memoria» dalla Aservice group di Cagliari, una società di comunicazione e immagine, e riprodotte in altrettante videocassette), la prima venne riservata alle «Testimonianze e Attualità», la seconda a «L’Intellettuale e il Giornalista», la terza ad «Antonio Simon Mossa tra lingua, cultura e letteratura», la quarta ad «Antonio Simon Mossa tra Sardismo nazionalitario e Federalismo», la quinta ad «Antonio Simon Mossa per il riscatto economico e sociale della Sardegna», e la sesta ed ultima alle «Opere architettoniche di Antonio Simon Mossa: visione di un’idea». Al termine di ciascuna sessione venne inoltre aperto un dibattito tra i relatori e i presenti – che fu particolarmente animato – a cura del professor Federico Francioni, che ne presiedette e diresse sapientemente i lavori.
Nei loro interventi, i relatori hanno avuto modo di scandagliare i vari aspetti della poliedrica personalità del grande intellettuale sassarese, anche se non di nascita (ma allo stesso tempo algherese per sua libera scelta), scomparso nel 1971, che fu non solo il primo etnolinguista sardo del XX secolo, ma anche il «Padre del Risorgimento nazionale dell’Isola» e del rifiorimento della Lingua Sarda e delle sue varianti linguistiche, nonché delle varie parlate alloglotte, nessuna esclusa, presenti nel territorio nazionale sardo.
D’altro canto, con la stesura della presente nota introduttiva, ad integrazione e a complemento di quanto già da me esposto nel libro appena citato, intendo ora dare un ulteriore mio contributo personale, portando a conoscenza dei politici, degli intellettuali, degli studiosi e dei giovani sardi che ancora lo ignorano, alcuni aspetti della straordinaria figura di quel grande intellettuale ed eminente uomo politico che fu Antonio Simon Mossa, da me involontariamente trascurati nel testo dato alle stampe.
L’impegno di Antonio Simon Mossa nel giornalismo radiofonico
Antonio Simon Mossa, come è noto – oltre che sulla carta stampata – svolse anche un ruolo molto importante in Radio Sardegna, la prima emittente libera del Mediterraneo e dell’Europa continentale, nata come radio mobile il 10 ottobre 1943, poco più di un mese dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, su un vecchio autocarro militare dismesso e mezzo sgangherato, già utilizzato dall’Esercito per le trasmissioni radiotelegrafiche. Autocarro che si spostava di continuo da un paese all’altro dell’isola per diffondere giornalmente un «Notiziario-radio», che era alternato con le note musicali della «Cavalcata delle Valchirie», scandite da un vecchio disco in vinile a 78 giri, ormai usurato e gracchiante.
Il sogno più grande di Antonio Simon Mossa era, comunque, quello di rendere la Radio dei Sardi del tutto autonoma dallo E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), se non addirittura indipendente come Radio Andorra – la radio dell’unico Stato al mondo la cui lingua ufficiale è il catalano – per farla divenire «un’emittente assolutamente libera in una Sardegna finalmente liberatasi dal giogo coloniale italiano, e con una propria soggettività statuale, riconosciuta internazionalmente, non solo per i sardi, ma per tutti i popoli del Mediterraneo, sottraendola in tal modo all’odioso, occhiuto e soffocante controllo monopolistico dell’ente radiofonico di Stato gestito dal padrone d’oltremare», contro il quale lottò con tutte le sue forze, ma purtroppo invano!, per la cecità politica di quella che sarebbe divenuta la futura classe dirigente locale dei Partiti colonialisti e centralisti italiani, dei quali era ed è vergognosamente succube, subalterna e succursalista.
Sulla vicenda di Radio Sardegna è comunque consigliabile la lettura di un interessante saggio di Simona De Francisci, dal titolo: La Voce della Libertà. Un contributo alla storia di Radio Sardegna, pubblicato nel 1992 dalla STEF di Cagliari per conto della «Fondazione Sardínia», dal quale si evince con estrema chiarezza il forte impegno politico-culturale profuso dall’architetto Antonio Simon Mossa per la difesa ad oltranza dell’autonomia della Radio dei Sardi, l’emittente diretta da Armando Rossini, che fu la prima «radio autonoma e veramente libera» a sorgere in Italia, e che – oltre ad attingere notizie di prima mano da Radio Algeri e Radio Londra, e ad intercettare i dispacci della Reuter – faceva informazione locale con grande professionalità e obiettività.
1.0 – «Radio Sardegna Libera»: il sogno di Antonio Simon Mossa
Quella stessa emittente aveva stabilito la sua prima sede di fortuna in una grotta del comune di Bortigali, in provincia di Nùoro, ove era di stanza il Comando generale per la Sardegna delle Forze Armate Italiane. Antonio Simon Mossa era divenuto redattore-capo della redazione turritana, della quale facevano parte, oltre ad Antonio Santoni Rúgiu, anche altri due o tre corrispondenti che collaboravano alla messa in onda della «Gazzetta Sassarese», (un settimanale di 45 minuti, ricco di notizie locali, interviste e rubriche, sia di arte sia di cultura, che si era dotato da subito anche di una rubrica fissa in catalano).
Bene, quella radio annunciò al mondo – grazie anche alle potenti apparecchiature radiofoniche fornite dalla Psycological Warfare Branch-PWB, l’«Agenzia per la Guerra Psicologica» dell’Ufficio Stampa e Propaganda del Comando delle Forze Militari Alleate – l’inizio della liberazione dell’Europa dall’occupazione nazifascista, sia in catalano che nelle altre lingue minoritarie dell’Occidente Europeo e del bacino del Mediterraneo. Così mi riferirono più avanti negli anni i miei genitori ed inoltre Ferruccio Oggiano, Antoneddu Bua, Ovidio Addis, Antonino Càmbule, il generale Antonio Tedde, Bartolomeo Sotgiu-Pesce, Giangiorgio Casu e il giornalista Milvio Atzori.
Radio Sardegna ai primi del mese di gennaio del 1944 trasferì poi la sua sede nazionale a Cagliari, nelle grotte di Tuvixeddu in località Is Mirrionis che sul finire di quello stesso anno venne assorbita dalla RAI-Radio Audizioni Italiane. Sempre dai microfoni di quella stessa emittente, sia sulla lunghezza delle onde medie sia di quelle corte, Antonio Simon Mossa (il quale era anche un collaboratore fisso delle emissioni cagliaritane, oltre che un amico personale del direttore della RAI-Sardegna, Amerigo Gomez, da lui conosciuto a Firenze) trasmise – per incarico del generale Pietro Pinna-Parpaglia, alto commissario per la Sardegna, investito di ampi poteri sia civili che militari – una lunga serie di messaggi criptati indirizzati ai nostri soldati impegnati al fronte e nella Resistenza.
Va ricordato inoltre, per la cronaca, che Radio Sardegna l’8 maggio del 1945, interrompendo un programma di musica leggera e anticipando di ben 20 minuti la mitica BBC, fu la prima emittente europea – come m’ebbe a dire Antonio Simon Mossa – a dare (a seguito della resa incondizionata offerta dalla Germania nazista agli Alleati che, a Reims, pose termine alla seconda guerra mondiale), lo storico annuncio che la Germania nazista era caduta, e che la guerra era finita, attraverso la voce concitata di un suo speaker; come anche fu la prima, precedendo di ben 10 minuti Radio Londra, a dare la notizia della liberazione, da parte dell’Armata Rossa, di Kiev, la capitale dell’Ucraina, grazie anche all’intercettazione di un flash d’agenzia della Reuter, operato dai suoi radiotelegrafisti. Si vedano in proposito le relazioni di Antonio Santoni Rugiu, Manlio Brigaglia, Vindice G. Ribichesu, Pino Careddu e Mario Melis.
Antonio Simon Mossa visita le «Nazioni senza Stato» e le «Comunità Etniche» d’Europa
Antonio Simon Mossa fu un poliglotta e un viaggiatore colto e attento alle problematiche delle comunità etniche europee e di tutti i popoli oppressi del mondo. Egli effettuò viaggi di studio e di presa di contatto con tutti i maggiori esponenti dei partiti e dei Movimenti (più o meno clandestini) di liberazione nazionale d’Europa, nonché con linguisti, intellettuali e scrittori delle Nazioni senza Stato, e con i rappresentanti dei principali Sindacati Etnici Europei da lui conosciuti personalmente, con i quali intrattenne stretti contatti telefonici ed epistolari. Essi sono stati da me segnalati nel libro più sopra ricordato, intitolato Antonio Simon Mossa visto da vicino. Insieme fummo nel 1964 in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia, nonché in Occitania, in Bretagna e in Alsazia. E nel 1965 tra i Fiamminghi, oltreché nel Galles e in Scozia, e nel 1967 nella Frìsia (Olanda). Al riguardo si rimanda ai contributi di Giovanni Lilliu, Antonio Ballero De Candia, Sergio Salvi e Gustavo Buratti.
2.0–Escursione in Corsica nei luoghi ove Antonio Simon Mossa prestò servizio militare
Nell’aprile del 1960 Antonio Simon Mossa ed io ci recammo in Corsica, ove trascorremmo una decina di giorni a ripercorrere i luoghi, in mezzo ai boschi e alle marine mozzafiato, tra Alèria e Bastia, in cui Antonio Simon Mossa aveva prestato servizio militare, come sergente, tra i cineoperatori di guerra del Genio Militare dell’Esercito.
Mi presentò, quindi, alcuni intellettuali còrsi, tra i quali: Petru Rocca, fondatore della rivista «A Muvra» («La Mufla», che è la femmina del muflone), il quale – essendo un irredentista filo-italiano – andava sostenendo che «il còrso è un dialetto dell’Italia, non una lingua di Francia»; Petru Ciabatti, fondatore del mensile della lingua e delle tradizioni còrse «U Muntese» («Il Vento montano», «che soffia in ogni paese» della Còrsica, e che – a seconda che salga o scenda lungo i pendii dei monti – è caldo o freddo), all’epoca un indipendentista dichiarato, morto il 7 giugno del 1966, il quale sosteneva che «la lingua còrsa è la lingua della Nazione e del Popolo Còrso»; e diversi storici di «Études Corses», una rivista trimestrale di storia ed altro, edita dalla «Société des Sciences Historiques et Naturelles de la Corse».
Ed ancora: Fernandu Ettori di Santa Lucia di Porto Vecchio, docente di lingua còrsa presso l’Università di Aix-en-Provence; Gisèle Poli, Ghjannettu Notini, Paulu Arrighi, Ghjacintu Yvia Croce, Antone Flori, Ghjacumu Simonpoli, Peppu Flori, Renè Peroni, Ghjuan Batista Stromboni, Ignaziu Colombani, Carulu Giovoni, Geneviève Moracchini-Mazel, Renè Emmanuelli, e Jean Marie Arrighi, nonché alcuni studenti di Giuventù còrsa, quali: Jean Baggioni, Jean-Jacques Albertini, Dominique Geronimi, e René Coti, che studiavano presso le Università di Nizza, Marsiglia, Aix-en-Provence e Grenoble, e che nel 1967 dettero vita all’ARC-Azione di a Rinascita Còrsa, un’associazione culturale dalla quale, poi, scaturirono – nel corso degli anni Settanta – altre organizzazioni culturali, di cui alcune particolarmente importanti.
Sette anni dopo, e precisamente il 10 giugno del 1967, Antonio Simon Mossa – in ordine al grado di coscienza nazionale rilevato all’epoca in Còrsica, e verificato a più riprese negli anni successivi – così scriveva: «I Còrsi non hanno alcuna coscienza etnica. Si sentono francesi, anche se di lingua sono italiani». Ma poi in parte si correggeva: «(Quella còrsa) è una minoranza che per due terzi vive fuori dalla Còrsica. Una minoranza decaduta, che ha dato alla Francia un enorme numero di caduti nelle due guerre mondiali. Una minoranza però che, di recente ha chiesto l’autonomia speciale. Una minoranza quindi che, almeno in parte, ha la coscienza di esserlo».
è perciò alla Federazioni Culturali «Scola Còrsa» di Corti – nata nel 1972 per impulso del professor Ghjuan Batista Stromboni, sull’esempio della Federazione Culturale «Iscola Sarda» di Sassari, fondata il 14 ottobre del 1969 da Antonio Simon Mossa – che si deve soprattutto il risveglio nei Còrsi della coscienza etnica. Coscienza che ha spinto il Popolo Còrso, tra la prima e la seconda metà degli anni Settanta, a lottare per la lingua e per la liberazione nazionale, politica e culturale della Còrsica, come pure per la riapertura a Corti dell’Università «Pasqual Paoli» che era stata chiusa dalla Francia dopo il 1769.
Alla Federazioni Culturali «Scola Còrsa» si deve anche la promozione, a partire dall’agosto del 1973 e fino all’agosto del 1981 – insieme alla Federazione degli Studenti Còrsi del Sud-Est della Francia e ad alcuni docenti del «Centro di Studi Còrsi» della Facoltà di Lettere Moderne e Romanze di Aix-en-Provence – della Università estiva di Corti, che contribuì alla nascita nell’isola di una vera e propria Università degli Studi, ove da allora si tengono corsi regolari di studio, la quale venne aperta ufficialmente nell’isola il 26 ottobre del 1981.
Invece le prime mobilitazioni nazionali in Còrsica si ebbero soltanto nel 1975, e precisamente il 21 agosto, allorquando per i «Fatti di Alèria» venne incarcerato Edmond Simeoni, che fu condannato a cinque anni di reclusione, dei quali scontò solo 509 giorni. Venne liberato infatti il 22 gennaio 1977, e da allora in poi si verificarono nell’isola – promosse dagli indipendentisti dello FLNC-Fronti di Liberazioni Naziunali di a Còrsica e dagli autonomisti dell’APC-Associazioni di i Patrioti Còrsi – una lunga serie di attentati, cui seguirono rappresaglie, carcerazioni, scioperi e manifestazioni di protesta e di sostegno ai patrioti còrsi reclusi, che portarono alla conquista di uno Statuto politico d’Autonomia.
Infine, nell’estate del 1977, si consumò una rottura tra l’APC e lo FLNC, e si produsse inoltre una scissione nell’APC, dalla quale – il 17 luglio di quello stesso anno – nacque l’UPC-Unioni di u Populu Còrsu con sede centrale a Bastia. Sorsero poi negli anni altri movimenti indipendentisti, tra i quali la Cuncolta, l’Accolta e Corsica Nazione. Quest’ultima organizzazione nacque nel 1992, e si rifece – adattandoli alla particolare situazione della Còrsica – allo Statuto e al Manifesto politico-programmatico della seconda formazione politica sardista-indipendentista, nazionalitaria ed etnofederalista sorta in Sardegna dopo il MIRSA, denominata OSSN-Organisassyone Sotzialista «Sardínnya Nassyone», che venne fondata a Sassari nel lontano settembre del 1976 dall’estensore della presente nota e dall’amico Antonio Lépori di Càgliari ed altri.
2.1–Antonio Simon Mossa visita il grande complesso carcerario di «Torrero», nella città di Saragozza, ove era detenuto Jordi Pujol i Soley
Nel mese di maggio del 1961 Antonio Simon Mossa ed io ci recammo in Catalogna, ove ci trattenemmo non più di una settimana, per rendere visita al futuro leader della CDC (Convergència Democràtica de Catalunya, nata nel novembre del 1974), Jordi Pujol i Soley, «nazionalista e patriota catalano» di primissimo piano che molti anni dopo verrà eletto Presidente della Generalitat de Catalunya. Egli era detenuto nel grande Complesso carcerario di Torrero (che sorge sul monte omonimo, nella città di Saragozza). Carcere, quello di Saragozza, in cui venne imprigionato il 24 maggio 1960 e condannato in tempo di pace il 13 giugno di quello stesso anno a sette lunghi anni di detenzione da un Consiglio di Guerra di un tribunale militare, anziché da un tribunale penale ordinario, con l’accusa di ribellione allo Stato spagnolo e di vilipendio al suo capo supremo, il generalissimo Francisco Franco Bahamonde.
Arresto dovuto al fatto che il 19 maggio del 1960 – in presenza di alcune personalità franchiste, tra cui i ministri Camilo Alonso, Solís, Ullastres e Rubio García-Mina – Jordi Pujol i Soley intonò coraggiosamente, in omaggio a Joan Maragall, autore del testo poetico musicato da Lluís Millet, durante una festa al Palau de la Música Catalana di Barcellona, insieme ad un gruppo di catalanisti che «non accettavano né la disfatta né l’occupazione del proprio Paese», El cant de la Senyera (Il canto della Bandiera). Si tratta di un vero e proprio inno al vessillo del Coro dell’Orfeó Catalá, il quale allora era assolutamente vietato dal regime franchista. Arresto, che era stato preceduto il 22 maggio dello stesso anno da un fermo di polizia, a seguito del quale venne trasferito al commissariato di via Laietana, dove venne sottoposto a tortura per tre giorni consecutivi.
Un canto, quello dedicato alla bandiera catalana, formato da una terzina e da tre sestine, che riporto di seguito, nella traduzione in italiano da me eseguita: «1. Sopra i nostri canti / innalziamo una bandiera verso il cielo / che ci renderà trionfanti. /// 2. Orsù, compagni, inalberiamola / in segno di amicizia. / Orsù, fratelli, al vento sciogliamola / in segno di libertà / Che voli! Ammiriamola / nella sua dolce maestà. /// 3. Orsù, bandiera catalana / il nostro cuore ti è ben fedele. / Volerai come un uccello leggiadro / sopra il nostro più forte desiderio; / per ammirare te, sovrana! / solleveremo gli occhi al cielo. /// 4. Eppure noi resteremo nell’aria / e vi rimarremo come ci resti tu; / volteggiando a piacimento nell’aria / la strada ci mostrerai... / Dài voce al tuo cantare / luce agli occhi, e forza al braccio».
Alle 11 del mattino in punto - dopo aver visitato, a partire dal primo pomeriggio del giorno precedente, la piazza e il tempio di Nostra Signora del Pilar, l’Università, la cattedrale gotica a cinque navate e la chiesa di San Paolo – ci presentammo al carcere di Saragozza e l’architetto, esibiti i nostri passaporti, chiese in castigliano alla guardia di sorveglianza all’ingresso dello stabilimento penitenziario di poter conferire col direttore. Questa ci fece accomodare in una sala d’attesa, e mandò a dire al comandante del carcere militare che vi erano degli italiani che desideravano conferire con lui.
Alcuni minuti dopo, forse una decina, fece la sua apparizione il capo dell’istituto di pena in alta uniforme con galloni, greche, mostrine e tante medaglie sul petto e con in testa un cappello con alzata rigida e visiera, che ci accompagnò nel suo ufficio e ci invitò gentilmente a sedere di fronte alla sua scrivania. Iniziò quindi a conversare amabilmente in spagnolo con l’architetto del più e del meno, poi quando Antonio Simon Mossa gli chiese di poter parlare con Jordi Pujol i Soley si irrigidì e il tono della sua voce divenne immediatamente brusco. Chiamò al telefono una guardia e, nel congedarci con un tono di voce evidentemente alterato, disse: «Andate subito via e non fatevi più vedere! Ringraziate che siete italiani, perché in caso contrario vi avrei fatto arrestare!».
Dal canto suo l’architetto – per nulla intimorito dal tono minaccioso della voce del comandante dello stabilimento penitenziario, e incurante delle eventuali conseguenze cui si andava esponendo – ribatté prontamente alle sue affermazioni in questi termini: «No!, noi siamo Sardi, non italiani! Veniamo dalla Sardegna, che è sì una colonia dell’Italia, ma noi apparteniamo ad una nazione, la Nazione Sarda, una Nazione senza Stato, non riconosciuta dallo Stato italiano, ma pur sempre una nazione!
«Una nazione fiera delle sue radici, che prima o poi riconquisterà con la libertà, la sua Indipendenza! Quell’Indipendenza che perdette nei secoli passati per una grave ingiustizia della Storia!». «Comunque, per me – tagliò corto il capo dell’istituto di pena, prima che la guardia potesse eseguire l’ordine di accompagnarci all’uscita del carcere, con diffida a mettervi più piede – fino a prova contraria, la Sardegna è Italia, e voi siete Italiani! Lo dimostrano d’altronde anche i vostri passaporti».
Nel novembre del 1963 Jordi Pujol i Soley, dopo due anni e mezzo di prigionia, venne scarcerato grazie ad una amnistia della quale poté beneficiare per la morte dell’allora pontefice, Giovanni XXIII, e confinato a Girona, ove venne sottoposto a sette mesi di libertà vigilata. Il 28 dicembre di quello stesso anno – appresa la notizia della sua scarcerazione – Antonio Simon Mossa e Italo Motroni andarono a trovarlo, senza però riuscire ad incontrarlo, perché pare si fosse trasferito per un periodo di assoluto riposo, da amici, in una villetta immersa nel verde nelle campagne del paese; ma molto più probabilmente perché non gli era consentito di avere contatti con stranieri ed esponenti politici locali.
Dal canto suo Jordi Pujol i Soley venne in Sardegna per la prima volta nel 1958 – ove suppongo si sia incontrato con Antonio Simon Mossa – per visitare le città di Alghero, Sassari, Nùoro, Oristano, Cagliari e Iglesias; e i paesi di Santulussúrgiu (con una puntata a San Leonardo di Siete Fuentes), di Ghilarza (con una sosta al lago Omodeo, creato artificialmente nel 1920 dall’ingegnere che gli dette il nome, con uno sbarramento lungo il fiume Tirso) e di Orune. Tornò poi a Cagliari e ad Alghero nel 1985 per la presentazione del libro I catalani in Sardegna (Silvana Edizioni, Cinisello Balsamo, 1985) a cura di Jordi Carbonell e Francesco Manconi: libro che si apre con una sua Prefazione.
In essa egli così scrisse: «...Noi catalani guardiamo alla Sardegna con profonda cordialità e simpatia. Nutriamo una speciale predilezione per Alghero, dove la nostra lingua è parlata ancora oggi: non c’è ragione per nascondere questo sentimento, che consideriamo legittimo. Però oggi non vogliamo assolutamente usare quella splendida città come una base per la penetrazione nell’isola, ma come una strada aperta verso l’amicizia tra il popolo catalano e il popolo sardo, del quale gli algheresi sono parte integrante ed indissolubile...».
2.2–Antonio Simon Mossa partecipa, con una delegazione di «Sardigna Libera», al XVII Congresso Internazionale dell’«Unione Federalista delle Comunità Etniche Europee - U.F.C.E.E.», Åbernå (Danimarca), 20-22 Maggio 1967
Nella primavera del 1967 Antonio Simon Mossa, Ferruccio Oggiano, Antonino Càmbule ed io facemmo un viaggio in Danimarca, ove ci trattenemmo una quindicina di giorni, dall’8 al 23 maggio, per partecipare ad Åbernå (pronunzia: Aabernaa), nell’arcipelago dello Seeland, ai lavori del «XVII Congresso Internazionale dell’Unione Federalista delle Comunità Etniche Europee - U.F.C.E.E.», che si sarebbe dovuto svolgere nei giorni 20-22 di quello stesso mese, in rappresentanza del «Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda “Sardigna Líbera”».
Nei giorni precedenti l’inizio della su citata assise congressuale – facendo uso per gli spostamenti dell’automobile di Antonio Simon Mossa – visitammo dapprima la città di Copenaghen, il cantiere navale, lo scalo portuale dei pescherecci, i palazzi in stile rococò e il colonnato in stile classico di Amaliemborg, il Museo con le sculture votive del «Carro Solare» e la pinacoteca, la Chiesa eretta a commemorazione dell’intellettuale, storico, poeta, teorico e parlamentare danese Nicolai Frederick Severin Grundtvig (pron. Grùntviigh), a cui si deve il ricupero e la ricostruzione della mitologia scandinava. Indi visitammo il birrificio della «Tuborg» e della «Carlsberg», poi la città di Frederiksberg e lo stupendo castello di Hilleröd, nella contea di Frederiksborg.
Successivamente ci recammo alle isole Faeröer, un arcipelago dell’oceano atlantico settentrionale, costituito da 18 isole, più vari scogli, che formano il dorso di un vasto territorio vulcanico subacqueo che unisce la Scozia all’Islanda e chiude a Ovest il Mar di Norvegia. E che è diviso in due da un canale, lo Skopen Fjord, a Nord del quale si trovano 13 isole e 5 a Sud. Giunti sul posto, dopo aver costeggiato le alte pareti rocciose sulle coste delle Faeröer nelle quali nidificano a stuoli gli uccelli marini, visitammo dapprima l’isola di Strömö, in cui si trova la capitale dell’arcipelago Thorshavn, poi le isole di Österö, Syderö, Vaagö, Sandö, Bordö e Viderö, ove incontrammo diversi uomini di cultura e alcuni esponenti del Movimento indipendentista Faeringio, il Folkeflokken, conosciuti da Simon in vari convegni internazionali.
Quattro giorni dopo, rientrati a Copenaghen, venimmo ricevuti da alcuni esponenti delle minoranze linguistiche tedesche e frisone dello Schleswig settentrionale, con i quali Antonio Simon Mossa aveva preso da tempo contatti telefonici, e poi riprendemmo a peregrinare per il paese. Ci recammo quindi a Nyborg, nell’isola di Fionda, e da lì proseguimmo per Svendborg, ove vedemmo il cantiere navale e il porto per imbarcazioni da pesca, per poi sostare ad Ödense, ove visitammo la Cattedrale di San Canuto, realizzata in stile gotico-germanico, con sarcofaghi, altari in legno scolpito e affreschi.
Dopodiché lasciammo l’isola e ci recammo nella penisola dello Jutland, ove – dopo aver ammirato il meraviglioso ponte ferroviario che sovrasta il Piccolo Belt tra Fredericia e Strib – visitammo la «Fontana dei porci» nella città di Aarhus, l’industria tessile, gli oleifici e il porto da pesca; poi la città di Randers, circondata da grandi colture intensive specializzate e da colture estensive e allevamenti; dopo la città industriale di Aalborg, circondata da grandi prati e pascoli con allevamento estensivo di bovini e suini, e da industrie metallurgiche, tessili, zuccherifici e industrie lattiero-casearie.
In seguito – dopo aver visto, sempre nello Jutland, le cattedrali dei paesi di Ribe e di Viborg, e la città portuale di Frederikshavn, con porto marittimo commerciale e scalo portuale per pescherecci, ed una fiorente agricoltura e industria zootecnica – ci dirigemmo verso il porto peschereccio di Skagen, la cittadina più settentrionale della Danimarca, circondata da paludi, dune e terreni incolti, che si affaccia sul Mare del Nord, tra gli stretti dello Skagerrak e del Kattegatt; ed infine ci recammo nell’isola di Bornholm, che è situata nella parte meridionale del Mar Baltico, ove visitammo il borgo di Rønne, le rovine di Hammershus e la chiesa a pianta circolare di Österlas.
2.3–Il discorso di Antonio Simon Mossa al XVII Congresso Internazionale dell’U.F.C.E.E.
Dal 20 al 22 Maggio, prendemmo poi parte – in rappresentanza del «Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda “Sardigna Líbera”» – ai lavori del Congresso U.F.C.E.E.. Alle 10.30 del giorno successivo Antonio Sìmon Mossa – che era un conoscitore profondo delle culture delle Minoranze nazionali di tutta Europa e delle «lingue minoritarie» di otto tra le principali etnìe europee e africane – prese la parola, intervenendo in francese e presentando un interessante rapporto sulla situazione storica, politica, giuridica, economica, culturale e linguistica della Comunità Sarda, suscitando l’interesse e l’apprezzamento corale degli altri congressisti, i quali sottolinearono con lunghi e calorosi applausi le parti più salienti del suo discorso.
Discorso che concluse chiedendo l’appoggio di tale organismo «in nome della libertà e dei diritti dell’uomo», «perché il problema dell’insegnamento della Lingua Sarda nelle scuole dell’Isola, parallelamente a ciò che avviene in Valle d’Aosta per la lingua francese, sia risolto secondo lo spirito dei princìpi dell’Unesco, così da fornire alla Comunità Sarda lo strumento più adatto per esprimersi nella propria lingua alla stregua degli altri cittadini della Repubblica». (Si veda in proposito il Rapport sur la Communauté Sarde, costituito da 12 pagine stampate per conto delle Edizioni di «Sardegna Libera», nel giugno del 1967, dalla Tipografia Giovanni Gallizzi di Sassari).
La battaglia culturale di Antonio Simon Mossa in difesa della Lingua Sarda, delle sue varianti linguistiche e delle parlate alloglotte dell’Isola
Nella storia della Sardegna, Antonio Simon Mossa fu indubbiamente, tra gli intellettuali isolani, il primo etnolinguista sardo del ventesimo secolo ad aver compreso la valenza politico-rivoluzionaria della Lingua Sarda, come «elemento cementante dell’unità del Popolo e della Nazione Sarda». Fu colui che portò avanti in perfetta solitudine, tra l’indifferenza pressoché generale dei politici e dei cosiddetti uomini di cultura e della gente sarda, a partire dagli anni Quaranta e fino agli inizi degli anni Settanta, la battaglia politico-culturale per la rinascenza, l’uso e il riconoscimento giuridico della Lingua Sarda come prima lingua nazionale del popolo sardo, della quale – come ogni nazionalista che si rispetti – auspicava l’unificazione e la normalizzazione.
Egli si battè per il potenziamento, la rivitalizzazione e lo sviluppo delle sue tre varianti linguistiche: il sardo-campidanese, il sardo-logudorese e il sardo-còrso (sassarese e gallurese); nonché per l’uso e la promozione delle quattro parlate sardo-alloglotte, che – a suo giudizio – dovevano servire a completare e ad arricchire l’identità nazionale e culturale dei Sardi: il catalano di Alghero, il còrso di La Maddalena e Santa Teresa di Gallura, il tabarchino di Carloforte e Calasetta, e l’arromanìsca di Isili. E nel contempo sostenne anche la battaglia per la difesa, la valorizzazione e lo sviluppo della cultura etnica isolana, sia in sardo che in italiano, della quale riporterò soltanto alcuni ulteriori elementi trascurati nel libro più sopra richiamato.
3.0–Antonio Simon Mossa predispone la «Gramàtica del Bon Pescaró» e avvia ad Alghero i primi corsi di catalano
Sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso Antonio Simon Mossa, sardista e catalanista convinto, predispose a Sassari una grammatica dell’algherese che chiamò Gramàtica del Bon Pescarò (Grammatica del Buon Pescatore), tuttora inedita, e della quale esistono in circolazione soltanto un dattiloscritto in originale, in possesso della famiglia, e un’altra cinquantina di copie fotostatiche. Testo che egli distribuì a dispense settimanali, e a titolo gratuito, a tutti i partecipanti ai «Corsi di lingua catalano-algherese, di grammatica, sintassi e fonetica», che venivano organizzati dall’Escoleta del Bon Pescador (1959-1970), da lui fondata nel settembre del 1959.
Tali corsi avevano una durata di non più di sette mesi. Iniziavano dalla terza decade del mese di ottobre di ogni anno e si concludevano alla fine di maggio dell’anno successivo. In essi egli teneva delle lezioni regolari in catalano di archeologia, di cultura sardo-algherese, di storia dell’arte e di lingua catalano-algherese, in ciò coadiuvato da Rafael Catardi e da diversi altri amici di Alghero. I corsi avevano luogo nella sala della «Pia Union dels Pescadors», dapprima tutti i lunedì, e poi - dall’ottobre del 1960 e per tutti gli anni a seguire - anche in altri giorni della settimana, dalle ore 20.30 alle ore 23.00.
Purtroppo quella scuola chiuse definitivamente i battenti nel maggio del 1970, quando Antonio Simon Mossa – dopo undici anni di onorato servizio in favore della comunità catalana di Alghero, cui insegnò a scrivere correttamente il catalano-algherese, secondo le norme dell’ortografia dello standard linguistico della Catalogna – sebbene a malincuore, dovette cessare l’attività didattico-pedagogica intrapresa, per l’aggravarsi della malattia che lo aveva colpito. Morbo che, come è noto, lo condusse inesorabilmente alla morte il 14 luglio del 1971.
Sull’impegno in favore di Alghero spunti interessanti si trovano nella relazione di Carlo Sechi.
3.1–Antonio Simon Mossa vince alcuni premi internazionali di poesia e letteratura in lingua catalana
Nel 1958 Antonio Simon Mossa si guadagnò a Mendoza, in Argentina, un primo premio nell’ambito del «Premio letterario “Combat”» con una deliziosa novella di stampo marinaro; e nel 1959 conquistò a Parigi, nel corso dei Giochi Floreali, il «Premio “Serra Hunter”» con un saggio di glottologia avente per titolo: Introduccio a l’estudi sobre la influència de la cultura catalana à l’illa de Sardenya (Introduzione allo studio sull’influenza della cultura catalana nell’isola di Sardegna).
3.2–L’incontro ad Alghero tra Antonio Simon Mossa e Pere Català i Roca nel 1959
Nel 1959 Pere Català i Roca – uno storico, studioso del folklore, nonché un linguista divulgatore della lingua e della cultura catalana, e uno scrittore e un fotografo d’eccezione (che era stato ad Alghero anche negli anni 1956 e ‘57) – conobbe personalmente Antonio Simon Mossa nella cittadina catalana, in occasione del suo terzo viaggio in Sardegna, e tra i due nacque da subito un rapporto di cordiale, sincera amicizia, seguito da un fitto scambio di corrispondenza, che durò negli anni fino agli albori del 1971.
Pere Català i Roca ritornò in Sardegna nel 1960 e nel 1962. Non poté invece partecipare nel settembre del 1961 – essendosi sposato alla fine d’agosto di quello stesso anno con la signora Maria del Carme Dalmau, figlia dell’editore barcellonese Rafael Dalmau – alla prima edizione di Els Jocs Florals de la llengua catalana di Alghero. Della Commissione Organizzatrice di tali Giochi facevano parte, oltre a Rafael Catardi, in qualità di presidente; Fidel Cilliano (sindaco di Alghero), in veste di tesoriere; Antoni Simon Mossa in qualità di segretario; Antoni Era, Josep Giglio, Pasqual Nonis, Pasqual Scanu e Rafael Sari in veste di consiglieri.
In ordine a El viatge del Retrobament, il primo viaggio collettivo organizzato dai catalani della penisola iberica, dopo quasi due secoli e mezzo in cui si erano interrotti i contatti tra la Sardegna e la Catalogna – al quale partecipò, tra gli altri, anche Pere Català i Roca col padre Pere Català i Pic – va detto che tra il 25 e il 26 agosto del 1960 arrivò ad Alghero, con la nave da crociera «Virginia Churruca», una delegazione di 150 catalani con l’intento di incontrare i «Fratelli catalani di Sardegna» e di rinsaldare con essi l’antico legame che li legava alla Catalogna. Venne celebrata una gioiosa «Festa del ricongiungimento e della riconciliazione» tra appartenenti alla stessa famiglia linguistica, cui fece seguito nel settembre del 1961 un’altra crociera di 150 catalani che giunsero in Sardegna per la celebrazione dei «Giochi Floreali della lingua catalana» su menzionati: giochi che si tennero il 10 di quello stesso mese.
In proposito va detto che Antonio Simon Mossa, il quale conosceva personalmente gran parte degli escursionisti, sia nel 1960 che nel 1961 fu uno degli ispiratori con Rafael Catardi e Antoni Era di El viatge del Retrobament, e uno dei principali protagonisti - insieme alle autorità locali - della festosa accoglienza riservata ai catalani giunti in Sardegna via mare dalle Isole Baleari, dal Rossiglione, dal Paese Valenziano, dalla Catalogna e da ogni angolo del mondo, con due viaggi collettivi organizzati su navi da crociera, per ritrovarsi all’insegna dell’amicizia con i fratelli separati di Alghero, parlanti la loro stessa lingua, e fondersi con loro in una sorta di unione spirituale.
3.3–Nel 1970, decimo anniversario del «Viatge del Retrobament», Pere Català i Roca fa scalo ad Alghero per preparare l’arrivo dell’«Orfeó Català»
Ricordo inoltre che Pere Català i Roca venne in Sardegna nel luglio del 1970, nel decimo anniversario di El viatge del Retrobament, lingüístic i cultural dels germans catalans de L’Alguer (Il viaggio del Ritrovamento, linguistico e culturale dei fratelli catalani di Alghero) – che ebbe luogo il 25-26 agosto del 1960, dopo un silenzio che durava dal XVIII secolo – per preparare e fotografare l’arrivo dell’«Orfeó Català», che avrebbe dovuto tenere un concerto nella cittadina catalana, nota come la Barcelloneta sarda.
L’«Orfeó Català», partì da Barcellona con la motonave «Monte Umbe» – non tanto per una crociera turistica, quanto per una ambasciata artistica, spirituale e sentimentale nelle terre catalane del Mediterraneo – il 20 di quello stesso mese. Il viaggio si concluse in quella stessa città il giorno 26. La mattina del 22 luglio Pere Català i Roca si recò a Sassari a casa di Antonio Simon Mossa per invitarlo al concerto dell’«Orfeó Català». Suonò quindi il campanello e l’architetto, aperta la porta, lo accolse dicendo: «Sono in riunione con alcuni amici di vecchia data ed esponenti del Partito Sardo d’Azione. Ma non ti preoccupare, entra pure! Alla riunione puoi assistere anche tu, perché sei uno dei nostri».
E proseguì dicendo: «Infatti il 25 luglio, fra tre giorni, e precisamente di sabato dobbiamo eleggere, alla presenza del nostro Segretario politico, l’On.le Giovanni Battista Melis, il Comitato Direttivo Distrettuale e l’Esecutivo Distrettuale “provvisori” della Federazione di Sassari, e il giorno successivo i medesimi organismi della Federazione Distrettuale della Gallura». Fu quella la prima volta che ebbi modo di vedere Pere Català i Roca, il quale all’epoca pensai che poteva avere all’incirca la stessa età dell’architetto, ma non ebbi il tempo di approfondirne la conoscenza. Come di fatto fu quella l’ultima volta che egli poté abbracciare Antonio Simon Mossa.
3.4 - La nascita di un rapporto d’amicizia tra me e Pere Català i Roca
Molti anni dopo capitò anche a me di stabilire con Pere Català i Roca – un personaggio esuberante, estroverso, affabile e cordiale – un intenso scambio di lettere e uno stretto e affettuoso rapporto di amicizia.
Ciò avvenne a Sassari in aprile e a Sanluri il 28 giugno del 2003 (ove si trattenne sino al giorno 30), in occasione della sua venuta in Sardegna con la consorte, perché invitato in quanto storico a partecipare come relatore alla quarta Rievocazione della Battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409, che vide contrapposte le armate della Corona d’Aragona comandate da Martino il Giovane, re di Sicilia, a quelle dei Giudici d’Arborea, guidate da Gugliemo III, che non volevano sottostare ad un rapporto di dipendenza feudale imposto dalla Corona aragonese.
Come pure ho avuto il piacere di conoscere – dapprima per telefono, poi per corrispondenza, ed infine di persona – per il tramite di Pere Català i Roca, un suo amico ed ora anche mio, il giornalista Joan Gala i Fernández, che ha scritto dal settembre del 1979 ad oggi, almeno un’ottantina di articoli su Alghero e la Sardegna, per diversi periodici, quali: «Som» (Siamo), «Avui» (Oggi), «L’eco de Sitges» (L’eco di Sitges), «El Correo Catalán» (Il Corriere Catalano), il «Diari d’Andorra» (Giornale di Andorra) e «àrnica», e che nel numero 233 di Gennaio-Febbraio 2004, Anno XXV, della pubblicazione di cultura popolare catalana «Som», alle pagine 29 e 30, ha recensito, per la rubrica «Libri», il saggio da me scritto sul mio Maestro politico e di vita, dal titolo già ricordato.
3.5 –L’incontro tra lo scrittore catalano Josep Pla e l’architetto Antonio Simon Mossa a Sassari
Nel lontano 1962 partecipai, inoltre, all’incontro tra lo scrittore catalano Josep Pla e Antonio Simon Mossa, come pure al «rinfresco» al quale l’architetto invitò me e i suoi più stretti collaboratori dello studio per festeggiare l’evento. Nel corso dell’incontro ci disse che gli avrebbe fatto da guida e che lo avrebbe accompagnato in lungo e in largo per la Sardegna con la sua macchina.
Sapemmo poi dallo stesso Josep Pla, al suo rientro a Sassari, che l’architetto durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che parlargli in un «catalano arcaico e coloniale», quello della sua Alghero, di architettura, di sociologia, di storia, di politica, di arte, di economia, di catalano e di lingua sarda, «come avrebbe potuto fare soltanto un sardo integrale di vastissima cultura come lui». Su questo incontro si soffermano più specificatamente i testi di Antoni Arca e di Vindice Ribichesu contenuti nel presente volume.
3.6 – Antonio Simon Mossa e il «Primo Convegno sulla Lingua e la Cultura della Sardegna»
Nella prima metà degli anni Sessanta, e per l’esattezza il 9 settembre del 1965 in Bosa – promosso dal locale Centro di Cultura Popolare, presieduto da Giovanni Battista Columbu, dietro sollecitazione e per impulso di Antonio Simon Mossa (Segretario, fondatore e principale animatore del Grémiu Federalista de sa Comunidade Étnica Sarda «Sardigna Líbera»), in collaborazione con gli omologhi Centri di Ollolai, Scano Montiferro e Santulussúrgiu – si svolse nel capoluogo della Planàrgia il «Primo Convegno Nazionale sulla Lingua, la Storia e la Cultura della Sardegna», che risultò il primo in assoluto non solo del ventesimo secolo, ma anche dell’Ottocento, tanto da destare l’interessamento del SID, il «Servizio Informativo della Difesa» (cioè dei servizi segreti italiani).
Ad esso presero parte – oltre, naturalmente, a Giovanni Battista Columbu e ad Antonio Simon Mossa – anche Ferruccio Oggiano, Antonino Càmbule ed io da Sassari, Michele Zedde e Michele Columbu di Ollolai, Batore Corronca e Fidelino Carta di Scano Montiferro, e tantissimi altri amici, tra i quali meritano soprattutto di essere ricordati Italo Ortu di Bauladu, Francesco Salis di Santulussúrgiu ed Emanuele Cau di Samugheo.
Al Convegno di Bosa, che precedette di ben dieci anni i Convegni di Ozieri – organizzati nell’ambito del «Premio di Poesia e Letteratura Sarda» per la promozione dell’unificazione ortografica del sardo – seguirono numerosi altri incontri, convegni e seminari di studio e ricerche sulla Lingua, la Storia e la Cultura della Sardegna nelle quattro roccaforti del Partito Sardo d’Azione in provincia di Sassari (Castelsardo, Laerru, Pàdria e Pérfugas, tutti Comuni a guida sardista) e nei paesi sopra richiamati. (Si veda in proposito anche la Testimonianza di un vecchio militante sardista pubblicata nel libro La Sardegna sarà redenta dai Sardi – Viaggio nel pensiero sardista, a cura di Antonio Lépori, con presentazione di Efisio Pilleri, Cagliari, Edizioni Castello, 1991).
3.7-Antonio Simon Mossa organizza la quinta edizione dei «Giochi Floreali della Lingua Catalana» (Alghero 1969)
Il 25 maggio del 1969 Antonio Simon Mossa, come convenuto la settimana prima, venne a prendermi sotto casa, a Sassari, perché voleva che almeno per una volta partecipassi alla Gaia Festa algueresa dels «Jocs Florals de la Llengua Catalana». Festa, che si sarebbe dovuta svolgere – di regola – come ogni anno il 6 Gennaio, nel Dia dels Reis (nel Giorno dell’Epifania, dei Re Magi), anziché il 25 Maggio, nella «Diada de “Pasqua de Roses”».
Quell’anno, i Giochi Floreali della Lingua Catalana – cui parteciparono ben 93 concorrenti, di cui 24 di Alghero e 69 provenienti dalla Catalogna, dal Paese Valenziano, dalle Isole Baleari, dal Rossiglione, dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Inghilterra – vennero celebrati per la quinta volta nella Barcelloneta nostrana, con grande solennità nel chiostro della Chiesa di San Francesco, gremito come non mai di gente: autorità, uomini di cultura e soprattutto giovani.
Della giuria del «Premio di poesia e letteratura catalana» facevano parte: Antonio Sanna, cattedratico di Lingua Sarda e Filologia Romanza dell’Università di Cagliari; Josep Ma di Casacuberta, prestigioso editore catalano; Rafael Catardi, animatore instancabile del Centro e della cultura catalano-algherese; Pasqual Scanu, stimato docente e storico di Alghero; Gaudenci Calciati e Josep Sanna, e Antoni Sìmon Mossa, Presidente del Centre de Estudis Algueresos e segretario della giuria.
La Commissione organizzatrice della quinta edizione dei Jocs Florals de la Llengua Catalana de L’Alguer era invece composta da: Rafael Sari, presidente, Francesco C. Nonis, Fedele Cilliano, Alba Branca, Antonio Coronzu, Franco Sério, e Antonella Salvietti, segretaria. La giornata venne, quindi, aperta da Rafael Sari con il motto tradizionale «Amics, s’obre la Festa!» («Amici, s’apre la Festa!»), e subito dopo i Cantori del Centro, con il tenore Pasqual Gallo, eseguirono una di quelle vecchie canzoni catalane che Alghero ha mantenuto sino ai giorni nostri.
3.8 – Il discorso pronunciato in quell’occasione da Antonio Simon Mossa
Antonio Simon Mossa, nella sua veste di segretario – dopo aver dato lettura delle lettere e dei telegrammi di adesione pervenuti alla segreteria del premio letterario – lesse poi le motivazioni e i verdetti espressi dalla giuria, non prima però di aver detto, esprimendosi «a braccio» in un catalano forbito ed estremamente fluido e accattivante, tra le altre cose, che «la nostra Festa non è né folclorica né sentimentale. è al contrario la celebrazione, in un clima di unità spirituale e fraterna, della sopravvivenza di quel patrimonio culturale che ci hanno lasciato gli antichi, la nostra lingua, la nostra tradizione, la nostra speranza, la nostra illusione.
«Tutt’intorno alle muraglie, alla marina, alla spiaggia, alla caletta, agli uliveti, alle vigne, fino alla montagna, in questa luce d’un cromatismo assurdo, ogni cosa ci parla d’un presente che è riflesso del passato: presente che non esisterebbe, se non avessimo avuto quel passato. E dobbiamo oggi ringraziare gli antichi di aver così felicemente scelto questa parte della Sardegna per insediarsi. E la nostra gratitudine per gli antenati dovrà essere concreta. Perciò lavoriamo in silenzio per salvare e conservare questa eredità piena di gloria.
«Il “Centro di Studi Algheresi” non ha perciò altro obiettivo, se non quello di far rivivere in senso moderno e attuale, in un mondo che si fa sempre più difficile e ostile, lo spirito dei nostri padri, svegliando nel corpo vivo della nostra gente quelle energie che per molto tempo erano dormienti. Perciò siamo sicuri che tutti noi, algheresi nuovi e vecchi, potremmo uscire dalla situazione di degrado nella quale viviamo soprattutto per mancanza di cultura. E se diciamo cultura, diciamo amore. E amore vuol dire fare, vuol dire patria, vuol dire poesia. E dove c’è poesia c’è virtù umana e civile, c’è la vocazione comunitaria, c’è finanche la solidarietà sociale».
E poi, avviandosi rapidamente alla conclusione, disse: «Crediamo nella poesia e nella sua forza di coesione, come il maestro muratore crede nei pilastri del palazzo che ne garantiscono la stabilità, come il marinaio crede nella chiglia dell’imbarcazione che gli consente di solcare il mare, come l’uomo timorato di Dio crede nella preghiera che eleva al Signore pieno di speranze. In ciò troviamo la ragione essenziale di celebrare questa “Gioiosa Festa dei Giochi Floreali di Alghero”, come in Catalogna, come in Valenza, come nel Rossiglione, giacché sappiamo che sarà oggi e domani, questo, il legame più concreto tra noialtri, dal momento che parliamo tutti lo stesso linguaggio, che è quello dell’elevazione spirituale dell’uomo, quello d’una solidarietà duratura e forte».
3.9 – La consegna dei premi ai vincitori delle varie sezioni
Infine, a consegnare i premi ai vincitori – tra gli applausi calorosi dei presenti – furono il presidente Antonio Sanna, Rafael Catardi e la vedova di Antonio Era. A Joan Arùs i Colomer, di Castellar del Vallès (Barcellona) venne assegnato il «Premio Barcelloneta» per il poema El Poeta i la nit (Il Poeta e la notte); mentre a Gabriel Mora i Arana, di Manresa, a Josep Serra Janer, di Barcellona, e ad Anfós Ramon i Garcia, di València, vennero consegnate delle menzioni d’onore.
Invece Joan Noves i Oriol, di Barcellona, e Maria Piga, di Alghero, si aggiudicarono ex-aequo, il «Premio Recasens», rispettivamente, con le opere Petits poemes a Imma (Piccoli poemi a Emma) e Illusió i altres poesies (Illusione e altre poesie); mentre David Jou Mirabent, di Sitges, Antonello Dessì e Tina Piga, di Alghero, furono gratificati, rispettivamente, con una menzione d’onore.
Poi venne attribuito a Oriol Pi de Cabanies, di Barcellona, il «Premio Antonio Era» per il racconto: Animicament, soc un assassí fracassat (Con poca salute, sono una assassino rovinato), e assegnata una menzione d’onore a Oleguer Sarsanedas, di Barcellona. Si passò, quindi, alla consegna di alcuni premi straordinari, tra i quali, il «Premio Carmen Dore», che si aggiudicarono, ex-aequo, Josep Martí i Bodí, di València, con il poema El niu de cada estació (Il nido di ogni stazione) e Anna Fenu, di Alghero, con il poema Senyor (Signore).
Il «Premio Pasqual Nonis» venne vinto, invece, da Pere Elies i Busqueta, di Barcellona, con la prosa artistica El vianant (Il viandante); il «Premio Rafael Tasis» lo vinse Oleguer Sarsanedas, di Barcellona, con il racconto Mala sort (Cattiva sorte); mentre il «Premio Ramon Xuriguera» andò a Josep Maria Poblet, di Barcellona, per il saggio storico Del 1714 a les bases de Manresa (Dal 1714 alle basi di Manresa); e il «Premio Escolar del Bon Pescador» se lo aggiudicarono, ex-aequo, Joan Franc Zidda, di Alghero, con la poesia L’Alba e Antoni Piga, anche lui algherese, con la poesia La mia solitud (La mia solitudine). Vennero inoltre conferite diverse menzioni d’onore a Eugeni Molero i Pujós, di Vilanova i la Geltrú (Barcellona), a Ramon Via, di Prat de Llobregat (Barcellona) e a Jordi Planes Casals, di Parigi.
3.10–Il discorso finale del Presidente della Giuria del «Premio di poesia e letteratura catalana», Antonio Sanna, cattedratico di Lingua Sarda e Filologia romanza nell’Università di Cagliari
Dopodiché prese la parola il Presidente della Giuria, Antonio Sanna, che pronunciò un appassionato discorso in italiano, per la presenza di molte autorità e personalità italiane, nel corso del quale – dopo aver sostenuto che «i Giochi Flo-reali di questa città hanno il merito di aver difeso e di difendere, con sempre maggiore efficacia, la parlata catalana di Alghero e la sua eredità storica, che ha ragioni profonde per essere mantenuta e conservata» – disse: «Il valore del “catalano” di Alghero, come pure di quelle lingue che vanno scomparendo, è molto grande, poiché in queste lingue è contenuta la storia dei popoli, e sono questi il riflesso della dimensione storica nella quale dobbiamo vivere...».
E poi proseguì dicendo: «Non molto tempo fa hanno detto che gli idiomi locali e le lingue subalterne sono il linguaggio dei popoli vinti: vinti nella loro cultura e nella loro personalità individuale storica, di fronte alle lingue nazionali e ufficiali, imposte dai popoli vincitori! E così è tanto più vero per Alghero e tutta l’isola di Sardegna! Però come ha dimostrato chiaramente la Catalogna, una terra può essere occupata, un popolo può essere vinto, ma non distrutto o affossato. Un popolo è veramente vinto, solo quando perde la coscienza d’essere stato un tempo libero e distinto, spiritualmente e culturalmente. Un popolo è veramente vinto quando rinuncia al suo spirito, alla sua anima.
«Ciò che è nel desiderio di tutti voi che siete qui, di tutti coloro che hanno fiducia in questi valori di lingua e poesia che sono, come abbiamo già detto, valori di civiltà, è che il miracolo dell’Alghero catalana, che dura da circa seicento anni, possa durare fino ai termini estremi del tempo. Viva Alghero! Viva la parlata e la poesia catalana di Alghero!». La Festa, poi, dopo un breve discorso di ringraziamento del gen. Catardi, si concluse con il canto di vecchie e nuove melodie algheresi. Su questo punto si rinvia in particolare alle pagine di Pere Català i Roca, di Leonardo Sole e di Antonio Lepori.
La posizione politica di Antonio Simon Mossa in ordine all’assetto economico, sociale e istituzionale della Sardegna
Antonio Simon Mossa, che era particolarmente aperto e sensibile alle tematiche identitarie, fu il primo intellettuale e pensatore sardo e sardista ad elaborare, proprio in quanto nazionalista, anticolonialista ed internazionalista, e perciò stesso «antiseparatista» – come avrebbe potuto e dovuto fare ogni altro patriota che si rispetti, ed ogni uomo politico o di cultura che avesse avuto «intelletto d’amore» per la sua Terra – la teoria dell’indipendentismo per il Popolo e la Nazione Sarda, insieme alla teoria federale e confederale della Confederazione universale dei Popoli e delle Etnie, e del Federalismo europeo delle «Nazioni senza Stato» e delle minoranze etniche.
Infatti egli sostenne, in un convegno di indipendentisti che si svolse a San Leonardo di Siete Fuentes (Santulussúrgiu) il 22 giugno del 1969, a chiarimento della «posizione rivoluzionaria sardista»: «Che si sappia finalmente, e una volta per tutte, che il nostro obiettivo è la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, la redenzione sociale del Popolo Sardo e che la nostra lotta assumerà le forme e la durezza che i momenti storici avvenire le riserveranno». Ed aggiungeva: «...la liberazione del Popolo Sardo non può avvenire che con la conquista dell’indipendenza, e [...] la redenzione sociale che auspichiamo, e che ci siamo configurata in modo preciso, è legata esclusivamente a quella conquista». Adesso, ad integrazione di quanto contenuto nel mio libro, riporterò di seguito alcuni eventi in esso tralasciati.
4.0 - Il Congresso provinciale sardista di Ozieri del 1965, nel quale vinsero Antonio Simon Mossa e la corrente indipendentista del Partito Sardo d’Azione
Ai lavori del Congresso sardista di Ozieri del 21 novembre 1965, dietro preciso invito di Antonio Simon Mossa (che a conclusione di quell’assise venne eletto Direttore provinciale per la provincia di Sassari) presenziò, per la prima volta nella storia del Partito Sardo d’Azione, una folta delegazione di catalani, capeggiata da Josep Maria Batista i Roca, docente universitario presso l’Università di Cambridge; mentre nell’impossibilità di parteciparvi, inviarono la loro calorosa adesione, dalla Francia: Henri Garidou, esponente dei «Catalani del Rossiglione» di Port Vendres; Eneko Irigaray, esponente dei «Baschi di Spagna», in esilio a Biarritz; Ambrosi Carrion, presidente del «Casal de Catalunya» ed esponente dei «Catalani di Spagna», in esilio a Parigi; e il direttore e la redazione di «Enbata», il «Giornale Nazionalista Basco e Federalista Europeo» di Bayonne, in rappresentanza dei loro rispettivi Movimenti e dei Partiti indipendentisti delle altre Nazionalità Minoritarie dell’Europa Occidentale.
[Si veda in proposito L’autonomia politica della Sardegna 1965, a cura di A. Simon, F. Oggiano, A. Càmbule e G. Marras (Tipografia Giovanni Gallizzi, Edizioni di «Sardegna Libera» - Sassari, 22 gennaio 1966), sulla cui prima pagina campeggiava la seguente frase di sapore profetico, pronunciata da Giovanni Battista Tuveri nel 1867, in sede di dibattito parlamentare, nel corso di una delle tante sedute del Parlamento del Regno d’Italia: «Un’isola qualunque non può prosperare ove non si governi da sé e non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi con le prerogative del potere centrale più limitato»].
4.1 –Antonio Simon Mossa e le prime elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Portotorres col sistema proporzionale (27-28 novembre 1966)
Ricordo ancora come se fosse adesso il grande comizio di chiusura della campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale di Porto Torres, per il quale si votò per la prima volta col sistema proporzionale, che Antonio Simon Mossa e Giovanni Battista Melis tennero in quella cittadina nella Piazza del Municipio – gremita fino all’inverosimile per l’enorme richiamo che all’epoca aveva suscitato tra la gente la discesa in campo, come capolista, del valente e geniale architetto del primo Piano di sviluppo turistico della Costa Smeralda – nella giornata di Venerdì 26 novembre dell’anno 1966. Il mio Maestro illustrò alla popolazione, con un discorso ad ampio spettro ed un linguaggio piano e accessibile a tutti i lineamenti politico-programmatici per il Comune di Porto Torres, da lui stesso elaborati e fatti stampare in tremila esemplari per conto delle Edizioni di «Sardegna Libera», dal titolo: L’impegno Sardista per una Amministrazione Democratica, Popolare e Progressista (Tipografia G. Gallizzi, Sassari, Ottobre 1966). Programmi che fece distribuire, sia nelle case che tra la gente del luogo, nel corso dei quindici giorni antecedenti la conclusione della campagna elettorale.
Poi toccò all’On. Melis, con la sua trascinante oratoria, il compito di infiammare la piazza e di concludere. Nel suo intervento Titino Melis, continuamente interrotto da scroscianti applausi, ricordò dapprima i martiri della «Brigata Sassari», il ritorno dei reduci nell’isola derelitta e la nascita del Movimento dei Combattenti da cui scaturì il Partito Sardo d’Azione, poi le battaglie sardiste in favore dell’Autonomia e del progresso della nostra terra. Concluse, infine, invitando i Portotorresi a votare compatti per la lista dei «Quattro Mori-bendati». E fu così che al termine di quella tornata elettorale combattuta senza esclusione di colpi, e svoltasi per la prima volta col sistema proporzionale, il Partito Sardo d’Azione – che era ormai assente dai banchi del Consiglio comunale di Porto Torres da più di dieci anni – riconquistò con Antonio Simon Mossa un seggio nel parlamentino turritano.
In quell’organismo, seppure dai banchi dell’opposizione, egli fece sentire alta la sua voce, e nei due anni e mezzo in cui sedette nel Consiglio comunale prima di ammalarsi, dette un contributo essenziale per lo sviluppo di quella città e del suo territorio, depositando agli atti del Comune copia dei suoi interventi, che per la loro rilevanza politica la Municipalità di Porto Torres dovrebbe mettere a disposizione degli studiosi. Si veda al riguardo il contributo di Giancarlo Pinna in questo volume.
4.2 – Antonio Simon Mossa e l’indipendentismo
Il 10 giugno del 1967, nel corso di un convegno di indipendentisti tenutosi ad Ollolài (NU) nella “località-santuario” di San Basilio, Antonio Simon Mossa – anche a nome di Sardegna Libera, la componente politico-movimentista interna al Partito Sardo d’Azione, costituita nel 1961 – manifestò il suo pensiero, in merito all’esigenza di battersi per la conquista dell’Indipendenza nazionale della Sardegna, in questi termini: «Noi riteniamo che... l’indipendenza della Comunità Sarda... sia indispensabile per la riforma radicale della struttura sociale e la possibilità di una reale crescita economica del Popolo Sardo.
«Ottenere l’indipendenza significa acquisire i poteri dello Stato, quindi promuovere e attuare riforme, disporre dell’avvenire del popolo sardo. L’indipendenza significherebbe per i sardi essere collettivamente padroni del loro destino in un mondo di liberi e di uguali, sottraendosi definitivamente alla tutela di una potenza coloniale. Le obiezioni che la classe intellettuale isolana, perfetta ripetitrice delle ragioni italiane, è – in principio – una sola, apparentemente dogmatica: come farebbe la Sardegna a vivere da sola? Fra le mille risposte una sola è sufficiente per chiarire le nostre ragioni: forse che oggi la Sardegna non vive da sola?
«E aggiungiamo: che cosa ci ha dato lo Stato Italiano di più di quello che abbiamo restituito, e con gli interessi? Ma ci domandiamo ancora: quale paese del mondo riesce a vivere da solo? Forse che la Gran Bretagna o gli Stati Uniti non hanno bisogno dei mercati di tutto il mondo? Forse che l’Italia, il paese che temporaneamente ci amministra come un qualsiasi possedimento coloniale potrebbe vivere senza la solidarietà di altri paesi? E ci chiediamo infine: a che cosa serve l’indipendenza? Se il principio non valesse per noi a maggior ragione non vale per gli altri paesi. Un fatto è certo: noi stiamo vivendo con le nostre risorse e con quelle di duecentomila emigrati...
«I redditi continuano a calare in rapporto alla crescita di quelli delle regioni più ricche; siamo costretti ad acquistare tutto in Italia ai prezzi elevatissimi che questa ci impone..., le poche merci che (essa) acquista in Sardegna vengono pagate di norma a prezzo vile. Inoltre... l’Italia dispone dei trasporti, che sono una parte notevole della nostra bilancia commerciale... Non ha sufficienti capitali, e non vuole investire per la trasformazione della nostra economia e, d’altro canto, ci impedisce di cercare i capitali altrove. […] Condiziona e frena la nostra pianificazione economica..., ci impedisce la ricerca petrolifera nello zoccolo marino, (e) dandoci un’autonomia fasulla, ci ha tolto (perfino) la libertà dell’autogoverno».
Il 29 ottobre del 1967 a Bosa (NU), in occasione del secondo Convegno Sardista – svoltosi nel Salone delle Adunanze del locale Centro di Cultura Popolare – Antonio Simon Mossa – osservatore acuto della realtà isolana, politologo e massimo ideologo del Sardismo nazionalitario, rivoluzionario e libertario – in ordine alle accuse di separatismo che venivano mosse al Partito Sardo d’Azione per le sue posizioni indipendentiste, così si espresse: «Il nostro “separatismo” – ché con tale termine è definito in senso sprezzante dai nostri avversari il nostro indipendentismo – non deve confondersi con analoghi movimenti reazionari o sentimentali che si manifestarono in passato e che, perché privi di contenuto sociale e politico, si erano esauriti nello spazio di un mattino.
«Esso significa soltanto lotta del Popolo Sardo per il riscatto da un regime coloniale che dura da secoli e che la Repubblica Italiana ha mantenuto e, direi, rafforzato, contro tutti i principi di libertà proclamati dalla Costituzione dello Stato, contro i principi della Carta delle Nazioni Unite, contro le stesse norme dello Statuto Speciale della Sardegna. Lotta, la nostra, che significa soltanto conquista dell’Indipendenza, della libertà civile ed economica, e del riscatto civile dell’intero Popolo Sardo».
Il 22 giugno del 1969, nell’ambito di un convegno di indipendentisti, tenutosi a San Leonardo di Siete Fuentes, in agro di Santulussúrgiu, Antonio Simon Mossa così si espresse in ordine allo stato in cui veniva a trovarsi la nostra isola rispetto all’Italia: «Noi possiamo risorgere soltanto se alla nostra cultura, alle nostre caratteristiche etniche, alla nostra posizione geografica, alla nostra tradizione e - soprattutto - alla nostra ansia di rinnovamento e di redenzione sociale si lascia lo spazio necessario. Tale spazio, come abbiamo dimostrato, non può esistere sino a che la Sardegna sarà sottoposta alla dominazione coloniale. Tale spazio potremo averlo soltanto con la conquista dell’indipendenza, quando saremo veramente padroni e arbitri di quei valori fondamentali che caratterizzano la nostra etnìa e che, se rivalutati in una atmosfera nuova, potranno consentire al popolo sardo quel balzo in avanti sulla strada del progresso in un consorzio di uguali.
«[…] L’Italia ha dimostrato la sua incapacità e la sua impotenza nel risolvere i nostri problemi. Troppe volte e per troppo tempo abbiamo concesso una dilazione allo Stato italiano perché facesse ammenda dei passati errori. Ma lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi. Fare a meno dell’Italia diviene oggi per noi una necessità, in assoluto. Non vi sono altre strade da percorrere. Noi vogliamo conquistare l’indipendenza per integrarci, non per separarci, nel mondo moderno. E la scelta non può essere che nostra, autonoma, cosciente, decisiva. Noi siamo nella stessa posizione di quei pae-si del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, hanno già compiuto i primi passi verso l ‘indipendenza.
«Ma noi siamo rimasti indietro. Abbiamo dato credito allo Stato italiano. Abbiamo perso venti e più anni nutrendoci di speranze e promesse mai mantenute. Non vi sono per noi altri tipi di libertà se non quella che otterremo con la conquista della piena indipendenza. La strada è aperta, ma è dura e cosparsa di ostacoli. Noi siamo certi che la “Questione Sarda” che si trascina senza speranza da centoventi anni, da quando cioè il Piemonte con un colpo di mano procedette all’annessione della nostra isola, potrà avere una soluzione soddisfacente soltanto quando avremo il nostro “Stato”. E su questa strada ci incamminiamo con la certezza che i sardi acquisiranno quella coscienza che tanti secoli di dominazioni, di oppressione e di persecuzione hanno in parte sopito. E così costruiremo la nostra storia, la nostra economia, la nostra redenzione sociale: in un mondo di popoli liberi e uguali». Su questi punti raccomandiamo la lettura delle relazioni di Paolo Fois e Giuseppe Usai.
4.3 –La battaglia politica di Antonio Simon Mossa contro l’installazione di uno stabilimento petrolchimico a Lula
Tra il 1968 e il 1969 Antonio Simon Mossa – da sempre impegnato in prima linea nella difesa ad oltranza dell’integrità dell’ambiente e del territorio sardo contro tutti i piani di espansione incontrollata nell’isola delle «industrie di base» (chimica e petrolchimica), nei cui confronti manifestava di continuo una forte e irriducibile avversità – suggerì ai Sardisti di Lula, che si apprestavano a scendere in lizza per conquistare il Comune e diventare i futuri amministratori di quella Comunità locale, di opporsi con tutti i mezzi a loro disposizione alla «petrolizzazione» del proprio territorio e a schierarsi decisamente contro il paventato insediamento di uno stabilimento di tal fatta.
Inoltre raccomandò loro, in mancanza di adeguate garanzie da parte del Consorzio contro l’inquinamento industriale, di non concedere alla SIR-Società Italiana Resine dell’Ingegner Nino Rovelli, la licenza edilizia per la costruzione di uno stabilimento petrolchimico nel proprio territorio. E nel malaugurato caso in cui avessero deciso di rilasciargliela comunque, di inserire almeno, tra i vari punti dell’accordo, anche una «condizione-capestro», in grado di impegnare la Società a bloccare immediatamente la produzione e a pagare ugualmente i salari e gli stipendi ai propri dipendenti, qualora gli impianti di depurazione che il Consorzio avrebbe dovuto costruire e gestire non fossero stati in grado di funzionare.
Spinse infine il Consiglio comunale lulese, uscito vittorioso dalla consultazione elettorale del 7 giugno 1970, con in testa il Sindaco sardista Giuseppe Deiana, di area indipendentista (che per i primi due anni ricoprì la carica di Vice-sindaco di quella Comunità), a schierarsi decisamente contro tutti i sindacati e i partiti dell’allora «arco costituzionale» (Sardisti, compresi!), tutti favorevoli alla locazione in quel territorio dell’insediamento industriale, e ad opporvisi con tutte le forze, fino alla vittoria finale. Vittoria che nel 1975, quattro anni dopo la morte di Antonio Simon Mossa, arrise al Comune di Lula dopo due anni di lotte difficili ed estenuanti, ingaggiate tra il 1973 e il 1974, allorché, senza ulteriori ripensamenti, espresse il proprio definitivo diniego all’installazione nel proprio territorio dello stabilimento SIR.
Antonio Simon Mossa – che per tutta la vita si era battuto e continuava a battersi per garantire l’unità e l’identità nazionale del Popolo Sardo (attraverso l’introduzione della Storia e della Cultura della Sardegna, e lo studio, la promozione, la valorizzazione e l’uso della Lingua Sarda, quale «elemento fondante e imprescindibile dell’identità del Popolo Sardo», nelle Scuole dell’isola di ogni ordine e grado) – aveva inoltre raccomandato ai lulesi di dirsi disponibili a porre parte del proprio territorio a disposizione di quanti avessero voluto installarvi delle piccole e medie industrie manifatturiere. Questi impianti – contrariamente a quelli delle industrie di base – sono notoriamente a basso costo pro-capite e ad elevata occupazione di mano d’opera. Dovevano però essere strettamente collegati al turismo e alla trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, come anche alla valorizzazione dei prodotti e di tutte le risorse minerarie locali.
4.4 –Antonio Simon Mossa incontra gli esponenti di maggior spicco del Circolo «Città-Campagna» ad Ollolai
Tra il 1968 e il 1969 Antonio Simon Mossa, leader carismatico del MIRSA, il Movimento Indipendentista Rivoluzionario Sardo, costituito il 3 febbraio del 1964 a Sassari, si incontrò «clandestinamente» – in presenza mia, di Michele Zedde, di Michele Columbu, di Ferruccio Oggiano, di Antonino Càmbule e di Mario Sedda di Ovodda – due, o forse tre volte, nella località-santuario di San Basilio di Ollolai, per discutere di politica con alcuni tra gli esponenti di maggior spicco del Circolo «Città-Campagna», tra i quali, oltre ai fondatori Antonello Satta ed Eliseo Spiga, erano presenti anche Francesco Màsala, Peppino Bàrranu, Gianfranco Contu, Pino Usai, Antonio Cossu, Dino Giacobbe, Costantino Nivòla e Sebastiano Dessanay. Per inciso dirò che il Circolo «Città-Campagna», al quale aderirono da subito numerosi studenti universitari e diversi esponenti del mondo della cultura di varia estrazione politica, nacque sul finire degli anni Sessanta su posizioni indipendentiste e divenne ben presto il collettore dei fermenti libertari e anticolonialisti della sinistra extraparlamentare sarda.
Tali iniziative furono, in un certo qual modo, “clandestine”. Questo carattere (desidero chiarirlo a scanso di equivoci) era dovuto allo stretto controllo cui erano sottoposti allora coloro che coltivavano determinati ideali. Lo stesso Simon Mossa era “sorvegliato speciale” del dottor Grandino, dirigente della squadra politica della Questura.
Ricordo che, in occasione dell’ultimo incontro, Antonio Simon Mossa – noto in tutta l’isola sul piano politico per le sue posizioni rivoluzionarie, anticolonialiste, indipendentiste, nazionalitarie e terzomondiste, e sul piano sociale per le sue posizioni liberal-socialiste, progressiste e solidaristiche – illustrò a grandi linee, da quel grande affabulatore che era, la situazione politica, economica e sociale di Popoli e Nazioni senza Stato, quali: gli Alsaziano-lorenaici, i Baschi, i Brètoni, i Catalani, i Còrnici (i «nativi» della Cornovaglia), i Còrsi, i Croati, gli èstoni, i Faeringi, i Fiamminghi, i Galàico-portoghesi, i Gallesi, gli Irlandesi dell’Ulster, i Ladini, i Lèttoni, i Lituani, gli Occitani, gli Scozzesi, gli Sloveni eccetera, e parlò poi delle lotte che alcuni di essi da tempo andavano sostenendo per il ricupero delle loro identità nazionali e linguistiche, e che altri stavano conducendo per la liberazione nazionale, l’Indipendenza e la sovranità del proprio Paese.
Lotte, quest’ultime, tutte di carattere ecumenico che vedevano il coinvolgimento – senza distinzione di classi – di tutti quei popoli e dei rispettivi partiti marxisti-rivoluzionari o democratico-progressisti di sinistra, di quelli democratico-popolari e liberal-conservatori di centro e di quelli nazionalisti e conservatori di destra (con la sola esclusione di quelli nazifascisti, razzisti e xenofobi dell’ultra-destra), volte al raggiungimento della piena libertà dei rispettivi Paesi e dei popoli e delle Nazioni senza Stato che li abitano. Libertà che, da che mondo è mondo, è stata quasi ovunque, conquistata pacificamente o mediante azioni rivoluzionarie cruente, solo con l’unità di tutte le forze della società civile, attraverso il superamento delle divisioni di classe fino al raggiungimento dell’obiettivo primario, che è per l’appunto quello dell’indipendenza e della sovranità nazionale, salvo poi a dividersi in base alle proprie convinzioni ideologiche.
4.5 – L’inno che il poeta Francesco Màsala dedicò, a ricordo di quell’incontro, ad Antonio Simon Mossa, e il giudizio espresso da quest’ultimo su di esso
Nel 1971, due mesi dopo la morte di Antonio Simon Mossa avvenuta il 14 luglio, lo scrittore e poeta Francesco Màsala, in una lettera a me indirizzata, datata Cagliari 5 ottobre 1971 – allegò un suo componimento ad integrazione e a completamento dell’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu di Ozieri. Egli così rievocò quell’incontro: «Questi Paralipomeni all’inno angioyano sono nati nella Barbàgia di Ollolai dove Antonio Simon Mossa mi aveva chiamato, assieme ad altri amici (pochi, mi ricordo di Michele Columbu, Antonello Satta, Peppino Bàrranu, Giuliano Cabitza) per vedere se si poteva fare “ancora” qualcosa per la Sardegna inondata dal “petrolio”.
«Sotto le alte rocce di Ollolai, sembravamo “congiurati”, “rivoluzionari” ed eravamo, invece, bravissime ed “innocue” persone che, al di là delle parole, non avevano altre armi per cacciare lo “straniero”. Antonio Simon Mossa mi parlò dei Baschi, degli Irlandesi, dei Canadesi del Quebec: credeva fermamente all’esistenza di una “gente sarda” che popola la terra di Sardegna. Non potei fare a meno di dirgli che esistono le “classi”, all’interno della “gente sarda”, che vogliono cose differenti. Dissi che noi, Sardi, non siamo i “fiori del male” ma siamo i “fiori nel male”.
«Il “male” è la struttura economica della società borghese e il «fiore» non può non essere che “malefico”: modifichiamo le strutture e nasceranno altri “fiori”. Dissi: Noi sardi non siamo né schiavi né liberi: siamo bastardi, “canes de isterzu”. Antonio Simon Mossa mi guardò, addolorato, veramente addolorato: sembrava un capo tribù nuragico che, dopo essere scampato ai cani mastini dei consoli romani, ai cavalli verdi degli alcaldi aragonesi, alle forche del conte Bogino, alla “caccia grossa” del colonnello Bechi, ai mazzieri di Giolitti, ai manganelli di Mussolini, stesse per tirare le cuoia affogato nel “petrolio”. Non l’ho più rivisto. è giusto che, ora, sopra la sua tomba (“sa losa”) metta questo “inno”».
Ricordo che durante il viaggio di ritorno da Ollolai a Sassari, Antonio Simon Mossa, profondamente deluso e amareggiato dall’esito di quell’incontro, non riuscendo più a contenere il suo disappunto, ad un tratto così sbottò: «Come hai avuto modo di constatare, caro Giampiero, ancora una volta le ideologie d’Oltremare, quasi per una maledizione biblica, risultano essere del tutto perniciose per gli intellettuali isolani e per i Sardi, in generale – che gli spagnoli, a ragion veduta, consideravano pocos, locos y male unidos (pochi, stolti e disuniti) – in quanto impediscono loro di ritrovare innanzitutto quella coesione nazionale e sociale che è assolutamente indispensabile per conquistare l’Indipendenza e affrancarsi definitivamente dal colonialismo italiano, per poi tornare ad aggregarsi – una volta liberatisi – in base alle rispettive visioni del mondo e della società sarda, in quelle formazioni politiche (progressive, moderate o conservatrici) che dovessero essere più congeniali alle loro sensibilità in campo sociale, e al loro modo di vivere, di pensare, di agire e di vedere le cose».
Nella poesia di Francesco Màsala, intitolata Subra sa losa de Antoni Simon Mossa-Paralipomeni all’inno sardo contro i feudatari, ovvero del colonialismo vecchio e nuovo si parla del fatto che «col Piano di Rinascita / i soldi vanno a Milano», delle «case del petrolio / di Sarrock e Portotorres» e del «lavoro da catena» degli operai petrolchimici, dei minatori di Carbonia che lavorano «per un po’ di silicosi / dentro i pozzi acquitrinosi», dei pastori di Pratobello che vanno «allo sbaraglio» e che devono stare «attenti all’artiglieria / che fa i tiri sul bersaglio», dei grassatori di Barbàgia che «nelle banche dei padroni / si nascondono i milioni», dei muratori di Gallura che dopo aver costruito «case d’oro» per l’Aga Khan vanno a coricarsi «sulla paglia», degli emigrati di Sardegna «nelle fabbriche di guerra / di Germania e d’Inghilterra», e dei «politici di Sardegna / pochi, stolti e male uniti».
La visione di Antonio Simon Mossa appare comunque lontanissima dal ridimensionamento che Màsala operava intorno al patrimonio storico della comunità isolana, e dal misconoscimento di Sa die de sa Sardigna (che i sardi considerano invece come la loro vera “Festa nazionale”), quale è emerso anche di recente attraverso alcune distruttive polemiche. Ciò – sia ben chiaro – va affermato con tutto il rispetto dovuto alla personalità dello stesso Masala.
L’architettura mediterranea e la sua visione di un’idea
Antonio Simon Mossa fu un valente urbanista e un arredatore d’interni, nonché uno studioso di problemi dell’insediamento umano, un disegnatore e un geniale architetto dotato di una scalpitante e irrefrenabile fantasia – in virtù della quale creò una forma compositiva inedita, la cosiddetta architettura mediterranea – che per la sua naturalezza incontrò il favore dei committenti.
Architettura nella quale fuse in modo impeccabile, piacevole ed armonico i sette «moduli costruttivi» dell’isola con alcuni elementi architettonici delle abitazioni catalane, castigliane, andaluse, arabe e africane. Moduli, che sono ampiamente descritti nel libro di Vico Mossa, dal titolo: L’architettura domestica in Sardegna (Cagliari, Edizioni della Zattera, Aprile 1957), del quale si consiglia la lettura a quanti volessero approfondire di più l’argomento. Com’è noto, egli – laureatosi in architettura a Firenze nel 1941 – prediligeva l’architettura domestica a dimensione umana e l’impiego nelle sue creazioni architettoniche irrorate di calce, non solo del patio fiorito, dei loggiati con l’arco a pieno tondo, ma anche delle formelle maiolicate. Inoltre vi è da dire che la fantasia e il gusto di Antonio Simon Mossa si accordavano in modo perfetto con le esigenze e i problemi dell’arredamento.
Vico Mossa in L’architetto-La rivincita della fantasia, – articolo apparso nell’inserto speciale de “La Nuova Sardegna” del 18 agosto 1971, dedicato ad Antonio Simon Mossa a poco più di un mese dalla sua scomparsa – così scrisse: «Detestava l’architettura fascista che era sopravvissuta burocraticamente al fascismo; e irrideva a quanti scambiavano per moderno la semplificazione di forme in architettura». Al termine del lungo articolo appena citato sostenne: «Gli imitatori di quei ritmi arcuati sono andati via via moltiplicandosi, senza peraltro cogliere lo spirito che anima quelle forme. è auspicabile, per il buon ricordo dell’artista che le creò, che non si espandano ulteriormente in total guisa, onde non finisca per risultare stucchevole quanto finora è stata una trovata originale e gentile, d’un singolare mondo da favola. Poiché anche le belle favole occorre saperle raccontare».
5.0 – La riunione a Castelsardo con alcuni emissari dell’Aga Khan Karim
Nel febbraio del 1962, per tre giorni consecutivi si riunirono in “conclave” a Castelsardo – presso l’abitazione privata dell’imprenditore Guglielmo Capolino, che si erge a Punta Spinosa, una località panoramica dalla quale si domina il porto castellanese – gli architetti Antonio Simon Mossa, Jacques Coüelle, Raymond Martin, Michele e Giancarlo Busiri Vici, Leopoldo Mastrella, Madame Rohan, Luigi Vietti e lo scultore Giò Pomodoro, alla presenza mia e dell’imprenditore D’Agostino, titolare dell’omonima fabbrica di ceramiche, smaltate e decorate a mano, con stabilimenti a Salerno e a Terni.
Nel corso di quelle tre giornate vennero visionati e analizzati minuziosamente dagli emissari dell’Aga Khan Karim tutti i progetti realizzati dall’architetto Antonio Simon Mossa, comprese le diapositive delle opere già eseguite, e alcuni giorni dopo, per la sua genialità e la sua straordinaria bravura, venne chiamato a far parte dello staff di architetti della Costa Smeralda, che di lì a poco iniziò a riunirsi all’hotel Jolly di Olbia.
5.1 – Le opere architettoniche di Antonio Simon Mossa
Antonio Simon Mossa, nel corso della sua breve ma intensa vita terrena, realizzò una moltitudine di piacevolissime opere architettoniche, ad iniziare dalla Escala del Cabirol (la Scala del Daino), che è un’ardita e straordinaria scala a rampe di 670 gradini, costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso sul costone roccioso del promontorio calcareo di Capo Caccia, in territorio di Alghero, che s’erge a picco sul mare per circa 170 metri. Nelle sue viscere è racchiusa la famosa e caratteristica Grotta di Nettuno, il cui ingresso si apre a circa un metro di distanza dal livello del mare.
Si tratta di una scala perfettamente mimetizzata nell’ambiente circostante e quasi impercettibile dal mare, dalla quale si può accedere da terra all’Antro di Nettuno, anche quando le condizioni proibitive del mare non consentono l’accesso marino. Poi, sempre ad Alghero, progettò il Palàu de València e il Palàu del Sol; sorsero anche, sulla base dei suoi progetti, gli alberghi: Hotel Capo Caccia, Porto Conte, El Faro, Corte Rosada, La Lepanto, Coral, Punta Negra e Dei Pini in Alghero; l’Hotel Cala Reale a Stintino.
Progettò inoltre gli Hotel Mirage, Moresco, Dei Due Mari di Hoeffler, e il complesso residenziale di Guardia del Corsaro in Santa Teresa di Gallura; l’Hotel L’Altura a Palau; l’Hotel L’Abi d’Oru di Marinella in Olbia; gli Hotel Del Golfo e Villaggio La Plata in Sorso, lungo la così detta Riviera di Platamona; le ville Plaisant e Risso in Alghero, quest’ultima in località Lazzaretto; la villa Padùla in Fertilia; le ville: Riccardi, della Begum (moglie dell’Aga Khan), del geom. Scano e Fèrgusson in Arzachena; le ville: dello Svizzero, in località La Pelosa e Silvestrini a Stintino.
Ad Antonio Simon Mossa si devono pure la realizzazione di El cavall marí e la ristrutturazione ad Alghero del Molo vecchio di Turilli, nei pressi dei bastioni Colombo, ed un’altra serie di interventi nel centro storico; il piano regolatore generale del Comune; la progettazione e realizzazione dell’aerostazione di Alghero-Fertilia (quella «vecchia», per intenderci!, che l’allora Ministero dell’Aviazione Civile adottò come modello per la costruzione di una serie di piccoli aeroporti che vennero poi programmati, finanziati e realizzati nell’Italia Meridionale); la progettazione dell’ospedale civile e la realizzazione dell’ospedale marino; la casa di riposo per anziani, e le ristrutturazioni della cattedrale di San Francesco e della cupola della chiesa di San Michele; nonché la costruzione di svariati edifici condominiali con appartamenti residenziali di civile abitazione.
In Nùoro realizzò il Museo del Costume, e ristrutturò la chiesa di Santa Maria della Neve e la chiesetta della Solitudine (ove riposano le spoglie mortali di Grazia Deledda), per la cui messa in pristino si avvalse della collaborazione del pittore nuorese Giovanni Ciusa-Romagna; in Sorso costruì l’asilo «Catta», le scuole elementari e la scuola media, e ristrutturò la chiesa parrocchiale di San Pantaleo; in Sassari il Brefotrofio di viale delle Croci (ex ospizio per bambini abbandonati, che attualmente ospita alcuni uffici dell’Università).
Sempre a Sassari progettò la sede provinciale dell’Automobil Club Italiano; la ristrutturazione della chiesa di San Sisto e della chiesa di Sant’Apollinare; alcune eleganti ville padronali in San Pietro di Silki; diverse palazzine del Banco di Sardegna, e numerosi edifici di civile abitazione, tra i quali l’edificio «Las Floridas», nonché il bar «Pirino» (attuale bar Maraviglia), ove realizzò la scala che porta al soppalco, il bar Cafezinho e il bar Aroni tra corso Vico e piazza Santa Maria.
Intorno agli anni Sessanta progettò inoltre a Sassari con grande lungimiranza un’autostazione, che si sarebbe dovuta edificare nel giardino antistante l’emiciclo Garibaldi, ove attualmente sta per sorgere la stazione della Metropolitana di superficie. In Santa Teresa di Gallura progettò e realizzò la chiesetta di Capo Testa; provvide ad elaborare i piani regolatori dei Comuni di Padria e Thiesi; costruì la scuola media di San Gavino Monreale; in Olbia progettò la villa di Paolo Riccardi e tracciò e realizzò la strada litoranea, con piazzuole panoramiche, che, passando per Portisco, congiunge Olbia alla Costa Smeralda, per la cui società progettò il Borgo dei pescatori mai realizzato.
A Fertilia ristrutturò la chiesa parrocchiale di San Marco, il Belvedere a Mare e il centro storico; a Porto Raphael progettò la villa Raphael e le prime case di quell’insediamento turistico; in Siniscola alcune opere di interesse pubblico; in La Maddalena ristrutturò la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena, progettò e costruì le case popolari e il palazzo delle poste; in Valledoria la chiesa parrocchiale, in Laerru il palazzo comunale, in Nuoro gli alloggi popolari INA Casa.
In Alghero Antonio Simon Mossa si occupò anche della ristrutturazione della cattedrale di Santa Maria in piazza Duomo; della progettazione dell’Hotel Carlos V, di una villa nel Condominio turistico di Calabona, e del complesso edilizio-abitativo «L’asfodelo» di Gian Battista Muzio, figlio dell’avv. Muzio, che era il decano dei rotariani della Sardegna, e in Sorso della ristrutturazione di varie chiese.
A Platamona (Sassari) si interessò della progettazione della villa Padùla; a Perdasdefogu, in provincia di Nùoro, realizzò la residenza degli ufficiali; mentre in Santa Teresa di Gallura progettò il condominio turistico Benassi, all’interno del quale realizzò la villa Benassi, un’elegante ed ardita costruzione, edificata su più piani e a diversi livelli, sulle rocce a strapiombo sul mare. Inoltre studiò e realizzò per conto del Centro Regionale di Programmazione un progetto organico per il comprensorio agro-turistico della Costa orientale del Nord Sardegna, da Capo Coda Cavallo a Cala Luna, e pubblicò numerosi saggi sul turismo e l’architettura sarda, tra i quali mi piace soprattutto ricordare le Considerazioni sul turismo in Sardegna del 1966 e le Note sulla politica turistica (regionale) del 1969; nonché un libro intitolato: L’arquitectura gòtica catalana a Sardenya (L’architettura gotico-catalana in Sardegna), scritto a quattro mani da Antonio Simon Mossa con il collega catalano Adolf Florensa i Ferrer.
5.2 –Gli Enti Pubblici regionali e statali estromettono Antonio Simon Mossa da tutti gli incarichi professionali per la sua insofferenza a piegarsi alle pressioni politiche
Per le sue irriducibili posizioni ideologiche, il suo profondo attaccamento agli ideali di libertà e di indipendenza politica, economica, culturale e linguistica della Nazione Sarda – nonché per il suo rifiuto a piegarsi ai riti della politica praticata da una classe dirigente sarda che, ammantandosi di solennità nella forma, voleva apparire onesta, costumata e ligia alla morale sociale comune, ma che era solo ed esclusivamente succursalista e clientelare nella sostanza – Antonio Simon Mossa venne escluso da tutti gli incarichi professionali degli Enti Pubblici, ma non per questo si perse d’animo perché era pienamente cosciente della sua eccezionale abilità professionale. Abilità per la quale venne chiamato nel settembre 1961 dall’Aga Khan Karim a far parte dello staff di ingegneri e architetti che doveva progettare la Costa Smeralda.
Collaborazione prestigiosa, questa, che però interruppe alcuni anni dopo, quando si accorse che – una volta realizzato il nucleo storico della Costa, nel più assoluto rispetto dell’ambiente e del paesaggio – il Principe, forse in ciò spinto dagli altri finanziatori del Consorzio, mostrava in modo sempre più evidente di essere interessato ad avviare nell’isola una speculazione turistico-immobiliare di enormi proporzioni. Fatto, questo, che convinse il Nostro a ritirarsi dall’affare e a non presentare al Consorzio per il pagamento le sue parcelle professionali per i progetti commissionatigli, come pure a rifiutare sdegnosamente tutti gli emolumenti a lui spettanti.
In proposito va detto che Antonio Simon Mossa, nell’accettare «con riserva» il prestigioso incarico professionale e la collaborazione con il Consorzio Costa Smeralda, aveva posto alcune condizioni, tra le quali, in primo luogo, quella che tutte le ville non dovessero superare i sedici metri di altezza nella parte più elevata del tetto e i quattordici sul lato spiovente, che gli infissi dovessero essere in legno e che gli archi dovessero essere a tutto tondo. Le maestranze ricordano che egli in Costa si spostava dappertutto, a piedi, con al seguito l’Aga Khan, gli architetti Jacques Coüelle, i Busiri Vici, Raymond Martin, Luigi Vietti e un gruppo di operai che portavano con loro delle pertiche di 16 e 14 metri per stabilire l’altezza che dovevano avere le ville rispetto alle collinette.
5.3 – Alcuni giudizi espressi sulle sue creazioni architettoniche
La rivista madrilena “Arquitectura” nel n. 8-9 dell’Agosto-Settembre 1971 così ebbe a definirlo per la leggiadra genialità delle sue opere architettoniche, all’indomani della morte: «Antoni Simon Mossa ha estado el mejor arquitecto de la Italia centro-meridionale y uno de los mejores de Europa por la forma genial con que ha sabido proponer de nuevo, adaptándolo a los tiempos
modernos, el viejo y desusado estilo árabe-mediterráneo de las construcciones de arco y fundirlo a los siete modulos constructivos de las habitaciones de Çerdeña» («Antonio Simon Mossa è stato il miglior architetto dell’Italia centro-meridionale e uno dei migliori d’Europa per il modo geniale con cui ha saputo riproporre, adattandolo ai tempi moderni, il vecchio e desueto stile arabo-mediterraneo delle costruzioni ad arco e fonderlo ai sette moduli costruttivi delle abitazioni di Sardegna»).
Respingiamo invece il severo giudizio espresso da Richard Price in una sua monografia sul turismo in Sardegna, dal titolo: Una geografia del turismo: paesaggio e insediamenti umani sulle coste della Sardegna – pubblicata per conto del Formez (Tipografia G. Gallizzi srl, Sassari, 1983), con Introduzione di Fernando Clemente, e traduzione, dall’inglese in italiano, a cura di Manlio Brigaglia – sul ruolo svolto dall’architetto Antonio Simon Mossa con le sue opere architettoniche. Esso ci appare del tutto frettoloso, superficiale e fondamentalmente errato (oltreché dettato da taluni insipienti ingegneri e architetti sardi di cui Price si circondava, privi totalmente di creatività, e perciò stesso invidiosi della fama che al Simon derivava dalla sua bravura professionale).
Egli attribuisce al Nostro soprattutto quelle creazioni di cattivo gusto progettate da alcuni suoi incapaci e pedestri imitatori, anziché prendere in esame il progetto urbanistico del Borgo dei Pescatori che sarebbe dovuto sorgere in Costa Smeralda, l’architettura delle ville, delle chiese, e delle costruzioni di edilizia abitativa e dei numerosi complessi alberghieri realmente progettati dal Simon in tutta l’isola, ove compaiono sia l’arco decorativo «a tutto tondo» sia i cortili delle lolle campidanesi, nonché i tetti realizzati con le tegole sarde arcuate o coppi.
Per approfondire al riguardo l’analisi e il giudizio rinviamo alle qualificanti relazioni di Vanni Maciocco, Stefano Gizzi, Giuseppe Bertulu, Franco Masala, Giovanni Oliva e Giovanni Pigozzi.
5.4 –Antonio Simon Mossa e la sua battaglia ecologista in difesa dell’ambiente, della natura e del territorio dell’isola
Antonio Simon Mossa nel numero 11 della rivista «Realtà del Mezzogiorno» (edita nel novembre del 1969 a Roma da De Luca Editore), pubblicò un suo saggio dal titolo: Note sulla politica turistica operata dal Governo Regionale Sardo nel ventennio precedente, «sia direttamente, cioè attraverso i suoi organi istituzionali, o indirettamente, mediante gli istituti collaterali e le incentivazioni». Egli manifestò, da quel grande ambientalista ed ecologista ante litteram qual era, con estrema chiarezza e nei termini seguenti il suo pensiero in ordine all’esigenza di salvaguardare le coste e i centri abitati dell’isola dalla speculazione edilizia e dall’aggressione selvaggia del cemento:
«In Sardegna le risorse paesistiche sono notevoli tanto sulle coste come nell’entroterra, cui è doveroso aggiungere l’aspetto dei nuclei abitati ad insediamento antico, che si inserisce stupendamente nelle zone di maggior interesse. Il pericolo di aggressione al paesaggio, dal quale ci si difende con i piani territoriali paesistici, rappresentato dall’avanzata del cemento è presente in Sardegna tanto sulle coste e nei territori vergini, quanto nei nuclei abitati, ove un’edilizia e un’urbanistica balorde stanno lentamente distruggendo i valori ambientali più genuini. Sulla conservazione di tali risorse che hanno per il turismo un valore incalcolabile, l’amministrazione regionale non ha dimostrato, almeno sino ad oggi, alcuna particolare sensibilità. Ma nemmeno, purtroppo, le stesse Soprintendenze ai Monumenti e Gallerie hanno saputo difendere tali elementi di paesaggio umano, preoccupandosi quasi esclusivamente del paesaggio naturale e di qualche monumento sparso.
«Riteniamo, al contrario, che proprio il paesaggio urbano che si è conservato in moltissime località, soprattutto in quelle a vocazione turistica, debba essere difeso con vincoli assai forti, come del resto hanno proposto in tutto o in parte gli stessi piani turistici regionali. Con la politica dei nuovi programmi di fabbricazione, resi obbligatori dalla Legge 765, non vi è dubbio che si corre il rischio, ove le Soprintendenze e il Governo Regionale non agiscano di conserva e in perfetto accordo, di snaturare completamente alcune zone di interesse notevolissimo, in cui, come dicevamo, il paesaggio umano costituisce il necessario complemento di quello naturale. Tale problema non è stato nemmeno sfiorato in campo assembleare, e ciò perché miraggi di sviluppo economico, su rapporto sbagliato, in quanto basato su raffronto con altre zone del continente aventi caratteristiche completamente diverse, hanno accecato del tutto il “visus” dei consiglieri regionali, facendo loro dimenticare, se non ignorare, risorse di tipo differente, ma altrettanto valide per lo sviluppo dell’economia isolana.
«Se nella nuova legge urbanistica non si terrà nel dovuto conto la difesa ambientale, necessario corollario urbanistico (a parte i conflitti di competenza tra Stato e Regione), si continuerà ad operare in modo negativo, in quanto verranno cancellate molte delle risorse che invece appaiono fondamentali, anche se complementari a quelle del paesaggio naturale. Ma la politica turistica regionale dovrà soprattutto articolarsi in un approfondimento dei problemi economici direttamente e indirettamente legati al turismo, all’organizzazione in parallelo dei trasporti e della ricettività, alla programmazione delle opere infrastrutturali secondo scale prioritarie chiaramente precisate e in rapporto al piano di sviluppo globale, al coordinamento generale di tutte le attività connesse col turismo».
6.0 – Conclusioni
Con la presentazione di questo importante volume degli atti del convegno su Antonio Simon Mossa, celebratosi a Sassari il 10-13 Aprile 2003 sotto la presidenza di Federico Francioni, mi auguro che finalmente la figura di questo grande intellettuale ed eminente uomo politico vissuto nel secolo scorso, al quale mi legava sia un rapporto di profonda amicizia e di sincero affetto sia una totale condivisione del suo pensiero politico, riemerga alla Storia della Sardegna dall’oblio nel quale è stato deliberatamente cacciato ad opera di intellettuali subalterni, da sempre nemici – dichiarati e conclamati – della Cultura e della Lingua Sarda, da essi considerata «arcaica», «rozza», «passatista», e incapace di veicolare la cultura moderna.
Ecco quanto sosteneva in quel lontano 1969 (e precisamente nella giornata del 22 giugno, in San Leonardo di Siete Fuentes) Antonio Simon Mossa, con grande lucidità e lungimiranza: « [...] Non vi è che la strada della verità, da percorrere sino in fondo. Quella strada sulla quale si sono incamminati da tempo altri popoli, come i Baschi, i Curdi, i Gallesi, gli Scozzesi, i Brètoni, i Catalani, i Làpponi e gli stessi Còrsi: popoli che resistono con ostinazione disperata alla prepotenza dei governi oppressori, e nella loro resistenza tenace e spesso eroica – che assume forme diverse a seconda del grado di civiltà e della situazione politica generale dei loro paesi – ottengono successi sempre più clamorosi. Ma quei popoli sono guidati nella lotta da minoranze vivaci, colte, intelligenti, decise, coraggiose. Minoranze che a poco a poco creano una opinione pubblica favorevole, minoranze e nuclei attivi che riescono a risuscitare e rianimare la coscienza di popoli ormai stanchi di servire e soffrire, di popoli senza speranza, come il Popolo Sardo».
Ed ancora: «Ma sino a che non daremo un contenuto socialmente avanzato a questa lotta, sino a che non chiariremo a tutte lettere quali dovranno essere le condizioni della nostra società futura, sino a che non definiremo con decisione i precisi termini di una pianificazione realistica e – allo stesso tempo – avveniristica, nessuno dei sardi potrà darci ascolto, né potrà credere alla nostra sincerità. In quanto noi continueremmo a esprimerci in un linguaggio che per loro sarà incomprensibile, in quanto modellato su quello dell’oppressore: un linguaggio privo di chiarezza e ricco di demagogico paternalismo: quello stesso linguaggio di una classe di oppressori che niente altro trovano che servire le ideologie e i mezzi di governo di importazione...».
Ed inoltre nel 1967, il 10 giugno, in un convegno di indipendentisti in Ollolai, nella Barbàgia: «Ciò che è ben grave è il fatto che in larghissima parte degli intellettuali sardi si sia radicata l’idea che l’integrazione è ineluttabile e indispensabile perché la Sardegna risorga. Se la nostra storia fosse stata parallela a quella italiana per un lungo periodo, se la cultura della nostra gente fosse identica a quella italiana, se le tradizioni e la lingua fossero state le stesse della vicina Italia, se i presupposti di sviluppo economico avessero coinciso con quelli italiani, allora l’integrazione sarebbe stata indispensabile, ma soprattutto saggia. Ma in tal caso non avremmo potuto parlare di una Comunità Etnica Sarda, e le nostre condizioni (anche se di meridionali depressi) sarebbero state assai differenti, e tutti questi problemi, tutte queste riserve, non si sarebbero mai posti».
Ed infine: «In realtà, dopo quasi duecentocinquanta anni di dominio italo-piemontese l’integrazione non è avvenuta, non ostante la costante opera di spersonalizzazione e snazionalizzazione compiuta dai piemontesi prima e dagli italiani in seguito. Non è colpa nostra (e potrebbe essere anche la nostra sventura) se noi non siamo italiani e non potremmo mai esserlo. Ma non dimenticate che la cultura ancestrale non si uccide se non si uccide materialmente ogni uomo di quel popolo. Avete visto gli Ebrei? Mi direte: altra cultura, altra civiltà, altra spiritualità. Sì, questo è vero. Ma il principio è identico. Storicamente siamo una Comunità Etnica distinta e omogenea, e in nome di questa realtà reclamiamo i nostri diritti non solo di fronte all’Italia, ma a tutto il mondo civile».
A questo punto la domanda che mi pongo è la seguente: come mai una personalità di tanta intelligenza e di così alto ingegno è stata pressoché dimenticata o non adeguatamente valorizzata dagli intellettuali accademici ed “ufficiali”? Forse – io credo – le sue intuizioni politiche, culturali, linguistiche e letterarie erano troppo avanti rispetto ai tempi e controcorrente, perché qualcuno le potesse recepire. Ed è per questo che la sua figura e le sue geniali intuizioni nei fatti sono state a lungo oscurate.
Ma egli fu il leader indiscusso e incontrastato della componente nazionalitaria e indipendentista del Partito Sardo d’Azione e un caposcuola le cui idee si diffusero lentamente, e progressivamente – tra gli studiosi e i cultori della Lingua Sarda e della cultura del Popolo che la parla, tra gli intellettuali e gli operatori culturali, e tra i politici impegnati nel cambiamento delle condizioni economiche, sociali, culturali e ambientali della nostra isola, e maggiormente aperti e sensibili alle tematiche identitarie – fino a permeare in profondità l’intera società sarda.
Sulle orme del suo magistero nacquero alcuni circoli politico-culturali, quali «Città-Campagna» e il «Circolo giovanile di Orgòsolo». Dopo la Sua scomparsa si formarono altre associazioni politico-culturali e sindacali, emittenti radiofoniche libere (anticolonialiste e di controinformazione politica), circoli, organizzazioni e movimenti politici, nonché partiti e periodici di ispirazione “sardista”, anticolonialista e nazionalitaria, indipendentista e identitaria, etnofederalista ed antimperialista, che determinarono sul finire degli anni sessanta e seguenti – con l’abbandono della Questione sarda per la “Questione nazionale sarda” – la nascita del cosiddetto Terzo Sardismo, o “Neosardismo” che dir si voglia.
Circoli, associazioni, radio libere, organizzazioni, movimenti e partiti politici che propugnavano le stesse tematiche portate avanti da Antonio Simon Mossa, quali il riconoscimento della Nazione Sarda e del suo idioma materno come prima lingua nazionale del Popolo Sardo, la difesa della cultura etnica, il ricupero dell’Identità nazionale dei Sardi, la rivendicazione per questa nostra Terra di un «Federalismo delle Nazionalità», l’ottenimento di un nuovo Statuto di Autonomia Statuale della Sardegna (da strappare a Roma), con i più ampi poteri decisionali nell’ambito di una Repubblica Federale Sovrannazionale. Tali organismi, come è noto, si proponevano di raggiungere gli stessi obiettivi, o quantomeno finalità analoghe, ma con accenti e modalità diversi.
Ma ora che ci stiamo avvicinando all’alba del 2005 tutto ciò che disse Simon Mossa nei lontani anni Sessanta del secolo scorso, in ordine alla Lingua Sarda, alla battaglia ecologista in difesa della natura, dell’ambiente e del territorio della Sardegna, alla creazione di un grande e organizzato Movimento indipendentista della Nazione Sarda in grado di condizionare tutti i partiti – «sardo-nazionali» o «italo-succursalisti» – operanti nell’isola, alla Confederazione Europea dei Popoli e non degli Stati, e alla formazione di un Sindacato Nazionale dei Lavoratori Sardi, nonché lo stesso giudizio da lui espresso sugli Stati ottocenteschi europei, che considerava come delle carcasse storiche del ventesimo secolo da abbattere, e dalla cui ceneri far nascere la nuova Europa dei Popoli e delle «Nazioni senza Stato», ha il sapore delle profezie che si avverano.
Ed è per questo che nel Convegno – come pure all’indomani della sua morte – molti intellettuali, uomini di cultura, architetti, giuristi, scrittori, storici, letterati, linguisti, giornalisti, politici, sindacalisti ed economisti (italiani, sardi e catalani), forse ricredendosi, hanno voluto commemorare questo intellettuale scomodo per i tempi, nel modo più degno possibile. Per quel che riguarda me, e tutti coloro che hanno creduto e che continuano a credere nelle sue idee, mi auguro che la sua eredità professionale, politica e culturale diventi una sorta di “stella polare” cui possano guardare tutti i popoli oppressi del mondo e le Nazioni senza Stato, da sempre in lotta per decidere liberamente il proprio destino.
Giampiero Marras
Florinas, 2
Fonte: Sassarisera
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