Jeremy Rifkin La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi
L’urgenza di costruire una visione integrata dell’uomo e della sua storia – una pan-antropologia, dunque, utilizzando i dati forniti da molteplici discipline – evoluzionismo, genetica, neurobiologia, psicologia, psicoanalisi, storia, sociologia, economia, politica, ecc. -, non è mai stata viva come oggi.
Ritengo che questo dipenda da due fattori correlati tra loro: per un verso, dalla crisi nella quale versa la civiltà occidentale, i cui valori fondanti – storicamente riconducibili al Cristianesimo, al Liberalismo e al Socialismo – appaiono sempre più scollati e astratti rispetto ad una realtà sociale atomizzata, anomica, liquida (nell’accezione di Bauman); per un altro, dal fallimento del pensiero debole o più in generale post-modernista, che non è riuscito minimamente ad incidere sulla coscienza sociale, la quale appare sempre più orientata verso il recupero di tradizioni e valori etnocentici, compresi i rischi di rigurgiti sciovinisti e razzisti che ciò comporta.
L’urgenza è comprovata dal fatto che, in tutto l’arco delle scienze umani e sociali e della stessa filosofia, molteplici autori, partendo da una competenza riferita ad un determinato ambito, allargano il loro sguardo nel tentativo di includere tutti gli altri. Dato che tentativi del genere sono stati portati avanti, negli ultimi anni, fa genetisti, biologi evoluzionisti, psicologi, psicoanalisti, sociologi, filosofi, ecc., c’è da pensare che essi corrispondano, più che a forme di imperialismo disciplinare o semplicemente di narcisismo, ad una sorta di “compulsione” intellettuale, destinata, un giorno o l’altro, ad esitare in uno sforzo autenticamente interdisciplinare, reso per ora difficile o impossibile dalla diversità dei linguaggi tecnici. Il rischio dei tentativi che vengono posti in essere è, ovviamente, che i dati non appartenenti all’ambito di competenza dell’autore vengano utilizzati “disinvoltamente”, vale a dire in maniera impropria o imprecisa.
È un rischio da correre, ma, nella misura in cui il pericolo ch’esso comporta si realizza, è giusto segnalarlo, senza che ciò significhi sminuire il valore di un’opera.
Ne La civiltà dell’empatia di Rifkin tale pericolo, in una certa misura, si realizza, ma associato ad una tale densità di pensiero e passione da meritare ammirazione. Questa recensione non è dunque una “stroncatura”, bensì il tentativo di definire criticamente un concetto essenziale ai fini della costruzione di un modello pan-antropologico – quello, appunto, di empatia.
Jeremy Rifkin, sociologo ed economista, appartiene, con Jacques Attali, alla schiera dei tecnocrati illuminati, vale a dire degli studiosi che valorizzano al massimo grado lo sviluppo della tecnologia identificando in esso il motore della storia umana e, benché siano consapevoli dell’ambivalenza intrinseca in essa (alienazione/umanizzazione), nondimeno vi si appellano per preconizzare un futuro “ottimistico”.
In maniera complementare ad Attali, che in Breve storia del futuro prevede l’avvento di una iperdemocrazia portata avanti da imprenditori relazionali interessati al bene comune più che alle ragioni di mercato, Rifkin che, in opere precedenti (La fine del lavoro, Il sogno europeo), ha sempre valorizzato l’economia sociale fondata sugli scambi relazionali più che mercantili, vede all’orizzonte la possibilità di una terza rivoluzione industriale, destinata a portare l’umanità fuori dalla sua “preistoria”. Egli insomma pone un nesso di continuità tra il passato e il futuro, e ritiene che i segni del trapasso siano già del tutto evidenti.
Tra questi segni il più importante è il recupero della socialità empatica che il liberismo ha mortificato e negato. Egli ritiene, però, sia pure implicitamente, che quella negazione era necessaria per arrivare al punto che l’individuo sviluppato e differenziato percepisse l’unicità e la caducità dell’esistenza, la sua solitudine esistenziale, la sua infelicità: sentimenti, questi, che promuovono e riabilitano l’empatia e il bisogno di legami sociali significativi.
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Purtroppo, per arrivare a questo livello di sviluppo, l’’umanità ha dovuto utilizzare e saccheggiare le risorse energetiche del pianeta, sicché la Civiltà dell’empatia, che secondo Rifkin si profila all’orizzonte, si trova sull’orlo di un baratro ecologico.
Questo paradosso è il tema centrale del saggio e viene esplicitato chiaramente nell’introduzione:
Questo libro presenta una nuova interpretazione della storia della civiltà alla luce dell’evoluzione empatica della razza umana e della sua profonda influenza sullo sviluppo e, probabilmente, sul futuro della nostra specie.
Dalle ricerche scientifiche in ambito biologico e cognitivo sta emergendo una visione radicalmente nuova della natura umana che suscita controversie non solo nei circoli intellettuali, ma anche nella comunità economica e politica. Recenti scoperte nel campo della neurologia e delle scienze dell’età evolutiva, infatti, ci costringono a rivedere l’inveterata convinzione che gli esseri umani siano per natura aggressivi, materialisti, utilitaristi e dominati dall’interesse personale. La graduale presa di coscienza del fatto che siamo membri di una specie profondamente empatica ha ampie ricadute sulla società.
Questa nuova interpretazione della natura umana apre la porta a un’avventura assolutamente medita. Le pagine che seguono ricostruiscono l’affascinante storia dello sviluppo dell’empatia nell’uomo, dal nostro antico passato mitologico all’ascesa delle grandi civiltà teologiche, all’era ideologica che ha dominato il Settecento e l’Ottocento, all’era psicologica che ha caratterizzato gran parte del Novecento, fino al drammatico inizio del ventunesimo secolo.
Osservare la storia economica attraverso la lente dell’empatia ci permette di scoprire alcuni fili della vicenda umana finora nascosti. Il risultato è un nuovo arazzo sociale – la «civiltà dell’empatia» – tessuto a partire da varie discipline: dalla letteratura alle arti, dalla teologia alla filosofia, dall’antropologia alla sociologia, dalle scienze politiche alla psicologia, alla teoria della comunicazione.
Al centro della storia umana c’è la paradossale relazione che intercorre fra empatia ed entropia. Nel corso dei secoli, la convergenza di nuovi regimi energetici e di nuove rivoluzioni nel campo delle comunicazioni ha creato società sempre più complesse. Le civiltà tecnologicamente più avanzate hanno mescolato popoli diversi, aumentando la sensibilità empatica e facendo espandere la coscienza umana. Ma questa crescente complessità ha comportato un enorme impiego di risorse naturali, che ora rischiano di esaurirsi.
Per colmo di ironia, lo sviluppo della coscienza empatica è stato reso possibile solo da un consumo sempre maggiore di energia e risorse naturali, che ha condotto a un drastico deterioramento della salute del pianeta.
Oggi ci troviamo di fronte alla catastrofica prospettiva di raggiungere finalmente uno stato di empatia globale in un mondo interconnesso, ad alta intensità di energia, mentre il sempre più oneroso conto entropico minaccia di provocare un cataclisma climatico e mette in discussione la nostra stessa sopravvivenza. La risoluzione del paradosso empatia-entropia sarà molto probabilmente il banco di prova definitivo della capacità della specie umana di sopravvivere e prosperare in futuro sulla terra. Ma, per riuscire a vincere la sfida, sarà necessario un radicale ripensamento dei nostri modelli economici, filosofici e sociali…
Ritengo che ci troviamo al punto di svolta verso una transizione epocale a un’economia «climacica» globale e a un radicale riposizionamento della presenza dell’uomo sul pianeta. L’era della ragione sta per essere sostituita dall’era dell’empatia. 2
Forse la domanda cruciale alla quale l’umanità deve dare una risposta è: possiamo raggiungere l’empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?
pp. 3-5
Dalle ricerche scientifiche in ambito biologico e cognitivo sta emergendo una visione radicalmente nuova della natura umana che suscita controversie non solo nei circoli intellettuali, ma anche nella comunità economica e politica. Recenti scoperte nel campo della neurologia e delle scienze dell’età evolutiva, infatti, ci costringono a rivedere l’inveterata convinzione che gli esseri umani siano per natura aggressivi, materialisti, utilitaristi e dominati dall’interesse personale. La graduale presa di coscienza del fatto che siamo membri di una specie profondamente empatica ha ampie ricadute sulla società.
Questa nuova interpretazione della natura umana apre la porta a un’avventura assolutamente medita. Le pagine che seguono ricostruiscono l’affascinante storia dello sviluppo dell’empatia nell’uomo, dal nostro antico passato mitologico all’ascesa delle grandi civiltà teologiche, all’era ideologica che ha dominato il Settecento e l’Ottocento, all’era psicologica che ha caratterizzato gran parte del Novecento, fino al drammatico inizio del ventunesimo secolo.
Osservare la storia economica attraverso la lente dell’empatia ci permette di scoprire alcuni fili della vicenda umana finora nascosti. Il risultato è un nuovo arazzo sociale – la «civiltà dell’empatia» – tessuto a partire da varie discipline: dalla letteratura alle arti, dalla teologia alla filosofia, dall’antropologia alla sociologia, dalle scienze politiche alla psicologia, alla teoria della comunicazione.
Al centro della storia umana c’è la paradossale relazione che intercorre fra empatia ed entropia. Nel corso dei secoli, la convergenza di nuovi regimi energetici e di nuove rivoluzioni nel campo delle comunicazioni ha creato società sempre più complesse. Le civiltà tecnologicamente più avanzate hanno mescolato popoli diversi, aumentando la sensibilità empatica e facendo espandere la coscienza umana. Ma questa crescente complessità ha comportato un enorme impiego di risorse naturali, che ora rischiano di esaurirsi.
Per colmo di ironia, lo sviluppo della coscienza empatica è stato reso possibile solo da un consumo sempre maggiore di energia e risorse naturali, che ha condotto a un drastico deterioramento della salute del pianeta.
Oggi ci troviamo di fronte alla catastrofica prospettiva di raggiungere finalmente uno stato di empatia globale in un mondo interconnesso, ad alta intensità di energia, mentre il sempre più oneroso conto entropico minaccia di provocare un cataclisma climatico e mette in discussione la nostra stessa sopravvivenza. La risoluzione del paradosso empatia-entropia sarà molto probabilmente il banco di prova definitivo della capacità della specie umana di sopravvivere e prosperare in futuro sulla terra. Ma, per riuscire a vincere la sfida, sarà necessario un radicale ripensamento dei nostri modelli economici, filosofici e sociali…
Ritengo che ci troviamo al punto di svolta verso una transizione epocale a un’economia «climacica» globale e a un radicale riposizionamento della presenza dell’uomo sul pianeta. L’era della ragione sta per essere sostituita dall’era dell’empatia. 2
Forse la domanda cruciale alla quale l’umanità deve dare una risposta è: possiamo raggiungere l’empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?
pp. 3-5
Una nuova ricostruzione della storia della civiltà, aperta su di un’alternativa che può essere la catastrofe della specie o il suo approdo ad una socializzazione universale empatica: essendo questa la tesi di fondo del saggio, è difficile negare la sua ambizione panantrolopologica.
La tesi viene confermata nel capitolo I, che anticipa le tre parti di cui si compone il saggio, e il cui titolo, per l’appunto, è: Il paradosso nascosto nella storia dell’uomo.
La tesi viene confermata nel capitolo I, che anticipa le tre parti di cui si compone il saggio, e il cui titolo, per l’appunto, è: Il paradosso nascosto nella storia dell’uomo.
Sappiamo già dall’introduzione di cosa si tratta, ma non è inopportuno documentare come Rifkin ne definisce i termini.
C’è, secondo l’autore, una storia dell’uomo che non è mai stata raccontata e fa capo al ruolo svolto dall’empatia:
Negli ultimi tempi c’è la tendenza a mettere in discussione l’idea che alla base della vicenda umana ci sia un senso che permea e trascende tutte le diverse narrazioni culturali che costituiscono le molteplici storie della nostra specie, e che forniscono il collante sociale per ciascuna delle nostre odissee. Questa concezione quasi certamente provocherebbe una generale smorfia di disgusto tra gli studiosi postmoderni, ma le prove sperimentali suggeriscono che, probabilmente, esiste un tema dominante nell’umana avventura.
I nostri cronisti ufficiali – gli storici – hanno dato poco spazio all’empatia come forza determinante nello svolgimento delle vicende umane. In genere gli storici scrivono di conflitti sociali e guerre, di grandi eroi e terribili malfattori, di progresso tecnologico e di esercizio del potere, di ingiustizia economica e di tensioni sociali. Quando gli storici si occupano di filosofia, di solito lo fanno in relazione all’organizzazione del potere. Raramente li sentiamo parlare dell’altra faccia dell’esperienza umana: quella che rivela la nostra profonda natura sociale, l’evoluzione e l’estensione degli affetti e l’impatto di tutto ciò sulla cultura e sulla società.
Il filosofo Georg Witheim Friedrich Hegel ebbe a dire che la felicità si trova «nelle pagine bianche della storia» perché esse corrispondono a «periodi di armonia». Le persone felici di solito vivono la propria vita in un «micromondo» di strette relazioni famigliari e di contatti sociali più estesi. La storia invece, nella maggior parte dei casi, è scritta dai delusi e dagli scontenti, dagli arrabbiati e dai ribelli, o da coloro che sono interessati a esercitare l’autorità sugli altri e a sfruttarli, e dalle loro vittime, intenzionate a correggere i torti e a ristabilire la giustizia. In tal senso, gran parte della storia scritta riguarda le patologie del potere.
Forse è questa la ragione per cui, quando pensiamo alla natura umana, la nostra analisi è così sconfortante. La nostra memoria collettiva si misura in termini di crisi e calamità, di feroci ingiustizie e terrificanti episodi di brutalità che infliggiamo ai nostri simili e alle altre creature. Ma se fossero questi gli elementi cardine dell’esperienza umana, l’uomo sarebbe già estinto da tempo.
Da qui sorge la domanda: perché siamo giunti a pensare a noi stessi in termini così tetri? La risposta è che i racconti di disastri e disgrazie hanno il potere di colpirci: sono inattesi e perciò suscitano allarme e interesse. Questo perché eventi di tal genere sono inusitati, non rappresentano la norma, fanno notizia, e quindi diventano materia di storia.
Il mondo quotidiano è assai diverso. Anche se la vita di tutti i giorni, vissuta nel proprio ambiente domestico, è punteggiata di sofferenze, tensioni, ingiustizie e colpi bassi, per la maggior parte 3 trascorre fra centinaia di piccoli gesti di generosità e gentilezza. Il conforto reciproco e la compassione tra persone creano fiducia, stabiliscono legami di socialità e apportano gioia alla vita di ciascun individuo. Gran parte delle nostre interazioni quotidiane con le altre persone è di tipo empatico, perché questa è la nostra natura. L’empatia è il mezzo attraverso il quale creiamo la vita sociale e facciamo progredire la civiltà. In breve, è la straordinaria evoluzione della coscienza empatica a costituire il sotto testo essenziale della storia dell’uomo, anche se gli storici hanno mancato di dedicarle la dovuta attenzione.
C’è un’altra ragione per cui l’empatia attende ancora di essere esaminata seriamente in tutti i suoi aspetti antropologici e storici. Il problema è da identificare nello stesso processo evolutivo. La coscienza empatica si è sviluppata lentamente lungo il corso dei 175.000 anni di storia dell’umanità: a volte è fiorita, per poi regredire per lunghi periodi. Lo sviluppo dell’empatia e lo sviluppo del sé vanno di pari passo, e accompagnano la crescente complessità e sete di risorse delle strutture sociali che caratterizzano l’esistenza umana. In questo libro esamineremo appunto tale rapporto.
Dato che lo sviluppo dell’idea del sé è assolutamente vincolato allo sviluppo della coscienza empatica, lo stesso termine «empatia» non è entrato nel vocabolario dell’uomo fino al 1909, più o meno nel periodo in cui la psicologia moderna ha cominciato a esplorare le dinamiche dell’inconscio e della coscienza. In altre parole, solo quando l’uomo ha raggiunto uno stadio di evoluzione della percezione del sé tale da cominciare a riflettere sulla natura dei suoi sentimenti e pensieri più riposti in rapporto a quelli degli altri, è stato in grado di riconoscere l’esistenza dell’empatia, trovare le metafore per discuterne e sondare i profondi recessi dei suoi molteplici significati.
pp. 11-12
I nostri cronisti ufficiali – gli storici – hanno dato poco spazio all’empatia come forza determinante nello svolgimento delle vicende umane. In genere gli storici scrivono di conflitti sociali e guerre, di grandi eroi e terribili malfattori, di progresso tecnologico e di esercizio del potere, di ingiustizia economica e di tensioni sociali. Quando gli storici si occupano di filosofia, di solito lo fanno in relazione all’organizzazione del potere. Raramente li sentiamo parlare dell’altra faccia dell’esperienza umana: quella che rivela la nostra profonda natura sociale, l’evoluzione e l’estensione degli affetti e l’impatto di tutto ciò sulla cultura e sulla società.
Il filosofo Georg Witheim Friedrich Hegel ebbe a dire che la felicità si trova «nelle pagine bianche della storia» perché esse corrispondono a «periodi di armonia». Le persone felici di solito vivono la propria vita in un «micromondo» di strette relazioni famigliari e di contatti sociali più estesi. La storia invece, nella maggior parte dei casi, è scritta dai delusi e dagli scontenti, dagli arrabbiati e dai ribelli, o da coloro che sono interessati a esercitare l’autorità sugli altri e a sfruttarli, e dalle loro vittime, intenzionate a correggere i torti e a ristabilire la giustizia. In tal senso, gran parte della storia scritta riguarda le patologie del potere.
Forse è questa la ragione per cui, quando pensiamo alla natura umana, la nostra analisi è così sconfortante. La nostra memoria collettiva si misura in termini di crisi e calamità, di feroci ingiustizie e terrificanti episodi di brutalità che infliggiamo ai nostri simili e alle altre creature. Ma se fossero questi gli elementi cardine dell’esperienza umana, l’uomo sarebbe già estinto da tempo.
Da qui sorge la domanda: perché siamo giunti a pensare a noi stessi in termini così tetri? La risposta è che i racconti di disastri e disgrazie hanno il potere di colpirci: sono inattesi e perciò suscitano allarme e interesse. Questo perché eventi di tal genere sono inusitati, non rappresentano la norma, fanno notizia, e quindi diventano materia di storia.
Il mondo quotidiano è assai diverso. Anche se la vita di tutti i giorni, vissuta nel proprio ambiente domestico, è punteggiata di sofferenze, tensioni, ingiustizie e colpi bassi, per la maggior parte 3 trascorre fra centinaia di piccoli gesti di generosità e gentilezza. Il conforto reciproco e la compassione tra persone creano fiducia, stabiliscono legami di socialità e apportano gioia alla vita di ciascun individuo. Gran parte delle nostre interazioni quotidiane con le altre persone è di tipo empatico, perché questa è la nostra natura. L’empatia è il mezzo attraverso il quale creiamo la vita sociale e facciamo progredire la civiltà. In breve, è la straordinaria evoluzione della coscienza empatica a costituire il sotto testo essenziale della storia dell’uomo, anche se gli storici hanno mancato di dedicarle la dovuta attenzione.
C’è un’altra ragione per cui l’empatia attende ancora di essere esaminata seriamente in tutti i suoi aspetti antropologici e storici. Il problema è da identificare nello stesso processo evolutivo. La coscienza empatica si è sviluppata lentamente lungo il corso dei 175.000 anni di storia dell’umanità: a volte è fiorita, per poi regredire per lunghi periodi. Lo sviluppo dell’empatia e lo sviluppo del sé vanno di pari passo, e accompagnano la crescente complessità e sete di risorse delle strutture sociali che caratterizzano l’esistenza umana. In questo libro esamineremo appunto tale rapporto.
Dato che lo sviluppo dell’idea del sé è assolutamente vincolato allo sviluppo della coscienza empatica, lo stesso termine «empatia» non è entrato nel vocabolario dell’uomo fino al 1909, più o meno nel periodo in cui la psicologia moderna ha cominciato a esplorare le dinamiche dell’inconscio e della coscienza. In altre parole, solo quando l’uomo ha raggiunto uno stadio di evoluzione della percezione del sé tale da cominciare a riflettere sulla natura dei suoi sentimenti e pensieri più riposti in rapporto a quelli degli altri, è stato in grado di riconoscere l’esistenza dell’empatia, trovare le metafore per discuterne e sondare i profondi recessi dei suoi molteplici significati.
pp. 11-12
Definendo una relazione diretta tra sviluppo dell’idea del sé e sviluppo della coscienza empatica, Rifkin avanza un’ipotesi forte (e, come vedremo, discutibile) che conferma ulteriormente nei seguenti termini:
Il risveglio del senso di sé, innescato dal processo di differenziazione, è cruciale per io sviluppo e l’estensione dell’empatia. Più è sviluppato e individualizzato il sé, più è grande la nostra percezione dell’unicità e caducità dell’esistenza, della nostra solitudine esistenziale e dell’infinità di sfide che dobbiamo affrontare per esistere e prosperare. Sono questi nostri sentimenti che ci permettono di provare empatia per sentimenti simili negli altri. Un sentimento empatico più solido permette anche a una popolazione sempre più individualizzata di creare legami di affiliazione anche nell’ambito di organismi sociali sempre più interdipendenti, estesi e integrati. È questo il processo che caratterizza ciò che chiamiamo «civiltà»: il superamento dei legami di sangue tribali e la risocializzazione di individui distinti sulla base di legami associativi. L’estensione empatica è il meccanismo psicologico che rende possibili la conversione e la transizione. Quando diciamo «civilizzare», in realtà è come se dicessimo «empatizzare».
p. 25
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La globalizzazione dell’empatia comporta però un problema:
Oggi, in quella che sta rapidamente diventando una civiltà interconnessa a livello globale, la coscienza empatica sta appena cominciando a estendersi alle piaghe più remote della biosfera e a tutte le creature viventi.
Sfortunatamente, ciò avviene proprio nel momento storico in cui, al fine di mantenere una civiltà urbana complessa e interdipendente, le stesse strutture economiche che permettono di connetterci stanno assorbendo molto rapidamente quei che rimane delle risorse della terra e, al tempo stesso, 4
Sfortunatamente, ciò avviene proprio nel momento storico in cui, al fine di mantenere una civiltà urbana complessa e interdipendente, le stesse strutture economiche che permettono di connetterci stanno assorbendo molto rapidamente quei che rimane delle risorse della terra e, al tempo stesso, 4
stanno distruggendo la biosfera.
p. 25
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Proprio nel momento in cui stiamo cominciando a scorgere la prospettiva di una coscienza empatica globale, ci ritroviamo prossimi alla nostra stessa estinzione. Nell’ultimo mezzo secolo, ci siamo dati un gran da fare per universalizzare l’empatia. Di fronte all’Olocausto avvenuto durante la seconda guerra mondiale, l’umanità ha detto «mai più!», estendendo l’empatia a un numero enorme di individui in precedenza considerati men che umani – tra cui le donne, gli omosessuali, i disabili, le persone di colore e gli appartenenti a minoranze etniche e religiose e ha codificato questa nuova sensibilità sotto forma di diritti e politiche sociali, leggi sui diritti umani e oggi perfino norme per la protezione degli animali. Siamo ormai sulla buona strada per eliminare dal vocabolario i concetti di «altro», «alieno», «estraneo». E malgrado le prime luci di questa nuova coscienza della biosfera siano a malapena visibili (le tradizionali distorsioni xenofobe e i pregiudizi continuano a rappresentare la norma), il solo fatto che la nostra estensione empatica stia ora esplorando domini in passato inesplorabili rappresenta un trionfo nel percorso evolutivo dell’uomo.
Eppure, questi primi bagliori di una coscienza empatica globale sono offuscati dalla crescente consapevolezza che potrebbe essere troppo tardi per allontanare la minaccia del cambiamento climatico e della possibile estinzione della specie umana: una conseguenza dell’evoluzione di quell’organizzazione economica e sociale sempre più complessa e affamata di energia che ci ha permesso di approfondire il nostro senso di individualità, di unire persone differenti, di allargare il nostro abbraccio empatico e di espandere la coscienza umana.
Stiamo rapidamente giungendo a ottenere una coscienza della biosfera in un mondo a rischio di estinzione. Capire la contraddizione che connota l’avventura umana è fondamentale affinché la nostra specie riesca a rinegoziare una relazione sostenibile con il pianeta in tempo utile per evitare di precipitarlo nell’abisso.
Il compito fondamentale che dobbiamo portare a termine è quello di analizzare in profondità questo paradosso della storia umana, esplorandone esaurientemente il funzionamento e i percorsi, le complessità e le articolazioni, al fine di trovare una via d’uscita da tale situazione. Il nostro viaggio comincia nel punto in cui le leggi dell’energia che governano l’universo si frappongono alla predisposizione umana a valicare continuamente l’isolamento, cercando la compagnia dell’altro per mezzo di organizzazioni sociali sempre più complesse e affamate di energia. La dialettica implicita nella storia dell’uomo è il continuo anello di feedback fra espansione empatica e aumento dell’entropia.
pp. 26-27
Eppure, questi primi bagliori di una coscienza empatica globale sono offuscati dalla crescente consapevolezza che potrebbe essere troppo tardi per allontanare la minaccia del cambiamento climatico e della possibile estinzione della specie umana: una conseguenza dell’evoluzione di quell’organizzazione economica e sociale sempre più complessa e affamata di energia che ci ha permesso di approfondire il nostro senso di individualità, di unire persone differenti, di allargare il nostro abbraccio empatico e di espandere la coscienza umana.
Stiamo rapidamente giungendo a ottenere una coscienza della biosfera in un mondo a rischio di estinzione. Capire la contraddizione che connota l’avventura umana è fondamentale affinché la nostra specie riesca a rinegoziare una relazione sostenibile con il pianeta in tempo utile per evitare di precipitarlo nell’abisso.
Il compito fondamentale che dobbiamo portare a termine è quello di analizzare in profondità questo paradosso della storia umana, esplorandone esaurientemente il funzionamento e i percorsi, le complessità e le articolazioni, al fine di trovare una via d’uscita da tale situazione. Il nostro viaggio comincia nel punto in cui le leggi dell’energia che governano l’universo si frappongono alla predisposizione umana a valicare continuamente l’isolamento, cercando la compagnia dell’altro per mezzo di organizzazioni sociali sempre più complesse e affamate di energia. La dialettica implicita nella storia dell’uomo è il continuo anello di feedback fra espansione empatica e aumento dell’entropia.
pp. 26-27
Questa dialettica, a dire il vero, è un’assoluta novità proposta da Rifkin, che merita una citazione che tenta di illustrarla:
Se osserviamo più da vicino le testimonianze storiche che raccontano l’evoluzione dell’uomo, e soprattutto il feedback dialettico fra l’estensione dell’empatia e l’aumento dell’entropia, si aprono ai nostri occhi nuove prospettive per considerare la natura umana e la ricerca umana.
Il riconoscimento dell’esistenza finita dell’altro è ciò che collega la coscienza empatica alla consapevolezza entropica. Se possiamo identificarci con la sofferenza dell’altro, ciò che cerchiamo di sostenere e con cui empatizziamo è la sua volontà di vivere. Le leggi della termodinamica, e soprattutto la legge dll’entropia, ci dicono che ogni istante della vita è unico, irripetibile e irreversibile – invecchiamo, invece di ringiovanire -, e per questa ragione dobbiamo la nostra esistenza all’energia disponibile che sottraiamo alla terra, che costituisce il nostro essere fisico e ci tiene lontani dallo stato di equilibrio rappresentato dalla morte e dalla decomposizione. Quando5 empatizziamo con un altro essere, comprendiamo inconsciamente che la sua esistenza, proprio come la nostra, è fragile e finita, ed è resa possibile da un continuo flusso di energia.
Solo recentemente, però, siamo diventati consapevoli del fatto che dobbiamo il nostro benessere, almeno in parte, all’accumularsi del nostro personale debito entropico nell’ambiente che ci circonda.
La seconda legge della termodinamica e l’entropia sono un costante memento della natura della lotta che anima la vita di ciascuno di noi e che ci unisce in un vincolo di comunanza e solidarietà. L’estensione empatica è la consapevolezza della vulnerabilità che condividiamo e, quando si esprime, diventa la celebrazione della nostra comune voglia di vivere.
Allo stesso tempo, forme di civiltà sempre più complesse e affamate di energia ci offrono l’occasione per una maggiore esposizione al contatto con altri individui. Più è ricca la varietà ditale esposizione, maggiore è la probabilità che un individuo riconosca sfaccettature del proprio essere nell’esperienza degli altri ed estenda la propria coscienza empatica.
Ciò che è particolarmente interessante nel processo è che l’estensione empatica non permette solo all’uno di sperimentare la sofferenza o la condizione dell’altro «come se» fosse la propria, ma contribuisce anche a rafforzare e approfondire il proprio senso di sé. Il sociologo Chan Kwok-Bun sintetizza così il processo:
L’autenticità di ciò che ho scoperto su me stesso è rafforzata perché ho trovato conferma di una parte di me in te, e tu in me.
Il costante feedback empatico è il collante sociale che rende possibili società sempre più complesse. Senza empatia, sarebbe impossibile perfino immaginare la vita sociale e l’organizzazione stessa della società. Una società di individui narcisisti, sociopatici e autistici è impossibile: le società necessitano di animali sociali, e gli animali sono sociali se sono empatici.
Dunque, strutture sociali più complesse promuovono il rafforzamento dell’idea del sé, una maggiore esposizione alla diversità dell’altro e una maggiore possibilità di empatia estesa. La vita del villaggio è, per tradizione, più chiusa e xenofoba. Le comunità che la caratterizzano hanno una forte probabilità di considerare lo straniero alieno e diverso. Al contrario, la vita urbana, che espone quotidianamente a molteplici rapporti sociali ed economici con gli altri, in genere, anche se non in tutti i casi, incoraggia un atteggiamento più cosmopolita. Ma qui, ancora, c’è una contraddizione: il prezzo di tutto questo è una maggiore entropia nell’ambiente. E tuttavia questa affermazione può essere rovesciata: le strutture sociali più complesse, fino a oggi, hanno richiesto un maggiore flusso di energia e hanno prodotto maggiore entropia, ma hanno anche creato le condizioni per l’allargamento dell’empatia nei confronti dell’altro e del diverso.
Il tragico difetto della storia è che la nostra maggiore empatia e sensibilità crescono in proporzione diretta con il crescere del danno entropico che apportiamo al mondo che condividiamo e da cui dipendiamo per la nostra esistenza e per la perpetuazione della specie.
Ci troviamo oggi in un momento decisivo dell’esperienza umana: la corsa a una coscienza empatica globale si sta scontrando con il crollo entropico globale; i benefici che traiamo dall’empatia sono incalcolabili, ma lo sono anche i costi entropici.
Se la natura umana è effettivamente materialista, egoista, utilitarista e orientata al piacere, ci sono ben poche speranze di risolvere il paradosso empatia-entropia. Ma se invece la natura umana, a un livello più fondamentale, è predisposta all’affetto, alla comunione, alla socialità e all’estensione6 empatica, c’è la possibilità di sottrarsi al dilemma empatia-entropia e trovare una soluzione che ci permetta di ripristinare un equilibrio sostenibile con la biosfera.
Un’idea radicalmente nuova di natura umana sta lentamente emergendo e acquistando forza, con implicazioni rivoluzionarie sul modo in cui, nei secoli a venire, interpreteremo e organizzeremo le nostre relazioni sociali e ambientali. Abbiamo scoperto l’Homo empaticus.
pp. 40-42
Il riconoscimento dell’esistenza finita dell’altro è ciò che collega la coscienza empatica alla consapevolezza entropica. Se possiamo identificarci con la sofferenza dell’altro, ciò che cerchiamo di sostenere e con cui empatizziamo è la sua volontà di vivere. Le leggi della termodinamica, e soprattutto la legge dll’entropia, ci dicono che ogni istante della vita è unico, irripetibile e irreversibile – invecchiamo, invece di ringiovanire -, e per questa ragione dobbiamo la nostra esistenza all’energia disponibile che sottraiamo alla terra, che costituisce il nostro essere fisico e ci tiene lontani dallo stato di equilibrio rappresentato dalla morte e dalla decomposizione. Quando5 empatizziamo con un altro essere, comprendiamo inconsciamente che la sua esistenza, proprio come la nostra, è fragile e finita, ed è resa possibile da un continuo flusso di energia.
Solo recentemente, però, siamo diventati consapevoli del fatto che dobbiamo il nostro benessere, almeno in parte, all’accumularsi del nostro personale debito entropico nell’ambiente che ci circonda.
La seconda legge della termodinamica e l’entropia sono un costante memento della natura della lotta che anima la vita di ciascuno di noi e che ci unisce in un vincolo di comunanza e solidarietà. L’estensione empatica è la consapevolezza della vulnerabilità che condividiamo e, quando si esprime, diventa la celebrazione della nostra comune voglia di vivere.
Allo stesso tempo, forme di civiltà sempre più complesse e affamate di energia ci offrono l’occasione per una maggiore esposizione al contatto con altri individui. Più è ricca la varietà ditale esposizione, maggiore è la probabilità che un individuo riconosca sfaccettature del proprio essere nell’esperienza degli altri ed estenda la propria coscienza empatica.
Ciò che è particolarmente interessante nel processo è che l’estensione empatica non permette solo all’uno di sperimentare la sofferenza o la condizione dell’altro «come se» fosse la propria, ma contribuisce anche a rafforzare e approfondire il proprio senso di sé. Il sociologo Chan Kwok-Bun sintetizza così il processo:
L’autenticità di ciò che ho scoperto su me stesso è rafforzata perché ho trovato conferma di una parte di me in te, e tu in me.
Il costante feedback empatico è il collante sociale che rende possibili società sempre più complesse. Senza empatia, sarebbe impossibile perfino immaginare la vita sociale e l’organizzazione stessa della società. Una società di individui narcisisti, sociopatici e autistici è impossibile: le società necessitano di animali sociali, e gli animali sono sociali se sono empatici.
Dunque, strutture sociali più complesse promuovono il rafforzamento dell’idea del sé, una maggiore esposizione alla diversità dell’altro e una maggiore possibilità di empatia estesa. La vita del villaggio è, per tradizione, più chiusa e xenofoba. Le comunità che la caratterizzano hanno una forte probabilità di considerare lo straniero alieno e diverso. Al contrario, la vita urbana, che espone quotidianamente a molteplici rapporti sociali ed economici con gli altri, in genere, anche se non in tutti i casi, incoraggia un atteggiamento più cosmopolita. Ma qui, ancora, c’è una contraddizione: il prezzo di tutto questo è una maggiore entropia nell’ambiente. E tuttavia questa affermazione può essere rovesciata: le strutture sociali più complesse, fino a oggi, hanno richiesto un maggiore flusso di energia e hanno prodotto maggiore entropia, ma hanno anche creato le condizioni per l’allargamento dell’empatia nei confronti dell’altro e del diverso.
Il tragico difetto della storia è che la nostra maggiore empatia e sensibilità crescono in proporzione diretta con il crescere del danno entropico che apportiamo al mondo che condividiamo e da cui dipendiamo per la nostra esistenza e per la perpetuazione della specie.
Ci troviamo oggi in un momento decisivo dell’esperienza umana: la corsa a una coscienza empatica globale si sta scontrando con il crollo entropico globale; i benefici che traiamo dall’empatia sono incalcolabili, ma lo sono anche i costi entropici.
Se la natura umana è effettivamente materialista, egoista, utilitarista e orientata al piacere, ci sono ben poche speranze di risolvere il paradosso empatia-entropia. Ma se invece la natura umana, a un livello più fondamentale, è predisposta all’affetto, alla comunione, alla socialità e all’estensione6 empatica, c’è la possibilità di sottrarsi al dilemma empatia-entropia e trovare una soluzione che ci permetta di ripristinare un equilibrio sostenibile con la biosfera.
Un’idea radicalmente nuova di natura umana sta lentamente emergendo e acquistando forza, con implicazioni rivoluzionarie sul modo in cui, nei secoli a venire, interpreteremo e organizzeremo le nostre relazioni sociali e ambientali. Abbiamo scoperto l’Homo empaticus.
pp. 40-42
2.
Homo empaticus, è, per l’appunto il titolo della prima parte del saggio. Si tratta di una rassegna estremamente accurata di tutte le ricerche effettuate di recente – nell’ambito della psicoanalisi, dell’etologia, dell’evoluzionismo, delle neuroscienze e delle scienze cognitiviste – al fine di confermare l’esistenza nella natura umana di una predisposizione sociale e empatica.
Lo sforzo di tutti gli studiosi di queste discipline di contribuire alla definizione di “una nuova idea di natura umana” – titolo del secondo capitolo – non avrebbe senso se esso non avesse dovuto e non dovesse fare i conti con un’idea o meglio un’ideologia preesistente di segno opposto. L’ideologia in questione risale al ‘600:
Hobbes considerava l’uomo aggressivo ed egoista per natura: siamo nati per combattere e competere e siamo continuamente impegnati in una incessante lotta l’uno con l’altro per il dominio e la supremazia, e per garantirci il benessere a spese dei nostri simili. John Locke scelse un approccio meno duro, perfino benigno, affermando che allo stato di natura gli esseri umani sono socievoli e ben disposti gli uni verso gli altri. Ciononostante, sempre secondo Locke, per predisposizione siamo acquisitivi e impieghiamo il nostro lavoro fisico e intellettuale per impossessarci della materia del mondo e trasformarla in una proprietà produttiva. Jeremy Bentham e gli utilitaristi concordavano con Locke: siamo per natura materialisti e, in quanto tali, cerchiamo di ottimizzare il piacere e di mitigare il dolore.
p. 45
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L’antitesi tra Hobbes e Locke è persistita nel corso del tempo, a favore del primo:
Alla fine dell’Ottocento, il nascente interesse per il funzionamento della mente umana diede impulso alle discipline psicologiche: gli studiosi cominciarono a rivolgere la propria attenzione a ciò che dà forma alla psiche umana. Meno interessati alle astrattezze del pensiero filosofico circa la natura dell’uomo, molti dei primi psicologi (ma non tutti) si orientarono all’osservazione clinica e scientifica dei processi della mente, senza mettere in discussione i preconcetti materialisti sull’essenza della natura umana. Come Adam Smith, ipotizzarono che ogni individuo nasca per perseguire il proprio mero e personale interesse economico. E, seguendo l’orientamento di Darwin, ritennero che la principale preoccupazione di ogni uomo o donna fossero la sopravvivenza fisica e la riproduzione.
pp. 45-46
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Del tutto hobbesiana, poi, è la concezione della natura umana di Freud, tragica nella misura in cui essa non solo nega l’esistenza dell’istinto sociale ma giunge ad ipotizzare, al suo posto, un univoco istinto di morte.
Rifkin ricostruisce con un’accuratezza del tutto singolare le tappe attraverso le quali, nel contesto della psicoanalisi, il paradigma oggettuale, che implica un bisogno primario sociale sotteso da una viva emozionalità, si è imposto, giungendo a conclusioni che ormai sono unanimemente accettate:
I teorici delle relazioni oggettuali hanno messo in una nuova luce la natura umana, e ciò che hanno scoperto indica che siamo una specie animale affettuosa e altamente socievole, che desidera la compagnia, odia l’isolamento ed è biologicamente predisposta a manifestare empatia verso gli altri esseri.
p. 74
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Queste conclusioni hanno ormai trovato un riscontro oggettivo in seguito alla scoperta dei neuroni specchio, che “apre la porta all’esplorazione dei meccanismi biologici che rendono possibile la socialità”. (p. 77)
A riguardo, Rifkin scrive:
La crescente quantità di studi empirici sul ruolo che i neuroni specchio giocano nello sviluppo empatico è impressionante e sta contribuendo a riscrivere la storia dello sviluppo umano.
Gli scienziati hanno notato che gesti ed espressioni del viso, oltre agli stimoli uditivi, attivano le cellule specchio, ma hanno anche scoperto che altrettanto può fare il tatto, individuando un ulteriore canale sensoriale per l’estensione empatica. Tutti abbiamo avuto l’esperienza di vedere un ragno o un serpente camminare o strisciare sul corpo di un’altra persona, e avvertire lo stesso senso di repulsione che avremmo provato se avesse camminato o strisciato sul nostro. In una serie di esperimenti, alcuni ricercatori hanno sottoposto diversi individui a risonanza magnetica funzionale (fMRI) scoprendo «che la corteccia somatosensoria secondaria si attiva sia quando il partecipante all’esperimento viene toccato sia quando osserva qualcuno che viene toccato».
Altri studi dimostrano che quando le persone reagiscono a un cattivo odore con una sensazione di disgusto si attivano le stesse regioni corticali, soprattutto nell’insula, che si attivano quando osserviamo le smorfie di disgusto di un’altra persona che annusa un odore sgradevole.
Analogamente, quando affermiamo di «sentire» il dolore dell’altro, questo ci è possibile a causa di specifici neuroni specchio. Uno studio pubblicato dalla rivista «Science» riporta un esperimento condotto su sedici coppie. Nell’esperimento, le donne furono sottoposte a fMRI, alla presenza dei rispettivi compagni, mentre i ricercatori praticavano una leggera scossa elettrica al dorso della mano di entrambi. Anche se non poteva vedere il partner, la donna veniva informata da un indicatore su chi sarebbe stato colpito dalla scarica, e su quanto intensa sarebbe stata. Nelle donne, alcune aree deputate alla percezione del dolore nel sistema limbico, come la corteccia cingolata anteriore, il talamo, l’insula e le cortecce somatosensorie, venivano attivate causando dolore, sia quando la scarica elettrica era somministrata direttamente sia quando era semplicemente immaginata, cioè somministrata al partner. Questo esperimento dimostra in modo inusuale quanto autentica possa essere la risposta empatica alle sofferenze di un altro.
Perfino emozioni sociali più complesse, come la vergogna, l’imbarazzo, il senso di colpa e l’orgoglio, sono collegate ai sistemi di neuroni specchio localizzati nell’insula del cervello. Christian Keysers, dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, ha condotto uno studio nel quale ad alcuni individui veniva mostrato un filmato in cui una mano si avvicinava per dare una carezza a qualcuno, ma veniva allontanata bruscamente da un’altra mano: l’insula degli osservatori attivava i neuroni responsabili della sensazione di essere rifiutati.
In quasi tutti gli studi sull’attivazione dei neuroni specchio, i ricercatori hanno riscontrato che i partecipanti che presentano una risposta più attiva ed elevata ditali neuroni sono quelli che fanno registrare punteggi elevati nei test di profilo empatico. Questa distinzione è importante perché suggerisce che i bambini con un’attività cerebrale normale sono predisposti all’empatia, ma la misura in cui i loro neuroni specchio si attivano dipende tanto dalla natura quanto dalla cultura.
pp. 78-79
Gli scienziati hanno notato che gesti ed espressioni del viso, oltre agli stimoli uditivi, attivano le cellule specchio, ma hanno anche scoperto che altrettanto può fare il tatto, individuando un ulteriore canale sensoriale per l’estensione empatica. Tutti abbiamo avuto l’esperienza di vedere un ragno o un serpente camminare o strisciare sul corpo di un’altra persona, e avvertire lo stesso senso di repulsione che avremmo provato se avesse camminato o strisciato sul nostro. In una serie di esperimenti, alcuni ricercatori hanno sottoposto diversi individui a risonanza magnetica funzionale (fMRI) scoprendo «che la corteccia somatosensoria secondaria si attiva sia quando il partecipante all’esperimento viene toccato sia quando osserva qualcuno che viene toccato».
Altri studi dimostrano che quando le persone reagiscono a un cattivo odore con una sensazione di disgusto si attivano le stesse regioni corticali, soprattutto nell’insula, che si attivano quando osserviamo le smorfie di disgusto di un’altra persona che annusa un odore sgradevole.
Analogamente, quando affermiamo di «sentire» il dolore dell’altro, questo ci è possibile a causa di specifici neuroni specchio. Uno studio pubblicato dalla rivista «Science» riporta un esperimento condotto su sedici coppie. Nell’esperimento, le donne furono sottoposte a fMRI, alla presenza dei rispettivi compagni, mentre i ricercatori praticavano una leggera scossa elettrica al dorso della mano di entrambi. Anche se non poteva vedere il partner, la donna veniva informata da un indicatore su chi sarebbe stato colpito dalla scarica, e su quanto intensa sarebbe stata. Nelle donne, alcune aree deputate alla percezione del dolore nel sistema limbico, come la corteccia cingolata anteriore, il talamo, l’insula e le cortecce somatosensorie, venivano attivate causando dolore, sia quando la scarica elettrica era somministrata direttamente sia quando era semplicemente immaginata, cioè somministrata al partner. Questo esperimento dimostra in modo inusuale quanto autentica possa essere la risposta empatica alle sofferenze di un altro.
Perfino emozioni sociali più complesse, come la vergogna, l’imbarazzo, il senso di colpa e l’orgoglio, sono collegate ai sistemi di neuroni specchio localizzati nell’insula del cervello. Christian Keysers, dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, ha condotto uno studio nel quale ad alcuni individui veniva mostrato un filmato in cui una mano si avvicinava per dare una carezza a qualcuno, ma veniva allontanata bruscamente da un’altra mano: l’insula degli osservatori attivava i neuroni responsabili della sensazione di essere rifiutati.
In quasi tutti gli studi sull’attivazione dei neuroni specchio, i ricercatori hanno riscontrato che i partecipanti che presentano una risposta più attiva ed elevata ditali neuroni sono quelli che fanno registrare punteggi elevati nei test di profilo empatico. Questa distinzione è importante perché suggerisce che i bambini con un’attività cerebrale normale sono predisposti all’empatia, ma la misura in cui i loro neuroni specchio si attivano dipende tanto dalla natura quanto dalla cultura.
pp. 78-79
La psicologia evolutiva ha tentato di definire le diverse fasi attraverso le quali la socialità empatica si manifesta. Lo studioso di riferimento a riguardo è Hoffman, che Rifkin cita ampiamente:
Hoffman identifica cinque modalità di manifestazione dell’empatia nel processo di sviluppo. Le prime tre sono preverbali, automatiche e in gran parte involontarie: «la mimesi motoria e la retroazione afferente che ne segue; il condizionamento chimico; l’associazione diretta fra indizi provenienti dalla vittima o dalla sua situazione e le passate esperienze dolorose dell’osservatore». Hoffman sottolinea che questi comportamenti preverbali precedono qualsiasi forma di senso di sé e sono tanto più potenti perché dimostrano che gli esseri umani sono biologicamente predisposti, dalla nascita, a esprimere empatia e a creare legami di intimità e socialità.
Due modalità cognitive di ordine più elevato sono l’associazione mediata e l’assunzione di ruolo o di prospettiva. La prima consente all’osservatore di associare la sofferenza della vittima alle proprie dolorose esperienze passate; la seconda permette di immaginare come si sente la vittima, come se si trattasse di un’esperienza diretta. Con il progredire da una modalità all’altra, il bambino diviene gradualmente più abile nell’espressione empatica, e la padronanza di tale abilità, a sua volta, gli permette di diventare sempre più cosciente e consapevole di sé.
p. 103
Due modalità cognitive di ordine più elevato sono l’associazione mediata e l’assunzione di ruolo o di prospettiva. La prima consente all’osservatore di associare la sofferenza della vittima alle proprie dolorose esperienze passate; la seconda permette di immaginare come si sente la vittima, come se si trattasse di un’esperienza diretta. Con il progredire da una modalità all’altra, il bambino diviene gradualmente più abile nell’espressione empatica, e la padronanza di tale abilità, a sua volta, gli permette di diventare sempre più cosciente e consapevole di sé.
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I ricercatori hanno notato che gli infanti, appena nati, cominciano a mimare le espressioni facciali. I bambini di un mese già sorridono, mostrano la lingua e aprono la bocca quando osservano qualcuno fare altrettanto. Anzi, nei primi tre mesi di vita la capacità visiva del bambino di riconoscere i volti è maggiore che in qualsiasi altro momento della sua vita. Un bambino di quell’età può riconoscere una fotografia deformata di sua madre con la stessa rapidità di un’analoga foto non alterata; i bambini più grandi non sono altrettanto abili in questo esercizio. A 9 mesi, il bambino imita le espressioni di gioia e di tristezza della madre. La madre e gli altri adulti, analogamente, imitano le espressioni del bambino, per quanto involontariamente. L’imitazione delle espressioni facciali prosegue per tutta la vita: alcuni studi hanno dimostrato che gli spettatori di un programma televisivo imitano inconsapevolmente le espressioni dei personaggi che stanno guardando sullo schermo.
E ancora, l’imitazione è, per la maggior parte, inconsapevole: in un esperimento, condotto utilizzando tecnologie di elettromiografia (EMG), alcuni ricercatori hanno analizzato i movimenti facciali impercettibili dei soggetti mentre osservavano immagini di volti felici e tristi, scoprendo che «i soggetti muovevano i muscoli del sorriso» quando veniva loro mostrata l’immagine di un volto sorridente, e i muscoli deputati alla contrazione delle sopracciglia quando vedevano immagini di persone accigliate.
L’uomo imita anche accento, tono di voce e ritmo del linguaggio parlato… Pure in questo caso, la corrispondenza dei comportamenti è, per la maggior parte, involontaria e automatica, a suggerire le profonde radici biologiche della socialità.
Anche le posture corporali spesso sono imitate…
Anche l’imitazione emotiva è estremamente comune, ma abbiamo la tendenza a non avvertirla, sia perché è involontaria e automatica, sia perché ci piace pensare di avere una sorta di controllo sui nostri sentimenti.
p. 104
E ancora, l’imitazione è, per la maggior parte, inconsapevole: in un esperimento, condotto utilizzando tecnologie di elettromiografia (EMG), alcuni ricercatori hanno analizzato i movimenti facciali impercettibili dei soggetti mentre osservavano immagini di volti felici e tristi, scoprendo che «i soggetti muovevano i muscoli del sorriso» quando veniva loro mostrata l’immagine di un volto sorridente, e i muscoli deputati alla contrazione delle sopracciglia quando vedevano immagini di persone accigliate.
L’uomo imita anche accento, tono di voce e ritmo del linguaggio parlato… Pure in questo caso, la corrispondenza dei comportamenti è, per la maggior parte, involontaria e automatica, a suggerire le profonde radici biologiche della socialità.
Anche le posture corporali spesso sono imitate…
Anche l’imitazione emotiva è estremamente comune, ma abbiamo la tendenza a non avvertirla, sia perché è involontaria e automatica, sia perché ci piace pensare di avere una sorta di controllo sui nostri sentimenti.
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In un capitolo di The New Inconsciuos, Tanya Chartrand, William Maddux e Jessica Lakin notano che l’imitazione non conscia è un processo automatico. Secondo Chartrand e gli altri coautori, la funzione adattiva primaria dell’imitazione, da un punto di vista biologico, è «che vincola e lega le persone e stimola l’empatia.» La recente scoperta dei neuroni specchio nella corteccia premotoria delle scimmie e dell’uomo offre la spiegazione neurologica alle modalità di attivazione ditale imitazione.
p. 105
p. 105
Il feedback afferente suggerisce che un bambino possa cominciare a empatizzare con le sensazioni di un altro prima ancora di averle sperimentato personalmente. James D. Laird, docente di psicologia alla Clark University, che ha condotto esperimenti pionieristici sull’espressione facciale e la formazione degli stati d’animo, afferma che esiste un’inferenza sia afferente sia cognitiva, e fa notare che alcuni sono felici perché sorridono, furiosi perché accigliati, e tristi perché imbronciati; altri definiscono le proprie esperienze emotive in termini di aspettative situazionali.
In altre parole, si può diventare più empatici sia interiorizzando lo stato emotivo dell’altro sia confrontandolo con le proprie esperienze emotive passate.
Per molto tempo, antropologi e psicologi hanno sospettato che le espressioni facciali e le emozioni fossero determinate socialmente, anziché biologicamente. Ora sappiamo che alcune espressioni facciali indicano il medesimo stato d’animo in tutte le culture e per tutti gli esseri umani… Le diverse culture, tuttavia, piegano e modellano tali espressioni e stati d’animo comuni in accordo con le rispettive etiche sociali.
Secondo Hoffman, ci sono le prove scientifiche per affermare che la mimesi è probabilmente un processo di attivazione dell’empatia, «cablato» a livello neurale, i cui due stadi, l’imitazione e la retroazione, sono diretti da comandi del sistema nervoso centrale.
Studi citati da Hoffman indicano che quando le persone si imitano, esprimono solidarietà: manifestando una reazione appropriata alla situazione di un altro, l’osservatore comunica consapevolezza, riguardo, sostegno e conforto. La mimesi richiede che l’uno sia «attento» all’altro e «in sintonia» con il suo stato emotivo: entrambe condizioni necessarie alla promozione dell’espressione empatica e del legame di socialità.
Quando raggiunge l’anno di età, il bambino può cominciare a leggere le espressioni degli altri e a percepirne lo stato emotivo. Andrew Meltzoff, docente di psicologia alla University of Washington, ha esaminato gli sguardi di migliaia di bambini e, insieme alla sua collega Rechele Brooks, ha scoperto che se a 12 mesi i bambini dimostravano scarse competenza osservative, era più probabile che, a 24 mesi, mostrassero minori competenze linguistiche. Meltzoff sostiene che si può dire molto degli individui – a cosa sono interessati e che cosa intendono fare in futuro – semplicemente osservando i loro occhi. Sembra che lo sappiano perfino i bambini… È questo il modo in cui apprendono a diventare membri maturi della nostra cultura.
pp. 106-107
In altre parole, si può diventare più empatici sia interiorizzando lo stato emotivo dell’altro sia confrontandolo con le proprie esperienze emotive passate.
Per molto tempo, antropologi e psicologi hanno sospettato che le espressioni facciali e le emozioni fossero determinate socialmente, anziché biologicamente. Ora sappiamo che alcune espressioni facciali indicano il medesimo stato d’animo in tutte le culture e per tutti gli esseri umani… Le diverse culture, tuttavia, piegano e modellano tali espressioni e stati d’animo comuni in accordo con le rispettive etiche sociali.
Secondo Hoffman, ci sono le prove scientifiche per affermare che la mimesi è probabilmente un processo di attivazione dell’empatia, «cablato» a livello neurale, i cui due stadi, l’imitazione e la retroazione, sono diretti da comandi del sistema nervoso centrale.
Studi citati da Hoffman indicano che quando le persone si imitano, esprimono solidarietà: manifestando una reazione appropriata alla situazione di un altro, l’osservatore comunica consapevolezza, riguardo, sostegno e conforto. La mimesi richiede che l’uno sia «attento» all’altro e «in sintonia» con il suo stato emotivo: entrambe condizioni necessarie alla promozione dell’espressione empatica e del legame di socialità.
Quando raggiunge l’anno di età, il bambino può cominciare a leggere le espressioni degli altri e a percepirne lo stato emotivo. Andrew Meltzoff, docente di psicologia alla University of Washington, ha esaminato gli sguardi di migliaia di bambini e, insieme alla sua collega Rechele Brooks, ha scoperto che se a 12 mesi i bambini dimostravano scarse competenza osservative, era più probabile che, a 24 mesi, mostrassero minori competenze linguistiche. Meltzoff sostiene che si può dire molto degli individui – a cosa sono interessati e che cosa intendono fare in futuro – semplicemente osservando i loro occhi. Sembra che lo sappiano perfino i bambini… È questo il modo in cui apprendono a diventare membri maturi della nostra cultura.
pp. 106-107
Il terzo livello di sviluppo empatico, l’associazione diretta, si raggiunge quando la condizione di un altro soggetto richiama esperienze passate simili e le relative emozioni nel ricordo dell’osservatore. Hoffman cita l’esempio di un ragazzino che, alla vista di un altro bambino che si tagliava e si metteva a piangere, ricordava una propria simile esperienza passata e ne avvertiva il dolore. Diversamente dal condizionamento, in cui il disagio dell’uno è commisurato al disagio dell’altro, nel caso dell’associazione diretta è sufficiente all’osservatore collegare la specifica esperienza dolorosa dell’altro con la sensazione del dolore da lui provato in un’esperienza analoga, non necessariamente identica, per innescare una risposta empatica. Per esempio, come abbiamo accennato nel capitolo I, non è inusuale che un bambino di 13-15 mesi cerchi di confortare un compagno di giochi che piange accompagnandolo dalla propria madre, anche se è presente quella dell’altro. Questo dimostra che il bambino avverte tramite empatia una sofferenza causata dalla sofferenza dell’altro, ma non è ancora in grado di distinguere il proprio disagio da quello altrui. Questo perché, sebbene il bambino sia consapevole che l’altro è un essere separato, ancora non comprende che egli prova sentimenti propri, e quindi attribuisce al compagno in lacrime il proprio disagio, ragion per cui lo conduce dalla propria madre affinché ne tragga conforto.
Imitazione, condizionamento e associazione diretta sono tutte forme involontarie e in certa misura primitive della manifestazione empatica. Ma dimostrano in modo eloquente le profonde radici biologiche dell’espressione empatica nell’animale uomo. Siamo predisposti ad «avvertire fortemente le emozioni dell’altro» come se fossero le nostre.
Ma affinché venga espressa un’empatia matura, è necessario aggiungere all’equazione emotiva il linguaggio e lo sviluppo cognitivo. Quando questo accade, il bambino è maturo per i livelli quattro e cinque: l’associazione mediata e l’assunzione di ruolo.
Con l’associazione mediata, la situazione emotiva della vittima è comunicata attraverso il linguaggio. L’osservatore recepisce le parole della vittima (per esempio: «Ho paura perché mia madre sta morendo»), le decodifica verificandone il significato rispetto alla propria esperienza passata (una valutazione cognitiva) e dà loro seguito con una risposta empatica. L’associazione mediata combina funzioni sia affettive sia cognitive per elaborare la risposta empatica.
L’assunzione di ruolo è il quinto e ultimo livello della manifestazione dell’empatia secondo il modello di sviluppo di Hoffman, perché richiede un’elaborazione cognitiva di livello elevato: è necessario che l’osservatore immagini come potrebbe essere trovarsi nella stessa situazione dell’altro. I primi studi sull’assunzione di ruolo come meccanismo di manifestazione empatica sono stati condotti da Ezra Stotland alla fine degli anni Sessanta. Ai soggetti dell’esperimento di Stotland veniva chiesto come si sarebbero sentiti se fossero stati oggetto del medesimo, doloroso trattamento con il calore a cui era sottoposto un altro individuo che potevano osservare da dietro un falso specchio. Questi soggetti mostravano un disagio empatico maggiore di quelli a cui era richiesto semplicemente di osservare attentamente i movimenti della vittima; mostravano anche una reazione empatica superiore rispetto a coloro a cui veniva chiesto di immaginare come si sentisse la vittima. In altre parole, l’assunzione di ruolo centrata su se stessi stimolava un disagio empatico maggiore rispetto all’assunzione di ruolo focalizzata sull’altro.
pp. 107-109
Imitazione, condizionamento e associazione diretta sono tutte forme involontarie e in certa misura primitive della manifestazione empatica. Ma dimostrano in modo eloquente le profonde radici biologiche dell’espressione empatica nell’animale uomo. Siamo predisposti ad «avvertire fortemente le emozioni dell’altro» come se fossero le nostre.
Ma affinché venga espressa un’empatia matura, è necessario aggiungere all’equazione emotiva il linguaggio e lo sviluppo cognitivo. Quando questo accade, il bambino è maturo per i livelli quattro e cinque: l’associazione mediata e l’assunzione di ruolo.
Con l’associazione mediata, la situazione emotiva della vittima è comunicata attraverso il linguaggio. L’osservatore recepisce le parole della vittima (per esempio: «Ho paura perché mia madre sta morendo»), le decodifica verificandone il significato rispetto alla propria esperienza passata (una valutazione cognitiva) e dà loro seguito con una risposta empatica. L’associazione mediata combina funzioni sia affettive sia cognitive per elaborare la risposta empatica.
L’assunzione di ruolo è il quinto e ultimo livello della manifestazione dell’empatia secondo il modello di sviluppo di Hoffman, perché richiede un’elaborazione cognitiva di livello elevato: è necessario che l’osservatore immagini come potrebbe essere trovarsi nella stessa situazione dell’altro. I primi studi sull’assunzione di ruolo come meccanismo di manifestazione empatica sono stati condotti da Ezra Stotland alla fine degli anni Sessanta. Ai soggetti dell’esperimento di Stotland veniva chiesto come si sarebbero sentiti se fossero stati oggetto del medesimo, doloroso trattamento con il calore a cui era sottoposto un altro individuo che potevano osservare da dietro un falso specchio. Questi soggetti mostravano un disagio empatico maggiore di quelli a cui era richiesto semplicemente di osservare attentamente i movimenti della vittima; mostravano anche una reazione empatica superiore rispetto a coloro a cui veniva chiesto di immaginare come si sentisse la vittima. In altre parole, l’assunzione di ruolo centrata su se stessi stimolava un disagio empatico maggiore rispetto all’assunzione di ruolo focalizzata sull’altro.
pp. 107-109
Hoffman avverte che il disagio empatico provocato dall’assunzione di ruolo centrata su se stessi può portare a ciò che egli chiama «deriva egoistica»: il rischio che, con l’intensificarsi della risposta empatica, l’esperienza diventi più autoreferenziale e quindi meno autenticamente empatica.
Dunque, in che modo i bambini apprendono a trasformare la propria innata spinta biologica all’espressione empatica in una coscienza empatica matura? Secondo Hoffman, la risposta al se e al come il bambino sviluppa una sensibilità empatica matura è riconducibile, in larga parte, al modo in cui i genitori lo sottopongono alla disciplina delle regole: è nell’esperienza della disciplina che il bambino sviluppa un chiaro senso dell’espressione empatica…
La chiave per trasformare gli impulsi empatici innati in risposte empatiche mature è nelle modalità con cui si educa alle regole.
p. 109
Dunque, in che modo i bambini apprendono a trasformare la propria innata spinta biologica all’espressione empatica in una coscienza empatica matura? Secondo Hoffman, la risposta al se e al come il bambino sviluppa una sensibilità empatica matura è riconducibile, in larga parte, al modo in cui i genitori lo sottopongono alla disciplina delle regole: è nell’esperienza della disciplina che il bambino sviluppa un chiaro senso dell’espressione empatica…
La chiave per trasformare gli impulsi empatici innati in risposte empatiche mature è nelle modalità con cui si educa alle regole.
p. 109
Ciò che l’azione disciplinante induttiva insegna realmente al bambino è la sostanza della moralità umana: responsabilità per le proprie azioni, compassione per gli altri, disponibilità ad accorrere in loro aiuto e confortarli, un adeguato senso di equità e giustizia. La maturazione dell’empatia e lo sviluppo del senso morale sono la stessa cosa.
p. 11
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Il processo di maturazione empatica si velocizza nel periodo prescolare, quando il bambino acquisisce competenze nell’uso del linguaggio per esprimere e rivelare le emozioni, e sviluppa la capacità di leggere fra le righe e capire che l’aspetto esteriore e il comportamento dell’altro possono mascherare emozioni interiori ben diverse.
Fra i 4 e i 5 anni, il bambino matura il senso della reciprocità sociale: comincia a capire cosa ci si aspetta da lui in termini di adeguata risposta sociale alla relazione con altri bambini e ad azioni lui rivolte, ed è in grado di provare senso di colpa se ferisce un altro bambino non ricambiandolo appropriatamente. Per esempio, se un amico condivide i suoi giocattoli, ma il bambino rifiuta di fare altrettanto condividendo i propri, e lo fa piangere, il senso di colpa può innescare una risposta empatica e portare al tentativo di una riparazione in qualche forma.
Intorno ai 7 anni, il bambino comincia ad accorgersi quando avverte la risposta empatica alla sofferenza dell’altro. Uno studio che ha coinvolto bambini di 5, 7, 8 e 13 anni ha rivelato che i bambini di 7 o più anni sono consapevoli di essere empatici, mentre i più piccoli non lo sono. Ai bambini coinvolti sono stati mostrati filmati di bambini in situazioni fortemente stressanti: un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che impara a salire le scale usando le stampelle; un bambino allontanato a forza dalla famiglia. I bambini di 7 o più anni hanno affermato di sentirsi tristi a causa delle situazioni mostrate nei filmati, lasciando intendere di essere consapevoli che la loro tristezza era la reazione alla sofferenza di un altro bambino e che quella che stavano provando era una reazione empatica. I bambini più piccoli, invece, non erano in grado di comprendere che il loro disagio era legato causalmente all’esperienza mediata della condizione dell’altro bambino: non si rendevano conto di provare un sentimento empatico.
Fra i 6 e gli 8 anni, il bambino aggiunge al proprio repertorio morale il senso del dovere sociale: per esempio, impara che mantenere le promesse è essenziale per il consolidamento delle amicizie e che il non farlo può provocare nell’altro un senso di tradimento e doIore. Anche in questo caso, se tale comportamento provoca senso di colpa e desiderio di riparazione, il bambino impara a diventare un essere morale.
Fra gli 8 e i 9 anni, un bambino riesce a intuire il livello di autostima dell’altro. Inoltre, è in grado di modificare la propria risposta empatica alla situazione dell’altro sulla base di circostanze esterne. Per esempio, a un gruppo di bambini è stato chiesto quanto sarebbero stati arrabbiati se un altro bambino avesse rubato loro il gatto. In seguito, sono stati informati del fatto che il gatto di quel bambino, il ladro, era scappato e che i suoi genitori si rifiutavano di procurargli un nuovo cucciolo. Sulla base della nuova informazione, i bambini «di 8 o più anni hanno dichiarato di essere meno arrabbiati», dopo aver saputo la ragione per cui l’altro aveva commesso quella brutta azione, rispetto a un gruppo di controllo al quale non era stata data l’informazione aggiuntiva. I bambini di 7 anni o meno, invece, non erano affatto influenzati dall’informazione aggiuntiva, a indicare che i bambini non sono in grado di valutare lei esperienze passate degli altri nella propria risposta empatica fino a circa 8 anni di età.
Fra i 10 e i 12 anni, il bambino è in grado di pensare in maniera astrattamente morale su quale debba essere il proprio comportamento nella società. Può provare un senso generale di responsabilità morale e di colpa che travalica le immediate circostanze e cominciare a riflettere su cosa significhi essere una brava persona, un essere umano moralmente retto, e condurre la propria vita sulla base di una propria bussola morale che lo indirizza. Ora, anche il suo senso di colpa è astratto: interiorizza il senso di colpa sociale provando angoscia e frustrazione qualora non riesca a soddisfare la norma morale della società.
A 10-11 anni, il bambino è in grado di comprendere l’idea che si possano provare simultaneamente sentimenti contrastanti: per esempio, una persona può sentirsi in imbarazzo perché ha un famigliare disabile ma, allo stesso tempo, provare empatia verso di lui. Intorno alla stessa età, il bambino è in grado di capire che un sentimento negativo può essere provocato tanto dal ricordo di esperienze passate quanto dalla reazione a eventi contingenti.
Nella prima adolescenza, fra i 12 e i 13 anni, i ragazzi diventano molto più perspicaci nelle loro risposte emotive agli altri: sono in grado di individuare diverse gradazioni di manifestazione emotiva, al punto da capire se e quando la reazione dell’altro può essere determinata da altri fattori, oltre alle immediate contingenze. Per esempio, la tristezza potrebbe essere causata da una depressione più profonda qualora apparisse troppo grave per essere legata semplicemente alle circostanze attuali.
Così si giunge a quel punto del percorso di maturazione della coscienza empatica in cui un giovane adulto diventa capace di notare, emotivamente e cognitivamente, l’esistenza dell’altro nella sua completezza e di sviluppare una reazione empatica alla totalità della sua esperienza e del suo essere. Per esempio, si può sentire empatia per l’esistenza fortemente limitata di una persona o per una sua grave disabilità fisica o mentale. Si può anche provare empatia per la condizione di una persona che è inconsapevole della propria stessa sofferenza. Hoffman riferisce il racconto della reazione empatica di un suo studente alla situazione di un bambino inconsapevole della propria condizione:
La madre di mio cugino morì. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e di giocare con lui, ma non smettevo di chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando cadeva e si sbucciava un ginocchio… Tutto quello a cui riuscivo a pensare era che la tenerezza della madre non c’era più. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il meglio.
Infine, la forma più matura di risposta empatica è la capacità di sentire la sofferenza di un intero gruppo di uomini, o perfino di altre specie, come se fosse la propria. Spesso, questo accade se si empatizza con una sofferenza personale, ma questa sofferenza è contemporaneamente simbolo della condizione di un intero gruppo (per esempio, le donne stuprate, certe minoranze religiose o gli omosessuali, tutte categorie che soffrono a causa del rifiuto da parte della cultura dominante). L’universalizzazione dell’empatia, fino a includere gruppi di persone o categorie di esseri, tende al concetto di coscienza universale.
Le World Values Surveys […] mostrano una chiara tendenza verso l’universalizzazione dell’empatia fra le giovani generazioni, almeno nelle nazioni più sviluppate del mondo. Cambiamenti fondamentali nelle modalità di accudimento genitoriale e nei comportamenti di attaccamento, il prolungamento dell’adolescenza, la maggiore esposizione alla varietà di persone, comunità e culture, una maggiore connettività globale, una crescente interdipendenza economica e stili di vita più cosmopoliti contribuiscono all’universalizzazione della coscienza empatica.
pp. 117-119
Fra i 4 e i 5 anni, il bambino matura il senso della reciprocità sociale: comincia a capire cosa ci si aspetta da lui in termini di adeguata risposta sociale alla relazione con altri bambini e ad azioni lui rivolte, ed è in grado di provare senso di colpa se ferisce un altro bambino non ricambiandolo appropriatamente. Per esempio, se un amico condivide i suoi giocattoli, ma il bambino rifiuta di fare altrettanto condividendo i propri, e lo fa piangere, il senso di colpa può innescare una risposta empatica e portare al tentativo di una riparazione in qualche forma.
Intorno ai 7 anni, il bambino comincia ad accorgersi quando avverte la risposta empatica alla sofferenza dell’altro. Uno studio che ha coinvolto bambini di 5, 7, 8 e 13 anni ha rivelato che i bambini di 7 o più anni sono consapevoli di essere empatici, mentre i più piccoli non lo sono. Ai bambini coinvolti sono stati mostrati filmati di bambini in situazioni fortemente stressanti: un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che impara a salire le scale usando le stampelle; un bambino allontanato a forza dalla famiglia. I bambini di 7 o più anni hanno affermato di sentirsi tristi a causa delle situazioni mostrate nei filmati, lasciando intendere di essere consapevoli che la loro tristezza era la reazione alla sofferenza di un altro bambino e che quella che stavano provando era una reazione empatica. I bambini più piccoli, invece, non erano in grado di comprendere che il loro disagio era legato causalmente all’esperienza mediata della condizione dell’altro bambino: non si rendevano conto di provare un sentimento empatico.
Fra i 6 e gli 8 anni, il bambino aggiunge al proprio repertorio morale il senso del dovere sociale: per esempio, impara che mantenere le promesse è essenziale per il consolidamento delle amicizie e che il non farlo può provocare nell’altro un senso di tradimento e doIore. Anche in questo caso, se tale comportamento provoca senso di colpa e desiderio di riparazione, il bambino impara a diventare un essere morale.
Fra gli 8 e i 9 anni, un bambino riesce a intuire il livello di autostima dell’altro. Inoltre, è in grado di modificare la propria risposta empatica alla situazione dell’altro sulla base di circostanze esterne. Per esempio, a un gruppo di bambini è stato chiesto quanto sarebbero stati arrabbiati se un altro bambino avesse rubato loro il gatto. In seguito, sono stati informati del fatto che il gatto di quel bambino, il ladro, era scappato e che i suoi genitori si rifiutavano di procurargli un nuovo cucciolo. Sulla base della nuova informazione, i bambini «di 8 o più anni hanno dichiarato di essere meno arrabbiati», dopo aver saputo la ragione per cui l’altro aveva commesso quella brutta azione, rispetto a un gruppo di controllo al quale non era stata data l’informazione aggiuntiva. I bambini di 7 anni o meno, invece, non erano affatto influenzati dall’informazione aggiuntiva, a indicare che i bambini non sono in grado di valutare lei esperienze passate degli altri nella propria risposta empatica fino a circa 8 anni di età.
Fra i 10 e i 12 anni, il bambino è in grado di pensare in maniera astrattamente morale su quale debba essere il proprio comportamento nella società. Può provare un senso generale di responsabilità morale e di colpa che travalica le immediate circostanze e cominciare a riflettere su cosa significhi essere una brava persona, un essere umano moralmente retto, e condurre la propria vita sulla base di una propria bussola morale che lo indirizza. Ora, anche il suo senso di colpa è astratto: interiorizza il senso di colpa sociale provando angoscia e frustrazione qualora non riesca a soddisfare la norma morale della società.
A 10-11 anni, il bambino è in grado di comprendere l’idea che si possano provare simultaneamente sentimenti contrastanti: per esempio, una persona può sentirsi in imbarazzo perché ha un famigliare disabile ma, allo stesso tempo, provare empatia verso di lui. Intorno alla stessa età, il bambino è in grado di capire che un sentimento negativo può essere provocato tanto dal ricordo di esperienze passate quanto dalla reazione a eventi contingenti.
Nella prima adolescenza, fra i 12 e i 13 anni, i ragazzi diventano molto più perspicaci nelle loro risposte emotive agli altri: sono in grado di individuare diverse gradazioni di manifestazione emotiva, al punto da capire se e quando la reazione dell’altro può essere determinata da altri fattori, oltre alle immediate contingenze. Per esempio, la tristezza potrebbe essere causata da una depressione più profonda qualora apparisse troppo grave per essere legata semplicemente alle circostanze attuali.
Così si giunge a quel punto del percorso di maturazione della coscienza empatica in cui un giovane adulto diventa capace di notare, emotivamente e cognitivamente, l’esistenza dell’altro nella sua completezza e di sviluppare una reazione empatica alla totalità della sua esperienza e del suo essere. Per esempio, si può sentire empatia per l’esistenza fortemente limitata di una persona o per una sua grave disabilità fisica o mentale. Si può anche provare empatia per la condizione di una persona che è inconsapevole della propria stessa sofferenza. Hoffman riferisce il racconto della reazione empatica di un suo studente alla situazione di un bambino inconsapevole della propria condizione:
La madre di mio cugino morì. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e di giocare con lui, ma non smettevo di chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando cadeva e si sbucciava un ginocchio… Tutto quello a cui riuscivo a pensare era che la tenerezza della madre non c’era più. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il meglio.
Infine, la forma più matura di risposta empatica è la capacità di sentire la sofferenza di un intero gruppo di uomini, o perfino di altre specie, come se fosse la propria. Spesso, questo accade se si empatizza con una sofferenza personale, ma questa sofferenza è contemporaneamente simbolo della condizione di un intero gruppo (per esempio, le donne stuprate, certe minoranze religiose o gli omosessuali, tutte categorie che soffrono a causa del rifiuto da parte della cultura dominante). L’universalizzazione dell’empatia, fino a includere gruppi di persone o categorie di esseri, tende al concetto di coscienza universale.
Le World Values Surveys […] mostrano una chiara tendenza verso l’universalizzazione dell’empatia fra le giovani generazioni, almeno nelle nazioni più sviluppate del mondo. Cambiamenti fondamentali nelle modalità di accudimento genitoriale e nei comportamenti di attaccamento, il prolungamento dell’adolescenza, la maggiore esposizione alla varietà di persone, comunità e culture, una maggiore connettività globale, una crescente interdipendenza economica e stili di vita più cosmopoliti contribuiscono all’universalizzazione della coscienza empatica.
pp. 117-119
Ho citato ampiamente queste pagine perché ritengo che in esse sia identificabile il punto debole dell’impianto teorico su cui Rifkin fonda l’intero saggio. Tale punto debole è l’adesione acritica alla teoria hofmaniana dell’empatia, che è sostanzialmente cognitivista. Non potendo ormai negare il radicamento dell’empatia nella natura umana, infatti, essa ne delinea uno sviluppo che comporta il passaggio univoco dall’empatia viscerale ed egocentrica dell’infante a quella culturalizzata e globale dell’adulto.
Questa concezione, in linea di principio poco confutabile dacché l’empatia può raggiungere la sua massima espressione universale solo nell’adulto – giungendo a configurarsi come una visione del mondo che attribuisce a tutti gli esseri umani gli stessi diritti e analoghi bisogni, non tiene conto che il processo di culturalizzazione di fatto può anche conseguire l’effetto opposto di illanguidirla o di anestetizzarla.
Alle variazioni culturali dell’empatia Rifkin dedica solo un breve paragrafo laddove riconosce che “i condizionamenti culturali di lacune società possono comportare l’arresto del processo ad uno specifico stadio o deviarlo su di un percorso alternativo” (p. 128).
Ma intanto, il percorso alternativo, che è una costante nelle società avanzate, non viene descritto. In secondo luogo, egli ritiene che i tempi siano maturi per indurre un adeguamento della cultura alla nuova concezione della natura umana. L’adeguamento, come titola l’ultimo capitolo della prima parte, è Trovare un nuovo senso all’avventura dell’uomo. Tale nuovo senso comporta il superamento dell’opposizione tra mente e corpo, o – è la stessa cosa – tra Razionalità e emozionalità. Scrive Rifkin:
La coscienza basata sulla fede e la coscienza razionale condividono un approccio incorporeo all’esistenza. Ma sono proprio quei sentimenti e quelle emozioni messe da parte a permettere all’uomo lo sviluppo di legami empatici e l’acquisizione di una socialità matura e completa: senza sentimenti ed emozioni, l’empatia cessa di esistere; e un mondo senza empatia è alieno al concetto stesso di essere umano.
I nuovi sviluppi della psicologia e delle scienze cognitive stanno gettando le basi per una interpretazione completamente nuova della coscienza umana. L’idea premoderna secondo cui fede e grazia divina costituiscono l’unica vera prospettiva sulla realtà, e le idee dell’Illuminismo che hanno posto la ragione al vertice della coscienza moderna cominciano a cedere il posto a un approccio più sofisticato alla teoria della mente.
In diverse discipline e ambiti del sapere, i ricercatori stanno cominciando ad attribuire nuove priorità ad alcuni connotati fondamentali della fede e della ragione, nel contesto di una più vasta coscienza empatica. Essi affermano che tutte le attività umane sono esperienze incarnate – cioè, di partecipazione all’altro – e che la capacità di capire l’altro e rispondergli «come se» fosse noi stessi è la chiave delle modalità di coinvolgimento dell’uomo nel mondo, della creazione dell’identità individuale, dello sviluppo del linguaggio, dell’apprendimento del pensiero razionale, della socialità, dell’elaborazione di narrazioni culturali e della definizione della realtà e dell’esistenza.
Il concetto di «esperienza incarnata» è una sfida diretta ai vecchi approcci alla coscienza basati su fede e ragione. Le nuove teorie della mente lasciano spazio a entrambi, nel contesto di un più vasto sistema di riferimento empatico; tali approcci tradizionali non sono più inconciliabili in quanto costrutti autonomi volti a interpretare la realtà. L’idea di esperienza incarnata ci permette di superare le ere della fede e della ragione, e segna l’ingresso nell’era dell’empatia, senza però costringerci ad abbandonare le caratteristiche peculiari delle precedenti visioni del mondo che continuano, ancora a distanza di centinaia di anni, a essere così importanti per milioni di esseri umani.
pp. 133-134
I nuovi sviluppi della psicologia e delle scienze cognitive stanno gettando le basi per una interpretazione completamente nuova della coscienza umana. L’idea premoderna secondo cui fede e grazia divina costituiscono l’unica vera prospettiva sulla realtà, e le idee dell’Illuminismo che hanno posto la ragione al vertice della coscienza moderna cominciano a cedere il posto a un approccio più sofisticato alla teoria della mente.
In diverse discipline e ambiti del sapere, i ricercatori stanno cominciando ad attribuire nuove priorità ad alcuni connotati fondamentali della fede e della ragione, nel contesto di una più vasta coscienza empatica. Essi affermano che tutte le attività umane sono esperienze incarnate – cioè, di partecipazione all’altro – e che la capacità di capire l’altro e rispondergli «come se» fosse noi stessi è la chiave delle modalità di coinvolgimento dell’uomo nel mondo, della creazione dell’identità individuale, dello sviluppo del linguaggio, dell’apprendimento del pensiero razionale, della socialità, dell’elaborazione di narrazioni culturali e della definizione della realtà e dell’esistenza.
Il concetto di «esperienza incarnata» è una sfida diretta ai vecchi approcci alla coscienza basati su fede e ragione. Le nuove teorie della mente lasciano spazio a entrambi, nel contesto di un più vasto sistema di riferimento empatico; tali approcci tradizionali non sono più inconciliabili in quanto costrutti autonomi volti a interpretare la realtà. L’idea di esperienza incarnata ci permette di superare le ere della fede e della ragione, e segna l’ingresso nell’era dell’empatia, senza però costringerci ad abbandonare le caratteristiche peculiari delle precedenti visioni del mondo che continuano, ancora a distanza di centinaia di anni, a essere così importanti per milioni di esseri umani.
pp. 133-134
I sostenitori dell’esperienza incarnata rigettano l’idea che la conoscenza, la ragione e il pensiero siano qualcosa che esiste a priori, che richieda una mente indagatrice che li estrapoli dall’etere e li immagazzini nella coscienza. E neppure accettano l’idea newtoniana di una realtà composta da fenomeni discreti che possono essere misurati separatamente, categorizzati e connessi secondo sterili procedimenti causali.
Al contrario, asseriscono che la vita mentale è sempre relazionale perché è fondata sull’idea che «io so che tu sai che io so ciò che tu sai»: il concetto stesso di una teoria della mente. Lo stesso sviluppo del pensiero, dunque, necessita della relazione con l’altro: anzi, possiamo conoscere noi stessi solo in relazione ad altri. E tramite il continuo processo di relazione con gli altri che diventiamo ciò che siamo. In questo senso, ciascuno di noi è l’incarnazione di quella parte dell’esperienza che l’altro ha avuto con noi e che abbiamo assorbito in noi stessi: le relazioni ci formano e determinano ciò che siamo. Perfino il linguaggio – la capacità di dare forma al pensiero con le parole – emerge solo dalla relazione con l’altro. Non possiamo neppure immaginare la possibilità che un bambino, allevato da un surrogato materno completamente meccanico e senza alcun contatto umano, possa essere in,grado di elaborare un linguaggio, per la semplice ragione che il linguaggio è qualcosa che si manifesta fra le persone. Il punto è che la nostra identità e coscienza individuali si formano attraverso l’unicità della nostra esperienza con infiniti altri: non esiste un semplice «io» autonomo, ma soltanto un’unica costellazione di numerosi «noi».
p. 138
Al contrario, asseriscono che la vita mentale è sempre relazionale perché è fondata sull’idea che «io so che tu sai che io so ciò che tu sai»: il concetto stesso di una teoria della mente. Lo stesso sviluppo del pensiero, dunque, necessita della relazione con l’altro: anzi, possiamo conoscere noi stessi solo in relazione ad altri. E tramite il continuo processo di relazione con gli altri che diventiamo ciò che siamo. In questo senso, ciascuno di noi è l’incarnazione di quella parte dell’esperienza che l’altro ha avuto con noi e che abbiamo assorbito in noi stessi: le relazioni ci formano e determinano ciò che siamo. Perfino il linguaggio – la capacità di dare forma al pensiero con le parole – emerge solo dalla relazione con l’altro. Non possiamo neppure immaginare la possibilità che un bambino, allevato da un surrogato materno completamente meccanico e senza alcun contatto umano, possa essere in,grado di elaborare un linguaggio, per la semplice ragione che il linguaggio è qualcosa che si manifesta fra le persone. Il punto è che la nostra identità e coscienza individuali si formano attraverso l’unicità della nostra esperienza con infiniti altri: non esiste un semplice «io» autonomo, ma soltanto un’unica costellazione di numerosi «noi».
p. 138
La grande trasformazione dal «penso, dunque sono» al «partecipo, dunque sono» colloca l’empatia al centro della storia dell’uomo: un posto che ha sempre avuto ma che la società non l ha mai riconosciuto. Il filosofo Henryk Skolimowski scrive: «Essere una persona in un universo partecipativo implica il riconoscimento del legame di partecipazione… Se riconosciamo questo legame, allora – ipso facto – riconosciamo l’empatia».28
Se viviamo veramente in un mondo partecipativo e la nostra stessa esperienza fisica implica il continuo coinvolgimento con gli altri, allora l’empatia diviene il mezzo attraverso il quale entriamo profondamente nella vita degli altri, e comprendiamo e costruiamo la nostra realtà condivisa. Eppure, molti di noi hanno ancora difficoltà ad accettare l’idea di realtà come conoscenza collettiva creata sul mondo che ci circonda, attraverso le relazioni in cui ci impegniamo. Ciò, in larga misura, è dovuto al nostro essere figli del «metodo scientifico» che ci ha trasmesso un’idea di realtà oggettiva a cui possiamo accedere come osservatori distaccati: l’esatto opposto dell’approccio incarnato alla realtà.
p. 142
Se viviamo veramente in un mondo partecipativo e la nostra stessa esperienza fisica implica il continuo coinvolgimento con gli altri, allora l’empatia diviene il mezzo attraverso il quale entriamo profondamente nella vita degli altri, e comprendiamo e costruiamo la nostra realtà condivisa. Eppure, molti di noi hanno ancora difficoltà ad accettare l’idea di realtà come conoscenza collettiva creata sul mondo che ci circonda, attraverso le relazioni in cui ci impegniamo. Ciò, in larga misura, è dovuto al nostro essere figli del «metodo scientifico» che ci ha trasmesso un’idea di realtà oggettiva a cui possiamo accedere come osservatori distaccati: l’esatto opposto dell’approccio incarnato alla realtà.
p. 142
La teoria dell’esperienza incarnata ipotizza che la comprensione della realtà non avvenga mediante il distacco e l’esercizio del potere, bensì attraverso la partecipazione e la comunione empatica: più profondamente empatizziamo con i nostri simili e con le altre creature, più intenso e ampio è il nostro livello di partecipazione, e più ricco e universale è l’ambito di realtà a cui abbiamo accesso. Il nostro livello di intima partecipazione definisce il nostro livello di comprensione della realtà. La nostra esperienza diviene sempre più globale e universale: diventiamo pienamente cosmopoliti e coinvolti nelle vicende del mondo. Questo è l’inizio di una coscienza della biosfera.
p. 143
p. 143
Tale coscienza, che Rifkin vede già all’orizzonte, implica una riformulazione di tutti i valori della tradizione teologica e illuministica in una dimensione che li rinnova profondamente, perché li radica nella coscienza empatica incarnata:
Il comportamento empatico è incarnato, pervaso di senso di smarrimento e timore reverenziale, ma fondato tanto sul sentimento quanto sulla ragione. Altrettanto importante è che la coscienza empatica è allo stesso tempo descrittiva e prescrittiva; non c’è separazione fra le cose come sono e come dovrebbero essere: sono la stessa cosa. Se ci si identifica con la lotta dell’altro «come se» fosse la propria e si celebra la sua vita confortando e sostenendo la sua ricerca, si vive autenticamente e pienamente. Il sé si allarga e si espande, accedendo a un livello più ampio e comprensivo di impegno compassionevole. Il processo dell’essere empatico estende il dominio della morale.
Chiunque abbia sperimentato l’empatia sa che essa non può essere invocata o perseguita in quanto dovere morale e, perciò, obbligo universale. L’empatia è allo stesso tempo sentita e ragionata. E un’esperienza «quantistica»: la si prova pensandola e la si pensa provandola.
La coscienza empatica, dunque, non si fonda su un codice morale imposto dall’esterno, ma su un terreno di crescita favorevole: si sviluppa una sensibilità morale nella misura in cui si è partecipi, fin dalla prima infanzia, di un ambiente famigliare a sociale favorevole. La società può stimolare la creazione di un ambiente di tal genere offrendo un adeguato contesto pubblico e sociale. Il potenziale empatico primitivo è inscritto nella chimica del cervello di alcuni mammiferi, e soprattutto dei primati, ma la sua espressione matura nell’uomo richiede apprendimento, pratica e un ambiente favorevole. I codici morali, inscritti nelle leggi e nelle politiche sociali, sono utili come linee guida e standard di apprendimento, ma il punto è che non si è autenticamente buoni se si è spinti a esserlo dalla minaccia di una punizione o dalla speranza di un premio, ma lo si è solo se l’empatia è nella propria natura. Non interiorizziamo i comportamenti moralmente appropriati per dovere, ma li possiamo esteriorizzare attraverso un’autentica identificazione con la sofferenza dell’altro. Essere pienamente umani significa essere universalmente empatici e, perciò, moralmente in linea con la propria esperienza incarnata.
pp. 164-165
Chiunque abbia sperimentato l’empatia sa che essa non può essere invocata o perseguita in quanto dovere morale e, perciò, obbligo universale. L’empatia è allo stesso tempo sentita e ragionata. E un’esperienza «quantistica»: la si prova pensandola e la si pensa provandola.
La coscienza empatica, dunque, non si fonda su un codice morale imposto dall’esterno, ma su un terreno di crescita favorevole: si sviluppa una sensibilità morale nella misura in cui si è partecipi, fin dalla prima infanzia, di un ambiente famigliare a sociale favorevole. La società può stimolare la creazione di un ambiente di tal genere offrendo un adeguato contesto pubblico e sociale. Il potenziale empatico primitivo è inscritto nella chimica del cervello di alcuni mammiferi, e soprattutto dei primati, ma la sua espressione matura nell’uomo richiede apprendimento, pratica e un ambiente favorevole. I codici morali, inscritti nelle leggi e nelle politiche sociali, sono utili come linee guida e standard di apprendimento, ma il punto è che non si è autenticamente buoni se si è spinti a esserlo dalla minaccia di una punizione o dalla speranza di un premio, ma lo si è solo se l’empatia è nella propria natura. Non interiorizziamo i comportamenti moralmente appropriati per dovere, ma li possiamo esteriorizzare attraverso un’autentica identificazione con la sofferenza dell’altro. Essere pienamente umani significa essere universalmente empatici e, perciò, moralmente in linea con la propria esperienza incarnata.
pp. 164-165
Su queste basi, Rifkin ritiene che la vicenda della specie umana vada ricostruita ripercorrendo “i modi in cui l’umanità ha utilizzato l’energia e la comunicazione nel corso della storia, nonché quelli in cui si sono evolute le forme della coscienza umana e si è sviluppata l’empatia, con i conseguenti effetti entropici.” (p. 166)
3.
Empatia e Energia è il titolo della parte seconda. Si tratta, di fatto, di un’affascinante carrellata sulla storia che parte dall’Antichità e giunge ai giorni nostri cercando di correlare lo sviluppo tecnologico e i cambiamenti della coscienza umana.
Prima di avviare l’analisi, Rifkin ne traccia le linee di fondo in questi termini:
Prima di avviare l’analisi, Rifkin ne traccia le linee di fondo in questi termini:
Nessuno può negare che la coscienza umana sia cambiata nel corso della storia. Ma se osserviamo le vicende dell’uomo più da vicino, notiamo che i grandi cambiamenti della coscienza si accompagnano a grandi cambiamenti nel modo in cui l’uomo organizza i suoi rapporti con il mondo naturale e imbriglia le energie del pianeta. Le popolazioni dedite alla caccia e alla raccolta pensavano in modo diverso da quelle che vivevano nelle società agricolo-idrauliche. Questo perché i cambiamenti qualitativi dei regimi energetici sono accompagnati da cambiamenti nel modo in cui le persone comunicano tra loro per gestire i flussi di energia. Questi mutamenti della comunicazione influiscono sulla maniera in cui il cervello umano comprende e organizza la realtà.
Tutte le società di cacciatori‑raccoglitori sono culture orali. Non conosciamo un solo caso in cui questo tipo di società abbia sviluppato la scrittura. Analogamente, quasi tutte le grandi società agricolo‑idrauliche hanno creato forme di scrittura e di calcolo per organizzare la produzione, la conservazione e la distribuzione dei cereali. Nell’Ottocento, la Prima rivoluzione industriale ‑ carbone, vapore, ferrovia ‑ sarebbe stata impossibile da organizzare e gestire senza la comunicazione a mezzo stampa. Agli inizi del Novecento, la prima generazione di mezzi di comunicazione elettronici, soprattutto il telefono, e successivamente la radio e la televisione con diffusione di massa, sono diventati il fondamentale meccanismo di comando e controllo per la gestione e la commercializzazione della Seconda rivoluzione industriale, fondata sul petrolio e organizzata intorno al motore a combustione interna e a beni e tecnologie derivati dai combustibili fossili.
I sistemi di comunicazione, a loro volta, modificano la coscienza umana. Le culture orali sono impregnate di coscienza mitologica; le culture scritte determinano lo sviluppo di una coscienza teologica; la cultura della stampa apre la strada alla coscienza ideologica; la cultura dei primi strumenti elettronici ha sviluppato la coscienza psicologica.
In realtà, è ovvio, non tutto è così rigidamente schematico. Questi diversi stadi dell’evoluzione della coscienza non sono magicamente apparsi proprio nel momento in cui c’era bisogno di organizzare un nuovo regime energetico‑comunicazionale. Le vecchie forme di coscienza, in genere, sopravvivono alle prime fasi di una rivoluzione energeticocomunicazionale. Ma nessuna di queste nuove configurazioni ha mai raggiunto l’apice del proprio sviluppo senza essere accompagnata da una nuova forma di coscienza.
Ogni nuovo stadio della coscienza è un riposizionamento mentale della percezione umana e si verifica quando una rivoluzione energetico‑comunicazionale fa nascere una nuova organizzazione sociale. Nel processo di estensione del nostro sistema nervoso centrale collettivo a nuovi domini e ambiti, sperimentiamo quello che gli psicologi chiamano «cambiamento di Gestalt». Il nostro orientamento spaziale e temporale si ricalibra (per usare un termine riduttivo derivato dalla meccanica) e giungiamo a vedere le cose in modo diverso. Altrettanto importante è il fatto che attraversiamo un processo di reinterpretazione del nostro nuovo ambiente e contesto sociale, nel tentativo di trovare il nostro posto e il nostro scopo nello schema delle cose. Questo processo di reinterpretazione è condizionato dalla realtà delle nuove relazioni che abbiamo instaurato con il mondo che ci circonda. In altre parole, giungiamo a vedere e interpretare la natura, il mondo e il cosmo in funzione del modo in cui interagiamo con esso. Anche le metafore che utilizziamo per descrivere la consapevolezza che abbiamo di noi stessi e della realtà sono prese a prestito dai nostri modi di organizzazione: le civiltà idrauliche descrivono il mondo in termini idraulici; la Prima rivoluzione industriale ha concepito Ia coscienza ideologica attraverso metafore meccaniche; la Seconda ha reinterpretato il cosmo in termini elettrici.
Ogni stadio della coscienza ridefinisce il limite estremo della realtà: cattura e riflette la portata e l’estensione temporale e spaziale del sistema nervoso centrale collettivo di ciascuna civiltà. L’ordine sociale spazio-temporale rappresentato dalla coscienza mitologica è marcatamente diverso da quello della coscienza teologica o ideologica o psicologica: ciascuna di queste riflette strutture sociali progressivamente più complesse e una dimensione spazio-temporale più estesa; e ciascuna offre la possibilità di estendere il dominio dell’empatia, aumentando allo stesso tempo l’entropia generale della biosfera.
Ogni stadio della coscienza determina anche il confine fra «noi» e gli «altri»: al di là c’è la terra di nessuno, dove vivono gli estranei. Per l’uomo mitologico, l’estraneo è il non umano, il demone o il mostro; per l’uomo teologico è il pagano o l’infedele; per l’uomo ideologico è il selvaggio; per l’uomo psicologico è il patologico.
A ogni stadio storico della coscienza, le rivoluzioni energetico-comunicazionali hanno ampliato il dominio del sistema nervoso centrale collettivo, includendo sempre più «altri» nel regno del famigliare. Oggi la televisione satellitare e Internet, la rivoluzione IT e il trasporto aereo connettono quasi due terzi della razza umana in un continuo anello di feedback, ventiquattro ore su ventiquattro: il dominio dell’estraneo si restringe a mano a mano che la gbbalizzazione accelera e l’impulso empatico comincia ad abbracciare la totalità della vita che costituisce la biosfera del pianeta. Il suo ritmo in progressiva accelerazione, però, è a malapena in grado ditenere il passo con l’accelerazione dell’entropia.
Ciascuno di questi stadi della coscienza umana è un atto del grande dramma che rappresenta il nocciolo dell’avventura umana: l’evoluzione dell’espressione empatica e l’inquietante ombra del debito entropico che ne costituisce la nemesi.
Ma come si può indagare qualcosa di così apparentemente elusivo come l’evoluzione dell’espressione empatica? Fortunatamente, disponiamo di un archivio che documenta sia l’evoluzione della coscienza umana sia lo sviluppo dell’espressione empatica, sia la sua progressiva universalizzazione: una prova empirica celata in profondità nei discorsi con cui abbiamo raccontato le nostre stesse vicende nel corso del tempo. Si trova nelle narrazioni che ci siamo lasciati alle spalle.
pp. 169-171
Tutte le società di cacciatori‑raccoglitori sono culture orali. Non conosciamo un solo caso in cui questo tipo di società abbia sviluppato la scrittura. Analogamente, quasi tutte le grandi società agricolo‑idrauliche hanno creato forme di scrittura e di calcolo per organizzare la produzione, la conservazione e la distribuzione dei cereali. Nell’Ottocento, la Prima rivoluzione industriale ‑ carbone, vapore, ferrovia ‑ sarebbe stata impossibile da organizzare e gestire senza la comunicazione a mezzo stampa. Agli inizi del Novecento, la prima generazione di mezzi di comunicazione elettronici, soprattutto il telefono, e successivamente la radio e la televisione con diffusione di massa, sono diventati il fondamentale meccanismo di comando e controllo per la gestione e la commercializzazione della Seconda rivoluzione industriale, fondata sul petrolio e organizzata intorno al motore a combustione interna e a beni e tecnologie derivati dai combustibili fossili.
I sistemi di comunicazione, a loro volta, modificano la coscienza umana. Le culture orali sono impregnate di coscienza mitologica; le culture scritte determinano lo sviluppo di una coscienza teologica; la cultura della stampa apre la strada alla coscienza ideologica; la cultura dei primi strumenti elettronici ha sviluppato la coscienza psicologica.
In realtà, è ovvio, non tutto è così rigidamente schematico. Questi diversi stadi dell’evoluzione della coscienza non sono magicamente apparsi proprio nel momento in cui c’era bisogno di organizzare un nuovo regime energetico‑comunicazionale. Le vecchie forme di coscienza, in genere, sopravvivono alle prime fasi di una rivoluzione energeticocomunicazionale. Ma nessuna di queste nuove configurazioni ha mai raggiunto l’apice del proprio sviluppo senza essere accompagnata da una nuova forma di coscienza.
Ogni nuovo stadio della coscienza è un riposizionamento mentale della percezione umana e si verifica quando una rivoluzione energetico‑comunicazionale fa nascere una nuova organizzazione sociale. Nel processo di estensione del nostro sistema nervoso centrale collettivo a nuovi domini e ambiti, sperimentiamo quello che gli psicologi chiamano «cambiamento di Gestalt». Il nostro orientamento spaziale e temporale si ricalibra (per usare un termine riduttivo derivato dalla meccanica) e giungiamo a vedere le cose in modo diverso. Altrettanto importante è il fatto che attraversiamo un processo di reinterpretazione del nostro nuovo ambiente e contesto sociale, nel tentativo di trovare il nostro posto e il nostro scopo nello schema delle cose. Questo processo di reinterpretazione è condizionato dalla realtà delle nuove relazioni che abbiamo instaurato con il mondo che ci circonda. In altre parole, giungiamo a vedere e interpretare la natura, il mondo e il cosmo in funzione del modo in cui interagiamo con esso. Anche le metafore che utilizziamo per descrivere la consapevolezza che abbiamo di noi stessi e della realtà sono prese a prestito dai nostri modi di organizzazione: le civiltà idrauliche descrivono il mondo in termini idraulici; la Prima rivoluzione industriale ha concepito Ia coscienza ideologica attraverso metafore meccaniche; la Seconda ha reinterpretato il cosmo in termini elettrici.
Ogni stadio della coscienza ridefinisce il limite estremo della realtà: cattura e riflette la portata e l’estensione temporale e spaziale del sistema nervoso centrale collettivo di ciascuna civiltà. L’ordine sociale spazio-temporale rappresentato dalla coscienza mitologica è marcatamente diverso da quello della coscienza teologica o ideologica o psicologica: ciascuna di queste riflette strutture sociali progressivamente più complesse e una dimensione spazio-temporale più estesa; e ciascuna offre la possibilità di estendere il dominio dell’empatia, aumentando allo stesso tempo l’entropia generale della biosfera.
Ogni stadio della coscienza determina anche il confine fra «noi» e gli «altri»: al di là c’è la terra di nessuno, dove vivono gli estranei. Per l’uomo mitologico, l’estraneo è il non umano, il demone o il mostro; per l’uomo teologico è il pagano o l’infedele; per l’uomo ideologico è il selvaggio; per l’uomo psicologico è il patologico.
A ogni stadio storico della coscienza, le rivoluzioni energetico-comunicazionali hanno ampliato il dominio del sistema nervoso centrale collettivo, includendo sempre più «altri» nel regno del famigliare. Oggi la televisione satellitare e Internet, la rivoluzione IT e il trasporto aereo connettono quasi due terzi della razza umana in un continuo anello di feedback, ventiquattro ore su ventiquattro: il dominio dell’estraneo si restringe a mano a mano che la gbbalizzazione accelera e l’impulso empatico comincia ad abbracciare la totalità della vita che costituisce la biosfera del pianeta. Il suo ritmo in progressiva accelerazione, però, è a malapena in grado ditenere il passo con l’accelerazione dell’entropia.
Ciascuno di questi stadi della coscienza umana è un atto del grande dramma che rappresenta il nocciolo dell’avventura umana: l’evoluzione dell’espressione empatica e l’inquietante ombra del debito entropico che ne costituisce la nemesi.
Ma come si può indagare qualcosa di così apparentemente elusivo come l’evoluzione dell’espressione empatica? Fortunatamente, disponiamo di un archivio che documenta sia l’evoluzione della coscienza umana sia lo sviluppo dell’espressione empatica, sia la sua progressiva universalizzazione: una prova empirica celata in profondità nei discorsi con cui abbiamo raccontato le nostre stesse vicende nel corso del tempo. Si trova nelle narrazioni che ci siamo lasciati alle spalle.
pp. 169-171
Non è possibile, ovviamente, dare conto delle ricostruzioni di Rifkin, che occupano più di duecento pagine. Non ce n’è, per fortuna, neppure bisogno perché la teoria degli stadi non è una novità assoluta perlomeno per quanto riguarda il passaggio dalla mitologia e dalla teologia alla razionalità scientifica e capitalistica. Il problema casomai riguarda gli ultimi due stadi – rispettivamente moderno e contemporaneo – che Rifkin definisce della coscienza psicologica e della coscienza empatica. Mi limito, dunque, per i primi quattro stadi stadi a qualche citazione significativa, proponendomi di riservare maggiore attenzione all’ultimo, che si può ritenere originale.
Per quanto riguarda la coscienza mitologica Rifkin scrive:
L’uomo primitivo non era in grado di distinguere fra materiale e immateriale, reale e immaginario, animato e inanimato. Nella sua esperienza, il passato aveva una dimensione limitata, e il futuro quasi nulla: egli viveva il momento presente ed era prigioniero delle sensazioni che lo tempestavano ed esigevano da lui una reazione immediata. Ogni forza che agiva su di lui ‑ vento, pioggia, caduta di rocce, calore del sole, luce della luna, altre creature ‑ era una manifestazione di spiriti e demoni, considerati di volta in volta amici o nemici: se gli cadeva addosso un sasso da un precipizio, credeva che uno stregone nemico l’avesse fatto cadere per ferirlo, o che fosse qualcuno del popolo delle pietre che lo attaccava.
Il grande filosofo e antropologo francese Lucien Lévy‑Bruhl definiva la mente primitiva una «nebbia di unità». L’uomo primitivo viveva in un mondo mistico e mitologico di profonda e involontaria compartecipazione: pensava che tigri ed elefanti fossero esseri umani come lui, con la differenza che avevano assunto la forma di tigre o elefante.
Ma la cosa più importante è che l’uomo primitivo, come il bambino, non possedeva un chiaro senso del proprio essere individuale, cioè non distingueva se stesso da ciò che lo circondavi. Bruhi sottolinea che fra i popoli primitivi non esiste l’Io, ma solo il Noi. Per quanto potesse esistere uno sbiadito senso di sé, esso non era chiaramente compreso. Ciò diventava particolarmente evidente quando un uomo primitivo feriva un altro essere umano, o uccideva un animale, oppure abbatteva un albero: dato che anche animali e alberi erano considerati umani, seppure in altre forme, e dato che non erano percepiti individualmente più di quanto lo fosse il sé, l’uomo primitivo considerava questo assalto come rivolto al clan dell’altro nella sua interezza, cosicché ogni forma di ritorsione colpiva un qualsiasi membro del proprio clan, o tutti. Infatti, dato che non esisteva il concetto di individuo, danno e vendetta avevano come bersaglio l’intera collettività. Le vendette e le faide di sangue fra clan e tribù hanno radici antiche in questo passato «nebuloso», in cui ogni individuo rappresentava l’intera collettività di appartenenza.
Poiché l’espressione empatica richiede un senso di sé sufficiente a riconoscere l’altro come essere distinto, non diversamente da sé, si deve concludere che il senso dell’empatia, fra i popoli primitivi, si fermasse al livello più basso del disagio empatico, più o meno come si verifica nel bambino fino all’età di 6 o 7 anni.
Se esiste qualcosa di buono in questa esistenza «nebulosa» e indifferenziata, è che l’individuo arcaico non percepiva il significato esistenziale della propria morte, perché non si concepiva come essere finito e mortale. Come abbiamo già osservato, tutte le società primitive condividono l’universale credenza che le persone non muoiano ma, semplicemente, cadano in un sonno profondo ed entrino in un altro mondo, un’esistenza parallela dalla quale occasionalmente escono sotto forma di spirito per incursioni nella terra dei «vivi».
Analogamente, i popoli primitivi non avevano comprensione del fenomeno della nascita, che veniva considerata alla stregua di un’immacolata concezione: uno spirito entra nel corpo della donna e, lì, si sviluppa in nuova forma. I neonati non erano considerati esseri umani, nel senso che noi attribuiamo a questo termine, bensì esseri ibridi ‑ per metà spiriti e per metà umani ‑ che rimanevano in contatto con il mondo dal quale provenivano. Questo essere ibrido diventava a poco a poco parte della comunità nel corso del tempo, sottoponendosi a diversi riti di passaggio. Il mondo umano e quello degli spiriti funzionavano un po’ come una porta girevole: i morti vivono per qualche tempo nel mondo degli spiriti, ma solo per reincarnarsi nuovamente in forma umana. Lo spirito può essere quello di una tigre o di una pianta, di una roccia, o perfino di una stella: la loro reincarnazione in forma umana lega il mondo dei viventi e quello dei morti in un ciclo ininterrotto e perpetuo.
Mancando del senso di «unicità» della propria o altrui nascita e morte, di fronte alla sofferenza altrui l’uomo delle origini non poteva raggiungere un senso di piena identificazione esistenziale con la vita dell’altro, ma si limitava a una forma primitiva di disagio empatico. E’ improbabile che qualcuno, in una società primitiva, percepisca la propria o altrui sofferenza attraverso una sensazione empatica matura, come succede oggi al bambino che abbia meno di 5 o 6 anni.
pp. 176-178
Il grande filosofo e antropologo francese Lucien Lévy‑Bruhl definiva la mente primitiva una «nebbia di unità». L’uomo primitivo viveva in un mondo mistico e mitologico di profonda e involontaria compartecipazione: pensava che tigri ed elefanti fossero esseri umani come lui, con la differenza che avevano assunto la forma di tigre o elefante.
Ma la cosa più importante è che l’uomo primitivo, come il bambino, non possedeva un chiaro senso del proprio essere individuale, cioè non distingueva se stesso da ciò che lo circondavi. Bruhi sottolinea che fra i popoli primitivi non esiste l’Io, ma solo il Noi. Per quanto potesse esistere uno sbiadito senso di sé, esso non era chiaramente compreso. Ciò diventava particolarmente evidente quando un uomo primitivo feriva un altro essere umano, o uccideva un animale, oppure abbatteva un albero: dato che anche animali e alberi erano considerati umani, seppure in altre forme, e dato che non erano percepiti individualmente più di quanto lo fosse il sé, l’uomo primitivo considerava questo assalto come rivolto al clan dell’altro nella sua interezza, cosicché ogni forma di ritorsione colpiva un qualsiasi membro del proprio clan, o tutti. Infatti, dato che non esisteva il concetto di individuo, danno e vendetta avevano come bersaglio l’intera collettività. Le vendette e le faide di sangue fra clan e tribù hanno radici antiche in questo passato «nebuloso», in cui ogni individuo rappresentava l’intera collettività di appartenenza.
Poiché l’espressione empatica richiede un senso di sé sufficiente a riconoscere l’altro come essere distinto, non diversamente da sé, si deve concludere che il senso dell’empatia, fra i popoli primitivi, si fermasse al livello più basso del disagio empatico, più o meno come si verifica nel bambino fino all’età di 6 o 7 anni.
Se esiste qualcosa di buono in questa esistenza «nebulosa» e indifferenziata, è che l’individuo arcaico non percepiva il significato esistenziale della propria morte, perché non si concepiva come essere finito e mortale. Come abbiamo già osservato, tutte le società primitive condividono l’universale credenza che le persone non muoiano ma, semplicemente, cadano in un sonno profondo ed entrino in un altro mondo, un’esistenza parallela dalla quale occasionalmente escono sotto forma di spirito per incursioni nella terra dei «vivi».
Analogamente, i popoli primitivi non avevano comprensione del fenomeno della nascita, che veniva considerata alla stregua di un’immacolata concezione: uno spirito entra nel corpo della donna e, lì, si sviluppa in nuova forma. I neonati non erano considerati esseri umani, nel senso che noi attribuiamo a questo termine, bensì esseri ibridi ‑ per metà spiriti e per metà umani ‑ che rimanevano in contatto con il mondo dal quale provenivano. Questo essere ibrido diventava a poco a poco parte della comunità nel corso del tempo, sottoponendosi a diversi riti di passaggio. Il mondo umano e quello degli spiriti funzionavano un po’ come una porta girevole: i morti vivono per qualche tempo nel mondo degli spiriti, ma solo per reincarnarsi nuovamente in forma umana. Lo spirito può essere quello di una tigre o di una pianta, di una roccia, o perfino di una stella: la loro reincarnazione in forma umana lega il mondo dei viventi e quello dei morti in un ciclo ininterrotto e perpetuo.
Mancando del senso di «unicità» della propria o altrui nascita e morte, di fronte alla sofferenza altrui l’uomo delle origini non poteva raggiungere un senso di piena identificazione esistenziale con la vita dell’altro, ma si limitava a una forma primitiva di disagio empatico. E’ improbabile che qualcuno, in una società primitiva, percepisca la propria o altrui sofferenza attraverso una sensazione empatica matura, come succede oggi al bambino che abbia meno di 5 o 6 anni.
pp. 176-178
Ancora alla coscienza mitologica appartengono le prime società agricole fondate sull’irrigazione, come quella dei Sumeri. L’avvento della civiltà urbana, però, produsse la prima nascita del sé consapevole:
I sumeri, e le successive civiltà idrauliche, svilupparono una ricca vita urbana. Le strade statali facilitarono i movimenti migratori e la vita nelle città. I centri urbani divennero crogioli in cui si fusero molte culture e la densità della popolazione fu un invito allo scambio culturale e ai primordi di un atteggiamento cosmopolita. I nuovi contatti crearono spesso conflitti, ma aprirono anche la porta alla famigliarità con individui che, fino a quel momento, erano stati considerati estranei e diversi. L’impulso empatico, per tutta la storia precedente limitato a piccoli gruppi di parenti stretti e a clan che vivevano prevalentemente nell’isolamento, trovò improvvisamente nuove opportunità e sfide: trovare il simile nel diverso rafforzò e approfondì l’espressione empatica, universalizzandola per la prima volta al di là del vincolo di sangue.
Il coincidere dello sviluppo di un embrionale senso di sé con l’esposizione alla diversità di individui precedentemente considerati estranei rappresentò una conquista fondamentale nella storia dell’uomo. Il solo fatto di essere esposti a persone che non erano parte del gruppo di consanguinei ebbe l’effetto di sviluppare, per quanto ancora debolmente, il senso di individualità. Si dice che la vita urbana crei isolamento e solitudine, ma crea anche un sé unico, capace di identificarsi con altri sé unici attraverso l’estensione empatica. Parzialmente separato dalla collettività, il singolo comincia a riconoscersi negli altri, intesi come esseri individuali, e, nel farlo, sviluppa il proprio senso di sé. Il risveglio di un senso universale di empatia verso gli altri esseri umani fu sviluppato solo embrionalmente dalle grandi società agricolo-idrauliche, ma in misura sufficiente a segnare l’inizio di una nuova fase del percorso umano.
I nostri antenati cominciarono allora a percorrere la strada che li avrebbe portati a diventare esseri umani pienamente coscienti di sé. Ma oggi riconosceremmo qualcosa di noi nel loro comportamento e modo di pensare? Se fossimo trasportati indietro nel tempo di 4500 anni, all’angolo di una strada di Uruk, nell’impero sumero, e iniziassimo a chiacchierare con un cittadino alfabetizzato, in che misura riusciremmo a empatizzare l’uno con l’altro, come due individui coscienti di sé? Benché non sia possibile sapere con certezza come sarebbe tale conversazione, disponiamo di testimonianze archeologiche che ci offrono affascinanti indizi di come i membri della élite letterata del tempo pensassero a se stessi e alla relazione con gli altri; e la cosa notevole è quanto molti aspetti di questo modo di pensare appaiano straordinariamente attuali.
pp. 183-184
Il coincidere dello sviluppo di un embrionale senso di sé con l’esposizione alla diversità di individui precedentemente considerati estranei rappresentò una conquista fondamentale nella storia dell’uomo. Il solo fatto di essere esposti a persone che non erano parte del gruppo di consanguinei ebbe l’effetto di sviluppare, per quanto ancora debolmente, il senso di individualità. Si dice che la vita urbana crei isolamento e solitudine, ma crea anche un sé unico, capace di identificarsi con altri sé unici attraverso l’estensione empatica. Parzialmente separato dalla collettività, il singolo comincia a riconoscersi negli altri, intesi come esseri individuali, e, nel farlo, sviluppa il proprio senso di sé. Il risveglio di un senso universale di empatia verso gli altri esseri umani fu sviluppato solo embrionalmente dalle grandi società agricolo-idrauliche, ma in misura sufficiente a segnare l’inizio di una nuova fase del percorso umano.
I nostri antenati cominciarono allora a percorrere la strada che li avrebbe portati a diventare esseri umani pienamente coscienti di sé. Ma oggi riconosceremmo qualcosa di noi nel loro comportamento e modo di pensare? Se fossimo trasportati indietro nel tempo di 4500 anni, all’angolo di una strada di Uruk, nell’impero sumero, e iniziassimo a chiacchierare con un cittadino alfabetizzato, in che misura riusciremmo a empatizzare l’uno con l’altro, come due individui coscienti di sé? Benché non sia possibile sapere con certezza come sarebbe tale conversazione, disponiamo di testimonianze archeologiche che ci offrono affascinanti indizi di come i membri della élite letterata del tempo pensassero a se stessi e alla relazione con gli altri; e la cosa notevole è quanto molti aspetti di questo modo di pensare appaiano straordinariamente attuali.
pp. 183-184
La coscienza teologica è il prodotto di una civiltà agricola fortemente avanzata e viene tramandata attraverso la scrittura. A riguardo Rifkin scrive:
Gli ebrei furono i primi a comunicare la propria cultura attraverso la parola scritta. Usavano l’alfabeto fonetico inventato dal popolo semita che abitava Canaan, intorno al secondo millennio a.C.54 Prima di allora, in tutte le società idrauliche la scrittura era composta da ideogrammi. Usando la parola scritta, gli ebrei furono il primo popolo della terra a registrare eventi storici, inventando così l’idea stessa di storia: persone vere con nomi veri, impegnate in eventi reali collocati nel passato. Anche altre culture scritte, come quelle sumerica, ittita, babilonese e assira, avevano cominciato a registrare eventi storici, ma solo in modo sporadico e isolato, con solo una vaga sensibilità storica. La parola scritta permise agli ebrei di scrivere la cronaca della propria storia, e l’uso dell’alfabeto fonetico rappresentò uno strumento versatile per assemblare informazioni molto più varie e con una capacità interpretativa molto maggiore.
L’idea di storia è un altro fondamentale spartiacque della coscienza umana. Anzi, la coscienza storica è, sotto molti aspetti, un essenziale sottotesto della coscienza teologica. Diversamente dalla coscienza mitologica, in cui il passato non ha una dimensione cronologica ma, piuttosto, ciclica, e in cui ogni vicenda è sempre nel presente e perpetuamente ripetibile, come nel «c’era una volta», la coscienza storica introduce l’idea che ogni evento e ogni individuo fanno storia a sé: una storia unica, finita e irripetibile. La coscienza storica accresce la consapevolezza dell’importanza della vita e delle vicende di ogni persona. La capacità di afferrare il concetto di unicità della storia personale, con un passato, un presente e un futuro, è uno dei segni distintivi dello sviluppo di una coscienza di sé…
Possiamo essere empatici con la sofferenza dell’altro principaTmente perché ne percepiamo la mortalità e il desiderio di sopravvivere e prosperare. E proprio il riconoscere la fragilità della nostra vita, la nostra sola e unica vita, nell’esistenza di un altro che ci fa accorrere in suo aiuto. Quando condividiamo una storia con un altro essere umano, accresciamo la nostra consapevolezza della sua lotta per la vita e riusciamo a percepirla come qualcosa che dobbiamo condurre insieme. Questo legame rappresenta un quadro di riferimento per la risposta empatica alla condizione dell’altro…
Il cambiamento più significativo introdotto dagli ebrei fu il passaggio da una coscienza mitologica, in cui le divinità parlavano a un «noi>’ collettivo, a una coscienza teologica, in cui un singolo Dio universale conduceva un dialogo con ciascun essere umano. A ogni bambino ebreo si insegnava a leggere la Torah, in modo che potesse conoscere la volontà di Dio ed entrare in una relazione personale con lui.”
pp. 196-197
L’idea di storia è un altro fondamentale spartiacque della coscienza umana. Anzi, la coscienza storica è, sotto molti aspetti, un essenziale sottotesto della coscienza teologica. Diversamente dalla coscienza mitologica, in cui il passato non ha una dimensione cronologica ma, piuttosto, ciclica, e in cui ogni vicenda è sempre nel presente e perpetuamente ripetibile, come nel «c’era una volta», la coscienza storica introduce l’idea che ogni evento e ogni individuo fanno storia a sé: una storia unica, finita e irripetibile. La coscienza storica accresce la consapevolezza dell’importanza della vita e delle vicende di ogni persona. La capacità di afferrare il concetto di unicità della storia personale, con un passato, un presente e un futuro, è uno dei segni distintivi dello sviluppo di una coscienza di sé…
Possiamo essere empatici con la sofferenza dell’altro principaTmente perché ne percepiamo la mortalità e il desiderio di sopravvivere e prosperare. E proprio il riconoscere la fragilità della nostra vita, la nostra sola e unica vita, nell’esistenza di un altro che ci fa accorrere in suo aiuto. Quando condividiamo una storia con un altro essere umano, accresciamo la nostra consapevolezza della sua lotta per la vita e riusciamo a percepirla come qualcosa che dobbiamo condurre insieme. Questo legame rappresenta un quadro di riferimento per la risposta empatica alla condizione dell’altro…
Il cambiamento più significativo introdotto dagli ebrei fu il passaggio da una coscienza mitologica, in cui le divinità parlavano a un «noi>’ collettivo, a una coscienza teologica, in cui un singolo Dio universale conduceva un dialogo con ciascun essere umano. A ogni bambino ebreo si insegnava a leggere la Torah, in modo che potesse conoscere la volontà di Dio ed entrare in una relazione personale con lui.”
pp. 196-197
Gli ebrei, con la loro lunga storia di sofferenza, comprendevano intimamente la fragilità della condizione umana, la vulnerabilità della vita e le tragedie che costellano la storia individuale e collettiva dell’umanità. La regola aurea, «amerai il prossimo tuo come te stesso», è un riconoscimento della lotta comune di tutta l’umanità per sopravvivere e prosperare. Nei tempi buoni e in quelli cattivi, quando l’arroganza ha prevalso e la disperazione sembrava avere la meglio, i profeti ebraici si facevano avanti ad ammonire e spronare il popolo a vivere «come esseri umani», ad aprire l’abbraccio empatico a quanta più umanità possibile.
Né peraltro gli ebrei erano soli, in questo. Il risveglio della coscienza empatica si manifestò in tutti gli angoli alfabetizzati del mondo, dalle acque del Giordano a quelle dell’Indo, fino alle pianure alluvionali dello Yangtze. Quella che potremmo chiamare l’«era assiale» ha coinciso con lo sbocciare della coscienza empatica. In ogni area geografica, il nuovo messaggio emerse dalle tribolazioni causate dal disordine sociale.
p. 200
Né peraltro gli ebrei erano soli, in questo. Il risveglio della coscienza empatica si manifestò in tutti gli angoli alfabetizzati del mondo, dalle acque del Giordano a quelle dell’Indo, fino alle pianure alluvionali dello Yangtze. Quella che potremmo chiamare l’«era assiale» ha coinciso con lo sbocciare della coscienza empatica. In ogni area geografica, il nuovo messaggio emerse dalle tribolazioni causate dal disordine sociale.
p. 200
Un ulteriore stadio della coscienza teologica interviene con l’avvento del Cristianesimo che, non per caso, si insedia e raggiunge rapidamente l’egemonia nell’Impero romano, che rappresenta il punto più alto raggiunto dalle antiche civiltà agricolo-idrauliche.
Il Cristianesimo peraltro rappresenta “una delle più intense ondate empatiche della storia dell’uomo” (p. 209):
Se c’è una singola caratteristica peculiare delle prime comunità cristiane urbane, questa è l’intensità emotiva, cioè l’affetto e la buona disposizione d’animo che intercorrevano fra i loro membri. Certamente, da una parte erano legati dalla comune attesa e aspettativa di una salvezza collettiva nel mondo a venire, con l’imminente seconda venuta di Cristo; dall’altra, erano anche legati reciprocamente in modo intimo, quasi famigliare, nelle loro piccole comunità. Guardavano l’uno all’altro come a un fratello, a una sorella, a un figlio in Cristo.
Le lettere paoline sono caratterizzate da un linguaggio affettuoso: i fedeli sono «amati»; gli apostoli sono «gentili fra voi, come una balia che accudisce i propri figli». Una tale manifestazione personale di affetto era inusuale per le abitudini dell’epoca e non aveva precedenti storici. I membri delle comunità cristiane erano incoraggiati ad avvicinarsi ai leader locali «con amore» e ad «accogliere tutti i fratelli con un santo bacio». Queste nuove comunità divennero una sorta di famiglia rivisitata, tenuta insieme da individui impegnati nella propria salvezza individuale e in quella degli altri fedeli: un nuovo tipo di famiglia legata da credenze teologiche, anziché da vincoli di sangue e territoriali.
pp. 216-217
Le lettere paoline sono caratterizzate da un linguaggio affettuoso: i fedeli sono «amati»; gli apostoli sono «gentili fra voi, come una balia che accudisce i propri figli». Una tale manifestazione personale di affetto era inusuale per le abitudini dell’epoca e non aveva precedenti storici. I membri delle comunità cristiane erano incoraggiati ad avvicinarsi ai leader locali «con amore» e ad «accogliere tutti i fratelli con un santo bacio». Queste nuove comunità divennero una sorta di famiglia rivisitata, tenuta insieme da individui impegnati nella propria salvezza individuale e in quella degli altri fedeli: un nuovo tipo di famiglia legata da credenze teologiche, anziché da vincoli di sangue e territoriali.
pp. 216-217
Diventando parte di una vicenda straordinaria – la nascita, la morte e la resurrezione dell’unico figlio di Dio migliaia di individui della classe media romana in ascesa potevano trascendere il proprio ambiguo status sociale e diventare parte di una narrazione cosmica che metteva in ombra perfino il potere di Cesare. Allo stesso tempo, la loro esistenziale, individuale ricerca di amore, affetto, intimità e compagnia in un ambiente urbano fortemente differenziato ed estraniante trovava in Gesù un compagno empatico, che comprendeva la loro vulnerabilità e l’oppressione patita e che «provava il loro dolore». Gesù era anche un modello di ruolo, con il suo comportamento empatico altruista, universale e incondizionato. Come Gesù era stato vulnerabile e oppresso, ma alla fine aveva trionfato risorgendo e ascendendo al cielo, così sarebbe stato per ogni uomo che avesse percorso e accettato il suo cammino.
La questione della vulnerabilità è particolarmente importante per la storia cristiana. Il corpo mortale di Gesù – la sua esistenza corporea – è messo al centro della narrazione cristiana. La Passione di Cristo ritrae un individuo debole, che soffre portando la propria croce lungo la strada verso il luogo dell’esecuzione. Durante il percorso viene colpito dai suoi aguzzini, vacilla e cade sotto il peso della croce che lo schiaccia. Il suo cammino è una tortura che induce all’empatia chi ne sente parlare e ha una propria croce da portare. La sofferenza di Gesù diventa quella dell’uomo, così come la sofferenza dell’uomo è quella di Gesù. La salita al calvario risveglia un senso universale di comprensione empatica: è il riconoscimento della vulnerabilità e della finitezza della vita, ma anche della lotta privata di ciascuno contro l’oppressione, l’ingiustizia e l’intolleranza. La vulnerabilità è ciò che ci rende uguali.32 Al di là delle distinzioni di status e delle molte altre cose che ci dividono l’uno dall’altro, siamo tutti mortali: ognuno di noi vive e muore. La consapevolezza di questa comune vulnerabilità e mortalità è alla base del senso di empatia verso i nostri simili.
Sfortunatamente, nel corso dei successivi sette secoli, l’abbraccio empatico universale esteso a tutti gli esseri umani è diventato sempre più precario a causa della comparsa del diavolo nella vita dell’uomo. Nel giudaismo, il Diavolo non aveva praticamente alcun ruolo. Satana è entrato in scena sotto forma di demone poco dopo la crocifissione, fra piccoli gruppi di ebrei. Ma il Diavolo come personaggio chiave, antagonista del Cristo e del Signore, con il suo vasto potere di ingannare, spargere il seme del caos e addirittura sfidare il potere di Dio, fu un’invenzione cristiana. L’evangelista Marco introdusse «il Diavolo» e il suo regno demoniaco nelle Scritture. Nei secoli seguenti il Diavolo fu usato come strumento per stigmatizzare i non credenti, gli ebrei, gli eretici e altri gruppi. I non credenti furono accusati di essere «posseduti» da Satana, reclutati per aiutare le forze del male, in aperta ribellione a Dio. Satana, buono per tutti gli scopi e le occasioni, è diventato «l’altro» dell’escatologia cristiana: l’estraneo in mezzo a noi, che sta in agguato nell’ombra, pronto a sedurre il fedele e a trasformarlo in agente del male.
L’atteggiamento «noi contro loro» era esistito fin dall’inizio dell’avventura umana, ma la narrazione cristiana universalizza tale opposizione: chiunque non accetti Cristo è condannato a unirsi alle schiere di Satana, per l’eternità, nelle fiamme eterne dell’inferno. Ci sono solo i veri credenti, gli infedeli e i non credenti. Elaine Pagels, docente di religione alla Princeton University, suggerisce che quello che può essere nuovo nella tradizione cristiana occidentale è che, facendo ricorso a Satana per rappresentare i propri nemici, si dà del conflitto una particolare interpretazione morale e religiosa, in cui «noi» siamo il popolo di Dio e «loro» sono i nemici di Dio, e perciò stesso i nostri … Tale interpretazione morale del conflitto si è dimostrata straordinariamente efficace per tutto il corso della storia occidentale nel consolidare l’identità delle comunità cristiane; la medesima storia mostra che può giustificare l’odio e, addirittura, lo sterminio di massa.
pp. 218-219
La questione della vulnerabilità è particolarmente importante per la storia cristiana. Il corpo mortale di Gesù – la sua esistenza corporea – è messo al centro della narrazione cristiana. La Passione di Cristo ritrae un individuo debole, che soffre portando la propria croce lungo la strada verso il luogo dell’esecuzione. Durante il percorso viene colpito dai suoi aguzzini, vacilla e cade sotto il peso della croce che lo schiaccia. Il suo cammino è una tortura che induce all’empatia chi ne sente parlare e ha una propria croce da portare. La sofferenza di Gesù diventa quella dell’uomo, così come la sofferenza dell’uomo è quella di Gesù. La salita al calvario risveglia un senso universale di comprensione empatica: è il riconoscimento della vulnerabilità e della finitezza della vita, ma anche della lotta privata di ciascuno contro l’oppressione, l’ingiustizia e l’intolleranza. La vulnerabilità è ciò che ci rende uguali.32 Al di là delle distinzioni di status e delle molte altre cose che ci dividono l’uno dall’altro, siamo tutti mortali: ognuno di noi vive e muore. La consapevolezza di questa comune vulnerabilità e mortalità è alla base del senso di empatia verso i nostri simili.
Sfortunatamente, nel corso dei successivi sette secoli, l’abbraccio empatico universale esteso a tutti gli esseri umani è diventato sempre più precario a causa della comparsa del diavolo nella vita dell’uomo. Nel giudaismo, il Diavolo non aveva praticamente alcun ruolo. Satana è entrato in scena sotto forma di demone poco dopo la crocifissione, fra piccoli gruppi di ebrei. Ma il Diavolo come personaggio chiave, antagonista del Cristo e del Signore, con il suo vasto potere di ingannare, spargere il seme del caos e addirittura sfidare il potere di Dio, fu un’invenzione cristiana. L’evangelista Marco introdusse «il Diavolo» e il suo regno demoniaco nelle Scritture. Nei secoli seguenti il Diavolo fu usato come strumento per stigmatizzare i non credenti, gli ebrei, gli eretici e altri gruppi. I non credenti furono accusati di essere «posseduti» da Satana, reclutati per aiutare le forze del male, in aperta ribellione a Dio. Satana, buono per tutti gli scopi e le occasioni, è diventato «l’altro» dell’escatologia cristiana: l’estraneo in mezzo a noi, che sta in agguato nell’ombra, pronto a sedurre il fedele e a trasformarlo in agente del male.
L’atteggiamento «noi contro loro» era esistito fin dall’inizio dell’avventura umana, ma la narrazione cristiana universalizza tale opposizione: chiunque non accetti Cristo è condannato a unirsi alle schiere di Satana, per l’eternità, nelle fiamme eterne dell’inferno. Ci sono solo i veri credenti, gli infedeli e i non credenti. Elaine Pagels, docente di religione alla Princeton University, suggerisce che quello che può essere nuovo nella tradizione cristiana occidentale è che, facendo ricorso a Satana per rappresentare i propri nemici, si dà del conflitto una particolare interpretazione morale e religiosa, in cui «noi» siamo il popolo di Dio e «loro» sono i nemici di Dio, e perciò stesso i nostri … Tale interpretazione morale del conflitto si è dimostrata straordinariamente efficace per tutto il corso della storia occidentale nel consolidare l’identità delle comunità cristiane; la medesima storia mostra che può giustificare l’odio e, addirittura, lo sterminio di massa.
pp. 218-219
Ciononostante, è un fatto incontestabile che in epoca romanocristiana sia avvenuto qualcosa di straordinario per lo sviluppo della coscienza umana. Lo possiamo vedere chiaramente nelle Confessioni di sant’Agostino, il faro intellettuale della Chiesa delle origini. Agostino di Ippona fu il primo autore a noi noto a scrivere un racconto in prima persona sul risveglio della coscienza di sé. Altri ne avrebbero seguito l’esempio nei secoli successivi, con autobiografie sempre più introspettive, rivelatrici e consapevoli, a conferma del costante – ancorché irregolare – avanzamento della coscienza di sé. Sant’Agostino, però, fu il primo ad articolare una valutazione autoconsapevole del proprio percorso terreno, testimonianza non solo e non tanto dell’uomo, quanto dell’epoca in cui visse.
Il fatto che sant’Agostino abbia intitolato la sua opera Confessioni è significativo. La confessione pubblica era un aspetto fondamentale della vita delle prime comunità monastiche cristiane. Essa venne ben presto affiancata dalla confessione privata: una pratica che «si diffuse dai monasteri al mondo laico».68 I fedeli erano incoraggiati a raccontare non solo i propri misfatti, ma anche le intenzioni e i pensieri cattivi. La pratica della confessione privata costringeva gli individui a esaminare i propri sentimenti più intimi, al fine di scoprire il proprio vero sé. La ricompensa per l’introspezione e la rivelazione dei propri più intimi pensieri e sentimenti malvagi all’autorità – i sacerdoti – era l’assoluzione e la grazia di Dio, che portavano un senso di profondo sollievo a chi soffriva per la propria cattiva coscienza. Nel Novecento, numerosi psichiatri considerarono il rito della confessione uno dei primi esempi del genere di pratiche terapeutiche diventate poi popolari negli anni Sessanta.
Le Confessioni sono la rivelazione pubblica della vita più intima e privata di sant’Agostino, piena di pensieri impuri, ambiguità e pentimento. Sono, dall’inizio alla fine, un’opera penitenziale. Quest’uomo – la cui opera principale, La città di Dio, è stata la colonna portante della teologia cattolica per 1500 anni – si sentì costretto a esaminare la propria vita interiore e la propria relazione con il mondo alla luce della propria conversione al cristianesimo. La sua è la storia di un uomo che diventa cosciente di sé.
Le Confessioni sono state scritte fra il 397 e il 401 d.C., quando Agostìno era già diventato vescovo di Ippona (395 d.C.), e a dieci anni di distanza dalla sua esperienza di conversione.70 Il libro è scritto in forma di domande che l’autore pone a se stesso, con il chiaro intento di cercare di capire cosa, nella sua esperienza di vita, lo abbia condotto alla conversione e, questione altrettanto importante, cosa sia cambiato in lui dopo di essa.
Sant’Agostino desiderava la felicità e la serenità; in un passaggio particolarmente rivelatore, si tormenta per la propria natura peccaminosa, con la quale era riluttante a confrontarsi ma da cui non poteva più sfuggire, lamentando:
E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me?
Agostino diviene integro solo quando mette da parte le esigenze del proprio io e si abbandona totalmente alla fede in un Dio amorevole: solo allora prova la grazia di Dio.
Agostino prese sul serio la massima greca «conosci te stesso» e, così facendo, stabilì un esempio per tutti i cristiani che sarebbero venuti dopo di lui. Sebbene nelle Confessioni si parli poco dell’impulso empatico risvegliato dalla coscienza di sé, Agostino ha fatto dell’introspezione una parte essenziale di una buona vita cristiana. La pratica dell’introspezione serviva alla Chiesa ma, in misura molto maggiore, serviva alla coscienza umana, dal momento che le offriva la “pratica” dell’esame di coscienza, che porta allo sviluppo di una consapevolezza di sé e ad una visione empatica pienamente maturi.
pp. 228-230
Il fatto che sant’Agostino abbia intitolato la sua opera Confessioni è significativo. La confessione pubblica era un aspetto fondamentale della vita delle prime comunità monastiche cristiane. Essa venne ben presto affiancata dalla confessione privata: una pratica che «si diffuse dai monasteri al mondo laico».68 I fedeli erano incoraggiati a raccontare non solo i propri misfatti, ma anche le intenzioni e i pensieri cattivi. La pratica della confessione privata costringeva gli individui a esaminare i propri sentimenti più intimi, al fine di scoprire il proprio vero sé. La ricompensa per l’introspezione e la rivelazione dei propri più intimi pensieri e sentimenti malvagi all’autorità – i sacerdoti – era l’assoluzione e la grazia di Dio, che portavano un senso di profondo sollievo a chi soffriva per la propria cattiva coscienza. Nel Novecento, numerosi psichiatri considerarono il rito della confessione uno dei primi esempi del genere di pratiche terapeutiche diventate poi popolari negli anni Sessanta.
Le Confessioni sono la rivelazione pubblica della vita più intima e privata di sant’Agostino, piena di pensieri impuri, ambiguità e pentimento. Sono, dall’inizio alla fine, un’opera penitenziale. Quest’uomo – la cui opera principale, La città di Dio, è stata la colonna portante della teologia cattolica per 1500 anni – si sentì costretto a esaminare la propria vita interiore e la propria relazione con il mondo alla luce della propria conversione al cristianesimo. La sua è la storia di un uomo che diventa cosciente di sé.
Le Confessioni sono state scritte fra il 397 e il 401 d.C., quando Agostìno era già diventato vescovo di Ippona (395 d.C.), e a dieci anni di distanza dalla sua esperienza di conversione.70 Il libro è scritto in forma di domande che l’autore pone a se stesso, con il chiaro intento di cercare di capire cosa, nella sua esperienza di vita, lo abbia condotto alla conversione e, questione altrettanto importante, cosa sia cambiato in lui dopo di essa.
Sant’Agostino desiderava la felicità e la serenità; in un passaggio particolarmente rivelatore, si tormenta per la propria natura peccaminosa, con la quale era riluttante a confrontarsi ma da cui non poteva più sfuggire, lamentando:
E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me?
Agostino diviene integro solo quando mette da parte le esigenze del proprio io e si abbandona totalmente alla fede in un Dio amorevole: solo allora prova la grazia di Dio.
Agostino prese sul serio la massima greca «conosci te stesso» e, così facendo, stabilì un esempio per tutti i cristiani che sarebbero venuti dopo di lui. Sebbene nelle Confessioni si parli poco dell’impulso empatico risvegliato dalla coscienza di sé, Agostino ha fatto dell’introspezione una parte essenziale di una buona vita cristiana. La pratica dell’introspezione serviva alla Chiesa ma, in misura molto maggiore, serviva alla coscienza umana, dal momento che le offriva la “pratica” dell’esame di coscienza, che porta allo sviluppo di una consapevolezza di sé e ad una visione empatica pienamente maturi.
pp. 228-230
La coscienza ideologica si inaugura con la fine del medioevo e la nascita dell’Umanesimo-Essa corrisponde tecnologicamente ad una Rivoluzione industriale “leggera” che riconosce come espressione più significativa, destinata ad influenzare i secoli futuri, l’invenzione della stampa:
La rivoluzione della stampa fece progredire il concetto di individualità e la consapevolezza di sé anche in altri ambiti significativi. Per esempio, la stampa diede importanza al concetto autore: per quanto anche in precedenza i singoli autori fossero conosciuti, questi erano una minoranza, e spesso le opere man scritte erano anonime, in quanto risultato del contributo collettivo di scrittori diversi lungo un ampio arco di tempo. L’idea di autore, elevò l’individuo a uno status di unicità, separandolo dalla voce collettiva della comunità.
L’idea di autore portò anche al concetto di individuo come entità creatrice; la stessa concezione di creatività personale non avrebbe potuto presentarsi in un’altra epoca. Anche nelle culture scritte, nonostante l’esercizio della scrittura fosse solitario, i contributi erano visti come esercizi collettivi: centinaia di amanuensi o scribi si succedevano nella riscrittura di testi tratti da precedenti codici per creare una nuova copia; nella migliore delle ipotesi, il singolo amanuense o scriba dava maggior peso a qualche argomento o aggiungeva una nota a margine, ma il lavoro era comunque teso alla copiatura, non alla creazione.
Con il passare del tempo, le idiosincrasie di centinaia di copisti potevano trovare un certo spazio nel manoscritto, cambiando il significato del contesto, ma nessun amanuense si sarebbe mai definito «autore»: rimaneva un semplice copista. Naturalmente, ci furono autori di cui ricordiamo il nome ‑ come Agostino o Tommaso d’Aquino ‑ ma la sensazione è che anche per loro l’ispirazione venisse dall’esterno: erano stati colpiti da un pensiero o da un’idea. La creatività personale, invece, è qualcosa che viene da dentro, anche se è ispirata da una musa. Solo una cultura in cui la coscienza di sé ha sviluppato l’idea di creatività personale può accedere alla dimensione psicologica.
La creatività individuale coincide con il concetto di realizzazione personale. In una cultura autoriale, ciascuno diviene autore della propria realizzazione. Se in epoca feudale la vita di ciascuno era stata giudicata in base alla fedeltà al signore feudale locale, alla Chiesa e a Dio onnipotente, nei tempi nuovi venne sempre più valutata sulla base delle proprie realizzazioni personali. La teologia riformata di Lutero, e ancor più quella di Calvino, con la sua enfasi sul miglioramento della propria condizione personale come maniera per affermare la propria elezione e salvezza, nei secoli successivi si sarebbe trasformata in una devozione secolare alla realizzazione personale nel campo degli affari. Il grande sociologo Max Weber si riferiva all’importanza attribuita alla realizzazione personale dal nuovo cristianesimo riformato come all’etica protestante del lavoro, e la riteneva responsabile di aver gettato le fondamenta psicologiche per la creazione dell’uomo borghese che avrebbe portato il capitalismo al centro della scena mondiale.
Dall’idea di autore derivò anche la concezione di proprietà intellettuale; le leggi promosse in questo campo fecero della comunicazione fra gli individui una merce. L’idea che qualcuno potesse essere proprietario di pensieri e parole e che gli altri dovessero pagare per ascoltarlo ha segnato un fondamentale cambiamento nella storia delle relazioni umane.
Prima della stampa, la gente condivideva oralmente i propri pensieri, in un dialogo diretto, in uno scambio faccia a faccia. Come abbiamo già rilevato, perfino i manoscritti venivano letti ad alta voce ed erano scritti per essere ascoltati, più che letti. La rivoluzione della stampa contribuì a sviluppare un contesto più meditativo: i libri erano letti in silenzio e in solitudine, creando una nuova dimensione di privacy personale, di riflessione e introspezione, e portando infine alla nascita del pensiero di tipo terapeutico riguardo a se stessi e al mondo.
La stampa ha contribuito a formare anche l’idea di completezza e finitezza della psiche. Nelle culture orali non ci sono confini netti tra la fine di un pensiero e l’inizio di un altro, ma solo continuità di pensiero o pause. Le conversazioni e le storie scivolano l’una nell’altra. Parlare e ascoltare sono processi aperti, spesso sconnessi e frammentari, con nuovi temi e argomenti che affiorano per poi scomparire, lasciando di nuovo spazio all’argomento precedente. Viceversa, le idee e le storie riprodotte a stampa vengono fissate. Ogni libro è visto come autonomo e senza tempo nel suo spazio. Un libro, dopotutto, è qualcosa di finito nello spazio e nel tempo: la storia che racconta ha un inizio, una parte centrale e una fine, ed è racchiusa tra la prima e la quarta di copertina.
Walter Ong osserva che le idee stampate su una pagina non sono oggetto di discussione: il lettore non può ribattere, eccepire, argomentare su un certo punto. Ma il lettore può, a sua volta, scrivere all’autore o pubblicare la propria replica. Ogni contrappunto, tuttavia, è esso stesso chiuso e legato alla natura stessa del medium utilizzato.20 Ogni autore sa fin troppo bene che la pagina stampata è la copia finale: una volta licenziata per la stampa e riprodotta in più esemplari, è intoccabile. Il testo non tollera più cambiamenti.
Per tutti questi particolari, il testo a stampa crea un senso di autonomia e impenetrabilità. Non è dunque difficile immaginare lo sviluppo dell’idea di autonomia individuale in un ambiente alfabetizzato e dominato dalla stampa, in cui gran parte della comunicazione è, in sé, autonoma. Dopotutto, la lettura è un’esperienza solitaria e richiede grande concentrazione. Le interruzioni distraggono. Quando si legge, di solito si è coinvolti e spesso si perde il senso del tempo e la nozione di luogo. Nel leggere, si entra in un mondo a sé. È l’esperienza stessa a essere raccolta e contenuta. La storica Elizabeth Eisenstein afferma che un pubblico di lettori è, per sua natura, più atomistico e individualista di quello costituito dagli esponenti di una cultura basata sull’ascolto:
L’idea che la società può essere considerata un insieme di unità separate o che l’individuo viene prima del gruppo sociale sembra più compatibile con un pubblico di lettori che di ascoltatori.
La comunicazione a stampa ha rafforzato il senso di individualità a spese dei vecchi legami comunitari. Ma ha anche avuto l’effetto di connettere gli individui in nuovi generi di affiliazioni e legami capaci di attraversare porzioni di spazio e tempo più estese. La stampa è diventata il fondamentale meccanismo di comando e controllo per la gestione della «produzione di energia» generata da una nuova e sempre più complessa cultura urbana commerciale estesa in tutta Europa, in America e oltre. Consideriamo i diversi contributi che la stampa ha dato al mondo moderno.
Tanto per cominciare, i nuovi mezzi di comunicazione a stampa hanno mutato i modi con cui l’uomo organizza la conoscenza. La ridondanza mnemotecnica della comunicazione orale e le eccentricità soggettive degli scritti medievali sono state sostituite da un approccio alla conoscenza più razionale, analitico, calcolatore. La stampa ha rimpiazzato la memoria dell’uomo con sommari, numeri di pagina, note al piede e indici, liberando la mente umana dalla necessità di ricordare continuamente il passato per poterlo fissare nel futuro. Il cambiamento della coscienza ha preparato la strada a una nuova idea di progresso umano.
La stampa ha introdotto schemi, liste, grafici e altri ausili visuali per descrivere il mondo con la maggiore accuratezza possibile. La stampa ha reso possibile la produzione di carte geografiche standardizzate e facilmente riproducibili, rendendo la navigazione e i viaggi terrestri più prevedibili e sicuri. L’apertura degli oceani e delle grandi vie di terra ha allargato i mercati e gli scambi commerciali. Gli orari stampati, continuamente aggiornati, prodotti in massa e disponibili ovunque, hanno facilitato il traffico ferroviario e i viaggi transoceanici.
La stampa ha aperto la strada alla cultura commerciale del «contratto», permettendo ai mercanti e ai capitalisti di coordinare attività commerciali sempre più complesse e di gestire transazioni su grandi distanze. La moderna contabilità, i registri, le bolle di carico, le fatture, gli assegni e le note promissorie sono stati essenziali strumenti di gestione e organizzazione del capitalismo di mercato. La stampa ha anche reso possibile la fissazione di un sistema di prezzi uniforme, senza il quale concetti come quello di «scambio di proprietà» non si sarebbero potuti sviluppare.
La stampa ha anche introdotto il concetto di assemblaggio, componente chiave della cultura industriale. Separare l’alfabeto in unità standardizzate di caratteri tipografici, uniformi, intercambiabili e riutilizzabili, ha fatto della stampa il primo processo industriale moderno. Nella stampa, gli oggetti sono spaziati uniformemente allineando i caratteri in una forma e bloccandola sul piano del torchio. Il testo composto può essere riprodotto in serie, realizzando copie identiche e indistinguibili dall’originale. L’assemblaggio, l’uniformità e l’intercambiabilità delle parti, la posizione prevedibile degli oggetti nello spazio e la produzione di massa sono le fondamenta dello stile di vita industriale.
La stampa organizza i fenomeni in modo ordinato, razionale e oggettivo e, nel farlo, favorisce il pensiero lineare, sequenziale, causale. L’idea stessa di «comporre» i propri pensieri suggerisce l’idea di una progressione lineare ben congegnata dei concetti, in sequenza logica: una modalità di pensiero e di espressione ben diversa da quella caratteristica delle culture orali, dove la ridondanza e la discontinuità del pensiero sono la regola.
Eliminando le ridondanze della lingua parlata e rendendo possibili misurazioni e descrizioni precise, la stampa ha gettato le basi della moderna visione scientifica del mondo. I fenomeni possono essere esaminati rigorosamente, osservati e descritti, e si possono condurre esperimenti ripetibili, nel rispetto di severi standard e protocolli: pratica molto difficile in una cultura orale.
La stampa ha reso possibile l’alfabetizzazione universale, dotando le future generazioni degli strumenti di comunicazione necessari alla gestione delle complessità del mercato moderno e delle nuove modalità di lavoro e socializzazione. In breve, la stampa ha creato un atteggiamento mentale e una visione del mondo adatti a un modo «industrioso» di vivere e stare nel mondo.
pp. 246-248
L’idea di autore portò anche al concetto di individuo come entità creatrice; la stessa concezione di creatività personale non avrebbe potuto presentarsi in un’altra epoca. Anche nelle culture scritte, nonostante l’esercizio della scrittura fosse solitario, i contributi erano visti come esercizi collettivi: centinaia di amanuensi o scribi si succedevano nella riscrittura di testi tratti da precedenti codici per creare una nuova copia; nella migliore delle ipotesi, il singolo amanuense o scriba dava maggior peso a qualche argomento o aggiungeva una nota a margine, ma il lavoro era comunque teso alla copiatura, non alla creazione.
Con il passare del tempo, le idiosincrasie di centinaia di copisti potevano trovare un certo spazio nel manoscritto, cambiando il significato del contesto, ma nessun amanuense si sarebbe mai definito «autore»: rimaneva un semplice copista. Naturalmente, ci furono autori di cui ricordiamo il nome ‑ come Agostino o Tommaso d’Aquino ‑ ma la sensazione è che anche per loro l’ispirazione venisse dall’esterno: erano stati colpiti da un pensiero o da un’idea. La creatività personale, invece, è qualcosa che viene da dentro, anche se è ispirata da una musa. Solo una cultura in cui la coscienza di sé ha sviluppato l’idea di creatività personale può accedere alla dimensione psicologica.
La creatività individuale coincide con il concetto di realizzazione personale. In una cultura autoriale, ciascuno diviene autore della propria realizzazione. Se in epoca feudale la vita di ciascuno era stata giudicata in base alla fedeltà al signore feudale locale, alla Chiesa e a Dio onnipotente, nei tempi nuovi venne sempre più valutata sulla base delle proprie realizzazioni personali. La teologia riformata di Lutero, e ancor più quella di Calvino, con la sua enfasi sul miglioramento della propria condizione personale come maniera per affermare la propria elezione e salvezza, nei secoli successivi si sarebbe trasformata in una devozione secolare alla realizzazione personale nel campo degli affari. Il grande sociologo Max Weber si riferiva all’importanza attribuita alla realizzazione personale dal nuovo cristianesimo riformato come all’etica protestante del lavoro, e la riteneva responsabile di aver gettato le fondamenta psicologiche per la creazione dell’uomo borghese che avrebbe portato il capitalismo al centro della scena mondiale.
Dall’idea di autore derivò anche la concezione di proprietà intellettuale; le leggi promosse in questo campo fecero della comunicazione fra gli individui una merce. L’idea che qualcuno potesse essere proprietario di pensieri e parole e che gli altri dovessero pagare per ascoltarlo ha segnato un fondamentale cambiamento nella storia delle relazioni umane.
Prima della stampa, la gente condivideva oralmente i propri pensieri, in un dialogo diretto, in uno scambio faccia a faccia. Come abbiamo già rilevato, perfino i manoscritti venivano letti ad alta voce ed erano scritti per essere ascoltati, più che letti. La rivoluzione della stampa contribuì a sviluppare un contesto più meditativo: i libri erano letti in silenzio e in solitudine, creando una nuova dimensione di privacy personale, di riflessione e introspezione, e portando infine alla nascita del pensiero di tipo terapeutico riguardo a se stessi e al mondo.
La stampa ha contribuito a formare anche l’idea di completezza e finitezza della psiche. Nelle culture orali non ci sono confini netti tra la fine di un pensiero e l’inizio di un altro, ma solo continuità di pensiero o pause. Le conversazioni e le storie scivolano l’una nell’altra. Parlare e ascoltare sono processi aperti, spesso sconnessi e frammentari, con nuovi temi e argomenti che affiorano per poi scomparire, lasciando di nuovo spazio all’argomento precedente. Viceversa, le idee e le storie riprodotte a stampa vengono fissate. Ogni libro è visto come autonomo e senza tempo nel suo spazio. Un libro, dopotutto, è qualcosa di finito nello spazio e nel tempo: la storia che racconta ha un inizio, una parte centrale e una fine, ed è racchiusa tra la prima e la quarta di copertina.
Walter Ong osserva che le idee stampate su una pagina non sono oggetto di discussione: il lettore non può ribattere, eccepire, argomentare su un certo punto. Ma il lettore può, a sua volta, scrivere all’autore o pubblicare la propria replica. Ogni contrappunto, tuttavia, è esso stesso chiuso e legato alla natura stessa del medium utilizzato.20 Ogni autore sa fin troppo bene che la pagina stampata è la copia finale: una volta licenziata per la stampa e riprodotta in più esemplari, è intoccabile. Il testo non tollera più cambiamenti.
Per tutti questi particolari, il testo a stampa crea un senso di autonomia e impenetrabilità. Non è dunque difficile immaginare lo sviluppo dell’idea di autonomia individuale in un ambiente alfabetizzato e dominato dalla stampa, in cui gran parte della comunicazione è, in sé, autonoma. Dopotutto, la lettura è un’esperienza solitaria e richiede grande concentrazione. Le interruzioni distraggono. Quando si legge, di solito si è coinvolti e spesso si perde il senso del tempo e la nozione di luogo. Nel leggere, si entra in un mondo a sé. È l’esperienza stessa a essere raccolta e contenuta. La storica Elizabeth Eisenstein afferma che un pubblico di lettori è, per sua natura, più atomistico e individualista di quello costituito dagli esponenti di una cultura basata sull’ascolto:
L’idea che la società può essere considerata un insieme di unità separate o che l’individuo viene prima del gruppo sociale sembra più compatibile con un pubblico di lettori che di ascoltatori.
La comunicazione a stampa ha rafforzato il senso di individualità a spese dei vecchi legami comunitari. Ma ha anche avuto l’effetto di connettere gli individui in nuovi generi di affiliazioni e legami capaci di attraversare porzioni di spazio e tempo più estese. La stampa è diventata il fondamentale meccanismo di comando e controllo per la gestione della «produzione di energia» generata da una nuova e sempre più complessa cultura urbana commerciale estesa in tutta Europa, in America e oltre. Consideriamo i diversi contributi che la stampa ha dato al mondo moderno.
Tanto per cominciare, i nuovi mezzi di comunicazione a stampa hanno mutato i modi con cui l’uomo organizza la conoscenza. La ridondanza mnemotecnica della comunicazione orale e le eccentricità soggettive degli scritti medievali sono state sostituite da un approccio alla conoscenza più razionale, analitico, calcolatore. La stampa ha rimpiazzato la memoria dell’uomo con sommari, numeri di pagina, note al piede e indici, liberando la mente umana dalla necessità di ricordare continuamente il passato per poterlo fissare nel futuro. Il cambiamento della coscienza ha preparato la strada a una nuova idea di progresso umano.
La stampa ha introdotto schemi, liste, grafici e altri ausili visuali per descrivere il mondo con la maggiore accuratezza possibile. La stampa ha reso possibile la produzione di carte geografiche standardizzate e facilmente riproducibili, rendendo la navigazione e i viaggi terrestri più prevedibili e sicuri. L’apertura degli oceani e delle grandi vie di terra ha allargato i mercati e gli scambi commerciali. Gli orari stampati, continuamente aggiornati, prodotti in massa e disponibili ovunque, hanno facilitato il traffico ferroviario e i viaggi transoceanici.
La stampa ha aperto la strada alla cultura commerciale del «contratto», permettendo ai mercanti e ai capitalisti di coordinare attività commerciali sempre più complesse e di gestire transazioni su grandi distanze. La moderna contabilità, i registri, le bolle di carico, le fatture, gli assegni e le note promissorie sono stati essenziali strumenti di gestione e organizzazione del capitalismo di mercato. La stampa ha anche reso possibile la fissazione di un sistema di prezzi uniforme, senza il quale concetti come quello di «scambio di proprietà» non si sarebbero potuti sviluppare.
La stampa ha anche introdotto il concetto di assemblaggio, componente chiave della cultura industriale. Separare l’alfabeto in unità standardizzate di caratteri tipografici, uniformi, intercambiabili e riutilizzabili, ha fatto della stampa il primo processo industriale moderno. Nella stampa, gli oggetti sono spaziati uniformemente allineando i caratteri in una forma e bloccandola sul piano del torchio. Il testo composto può essere riprodotto in serie, realizzando copie identiche e indistinguibili dall’originale. L’assemblaggio, l’uniformità e l’intercambiabilità delle parti, la posizione prevedibile degli oggetti nello spazio e la produzione di massa sono le fondamenta dello stile di vita industriale.
La stampa organizza i fenomeni in modo ordinato, razionale e oggettivo e, nel farlo, favorisce il pensiero lineare, sequenziale, causale. L’idea stessa di «comporre» i propri pensieri suggerisce l’idea di una progressione lineare ben congegnata dei concetti, in sequenza logica: una modalità di pensiero e di espressione ben diversa da quella caratteristica delle culture orali, dove la ridondanza e la discontinuità del pensiero sono la regola.
Eliminando le ridondanze della lingua parlata e rendendo possibili misurazioni e descrizioni precise, la stampa ha gettato le basi della moderna visione scientifica del mondo. I fenomeni possono essere esaminati rigorosamente, osservati e descritti, e si possono condurre esperimenti ripetibili, nel rispetto di severi standard e protocolli: pratica molto difficile in una cultura orale.
La stampa ha reso possibile l’alfabetizzazione universale, dotando le future generazioni degli strumenti di comunicazione necessari alla gestione delle complessità del mercato moderno e delle nuove modalità di lavoro e socializzazione. In breve, la stampa ha creato un atteggiamento mentale e una visione del mondo adatti a un modo «industrioso» di vivere e stare nel mondo.
pp. 246-248
L’azione convergente della rivoluzione della stampa e dello sviluppo di fonti di energia inanimate trasforma radicalmente la coscienza umana:
Fu alla fine del Cinquecento che la dimensione pubblica dell’esistenza cominciò a perdere importanza e la vita privata iniziò a essere percepita come un rifugio. Con il crescere dell’importanza della vita individuale, la dimensione pubblica di ciascuno divenne sempre più ambigua e causa di inquietudine: coniugare i due piani dell’esistenza fu fonte di nuove ansie. Anche l’atteggiamento in tema di matrimonio e educazione dei figli subì un profondo cambiamento. Questi mutamenti della coscienza erano un riflesso della nuova ondata empatica e, allo stesso tempo, contribuirono a favorirla.
L’essere umano, per la prima volta, si trovava di fronte alla questione della propria identità. La domanda «Chi sono io?» entrò a far parte dell’intima conversazione che gli individui intrattenevano con se stessi, oltre a essere tema di pubblico dibattito.
Se le generazioni precedenti erano molto più prese dalle questioni riguardanti la pietà e l’onore personali, a conferma della stretta che l’ordine ecclesiastico e feudale esercitava sulle loro vite, l’emergente borghesia cominciò a focalizzare gran parte della propria attenzione sulla questione della sincerità: gli altri erano come apparivano, oppure ricorrevano a una «maschera» pubblica per celare il proprio vero sé? Nel Cinquecento l’emergere del senso di sé provocò la nascita di una serie di dubbi su questo medesimo sé, non circoscritti ai propri pensieri e alle proprie intenzioni, ma estesi anche a quelli altrui. Cominciando a creare, in maniera incerta e nella maggior parte dei casi ancora inconsapevolmente, un’immagine privata e un’immagine pubblica di sé, gli individui iniziarono a dubitare della versione pubblica degli altri, chiedendosi se il sé più intimo non rimanesse segreto e celato dietro le apparenze.
pp. 253-254
L’essere umano, per la prima volta, si trovava di fronte alla questione della propria identità. La domanda «Chi sono io?» entrò a far parte dell’intima conversazione che gli individui intrattenevano con se stessi, oltre a essere tema di pubblico dibattito.
Se le generazioni precedenti erano molto più prese dalle questioni riguardanti la pietà e l’onore personali, a conferma della stretta che l’ordine ecclesiastico e feudale esercitava sulle loro vite, l’emergente borghesia cominciò a focalizzare gran parte della propria attenzione sulla questione della sincerità: gli altri erano come apparivano, oppure ricorrevano a una «maschera» pubblica per celare il proprio vero sé? Nel Cinquecento l’emergere del senso di sé provocò la nascita di una serie di dubbi su questo medesimo sé, non circoscritti ai propri pensieri e alle proprie intenzioni, ma estesi anche a quelli altrui. Cominciando a creare, in maniera incerta e nella maggior parte dei casi ancora inconsapevolmente, un’immagine privata e un’immagine pubblica di sé, gli individui iniziarono a dubitare della versione pubblica degli altri, chiedendosi se il sé più intimo non rimanesse segreto e celato dietro le apparenze.
pp. 253-254
La nuova importanza attribuita all’individualità, che divenne immediatamente evidente nel Cinquecento, segnò un cambiamento fondamentale nel modo in cui le persone percepivano se stesse. L’identità famigliare e di consanguineità cominciò a lasciare il posto a un’identità personale fatta di realizzazioni individuali, forgiata nel corso della vita.
Questa transizione epocale è contrassegnata dall’introduzione di una serie di nuove parole nei vocabolari delle lingue europee. Nella lingua inglese, per esempio, la parola selfMsé) è nata come pronome, con significato di own (proprio) o same (stesso); solo nel Medioevo intorno al 1400 è diventata sostantivo, ma, nei primi usi in tale forma, aveva connotazione negativa, come in Oure own self we sai deny, And folow oure lord god al-rn yghty (Dobbiamo negare il nostro sé, E seguire nostro signore dio onnipotente).
Self si trasformò in un termine dal significato positivo nel Cinquecento e cominciò a essere usato come prefisso in parole composte. L’espressione self-praise (stima di sé) è comparsa per la prima volta nel 1549, seguita immediatamente da self-love (amor proprio), self-pride (orgoglio di sé) e self-regard (considerazione di sé). Già all’inizio del Seicento, self era prefisso a così tante parole da far pensare che fosse difficile passare una giornata senza sentirla usare in qualche nuovo contesto.
La parola consciousness (coscienza), nella sua moderna accezione, è comparsa per la prima volta in Inghilterra nel 1620. II sostantivo relativo comparve cinquant’anni dopo, nel 1678. Nel 1690, sempre nella lingua inglese, il sé si è combinato con la coscienza, e la selfconsciousness (coscienza di sé) è diventata l’espressione che descrive la nuova caratteristica dell’uomo e della donna dell’era moderna.
Naturalmente, avere coscienza di sé significa essere consapevoli della propria separatezza. Il nuovo interesse per l’autonomia e l’indipendenza personale si rifletté in un’altra storica trasformazione del modo di vivere. La vita comunitaria pubblicamente vissuta che aveva caratterizzato ogni epoca precedente cominciò a venire meno, mentre la gente si ritirava sempre più spesso al chiuso, fino a occupare stanze private e separate dalle altre. La privacy, concetto di scarso significato ontologico nel Medioevo, nel Cinquecento cominciò a essere ambita, e divenne una sorta di privilegio ereditario per la borghesia urbana del Settecento.
pp. 255-256
Questa transizione epocale è contrassegnata dall’introduzione di una serie di nuove parole nei vocabolari delle lingue europee. Nella lingua inglese, per esempio, la parola selfMsé) è nata come pronome, con significato di own (proprio) o same (stesso); solo nel Medioevo intorno al 1400 è diventata sostantivo, ma, nei primi usi in tale forma, aveva connotazione negativa, come in Oure own self we sai deny, And folow oure lord god al-rn yghty (Dobbiamo negare il nostro sé, E seguire nostro signore dio onnipotente).
Self si trasformò in un termine dal significato positivo nel Cinquecento e cominciò a essere usato come prefisso in parole composte. L’espressione self-praise (stima di sé) è comparsa per la prima volta nel 1549, seguita immediatamente da self-love (amor proprio), self-pride (orgoglio di sé) e self-regard (considerazione di sé). Già all’inizio del Seicento, self era prefisso a così tante parole da far pensare che fosse difficile passare una giornata senza sentirla usare in qualche nuovo contesto.
La parola consciousness (coscienza), nella sua moderna accezione, è comparsa per la prima volta in Inghilterra nel 1620. II sostantivo relativo comparve cinquant’anni dopo, nel 1678. Nel 1690, sempre nella lingua inglese, il sé si è combinato con la coscienza, e la selfconsciousness (coscienza di sé) è diventata l’espressione che descrive la nuova caratteristica dell’uomo e della donna dell’era moderna.
Naturalmente, avere coscienza di sé significa essere consapevoli della propria separatezza. Il nuovo interesse per l’autonomia e l’indipendenza personale si rifletté in un’altra storica trasformazione del modo di vivere. La vita comunitaria pubblicamente vissuta che aveva caratterizzato ogni epoca precedente cominciò a venire meno, mentre la gente si ritirava sempre più spesso al chiuso, fino a occupare stanze private e separate dalle altre. La privacy, concetto di scarso significato ontologico nel Medioevo, nel Cinquecento cominciò a essere ambita, e divenne una sorta di privilegio ereditario per la borghesia urbana del Settecento.
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A partire dal Rinascimento fino al ‘700, la coscienza umana si espande in maniera tumultuosa:
Una piccola parte dell’umanità, i pochi privilegiati appartenenti in gran parte alla classe media urbana socialmente in crescita, cominciò a pensare in un modo veramente moderno. Lo spirito umano passò dalla figura del servo obbediente, indifferenziato dalla volontà collettiva e collocato a un livello prestabilito della Grande catena dell’essere che discende dalle porte del paradiso fino alle tetre profondità dell’inferno, a quella di un individuo autonomo e sovrano, che interagisce in una dimensione orizzontale, affiliato a legami di fraternità e impegnato tanto nella ricerca della felicità personale quanto nel progresso dell’intera umanità.
p. 278
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Verso la metà del Settecento, tuttavia, il genere autobiografico ebbe un’esplosione di popolarità. Lo storico e docente della Columbia University Karl j. Weintraub, in The Value of the Individual: Self and Circumstances in Autobiography, individua, attraverso le autobiografie di Giambattista Vico, Edward Gibbon, Jean-Jacques Rousseau e Johann Wolfgang von Goethe, un’evoluzione lineare della coscienza di sé e dell’espressione empatica che ha caratterizzato il periodo che precede le Rivoluzioni americana e francese e l’inizio dell’età contemporanea nei primi anni dell’Ottocento.
p. 279
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La coscienza ideologica trova poi il suo apice con l’avvio dell’industrializzazione, che inaugura un duro scontro tra ragione e sentimento:
Sebbene si insegni abitualmente agli scolari che il Settecento è stato, in Europa e in America, l’era della ragione, ciò rappresenta solo una parte della realtà: il diciottesimo secolo fu molto più di questo. Il Settecento fu il campo di una battaglia epocale fra ragione ed emozioni, condotta da due movimenti che cercavano ciascuno di imporsi come la narrativa dominante della nuova era secolare. Lo scrittore Louis Bredvold lo spiega così:
Non accettiamo più l’idea che il Settecento sia stato un’epoca di prosa e ragione; siamo perfettamente consapevoli del fatto che è stato anche un’era di sentimenti e che, durante il suo corso, si siano sparse più lacrime, tanto nella letteratura quanto nella vita vera, che in qualsiasi altro secolo, a parte l’Ottocento.
L’avvocato e filosofo britannico Owen Barfield ha osservato che durante questo periodo l’individuo ha vissuto una «doppia vita immaginaria»: una dominata dall’«ordine e dalla ragione dell’universo morale e materiale», l’altra dalla «sensibilità nel microcosmo di se stessi».
Il disincanto del mondo promosso dalla fredda logica analitica dell’era della ragione si scontrò frontalmente con quello che il sociologo Cohn Campbell chiama «il ri-incanto dell’esperienza». La scrittrice Eleanor Sickels definisce il sentimentalismo come «la dottrina o la pratica del coltivare ed esprimere le emozioni per se stesse».
pp. 292-293
Non accettiamo più l’idea che il Settecento sia stato un’epoca di prosa e ragione; siamo perfettamente consapevoli del fatto che è stato anche un’era di sentimenti e che, durante il suo corso, si siano sparse più lacrime, tanto nella letteratura quanto nella vita vera, che in qualsiasi altro secolo, a parte l’Ottocento.
L’avvocato e filosofo britannico Owen Barfield ha osservato che durante questo periodo l’individuo ha vissuto una «doppia vita immaginaria»: una dominata dall’«ordine e dalla ragione dell’universo morale e materiale», l’altra dalla «sensibilità nel microcosmo di se stessi».
Il disincanto del mondo promosso dalla fredda logica analitica dell’era della ragione si scontrò frontalmente con quello che il sociologo Cohn Campbell chiama «il ri-incanto dell’esperienza». La scrittrice Eleanor Sickels definisce il sentimentalismo come «la dottrina o la pratica del coltivare ed esprimere le emozioni per se stesse».
pp. 292-293
Nell’ultimo quarto del Settecento, divenne evidente che era in corso l’elaborazione di una nuova, grande narrazione, che avrebbe sostituito la coscienza teologica con la coscienza ideologica, gettando le basi per le Rivoluzioni americana e francese e per il fiorire dell’era industriale. Questa nuova narrazione mescolava ragione ed emozioni con una tensione dialettica che nei secoli successivi sarebbe continuamente riaffiorata.
p. 294
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Ragione e sentimento continuarono a scontrarsi per conquistare il consenso popolare in Francia come in Inghilterra e, in misura minore, in America, dove l’etica puritana esercitò sempre una potente influenza; tuttavia, gli inglesi erano più propensi a sposare la ragione, mentre i francesi tendevano a preferire il sentimento.
p. 296
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Con l’affermazione dell’industria e del sistema capitalistico, lo scontro diventa radicale:
Con la velocizzazione del ritmo dell’industrializzazione, l’urbanizzazione accelerò e i governi consolidarono il loro potere politico. La «razionalizzazione» della pubblica amministrazione, del mercato e delle relazioni sociali continuò a ritmi sostenuti. Il periodo fra il 1790 e il 1850 vide una crescente atomizzazione dell’individuo in una società sempre più razionalizzata e integrata. L’etica utilitarista divenne la legge vigente nella vita quotidiana. Ma il crescente straniamento dell’individuo – ciò che i francesi chiamano anomie (anomia) – trovò nuova voce nel movimento romantico, erede dell’età del sentimentalismo.
Il movimento romantico fu una reazione alla fissazione razionalistica dell’Illuminismo e divenne una potente forza di contrasto che influenzò ogni convenzione e istituzione sociale, dalle relazioni matrimoniali all’educazione dei bambini, alle idee sulla giustizia e sul governo. Il movimento romantico raggiunse il proprio apice con le insurrezioni del 1848 e la cosiddetta «Primavera dei popoli». Questo periodo diede impulso a una nuova ondata di empatia che sarebbe culminata nella prima vera concettualizzazione moderna del significato di coscienza empatica, a opera di Arthur Schopenhauer, nel saggio Il fondamento della morale, pubblicato nel 1840.
p. 309
Il movimento romantico fu una reazione alla fissazione razionalistica dell’Illuminismo e divenne una potente forza di contrasto che influenzò ogni convenzione e istituzione sociale, dalle relazioni matrimoniali all’educazione dei bambini, alle idee sulla giustizia e sul governo. Il movimento romantico raggiunse il proprio apice con le insurrezioni del 1848 e la cosiddetta «Primavera dei popoli». Questo periodo diede impulso a una nuova ondata di empatia che sarebbe culminata nella prima vera concettualizzazione moderna del significato di coscienza empatica, a opera di Arthur Schopenhauer, nel saggio Il fondamento della morale, pubblicato nel 1840.
p. 309
Lo storico britannico Eric J. Hobsbawm coglie lo spirito dell’era romantica, il periodo compreso fra il 1789 e il 1848, quando nota che la tendenza generale era quella verso una «laicizzazione» empatica. Come il Rinascimento, il movimento romantico fu tanto una reazione a un’autorità ottusa e ottundente quanto una riaffermazione dello spirito umano. Il Rinascimento, e soprattutto l’Umanesimo alla fine del Cinquecento, avevano instillato una qualità sensuale e terrena nella vita, risvegliando l’immaginazione umana e rinvigorendo le passioni e le emozioni, a lungo represse da una Chiesa che glorificava la vita ascetica ed era completamente concentrata sul mondo ultraterreno e sulla salvezza eterna. L’era romantica fu simile al Rinascimento quanto a obiettivi, ma questa volta il bersaglio era la distaccata razionalità dell’Illuminismo e l’enfasi posta sul materialismo.
I filosofi dell’Illuminismo consideravano il mondo in termini meccanicistici, pensavano che gli uomini fossero acquisitivi per natura e definivano il progresso come sviluppo del benessere materiale. I romantici, al contrario, interpretavano il mondo in termini organici, credevano che la natura umana fosse profondamente affettiva e sociale, e definivano il progresso come la forza creativa che libera l’immaginazione e promuove l’autorealizzazione e il senso della comunità…
Come i teologi protestanti e i filosofi illuministi, anche i romantici ponevano l’accento sull’individualismo, ma non per permettere a ciascuno di cercare la salvezza personale al cospetto di Dio o perseguire il proprio interesse nel mercato. Per i romantici, l’individualità era qualcosa di diverso: credevano che ogni persona fosse unica, dotata di potenziale creativo, e che una vita veramente libera coincidesse con l’opportunità di un’autorealizzazione.
Se la fede era la forza trainante della trascendenza cristiana e la ragione quella dei filosofi illuministi, per i romantici un ruolo analogo lo ebbe l’immaginazione, che per la prima volta nella storia divenne un argomento di conversazione e di profondo interesse, a segnalare un radicale cambiamento della coscienza umana. L’immaginazione permetteva a ciascuno di attingere alla forza plasmatrice della natura per diventare co-creatore del mondo e, così facendo, prendere parte a un processo divino.
Il nuovo concetto romantico del sé era estremamente audace: la natura era nella mente dell’uomo, e la mente dell’uomo nella natura; liberando l’immaginazione, ogni individuo avrebbe riscoperto il proprio essere naturale e il proprio posto nello schema naturale delle cose.
L’idea di diventare co-creatore del mondo era molto distante dalla concezione cristiana di asservimento a Dio, ma anche da quella della filosofia illuminista, che enfatizzava il progresso materiale, soggetto alle leggi di un universo meccanico predeterminato.
p. 313
I filosofi dell’Illuminismo consideravano il mondo in termini meccanicistici, pensavano che gli uomini fossero acquisitivi per natura e definivano il progresso come sviluppo del benessere materiale. I romantici, al contrario, interpretavano il mondo in termini organici, credevano che la natura umana fosse profondamente affettiva e sociale, e definivano il progresso come la forza creativa che libera l’immaginazione e promuove l’autorealizzazione e il senso della comunità…
Come i teologi protestanti e i filosofi illuministi, anche i romantici ponevano l’accento sull’individualismo, ma non per permettere a ciascuno di cercare la salvezza personale al cospetto di Dio o perseguire il proprio interesse nel mercato. Per i romantici, l’individualità era qualcosa di diverso: credevano che ogni persona fosse unica, dotata di potenziale creativo, e che una vita veramente libera coincidesse con l’opportunità di un’autorealizzazione.
Se la fede era la forza trainante della trascendenza cristiana e la ragione quella dei filosofi illuministi, per i romantici un ruolo analogo lo ebbe l’immaginazione, che per la prima volta nella storia divenne un argomento di conversazione e di profondo interesse, a segnalare un radicale cambiamento della coscienza umana. L’immaginazione permetteva a ciascuno di attingere alla forza plasmatrice della natura per diventare co-creatore del mondo e, così facendo, prendere parte a un processo divino.
Il nuovo concetto romantico del sé era estremamente audace: la natura era nella mente dell’uomo, e la mente dell’uomo nella natura; liberando l’immaginazione, ogni individuo avrebbe riscoperto il proprio essere naturale e il proprio posto nello schema naturale delle cose.
L’idea di diventare co-creatore del mondo era molto distante dalla concezione cristiana di asservimento a Dio, ma anche da quella della filosofia illuminista, che enfatizzava il progresso materiale, soggetto alle leggi di un universo meccanico predeterminato.
p. 313
Convinti che la natura dell’uomo sia fondamentalmente gentile e buona, affettuosa e sociale, i romantici si domandavano come fosse possibile ritornare allo stato primitivo dell’essere. Immaginando le condizioni degli altri esseri «come se» fossero le proprie e agendo sulla base di questa immaginazione per dare loro soccorso e conforto, ogni individuo può arrivare a capire la profonda affiliazione e connessione fra tutti gli esseri viventi e il loro ruolo di co-creatori di una natura in evoluzione.
Il poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley esprimeva così questo concetto:
Per essere realmente buono, un uomo deve avere un’immaginazione intensa e pregnante; … le pene e i piaceri della sua specie devono diventare suoi. Il grande strumento del bene morale è l’immaginazione; e la poesia raggiunge l’effetto agendo sulla causa.
L’«identificazione immaginativa» con gli altri era l’espressione che i romantici usavano per indicare l’empatia. Se si era privi della capacità di immaginare l’altro, l’empatia sarebbe stata impossibile e la ricerca romantica della trascendenza terrena sarebbe stata infruttuosa. John Ruskin colse l’importanza che i romantici attribuivano all’immaginazione, osservando che «le persone si preoccupano istintivamente per gli altri come per se stesse solo se riescono a immaginare gli altri come se stesse». Questa maniera di impiegare l’immaginazione ha assicurato al movimento romantico un posto nella storia dell’evoluzione della coscienza empatica.
p. 314
Il poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley esprimeva così questo concetto:
Per essere realmente buono, un uomo deve avere un’immaginazione intensa e pregnante; … le pene e i piaceri della sua specie devono diventare suoi. Il grande strumento del bene morale è l’immaginazione; e la poesia raggiunge l’effetto agendo sulla causa.
L’«identificazione immaginativa» con gli altri era l’espressione che i romantici usavano per indicare l’empatia. Se si era privi della capacità di immaginare l’altro, l’empatia sarebbe stata impossibile e la ricerca romantica della trascendenza terrena sarebbe stata infruttuosa. John Ruskin colse l’importanza che i romantici attribuivano all’immaginazione, osservando che «le persone si preoccupano istintivamente per gli altri come per se stesse solo se riescono a immaginare gli altri come se stesse». Questa maniera di impiegare l’immaginazione ha assicurato al movimento romantico un posto nella storia dell’evoluzione della coscienza empatica.
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Pur valorizzando il ruolo storico del Romanticismo nel promuovere una coscienza empatica universale, Rifkin coglie però in esso una contraddizione:
I romantici erano costantemente impegnati in un viaggio alla scoperta della natura umana. Consideravano il sentimento dell’essere una chiave per entrare in contatto con la natura e lo definivano il sentimento del legame e della solidarietà con la vita nella sua interezza. Ciò che scoprirono fu l’impulso empatico. Il loro errore, come abbiamo già rilevato, fu credere che quanto meno questo impulso entra in contatto con la civiltà, tanto più esso si conserva. Rousseau dichiarava, senza possibilità di equivoco, che «tutto è bene quando esce dalle mani del creatore delle cose: tutto degenera nelle mani dell’uomo». I romantici riuscirono a comprendere il processo dialettico attraverso cui si sviluppa la coscienza empatica, la cui maturazione richiede strutture sociali sempre più complesse. Tutti nasciamo predisposti a provare disagio empatico, ma questo fondamentale aspetto di noi si sviluppa in una matura coscienza empatica solo attraverso la continua battaglia per differenziarsi e integrarsi nella civiltà. Anziché annullare l’impulso empatico, la dinamica evolutiva della civiltà rappresenta un fertile terreno di sviluppo per trascendere la dimensione individuale. Una collettività umana indifferenziata, allo stato di natura, potrà anche essere predisposta all’impulso empatico, ma non è preparata a esprimerlo con lo slancio universale che i romantici avevano in mente. I romantici erano troppo dentro il proprio tempo per fare un passo indietro e riflettere su come la stessa società, che comprensibilmente stavano criticando, avesse anche creato le condizioni che permettevano all’impulso empatico di esprimersi con tanta forza.
p. 333
p. 333
L’elettrificazione, il petrolio, l’automobile inaugurano l’era della coscienza psicologica costringendo le persone ad adeguarsi ad un mondo il cui contesto spazio temporale muta radicalmente in pochi decenni:
Le nuove tecnologie e le nuove modalità di percezione infransero le barriere che da sempre avevano separato le persone, livellando, almeno in parte, le tradizionali gerarchie sociali e democratizzando l’accesso e il controllo dello spazio e del tempo. Grazie a telefono, cinema, radio, automobile e altre tecnologie novecentesche, gli uomini e le donne della classe media ebbero accesso alla velocità, alla mobilità e alle nuove dimensioni spaziotemporali di cui godevano le classi benestanti. Inoltre, come mette in luce Kenneth Gergen, docente di psicologia a Swarthmore, le nuove tecnologie portarono le persone a una sempre più stretta prossimità, esponendole a una gamma sempre più vasta di persone e promuovendo una gamma di relazioni che in precedenza non si sarebbero potute intrattenere.
L’appiattimento delle gerarchie sociali, l’introduzione della prospettiva multipla, la democratizzazione dell’esperienza umana e l’aumento dell’esposizione alla diversità gettarono le basi per l’avvento dell’era della coscienza psicologica e della grande ondata empatica che avrebbe attraversato gli anni Venti del Novecento.
pp. 355-356
L’appiattimento delle gerarchie sociali, l’introduzione della prospettiva multipla, la democratizzazione dell’esperienza umana e l’aumento dell’esposizione alla diversità gettarono le basi per l’avvento dell’era della coscienza psicologica e della grande ondata empatica che avrebbe attraversato gli anni Venti del Novecento.
pp. 355-356
La coscienza psicologica, ovviamente, è favorita anche dallo sviluppo della psicoanalisi e di molteplici tecniche terapeutiche di aiuto. In questa diffusione delle terapie introspettive Rifkin vede la prova di un interesse sempre maggiore da parte delle persone per il loro mondo interiore e per la qualità delle relazioni sociali; l’assume, dunque, come un’ulteriore prova dell’estensione della coscienza empatica. Il giudizio è ovviamente opinabile, ma risulta funzionale allo sviluppo della Parte terza, che è dedicata appunto all’Era dell’empatia, la nostra.
4.
L’Era dell’empatia è l’era della globalizzazione, che Rifkin analizza da un’angolatura piuttosto inconsueta:
Una vasta gamma di istituzioni economiche, sociali e politiche sovrintende alla più complessa civiltà mai concepita dall’uomo. L’intero sistema è gestito e tenuto in funzione da miliardi di persone, ognuna con uno specifico talento e competenza professionali, tutte impegnate in mansioni specializzate in un labirinto interdipendente globale.
Il processo di globalizzazione ha avuto effetti tanto vantaggiosi quanto nefasti. Milioni di persone ne hanno beneficiato, accumulando ricchezze immense; altri ne sono stati vittime. Intanto, il sistema nervoso centrale della razza umana ha cominciato ad avviluppare la terra.
Gli effetti psicologici della globalizzazione sono stati tanto importanti quanto quelli economici. Chiusi in un abbraccio sempre più stretto, siamo sempre più esposti gli uni agli altri in modi che non hanno precedenti. Ma se degli effetti negativi della globalizzazione, come xenofobia, populismo e terrorismo, si parla ampiamente, assai meno attenzione è dedicata all’intensa empatia sprigionata da centinaia di milioni di persone entrate per la prima volta in contatto fra loro. Il mondo quasi senza confini dei mercati globali è stato affiancato da uno spazio sociale ancora più sconfinato: centinaia di milioni di esseri umani sono attori di una fluttuante diaspora globale e il mondo si è trasformato in una piazza pubblica universale.
p. 391
Il processo di globalizzazione ha avuto effetti tanto vantaggiosi quanto nefasti. Milioni di persone ne hanno beneficiato, accumulando ricchezze immense; altri ne sono stati vittime. Intanto, il sistema nervoso centrale della razza umana ha cominciato ad avviluppare la terra.
Gli effetti psicologici della globalizzazione sono stati tanto importanti quanto quelli economici. Chiusi in un abbraccio sempre più stretto, siamo sempre più esposti gli uni agli altri in modi che non hanno precedenti. Ma se degli effetti negativi della globalizzazione, come xenofobia, populismo e terrorismo, si parla ampiamente, assai meno attenzione è dedicata all’intensa empatia sprigionata da centinaia di milioni di persone entrate per la prima volta in contatto fra loro. Il mondo quasi senza confini dei mercati globali è stato affiancato da uno spazio sociale ancora più sconfinato: centinaia di milioni di esseri umani sono attori di una fluttuante diaspora globale e il mondo si è trasformato in una piazza pubblica universale.
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Il mondo, insomma, grazie all’urbanizzazione della maggioranza dei cittadini, è in via di cosmopolizzazione:
«Cosmopolitismo» è il termine che usiamo per indicare la tolleranza e la celebrazione della diversità umana e, in generale, si incontra ovunque le strutture sociali urbane sono coinvolte in commerci e scambi economici ad ampio raggio e nelle attività legate alla costruzione di imperi. Le grandi città commerciali della storia, come Istanbul, Alessandria, Il Cairo e Roma, solo per citarne alcune, sono sempre state luoghi di fioritura empatica. Persone di culture disparate, unite dall’attività economica e dai commerci, sperimentano direttamente «l’altro», e questa esposizione approfondisce non solo i legami commerciali, ma anche quelli empatici.
La stretta relazione tra il legame economico e quello empatico potrà a prima vista sembrare paradossale, ma si tratta di un rapporto simbiotico. Il sociologo Georg Simmel, nel suo fondamentale saggio Filosofia del denaro, osserva che le monete sono note promissorie che si fondano sulla supposizione di una stabile fiducia collettiva fra parti anonime, la quale garantisce che, a una certa data futura, il pegno ricevuto in virtù di uno scambio passato sarà in futuro onorato da un terzo, in uno scambio successivo.
È istruttivo notare che, quando un antropologo si mette a studiare la storia degli scambi, quasi invariabilmente scopre che lo scambio sociale precede sempre quello commerciale. Per consolidare i legami di reciproca fiducia, gli abitanti delle isole Trobriand si dedicavano a un elaborato scambio sociale di conchiglie, spesso attraversando bracci di mare in canoa per trasportarle avanti e indietro da un’isola all’altra. Nelle Trobriand, lo scambio commerciale era sempre preceduto dallo scambio sociale, confermando per l’ennesima volta l’antica convinzione che il capitale culturale precede quello economico e che il commercio è un’espansione delle relazioni culturali e, perciò, non rappresenta un’istituzione primaria nelle faccende umane.
La relazione fra i legami empatici e quelli commerciali è complicata e fragile. Questo perché, come abbiamo detto, l’estensione empatica è sempre un dono incondizionato, offerto gratuitamente, senza aspettativa di reciprocità, né nell’immediato né in futuro. Benché lo scambio commerciale sia impossibile in assenza di un’estensione empatica che abbia precedentemente stabilito legami di fiducia sociale, la sua natura strumentale, utilitaristica e speculativa può impoverire – e spesso impoverisce – il capitale sociale che rende possibile innanzitutto la sua stessa sussistenza. Questo è proprio ciò che sta accadendo oggi negli Stati Uniti e in tutto il mondo, in conseguenza della crisi economica globale.
Il cosmopolitismo è un equilibrio delicato, frutto di un continuo destreggiarsi fra sensibilità empatica e attività commerciale. Essere cosmopolita significa essere aperto all’«altro» e trovarsi a proprio agio in culture diverse. Un cosmopolita è, di solito, una persona fortemente differenziata e individualizzata, con molteplici identità e affiliazioni, dotato di un senso di sé sofisticato, conseguente all’intensa esposizione alla diversità degli altri, con cui stabilisce legami empatici…
Il mondo in via di globalizzazione sta creando un nuovo tipo di cosmopolita, le cui identità e affiliazioni coprono l’intero pianeta. È l’avanguardia, se vogliamo, di una nascente coscienza biosferica. La contraddizione risiede nel fatto che quanto più l’individuo è cosmopolita, tanto più probabilmente è beneficiano di una quota sproporzionatamente grande di energia e di risorse naturali.
pp. 396-397
La stretta relazione tra il legame economico e quello empatico potrà a prima vista sembrare paradossale, ma si tratta di un rapporto simbiotico. Il sociologo Georg Simmel, nel suo fondamentale saggio Filosofia del denaro, osserva che le monete sono note promissorie che si fondano sulla supposizione di una stabile fiducia collettiva fra parti anonime, la quale garantisce che, a una certa data futura, il pegno ricevuto in virtù di uno scambio passato sarà in futuro onorato da un terzo, in uno scambio successivo.
È istruttivo notare che, quando un antropologo si mette a studiare la storia degli scambi, quasi invariabilmente scopre che lo scambio sociale precede sempre quello commerciale. Per consolidare i legami di reciproca fiducia, gli abitanti delle isole Trobriand si dedicavano a un elaborato scambio sociale di conchiglie, spesso attraversando bracci di mare in canoa per trasportarle avanti e indietro da un’isola all’altra. Nelle Trobriand, lo scambio commerciale era sempre preceduto dallo scambio sociale, confermando per l’ennesima volta l’antica convinzione che il capitale culturale precede quello economico e che il commercio è un’espansione delle relazioni culturali e, perciò, non rappresenta un’istituzione primaria nelle faccende umane.
La relazione fra i legami empatici e quelli commerciali è complicata e fragile. Questo perché, come abbiamo detto, l’estensione empatica è sempre un dono incondizionato, offerto gratuitamente, senza aspettativa di reciprocità, né nell’immediato né in futuro. Benché lo scambio commerciale sia impossibile in assenza di un’estensione empatica che abbia precedentemente stabilito legami di fiducia sociale, la sua natura strumentale, utilitaristica e speculativa può impoverire – e spesso impoverisce – il capitale sociale che rende possibile innanzitutto la sua stessa sussistenza. Questo è proprio ciò che sta accadendo oggi negli Stati Uniti e in tutto il mondo, in conseguenza della crisi economica globale.
Il cosmopolitismo è un equilibrio delicato, frutto di un continuo destreggiarsi fra sensibilità empatica e attività commerciale. Essere cosmopolita significa essere aperto all’«altro» e trovarsi a proprio agio in culture diverse. Un cosmopolita è, di solito, una persona fortemente differenziata e individualizzata, con molteplici identità e affiliazioni, dotato di un senso di sé sofisticato, conseguente all’intensa esposizione alla diversità degli altri, con cui stabilisce legami empatici…
Il mondo in via di globalizzazione sta creando un nuovo tipo di cosmopolita, le cui identità e affiliazioni coprono l’intero pianeta. È l’avanguardia, se vogliamo, di una nascente coscienza biosferica. La contraddizione risiede nel fatto che quanto più l’individuo è cosmopolita, tanto più probabilmente è beneficiano di una quota sproporzionatamente grande di energia e di risorse naturali.
pp. 396-397
Il processo di globalizzazione implica trasformazioni sociali e valoriali:
Nelle società preindustriali, nelle quali la sopravvivenza era la preoccupazione dominante, prevalevano regimi sociali gerarchici e forme di governo autoritarie. La volontà collettiva prevale su tutto e il senso dell’espressione individuale rimane poco sviluppato o viene represso. Nelle società industriali, il lavoro contrattualizzato permette alle persone di assicurarsi la sopravvivenza personale e di liberarsi dalla dipendenza dai legami famigliari estesi e dall’arbitrio dell’autorità: la priorità passa ai valori materiali e all’accumulazione della ricchezza, percepita come forza liberatrice. Quando la società industriale si evolve da produttrice di beni a produttrice di servizi, basati sulla conoscenza e sulla mercificazione dell’esperienza, i bisogni primari sono soddisfatti e gli individui cominciano a orientarsi verso valori non materiali, in genere sintetizzati dal concetto di «qualità della vita», come obiettivo a cui aspirare. Gli stretti legami comunitari lasciano progressivamente spazio a legami associativi più liberi.
I tre stadi del progresso – dai valori tradizionali ai valori razionali-materialisti, ai valori di qualità della vita e autorealizzazione di sé – riflettono il passaggio attraverso i diversi stadi di coscienza che accompagnano la transizione dalle società agricole alle economie della Prima e della Seconda rivoluzione industriale. Le differenze tra gli orientamenti valoriali relativi ai tre stadi della coscienza sono stupefacenti.
p. 412
I tre stadi del progresso – dai valori tradizionali ai valori razionali-materialisti, ai valori di qualità della vita e autorealizzazione di sé – riflettono il passaggio attraverso i diversi stadi di coscienza che accompagnano la transizione dalle società agricole alle economie della Prima e della Seconda rivoluzione industriale. Le differenze tra gli orientamenti valoriali relativi ai tre stadi della coscienza sono stupefacenti.
p. 412
Come ci si può aspettare, nelle società più povere, agricole o preindustriali, i valori tradizionali di sopravvivenza tendono a prevalere, e l’affiliazione religiosa e i legami famigliari hanno un ruolo centrale nell’organizzazione della vita sociale.
Ma ciò che è particolarmente interessante è il rapido passaggio dai valori materialisti e razionali ai valori di autorealizzazione e di qualità della vita verificatosi negli ultimi quarant’anni nelle società industriali più sviluppate.
Nel 1971 i materialisti superavano numericamente i postmaterialisti, in un rapporto di quattro a uno, nelle sei nazioni occidentali di cui i ricercatori avevano dati a disposizione. Nel 2005 i postmaterialisti eguagliavano il numero dei materialisti in tutti i sei paesi: uno stupefacente cambio di atteggiamento in due sole generazioni.
Nelle società della sopravvivenza, le persone tendono a porre l’accento sulla sicurezza economica e fisica, la vita è organizzata secondo una catena di comando rigidamente autoritaria che va dall’autorità assoluta del maschio sulla moglie e sulla prole all’autorità assoluta dello Stato su tutti i suoi membri, fino all’incondizionata fede in Dio, che tutto comanda dall’alto. Le società tradizionali, quando sono minacciate dall’insicurezza e dalla crisi economica, tendono a diventare intolleranti nei confronti degli stranieri, delle minoranze etniche e degli omosessuali, e a schierarsi a favore della superiorità maschile.66 La popolazione è fortemente religiosa e nazionalista, crede nella mano ferma dell’autorità statale, valuta favorevolmente il conformismo e dimostra bassi livelli di espressione individuale. Dato che l’espressione individuale è limitata, lo è anche l’estensione empatica, che raramente supera i confini dei legami famigliari e di consanguineità. Dato che la famiglia è l’unità economica fondamentale – in greco antico, la parola olkos indica la dimora famigliare -, viene attribuito un valore particolare alla riproduzione: più bambini significano più braccia per il lavoro, quindi una maggiore probabilità di sopravvivenza del gruppo. Per assicurare la sopravvivenza del singolo è necessario garantire e promuovere gli interessi della famiglia. Qualunque espressione personale che possa rappresentare un pericolo per la sopravvivenza della famiglia viene trattata con durezza. In queste società, con il valore da esse attribuito alla sopravvivenza della famiglia, non meraviglia che aborto, omosessualità e divorzio siano inaccettabili.
Nelle società razionaliste laiche, impegnate nella fase di decollo della vita industriale, le gerarchie sono riconfigurate in modo da passare dall’ordine creato da Dio alle gerarchie delle imprese e delle burocrazie pubbliche. La Grande catena dell’essere è sostituita dalla catena di comando aziendale. L’accumulazione individuale di ricchezza libera gli individui dall’aleatorietà degli eventi naturali, offrendo loro un certo grado di sicurezza economica. Nel corso di questo processo l’individuo, in quanto essere autonomo e indipendente, comincia a emergere dalla nebbia comunitaria, ma è ancora vincolato all’ordine istituzionale gerarchico. Ciononostante, la più sviluppata espressione di sé facilita lo sviluppo della coscienza empatica.
Le società basate sulla conoscenza, con elevati livelli di individualismo e di espressione di sé, mostrano anche i più alti livelli di estensione empatica. La coscienza di sé porta a una maggiore fiducia e apertura verso gli altri e a una maggiore tolleranza nei confronti della diversità: chi si sente sicuro del proprio essere e libero di determinare il proprio destino ha molte più probabilità di non avere paura degli altri, ed è meno probabile che consideri una minaccia chiunque non rientri nella sua immediata rete di relazioni e parentele. Anzi, l’emancipazione dagli stretti legami comunitari e lo sviluppo di legami sociali più deboli, ma più estesi, espongono l’individuo a una rete più vasta di relazioni con persone diverse, il che ha l’effetto di rafforzare il suo senso di fiducia e apertura e di creare il contesto per una più estesa coscienza empatica.
pp. 413-414
Ma ciò che è particolarmente interessante è il rapido passaggio dai valori materialisti e razionali ai valori di autorealizzazione e di qualità della vita verificatosi negli ultimi quarant’anni nelle società industriali più sviluppate.
Nel 1971 i materialisti superavano numericamente i postmaterialisti, in un rapporto di quattro a uno, nelle sei nazioni occidentali di cui i ricercatori avevano dati a disposizione. Nel 2005 i postmaterialisti eguagliavano il numero dei materialisti in tutti i sei paesi: uno stupefacente cambio di atteggiamento in due sole generazioni.
Nelle società della sopravvivenza, le persone tendono a porre l’accento sulla sicurezza economica e fisica, la vita è organizzata secondo una catena di comando rigidamente autoritaria che va dall’autorità assoluta del maschio sulla moglie e sulla prole all’autorità assoluta dello Stato su tutti i suoi membri, fino all’incondizionata fede in Dio, che tutto comanda dall’alto. Le società tradizionali, quando sono minacciate dall’insicurezza e dalla crisi economica, tendono a diventare intolleranti nei confronti degli stranieri, delle minoranze etniche e degli omosessuali, e a schierarsi a favore della superiorità maschile.66 La popolazione è fortemente religiosa e nazionalista, crede nella mano ferma dell’autorità statale, valuta favorevolmente il conformismo e dimostra bassi livelli di espressione individuale. Dato che l’espressione individuale è limitata, lo è anche l’estensione empatica, che raramente supera i confini dei legami famigliari e di consanguineità. Dato che la famiglia è l’unità economica fondamentale – in greco antico, la parola olkos indica la dimora famigliare -, viene attribuito un valore particolare alla riproduzione: più bambini significano più braccia per il lavoro, quindi una maggiore probabilità di sopravvivenza del gruppo. Per assicurare la sopravvivenza del singolo è necessario garantire e promuovere gli interessi della famiglia. Qualunque espressione personale che possa rappresentare un pericolo per la sopravvivenza della famiglia viene trattata con durezza. In queste società, con il valore da esse attribuito alla sopravvivenza della famiglia, non meraviglia che aborto, omosessualità e divorzio siano inaccettabili.
Nelle società razionaliste laiche, impegnate nella fase di decollo della vita industriale, le gerarchie sono riconfigurate in modo da passare dall’ordine creato da Dio alle gerarchie delle imprese e delle burocrazie pubbliche. La Grande catena dell’essere è sostituita dalla catena di comando aziendale. L’accumulazione individuale di ricchezza libera gli individui dall’aleatorietà degli eventi naturali, offrendo loro un certo grado di sicurezza economica. Nel corso di questo processo l’individuo, in quanto essere autonomo e indipendente, comincia a emergere dalla nebbia comunitaria, ma è ancora vincolato all’ordine istituzionale gerarchico. Ciononostante, la più sviluppata espressione di sé facilita lo sviluppo della coscienza empatica.
Le società basate sulla conoscenza, con elevati livelli di individualismo e di espressione di sé, mostrano anche i più alti livelli di estensione empatica. La coscienza di sé porta a una maggiore fiducia e apertura verso gli altri e a una maggiore tolleranza nei confronti della diversità: chi si sente sicuro del proprio essere e libero di determinare il proprio destino ha molte più probabilità di non avere paura degli altri, ed è meno probabile che consideri una minaccia chiunque non rientri nella sua immediata rete di relazioni e parentele. Anzi, l’emancipazione dagli stretti legami comunitari e lo sviluppo di legami sociali più deboli, ma più estesi, espongono l’individuo a una rete più vasta di relazioni con persone diverse, il che ha l’effetto di rafforzare il suo senso di fiducia e apertura e di creare il contesto per una più estesa coscienza empatica.
pp. 413-414
Prove empiriche dimostrano che stiamo assistendo alla più forte ondata di estensione empatica che si sia mai verificata nella storia dell’uomo. Questa ondata, però, è largamente limitata alle ricche popolazioni delle nazioni più sviluppate e alle frange delle classi medie dei paesi in via di sviluppo. Ancora una volta, lo sviluppo della coscienza empatica è reso possibile da una massiccia appropriazione di enormi quantità di energia e di altre risorse del pianeta, tale da garantire un livello di sicurezza economica sufficiente a permettere alle persone di abbandonare i valori della sopravvivenza per adottare quelli materialisti e, eventualmente, quelli legati alla qualità della vita. L’accresciuto benessere economico ha garantito alle persone la sicurezza necessaria per essere più fiduciose nei confronti dei propri simili e più attente verso l’ambiente naturale. Sfortunatamente, lo sviluppo della coscienza empatica cavalca la cresta di un’ondata di crescente flusso entropico che sta trasformando gran parte del pianeta in una terra desolata, impoverendo ulteriormente una larga parte della popolazione umana.
Le indagini mostrano che l’81% dei paesi ad alto reddito ha compiuto la transizione a una cultura postmaterialista, ma il 74% dei paesi più poveri si è nuovamente orientato ai valori della sopravvivenza. Così, mentre una minoranza di paesi e di popolazioni sta adottando valori sempre più cosmopoliti, la maggioranza procede in direzione opposta.
La domanda, dunque, è se quella minoranza di esseri umani che sta sviluppando una cultura empatica, a spese dell’impoverimento del pianeta e di una larga fetta di umanità, possa tradurre i propri valori postmaterialisti in un progetto culturale, politico ed economico in grado di indirizzarla verso un futuro più sobrio e sostenibile in tempo per evitare di precipitare nell’abisso.
p. 416
Le indagini mostrano che l’81% dei paesi ad alto reddito ha compiuto la transizione a una cultura postmaterialista, ma il 74% dei paesi più poveri si è nuovamente orientato ai valori della sopravvivenza. Così, mentre una minoranza di paesi e di popolazioni sta adottando valori sempre più cosmopoliti, la maggioranza procede in direzione opposta.
La domanda, dunque, è se quella minoranza di esseri umani che sta sviluppando una cultura empatica, a spese dell’impoverimento del pianeta e di una larga fetta di umanità, possa tradurre i propri valori postmaterialisti in un progetto culturale, politico ed economico in grado di indirizzarla verso un futuro più sobrio e sostenibile in tempo per evitare di precipitare nell’abisso.
p. 416
Rifkin ritiene che sia possibile:
Se il progresso umano, fino a oggi, ha richiesto un continuo aumento dell’entropia per sviluppare una sensibilità empatica sempre più profonda, allora questo vuol dire che la nostra specie è destinata a scomparire, in un’ultima catastrofe planetaria, proprio nel momento in cui sta giungendo a una coscienza biosferica? In altre parole, se il progresso della coscienza empatica e del cosmopolitismo globale dipende da un uso sempre più intensivo dell’energia, le due cose sono destinate ad annullarsi reciprocamente, lasciandoci nell’amara consapevolezza di essere sul punto di precipitare nell’abisso? Se l’istinto vi dice che è proprio questa la direzione che abbiamo preso, non siete i soli a pensano. Infatti potrebbe essere benissimo la nostra fine.
Ma c’è un’altra possibilità: potremmo essere vicini alla fine di questa fase della storia e all’inizio di un’avventura completamente nuova. Una notevole quantità di nuovi studi su ciò che rende veramente felice l’essere umano suggerisce che la dialettica storica che ha caratterizzato la saga umana, fin dalle prime grandi civiltà idrauliche di migliaia di anni fa, potrebbe essersi esaurita.
p. 456
Ma c’è un’altra possibilità: potremmo essere vicini alla fine di questa fase della storia e all’inizio di un’avventura completamente nuova. Una notevole quantità di nuovi studi su ciò che rende veramente felice l’essere umano suggerisce che la dialettica storica che ha caratterizzato la saga umana, fin dalle prime grandi civiltà idrauliche di migliaia di anni fa, potrebbe essersi esaurita.
p. 456
In discussione ovviamente è l’equazione ricchezza=felicità. Alla contestazione di quanto si dà di mistificato in questa equazione Rifkin dedica pagine di notevole interesse:
Nel corso della storia, l’idea di accumulazione di proprietà privata è stata costantemente equiparata a quella di felicità. I filosofi utilitaristi si sono fatti paladini della teoria della legge di natura, affermando che «la più grande felicità possibile nella società è ottenuta garantendo a ogni essere umano la maggiore quantità possibile dei prodotti del suo lavoro».
Legando la felicità dell’uomo all’acquisizione di proprietà privata e la proprietà privata alla natura profonda dell’uomo, i filosofi utilitaristi hanno gettato le fondamenta per un’idea di uomo come animale acquisitivo, istintivamente predisposto all’accumulazione di ricchezza.
Sebbene, di tanto in tanto, alcune voci fuori dal coro abbiano messo in dubbio l’opinione corrente secondo la quale «i soldi fanno la felicità», il senso comune ritiene ancora che la strada per la felicità e quella per la ricchezza coincidano. Se così fosse, ci sarebbero poche speranze per l’umanità di liberarsi da un modello di storia in cui i progressi della coscienza umana poggiano su organizzazioni sociali sempre più complesse che, a loro volta, richiedono un flusso di energia sempre più intenso, provocando un progressivo degrado entropico dell’ambiente.
Una ricca mole di nuovi studi sociologici, psicologici e cognitivi ha cominciato a mettere in discussione la fondamentale affermazione che a una maggiore ricchezza corrisponda una maggiore felicità. Ciò che si sta cominciando a scoprire è una cosa abbastanza ovvia, ma scarsamente considerata nel dibattito pubblico. Questi studi dimostrano che, se le persone sono molto povere e incapaci di soddisfare i propri bisogni primari necessari per la sopravvivenza fisica, sono infelici. Ma la cosa nuova e interessante appurata da questi studi è che le persone, una volta raggiunta una soglia minima di benessere economico che permetta loro di sopravvivere adeguatamente e prosperare, non vedono aumentare la loro felicità con l’aumentare della ricchezza accumulata, la quale, anzi, le rende meno felici, più esposte alla depressione, all’ansia e ad altri disturbi fisici e psichici, e maggiormente insoddisfatte della propria condizione.
Tim Kasser, docente di psicologia, cita un lungo elenco di studi che dimostrano come le persone che attribuiscono un grande valore all’arricchimento e al possesso dichiarano un benessere psicologico minore di quello riferito da chi è meno preoccupato di questi obiettivi.
Nelle sue indagini, Kasser ha scoperto che gli studenti e i giovani la cui motivazione principale era «il denaro, l’immagine e la fama» mostravano livelli più elevati di depressione e più disturbi fisici rispetto a quelli meno orientati verso tali valori. Altri studi hanno individuato una forte correlazione fra i valori materialisti e l’abuso di sostanze. Ugualmente sconcertanti sono gli studi che dimostrano come i giovani con forti motivazioni materialiste manifestino meno emozioni positive di quelli orientati a valori meno materialisti. Inoltre, essi manifestano più frequentemente la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), sono più ossessivo-compulsivi, si isolano dai coetanei, sono più possessivi, meno generosi, più invidiosi e meno fiduciosi, hanno più difficoltà a controllare gli impulsi, sono più introversi o eccessivamente dipendenti dagli altri, e sono più soggetti a comportamenti passivo-aggressivi verso le altre persone. Studi condotti in Germania, Danimarca, Gran Bretagna, India, Russia, Romania, Australia e Corea del Sud giungono a conclusioni analoghe. Un gran numero di studi in tutto il mondo dimostra chiaramente che «quanto più i valori al centro della nostra vita sono orientati al materialismo, tanto più diminuisce la qualità della nostra vita». Gli studi rivelano anche che le persone che vivono nei paesi più ricchi del mondo non sono più felici oggi di quanto lo fossero cinquant’anni fa, nonostante nel frattempo il reddito pro capite medio sia raddoppiato. L’economista Richard Layard, nel suo libro Happiness: Lessons from a New Science, mette in evidenza come nei paesi in cui il reddito medio pro capite supera i 20.000 dollari l’anno, l’eventuale reddito aggiuntivo non sia correlato a un aumento della felicità.
Quello che quasi tutti gli studi dimostrano è che, una volta raggiunto un livello minimo di reddito necessario a sentirsi economicamente sicuri, la felicità non fa che diminuire all’aumentare della ricchezza accumulata. Oggi, gli americani godono di un reddito doppio rispetto a quello che avevano nel 1957, ma la percentuale delle persone che si dichiarano «molto felici» è scesa dal 35% al 29%. Risultati analoghi sono rilevati in tutti gli altri paesi industrializzati. Le ripercussioni sociali e politiche e, ancor più importanti, le implicazioni ecologiche di tutto ciò sono enormi.
Se le persone più ricche del mondo sono solo marginalmente più felici di chi vive in società assai meno benestanti, e diventano sempre meno felici all’aumentare della ricchezza, l’evoluzione del legame empatico non dipende esclusivamente dal continuo incremento del benessere economico – una volta raggiunta una soglia minima di sicurezza economica – né dalla conseguente spirale perversa del sempre maggiore consumo di energia e delle conseguenti scorie entropiche. Anzi, gli stessi studi dimostrano che, quando l’aumento della ricchezza personale supera il livello minimo necessario a soddisfare i bisogni fondamentali dell’individuo, la crescente preoccupazione per l’arricchimento fa diminuire la probabilità che l’individuo sia empatico. Ciò che si possiede finisce per possederci e la ricerca della ricchezza può diventare un circolo vizioso e un fine in se stesso.
Poiché ci viene continuamente ribadito che una maggiore ricchezza aumenta le nostre possibilità di essere felici, le persone continuano a inseguire ogni possibile occasione di arricchimento nella speranza di ottenere una maggiore felicità, solo per poi rimanerne deluse. Noi crediamo che la graduale scomparsa del nostro precedente senso di appagamento sia dovuta al fatto che non siamo ancora abbastanza ricchi, e questo ci rende più determinati nel perseguire questo obiettivo sfuggente, per poi perdere nuovamente terreno; e tutto ciò viene incoraggiato da un sistema economico che investe miliardi di dollari in pubblicità, marketing e politiche di immagine per alimentare la nostra dipendenza e far sì che i profitti continuino ad accumularsi. E quando questa ossessione è radicata, la gente si abbandona a comportamenti deprecabili, trasformando tutti e tutto in strumenti per promuovere la propria ambizione di ricchezza e assicurarsi la felicità. Si cessa di considerare gli altri esseri unici e speciali e, svalutando gli altri, aumenta l’isolamento dall’affetto e dalla compagnia dei nostri simili: la sola cosa che aumenta di valore è il nostro senso di alienazione.
La svalutazione del prossimo ha effetti molteplici sulla psiche. Dato che si trovano isolati dagli altri, i materialisti immaginano che tutti debbano sentirsi allo stesso modo: dopotutto, è la «natura» umana. Quanto più ci si colloca in alto nella scala dei valori materialisti, tanto meno ci si fida degli altri. Negli Stati Uniti, dove il materialismo rampante nel corso degli ultimi venticinque anni è diventato una sorta di epidemia nazionale, la fiducia negli altri è precipitata: a metà degli anni Sessanta, il 56% degli americani affermava che ci si potesse fidare degli altri; oggi, lo fa meno di un terzo. Al contrario, nell’Europa continentale, dove il materialismo è meno spiccato, i livelli di fiducia sono aumentati in alcuni paesi e non sono diminuiti in altri.
Numerosi studi dimostrano anche che gli individui più materialisti sono meno prodighi e generosi nei rapporti con gli altri. L’altruista cede facilmente il passo all’egoista.
Allo stesso modo, diversi studi hanno scoperto che gli individui più materialisti sono meno inclini a «mettersi nei panni degli altri» e hanno meno considerazione per i loro punti di vista. Il materialista si accaparra il mondo, ma perde contatto con la sua pulsione più forte: il legame empatico.
I nuovi studi sulla felicità dimostrano anche che la crescente perdita di felicità non è solo correlata all’aumento della ricchezza al di sopra della soglia che garantisce il benessere economico, ma è anche in relazione al benessere di cui godono le persone da cui si è circondati. Layard riferisce di uno studio condotto sugli studenti della Harvard University, ai quali è stato chiesto di scegliere fra due mondi alternativi: «Nel primo guadagni 50.000 dollari l’anno e gli altri una media di 25.000; nel secondo guadagni 100.000 dollari l’anno e gli altri una media di 250.000. La maggioranza degli studenti ha scelto il primo mondo. Altri studi hanno confermato il risultato. In una società in cui la creazione di ricchezza individuale è considerata sinonimo di felicità, tale ricerca in sé diventa una questione fortemente competitiva: la gente continua a misurare la propria felicità non in termini assoluti, ma relativi agli altri. L’assunto è che uno status sociale più elevato porti con sé una maggiore felicità. In realtà, insieme allo status sociale in genere aumentano l’invidia e la cattiva disposizione degli altri, che si sentono sorpassati e lasciati indietro. Consideriamo noi stessi e gli altri solamente in termini di ricchezza relativa, lasciando poco spazio allo sviluppo di sentimenti empatici.
Infine, gli studi dimostrano che quanto più abbiamo, tanto più crediamo di non poter vivere con meno. Un’esperienza che ebbi da ragazzo è particolarmente esemplificativa: all’epoca lavoravo per un programma di volontariato antipovertà ed ero stato assegnato a un sobborgo ricco della città di New York, con l’obiettivo di sviluppare programmi di scambio culturale con i ragazzi poveri dei quartieri periferici. Una sera, durante un incontro con una famiglia benestante, il capofamiglia mi prese da parte e mi confessò che, benché guadagnasse 100.000 dollari l’anno (l’equivalente di oltre 600.000 dollari attuali), faceva fatica a sbarcare il lunario. Pensavo stesse scherzando. Ma non era così. Ci adeguiamo rapidamente a ogni nuovo livello di reddito, e quello che fino a poco tempo prima ci sembrava un lusso diventa ben presto una necessità quotidiana.
Layard riassume così la sindrome della felicità:
Dunque il tenore di vita è un po’ come l’alcol o la droga. Una volta che hai fatto una certa esperienza, devi continuare a farla, sempre più spesso, se vuoi continuare a essere felice. In sostanza, è come essere su un tapis roulant, un tapis roulant «edonistico», sul quale devi correre sempre più in fretta per far sì che la tua felicità resti sempre uguale.
La sindrome della felicità costringe le persone a una corsa verso la disperazione. Non c’è modo di arrivare alla meta e trovare la vera felicità. La soluzione, naturalmente, è ovvia, ma si scontra con l’idea illuminista che la continua acquisizione di ricchezza aumenti il senso di autonomia e di libertà dell’individuo, garantendogli il piacere e rendendolo più felice.
Per quanto possa sembrare anti-intuitivo, gli studi sulla sindrome della felicità lasciano intendere che vivere in una società dove le necessità essenziali per avere una vita confortevole sono soddisfatte, ma in cui il differenziale fra ricchi e poveri è relativamente ristretto, i cittadini tendono a essere più felici.
pp. 458-462
Legando la felicità dell’uomo all’acquisizione di proprietà privata e la proprietà privata alla natura profonda dell’uomo, i filosofi utilitaristi hanno gettato le fondamenta per un’idea di uomo come animale acquisitivo, istintivamente predisposto all’accumulazione di ricchezza.
Sebbene, di tanto in tanto, alcune voci fuori dal coro abbiano messo in dubbio l’opinione corrente secondo la quale «i soldi fanno la felicità», il senso comune ritiene ancora che la strada per la felicità e quella per la ricchezza coincidano. Se così fosse, ci sarebbero poche speranze per l’umanità di liberarsi da un modello di storia in cui i progressi della coscienza umana poggiano su organizzazioni sociali sempre più complesse che, a loro volta, richiedono un flusso di energia sempre più intenso, provocando un progressivo degrado entropico dell’ambiente.
Una ricca mole di nuovi studi sociologici, psicologici e cognitivi ha cominciato a mettere in discussione la fondamentale affermazione che a una maggiore ricchezza corrisponda una maggiore felicità. Ciò che si sta cominciando a scoprire è una cosa abbastanza ovvia, ma scarsamente considerata nel dibattito pubblico. Questi studi dimostrano che, se le persone sono molto povere e incapaci di soddisfare i propri bisogni primari necessari per la sopravvivenza fisica, sono infelici. Ma la cosa nuova e interessante appurata da questi studi è che le persone, una volta raggiunta una soglia minima di benessere economico che permetta loro di sopravvivere adeguatamente e prosperare, non vedono aumentare la loro felicità con l’aumentare della ricchezza accumulata, la quale, anzi, le rende meno felici, più esposte alla depressione, all’ansia e ad altri disturbi fisici e psichici, e maggiormente insoddisfatte della propria condizione.
Tim Kasser, docente di psicologia, cita un lungo elenco di studi che dimostrano come le persone che attribuiscono un grande valore all’arricchimento e al possesso dichiarano un benessere psicologico minore di quello riferito da chi è meno preoccupato di questi obiettivi.
Nelle sue indagini, Kasser ha scoperto che gli studenti e i giovani la cui motivazione principale era «il denaro, l’immagine e la fama» mostravano livelli più elevati di depressione e più disturbi fisici rispetto a quelli meno orientati verso tali valori. Altri studi hanno individuato una forte correlazione fra i valori materialisti e l’abuso di sostanze. Ugualmente sconcertanti sono gli studi che dimostrano come i giovani con forti motivazioni materialiste manifestino meno emozioni positive di quelli orientati a valori meno materialisti. Inoltre, essi manifestano più frequentemente la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), sono più ossessivo-compulsivi, si isolano dai coetanei, sono più possessivi, meno generosi, più invidiosi e meno fiduciosi, hanno più difficoltà a controllare gli impulsi, sono più introversi o eccessivamente dipendenti dagli altri, e sono più soggetti a comportamenti passivo-aggressivi verso le altre persone. Studi condotti in Germania, Danimarca, Gran Bretagna, India, Russia, Romania, Australia e Corea del Sud giungono a conclusioni analoghe. Un gran numero di studi in tutto il mondo dimostra chiaramente che «quanto più i valori al centro della nostra vita sono orientati al materialismo, tanto più diminuisce la qualità della nostra vita». Gli studi rivelano anche che le persone che vivono nei paesi più ricchi del mondo non sono più felici oggi di quanto lo fossero cinquant’anni fa, nonostante nel frattempo il reddito pro capite medio sia raddoppiato. L’economista Richard Layard, nel suo libro Happiness: Lessons from a New Science, mette in evidenza come nei paesi in cui il reddito medio pro capite supera i 20.000 dollari l’anno, l’eventuale reddito aggiuntivo non sia correlato a un aumento della felicità.
Quello che quasi tutti gli studi dimostrano è che, una volta raggiunto un livello minimo di reddito necessario a sentirsi economicamente sicuri, la felicità non fa che diminuire all’aumentare della ricchezza accumulata. Oggi, gli americani godono di un reddito doppio rispetto a quello che avevano nel 1957, ma la percentuale delle persone che si dichiarano «molto felici» è scesa dal 35% al 29%. Risultati analoghi sono rilevati in tutti gli altri paesi industrializzati. Le ripercussioni sociali e politiche e, ancor più importanti, le implicazioni ecologiche di tutto ciò sono enormi.
Se le persone più ricche del mondo sono solo marginalmente più felici di chi vive in società assai meno benestanti, e diventano sempre meno felici all’aumentare della ricchezza, l’evoluzione del legame empatico non dipende esclusivamente dal continuo incremento del benessere economico – una volta raggiunta una soglia minima di sicurezza economica – né dalla conseguente spirale perversa del sempre maggiore consumo di energia e delle conseguenti scorie entropiche. Anzi, gli stessi studi dimostrano che, quando l’aumento della ricchezza personale supera il livello minimo necessario a soddisfare i bisogni fondamentali dell’individuo, la crescente preoccupazione per l’arricchimento fa diminuire la probabilità che l’individuo sia empatico. Ciò che si possiede finisce per possederci e la ricerca della ricchezza può diventare un circolo vizioso e un fine in se stesso.
Poiché ci viene continuamente ribadito che una maggiore ricchezza aumenta le nostre possibilità di essere felici, le persone continuano a inseguire ogni possibile occasione di arricchimento nella speranza di ottenere una maggiore felicità, solo per poi rimanerne deluse. Noi crediamo che la graduale scomparsa del nostro precedente senso di appagamento sia dovuta al fatto che non siamo ancora abbastanza ricchi, e questo ci rende più determinati nel perseguire questo obiettivo sfuggente, per poi perdere nuovamente terreno; e tutto ciò viene incoraggiato da un sistema economico che investe miliardi di dollari in pubblicità, marketing e politiche di immagine per alimentare la nostra dipendenza e far sì che i profitti continuino ad accumularsi. E quando questa ossessione è radicata, la gente si abbandona a comportamenti deprecabili, trasformando tutti e tutto in strumenti per promuovere la propria ambizione di ricchezza e assicurarsi la felicità. Si cessa di considerare gli altri esseri unici e speciali e, svalutando gli altri, aumenta l’isolamento dall’affetto e dalla compagnia dei nostri simili: la sola cosa che aumenta di valore è il nostro senso di alienazione.
La svalutazione del prossimo ha effetti molteplici sulla psiche. Dato che si trovano isolati dagli altri, i materialisti immaginano che tutti debbano sentirsi allo stesso modo: dopotutto, è la «natura» umana. Quanto più ci si colloca in alto nella scala dei valori materialisti, tanto meno ci si fida degli altri. Negli Stati Uniti, dove il materialismo rampante nel corso degli ultimi venticinque anni è diventato una sorta di epidemia nazionale, la fiducia negli altri è precipitata: a metà degli anni Sessanta, il 56% degli americani affermava che ci si potesse fidare degli altri; oggi, lo fa meno di un terzo. Al contrario, nell’Europa continentale, dove il materialismo è meno spiccato, i livelli di fiducia sono aumentati in alcuni paesi e non sono diminuiti in altri.
Numerosi studi dimostrano anche che gli individui più materialisti sono meno prodighi e generosi nei rapporti con gli altri. L’altruista cede facilmente il passo all’egoista.
Allo stesso modo, diversi studi hanno scoperto che gli individui più materialisti sono meno inclini a «mettersi nei panni degli altri» e hanno meno considerazione per i loro punti di vista. Il materialista si accaparra il mondo, ma perde contatto con la sua pulsione più forte: il legame empatico.
I nuovi studi sulla felicità dimostrano anche che la crescente perdita di felicità non è solo correlata all’aumento della ricchezza al di sopra della soglia che garantisce il benessere economico, ma è anche in relazione al benessere di cui godono le persone da cui si è circondati. Layard riferisce di uno studio condotto sugli studenti della Harvard University, ai quali è stato chiesto di scegliere fra due mondi alternativi: «Nel primo guadagni 50.000 dollari l’anno e gli altri una media di 25.000; nel secondo guadagni 100.000 dollari l’anno e gli altri una media di 250.000. La maggioranza degli studenti ha scelto il primo mondo. Altri studi hanno confermato il risultato. In una società in cui la creazione di ricchezza individuale è considerata sinonimo di felicità, tale ricerca in sé diventa una questione fortemente competitiva: la gente continua a misurare la propria felicità non in termini assoluti, ma relativi agli altri. L’assunto è che uno status sociale più elevato porti con sé una maggiore felicità. In realtà, insieme allo status sociale in genere aumentano l’invidia e la cattiva disposizione degli altri, che si sentono sorpassati e lasciati indietro. Consideriamo noi stessi e gli altri solamente in termini di ricchezza relativa, lasciando poco spazio allo sviluppo di sentimenti empatici.
Infine, gli studi dimostrano che quanto più abbiamo, tanto più crediamo di non poter vivere con meno. Un’esperienza che ebbi da ragazzo è particolarmente esemplificativa: all’epoca lavoravo per un programma di volontariato antipovertà ed ero stato assegnato a un sobborgo ricco della città di New York, con l’obiettivo di sviluppare programmi di scambio culturale con i ragazzi poveri dei quartieri periferici. Una sera, durante un incontro con una famiglia benestante, il capofamiglia mi prese da parte e mi confessò che, benché guadagnasse 100.000 dollari l’anno (l’equivalente di oltre 600.000 dollari attuali), faceva fatica a sbarcare il lunario. Pensavo stesse scherzando. Ma non era così. Ci adeguiamo rapidamente a ogni nuovo livello di reddito, e quello che fino a poco tempo prima ci sembrava un lusso diventa ben presto una necessità quotidiana.
Layard riassume così la sindrome della felicità:
Dunque il tenore di vita è un po’ come l’alcol o la droga. Una volta che hai fatto una certa esperienza, devi continuare a farla, sempre più spesso, se vuoi continuare a essere felice. In sostanza, è come essere su un tapis roulant, un tapis roulant «edonistico», sul quale devi correre sempre più in fretta per far sì che la tua felicità resti sempre uguale.
La sindrome della felicità costringe le persone a una corsa verso la disperazione. Non c’è modo di arrivare alla meta e trovare la vera felicità. La soluzione, naturalmente, è ovvia, ma si scontra con l’idea illuminista che la continua acquisizione di ricchezza aumenti il senso di autonomia e di libertà dell’individuo, garantendogli il piacere e rendendolo più felice.
Per quanto possa sembrare anti-intuitivo, gli studi sulla sindrome della felicità lasciano intendere che vivere in una società dove le necessità essenziali per avere una vita confortevole sono soddisfatte, ma in cui il differenziale fra ricchi e poveri è relativamente ristretto, i cittadini tendono a essere più felici.
pp. 458-462
Nelle società più ricche, dunque, la felicità si stabilizza, se non addirittura diminuisce, al crescere del reddito al di sopra della soglia minima necessaria per garantire ciò che è essenziale per vivere. Nello stesso tempo, una maggiore attenzione alla ricchezza relativa alimenta la dipendenza dal possesso di beni, a spese di relazioni più profonde, di un maggior senso della comunità e dello sviluppo di una coscienza empatica.
Ma cosa accade ai poveri, a quel 40% della razza umana che vive con un reddito inferiore a 2 dollari al giorno, in quella che possiamo senz’altro definire una condizione di squallida sussistenza? Gli studi mostrano come, nel loro caso, la felicità aumenti all’aumentare del reddito. Per loro è difficile estendere l’empatia al di fuori della cerchia degli stretti consanguinei, stante il fatto che ogni momento della loro vita è finalizzato alla mera sopravvivenza. Hanno poche riserve emotive e ancor meno riserve di tempo da dedicare alle sofferenze delle altre persone che non siano parenti prossimi. Comprensibilmente, per i più poveri nella maggior parte delle società i valori materiali prendono il sopravvento su quelli legati all’espressione di sé.
Raggiungere un livello di vita confortevole costituisce la principale preoccupazione di quasi metà della razza umana. Ciò significa espropriare più risorse, costruire strutture sociali più complesse e aggravare il bilancio entropico. Il lato positivo di questo processo è che esso conduce a una maggiore individualizzazione, all’emergere della consapevolezza di sé, alla diffusione della coscienza empatica e a un atteggiamento più tollerante e cosmopolita. Il lato negativo è che l’aumento del flusso di energia impoverisce ulteriormente quel che resta del patrimonio di risorse della terra e porta a un aumento delle emissioni di gas serra e del riscaldamento globale antropogenico.
Fra l’umanità che ha varcato la soglia del benessere economico e quella che ancora non l’ha raggiunta è in atto una feroce diatriba. Con il cambiamento climatico che minaccia l’intera razza umana, le nazioni postmaterialiste affermano che ogni società deve limitare drasticamente il proprio ricorso all’energia ricavata da combustibili fossili e contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra. I paesi ancora in via di sviluppo, comprensibilmente, affermano che il loro consumo di energia pro capite non è che una frazione di quello dei paesi più ricchi, come gli Stati Uniti, e che negare loro la possibilità di sviluppo economico significa confinarli alla povertà e alla disperazione.
Alcuni, nelle nazioni più ricche, capiscono questo punto di vista, ma sottolineano comunque che se i quasi 3 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno dovessero portare il proprio tenore di vita al livello della metà benestante dell’umanità, il conto entropico sarebbe tale da portare la biosfera in un regime climatico radicalmente diverso, che potrebbe portare all’estinzione della razza umana.
È questo il problema che attualmente divide l’umanità in due, e che non potrà che aggravarsi negli anni a venire, creando un conflitto mondiale su una scala mai sperimentata prima, a causa del progressivo esaurimento delle riserve di combustibili fossili essenziali a mantenere e ad espandere lo stile di vita industriale.
pp. 468-470
Ma cosa accade ai poveri, a quel 40% della razza umana che vive con un reddito inferiore a 2 dollari al giorno, in quella che possiamo senz’altro definire una condizione di squallida sussistenza? Gli studi mostrano come, nel loro caso, la felicità aumenti all’aumentare del reddito. Per loro è difficile estendere l’empatia al di fuori della cerchia degli stretti consanguinei, stante il fatto che ogni momento della loro vita è finalizzato alla mera sopravvivenza. Hanno poche riserve emotive e ancor meno riserve di tempo da dedicare alle sofferenze delle altre persone che non siano parenti prossimi. Comprensibilmente, per i più poveri nella maggior parte delle società i valori materiali prendono il sopravvento su quelli legati all’espressione di sé.
Raggiungere un livello di vita confortevole costituisce la principale preoccupazione di quasi metà della razza umana. Ciò significa espropriare più risorse, costruire strutture sociali più complesse e aggravare il bilancio entropico. Il lato positivo di questo processo è che esso conduce a una maggiore individualizzazione, all’emergere della consapevolezza di sé, alla diffusione della coscienza empatica e a un atteggiamento più tollerante e cosmopolita. Il lato negativo è che l’aumento del flusso di energia impoverisce ulteriormente quel che resta del patrimonio di risorse della terra e porta a un aumento delle emissioni di gas serra e del riscaldamento globale antropogenico.
Fra l’umanità che ha varcato la soglia del benessere economico e quella che ancora non l’ha raggiunta è in atto una feroce diatriba. Con il cambiamento climatico che minaccia l’intera razza umana, le nazioni postmaterialiste affermano che ogni società deve limitare drasticamente il proprio ricorso all’energia ricavata da combustibili fossili e contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra. I paesi ancora in via di sviluppo, comprensibilmente, affermano che il loro consumo di energia pro capite non è che una frazione di quello dei paesi più ricchi, come gli Stati Uniti, e che negare loro la possibilità di sviluppo economico significa confinarli alla povertà e alla disperazione.
Alcuni, nelle nazioni più ricche, capiscono questo punto di vista, ma sottolineano comunque che se i quasi 3 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno dovessero portare il proprio tenore di vita al livello della metà benestante dell’umanità, il conto entropico sarebbe tale da portare la biosfera in un regime climatico radicalmente diverso, che potrebbe portare all’estinzione della razza umana.
È questo il problema che attualmente divide l’umanità in due, e che non potrà che aggravarsi negli anni a venire, creando un conflitto mondiale su una scala mai sperimentata prima, a causa del progressivo esaurimento delle riserve di combustibili fossili essenziali a mantenere e ad espandere lo stile di vita industriale.
pp. 468-470
Metà della razza umana sta utilizzando più energia da combustibili fossili e più risorse naturali di quanto sia necessario per una vita confortevole, e diventa sempre più infelice a ogni aumento incrementale di ricchezza, mentre l’altra metà sta faticosamente uscendo dalla povertà e diventa più felice quando raggiunge un livello minimo di benessere. Il problema è che non c’è abbastanza petrolio o altro combustibile fossile – o uranio per l’energia nucleare – per garantire all’umanità ricca il suo attuale stile di vita, né per innalzare 3 miliardi di poveri a un livello di vita accettabile.
Comunque, sappiamo anche che lo sviluppo empatico accompagna lo sviluppo economico, almeno fino al raggiungimento della soglia di benessere. Dopodiché, i successivi incrementi di ricchezza tendono a imprigionare le persone in uno stile di vita materialista che genera dipendenza e che li rende sempre più egoisti nei comportamenti e meno sensibili nei confronti della sofferenza altrui. Questo rallenta o blocca lo sviluppo della coscienza empatica.
Dunque, come possiamo riorganizzare la nostra relazione con gli altri e con la terra, in modo che «chi ha» possa rendere meno onerosa la propria presenza e «chi non ha» possa stabilire una presa più salda nell’ambiente in cui vive, permettendo a tutti di incontrarsi in corrispondenza della soglia minima del benessere? È a quella soglia che potremo massimizzare la coscienza empatica e creare le condizioni per una società globale sostenibile.
La cosa fondamentale da fare è immaginare un regime energetico e una rivoluzione economica in cui il tipo di energia che usiamo si possa trovare nel nostro giardino di casa, sia equamente distribuita sulla terra, gratuita e facilmente accessibile, e rinnovabile con il cambiamento delle stagioni e i cicli della biosfera. Questo regime energetico e questa rivoluzione economica dovranno offrire a ogni essere umano sulla terra la possibilità di raggiungere la soglia minima di qualità della vita senza compromettere la salute della biosfera, in modo che la vita sul pianeta possa continuare a prosperare.
pp. 471-472
Comunque, sappiamo anche che lo sviluppo empatico accompagna lo sviluppo economico, almeno fino al raggiungimento della soglia di benessere. Dopodiché, i successivi incrementi di ricchezza tendono a imprigionare le persone in uno stile di vita materialista che genera dipendenza e che li rende sempre più egoisti nei comportamenti e meno sensibili nei confronti della sofferenza altrui. Questo rallenta o blocca lo sviluppo della coscienza empatica.
Dunque, come possiamo riorganizzare la nostra relazione con gli altri e con la terra, in modo che «chi ha» possa rendere meno onerosa la propria presenza e «chi non ha» possa stabilire una presa più salda nell’ambiente in cui vive, permettendo a tutti di incontrarsi in corrispondenza della soglia minima del benessere? È a quella soglia che potremo massimizzare la coscienza empatica e creare le condizioni per una società globale sostenibile.
La cosa fondamentale da fare è immaginare un regime energetico e una rivoluzione economica in cui il tipo di energia che usiamo si possa trovare nel nostro giardino di casa, sia equamente distribuita sulla terra, gratuita e facilmente accessibile, e rinnovabile con il cambiamento delle stagioni e i cicli della biosfera. Questo regime energetico e questa rivoluzione economica dovranno offrire a ogni essere umano sulla terra la possibilità di raggiungere la soglia minima di qualità della vita senza compromettere la salute della biosfera, in modo che la vita sul pianeta possa continuare a prosperare.
pp. 471-472
5.
L’Era nascente del capitalismo distribuito è il titolo dell’ultimo capitolo nel quale Rifkin propone la sua “ricetta” per salvare il pianeta: l’avvento di una terza, grande rivoluzione industriale che porrà fine al saccheggio delle risorse naturali, comporterà un aumento della qualità della vita per tutti gli esseri umani e valorizzerà al massimo grado la socialità empatica.
La rivoluzione in questione si fonda sull’uso delle energie rinnovabili – energia solare, eolica, idroelettrica, geotermica, oceanica e da biomassa -, sulla costruzione di edifici su tutta la faccia della terra attrezzati per produrle, sullo stoccaggio delle energie sotto forma di idrogeno e sulla configurazione di una rete elettrica intelligente interconnesssa atta a coordinare le richieste e i flussi di energia durante i momenti di picco e di minimo della produzione e della domanda.
Fuoriuscire dalla civiltà del petrolio e del carbone e accedere alla civiltà delle energie distribuite è un passaggio epocale:
La transizione verso la Terza rivoluzione industriale richiederà una radicale riconfigurazione dell’intera infrastruttura economica di ciascun paese, creando milioni di posti di lavoro e un’infinità di nuovi beni e servizi. I paesi dovranno investire massicciamente in tecnologie legate alle energie rinnovabili, convertire milioni di edifici per trasformarli in impianti di generazione, integrare l’idrogeno e le altre tecnologie di stoccaggio dell’energia in tutte le infrastrutture nazionali, passare dalle automobili con il motore a combustione interna a quelle con motore elettrico alimentato dalla rete o dalle celle a combustibile a idrogeno, e predisporre una rete di distribuzione elettrica intelligente.
Il lavoro di rifacimento delle infrastrutture nazionali e di riconversione industriale richiederà un’immensa opera di formazione e riaddestramento della forza lavoro, su scala paragonabile a quella della formazione vocazionale e professionale agli albori della Prima e della Seconda rivoluzione industriale. La nuova forza lavoro ad alta tecnologia della Terza rivoluzione industriale dovrà avere competenze nel campo delle energie rinnovabili, dell’edilizia ecologica, dell’informatica integrata, delle nanotecnologie, della chimica sostenibile, dello sviluppo delle celle a combustibile, della gestione digitale delle reti elettriche, del trasporto ibrido e alimentato a idrogeno, e di centinaia di altri settori tecnici.
Imprenditori e manager dovranno essere educati a trarre vantaggio da modelli operativi avanzati, come l’open source e le reti, l’energy performance contracting (EPC, una forma contrattuale in cui la remunerazione è legata al risparmio energetico conseguito dal cliente), la ricerca e le strategie di sviluppo distribuite e collaborative, la logistica e la gestione della catena dell’offerta sostenibili a basse emissioni. I livelli di competenza e gli stili di gestione della forza lavoro della Terza rivoluzione industriale saranno qualitativamente diversi da quelli richiesti dalla Seconda rivoluzione industriale.
Una interrete intelligente e integrata permetterà a ogni paese di produrre la propria energia e di condividere eventuali surplus con i paesi confinanti, in un approccio «reticolare» alla sicurezza energetica globale. Nel momento in cui una regione dovesse godere di un temporaneo aumento o surplus della propria produzione di energia rinnovabile, questo potrebbe essere condiviso con le regioni che in quello stesso momento si trovano in una condizione meno favorevole.
La Terza rivoluzione industriale porterà a una nuova visione sociale in cui anche il potere, oltre all’energia elettrica, sarà ampiamente distribuito, incoraggiando nuovi e più elevati livelli di collaborazione fra persone e popoli. Così come la rivoluzione della comunicazione distribuita dell’ultimo decennio ha contribuito a diffondere il pensiero reticolare, la condivisione open source e la democratizzazione della comunicazione, la Terza rivoluzione industriale si accompagnerà alla democratizzazione dell’energia. Cominciamo a intravedere un mondo in cui centinaia di milioni di persone sono illuminate, in senso sia politico sia energetico, con conseguenze incalcolabili in termini di vita sociale e politica.
La democratizzazione dell’energia diviene uno dei punti chiave della nuova visione sociale distribuita. L’accesso all’energia diventa un diritto sociale inalienabile nell’era della Terza rivoluzione industriale. Il Novecento ha visto l’estensione delle garanzie politiche e l’allargamento delle opportunità educative ed economiche a milioni di persone in tutto il mondo. Nel ventunesimo secolo anche l’accesso individuale all’energia diventa un diritto sociale e umano: ogni essere umano deve avere il diritto e l’opportunità di produrre la propria energia localmente e di condividerla con altri in interreti locali, nazionali e continentali. Per una nuova generazione che sta crescendo in una società meno gerarchica e più interconnessa, la capacità di condividere e produrre la propria energia in una interrete a libero accesso sarà considerata un diritto e una responsabilità primaria.
La transizione, destinata a durare mezzo secolo, dalla Seconda alla Terza rivoluzione industriale modificherà radicalmente il processo di globalizzazione. L’effetto più marcato si avrà probabilmente sulle società in via di sviluppo. La mancanza di accesso all’elettricità è uno dei fattori chiave della perpetuazione della povertà. Viceversa, l’accesso all’energia significa maggiori opportunità economiche. Se milioni di individui in comunità sottosviluppate diventassero produttori della propria energia, il risultato sarebbe un notevole cambiamento negli equilibri di potere: le popolazioni locali sarebbero molto meno soggette alla volontà dei lontani capoluoghi politici; inoltre, le comunità sarebbero in grado di produrre beni e servizi localmente e di scambiarli. Questa è l’essenza della politica di sviluppo sostenibile e di riglobalizzazione dal basso. Le nazioni avanzate, operando attraverso imprese e organizzazioni della società civile, potrebbero contribuire a facilitare la fase successiva della globalizzazione sostenibile, reindirizzando gli aiuti allo sviluppo, promuovendo la macro‑ e la microfinanza e il credito, e offrendo lo status di partner commerciale privilegiato al fine di aiutare i paesi sottosviluppati ad avviare la Terza rivoluzione industriale.
Il passaggio dalle energie elitarie (combustibili fossili e uranio) alle energie rinnovabili distribuite porta il mondo fuori dalla «geopolitica» che ha caratterizzato il ventesimo secolo, per farlo entrare nella «politica della biosfera» del ventunesimo. Gran parte delle controversie geopolitiche dell’ultimo secolo è stata incentrata sull’accesso, da ottenere per via militare o politica, a giacimenti di carbone, petrolio, gas naturale e uranio. Sono state combattute guerre ed è stato perso un numero incalcolabile di vite umane mentre i paesi si scontravano alfine di garantirsi un accesso sicuro a combustibili fossili e uranio. L’avvento della Terza rivoluzione industriale farà molto per allentare le crescenti tensioni sull’accesso a un’offerta sempre più limitata di idrocarburi e materiale fissile, contribuendo a facilitare una politica della biosfera basata sul senso di responsabilità collettiva per la salvaguardia degli ecosistemi terrestri.
pp. 485-487
Il lavoro di rifacimento delle infrastrutture nazionali e di riconversione industriale richiederà un’immensa opera di formazione e riaddestramento della forza lavoro, su scala paragonabile a quella della formazione vocazionale e professionale agli albori della Prima e della Seconda rivoluzione industriale. La nuova forza lavoro ad alta tecnologia della Terza rivoluzione industriale dovrà avere competenze nel campo delle energie rinnovabili, dell’edilizia ecologica, dell’informatica integrata, delle nanotecnologie, della chimica sostenibile, dello sviluppo delle celle a combustibile, della gestione digitale delle reti elettriche, del trasporto ibrido e alimentato a idrogeno, e di centinaia di altri settori tecnici.
Imprenditori e manager dovranno essere educati a trarre vantaggio da modelli operativi avanzati, come l’open source e le reti, l’energy performance contracting (EPC, una forma contrattuale in cui la remunerazione è legata al risparmio energetico conseguito dal cliente), la ricerca e le strategie di sviluppo distribuite e collaborative, la logistica e la gestione della catena dell’offerta sostenibili a basse emissioni. I livelli di competenza e gli stili di gestione della forza lavoro della Terza rivoluzione industriale saranno qualitativamente diversi da quelli richiesti dalla Seconda rivoluzione industriale.
Una interrete intelligente e integrata permetterà a ogni paese di produrre la propria energia e di condividere eventuali surplus con i paesi confinanti, in un approccio «reticolare» alla sicurezza energetica globale. Nel momento in cui una regione dovesse godere di un temporaneo aumento o surplus della propria produzione di energia rinnovabile, questo potrebbe essere condiviso con le regioni che in quello stesso momento si trovano in una condizione meno favorevole.
La Terza rivoluzione industriale porterà a una nuova visione sociale in cui anche il potere, oltre all’energia elettrica, sarà ampiamente distribuito, incoraggiando nuovi e più elevati livelli di collaborazione fra persone e popoli. Così come la rivoluzione della comunicazione distribuita dell’ultimo decennio ha contribuito a diffondere il pensiero reticolare, la condivisione open source e la democratizzazione della comunicazione, la Terza rivoluzione industriale si accompagnerà alla democratizzazione dell’energia. Cominciamo a intravedere un mondo in cui centinaia di milioni di persone sono illuminate, in senso sia politico sia energetico, con conseguenze incalcolabili in termini di vita sociale e politica.
La democratizzazione dell’energia diviene uno dei punti chiave della nuova visione sociale distribuita. L’accesso all’energia diventa un diritto sociale inalienabile nell’era della Terza rivoluzione industriale. Il Novecento ha visto l’estensione delle garanzie politiche e l’allargamento delle opportunità educative ed economiche a milioni di persone in tutto il mondo. Nel ventunesimo secolo anche l’accesso individuale all’energia diventa un diritto sociale e umano: ogni essere umano deve avere il diritto e l’opportunità di produrre la propria energia localmente e di condividerla con altri in interreti locali, nazionali e continentali. Per una nuova generazione che sta crescendo in una società meno gerarchica e più interconnessa, la capacità di condividere e produrre la propria energia in una interrete a libero accesso sarà considerata un diritto e una responsabilità primaria.
La transizione, destinata a durare mezzo secolo, dalla Seconda alla Terza rivoluzione industriale modificherà radicalmente il processo di globalizzazione. L’effetto più marcato si avrà probabilmente sulle società in via di sviluppo. La mancanza di accesso all’elettricità è uno dei fattori chiave della perpetuazione della povertà. Viceversa, l’accesso all’energia significa maggiori opportunità economiche. Se milioni di individui in comunità sottosviluppate diventassero produttori della propria energia, il risultato sarebbe un notevole cambiamento negli equilibri di potere: le popolazioni locali sarebbero molto meno soggette alla volontà dei lontani capoluoghi politici; inoltre, le comunità sarebbero in grado di produrre beni e servizi localmente e di scambiarli. Questa è l’essenza della politica di sviluppo sostenibile e di riglobalizzazione dal basso. Le nazioni avanzate, operando attraverso imprese e organizzazioni della società civile, potrebbero contribuire a facilitare la fase successiva della globalizzazione sostenibile, reindirizzando gli aiuti allo sviluppo, promuovendo la macro‑ e la microfinanza e il credito, e offrendo lo status di partner commerciale privilegiato al fine di aiutare i paesi sottosviluppati ad avviare la Terza rivoluzione industriale.
Il passaggio dalle energie elitarie (combustibili fossili e uranio) alle energie rinnovabili distribuite porta il mondo fuori dalla «geopolitica» che ha caratterizzato il ventesimo secolo, per farlo entrare nella «politica della biosfera» del ventunesimo. Gran parte delle controversie geopolitiche dell’ultimo secolo è stata incentrata sull’accesso, da ottenere per via militare o politica, a giacimenti di carbone, petrolio, gas naturale e uranio. Sono state combattute guerre ed è stato perso un numero incalcolabile di vite umane mentre i paesi si scontravano alfine di garantirsi un accesso sicuro a combustibili fossili e uranio. L’avvento della Terza rivoluzione industriale farà molto per allentare le crescenti tensioni sull’accesso a un’offerta sempre più limitata di idrocarburi e materiale fissile, contribuendo a facilitare una politica della biosfera basata sul senso di responsabilità collettiva per la salvaguardia degli ecosistemi terrestri.
pp. 485-487
La terza rivoluzione industriale è, dunque, quella del capitalismo distribuito che implicherà, oltre alla produzione delle energie rinnovabili, “il potere della comunicazione distribuita come agente gestionale nell’ambito di una società dell’energia distribuita” (p. 488):
Il calcolo distribuito, a volte detto grid computing, è l’elemento cardine delle tecnologie informatiche di seconda generazione che stanno influenzando la comunità economico-finanziaria mondiale, facilitando la formazione di nuove reti sociali globali e rivoluzionando il sistema educativo…
I progetti di calcolo distribuito sono sempre più diffusi. Milioni di computer sono attualmente connessi per raccogliere e analizzare dati raccolti nell’ambito di una vasta gamma di progetti, fra cui, solo per citarne alcuni, la ricerca di nuove strutture proteiche, delle onde gravitazionali, dei nanosistemi, dei numeri primi, e lo sviluppo di nuovi farmaci.”
Perché un individuo dovrebbe essere disposto a prestare il proprio computer per questo genere di progetti? Le motivazioni sono le più varie, ma l’«altruismo» è la risposta data più frequentemente dai cosiddetti crunchers, come sono affettuosamente chiamati nella comunità del calcolo distribuito. Milioni di persone sono disposte ad aiutare, in tutti i modi possibili, a risolvere i grandi problemi con cui l’umanità si sta confrontando, dal cambiamento climatico alla cura delle malattie.
Donare il tempo del proprio computer è solo un piccolo aspetto del nuovo approccio distribuito alla collaborazione umana. Milioni di persone vengono anche attivamente reclutate dalle imprese o dalle istituzioni universitarie per condividere le proprie conoscenze e la propria creatività. «Wikinomics» è il termine che si usa per descrivere il nuovo modello di collaborazione di massa per la raccolta di dati, la condivisione della conoscenza e la soluzione di problemi che ha dato in molti campi risultati stupefacenti e tali da oscurare spesso le conoscenze accumulate e le soluzioni proposte dai professionisti di quegli stessi campi. Si definisce «wiki workplace» un’impresa collaborativa che coinvolge decine, centinaia o migliaia di persone, alcune esperte, altre dilettanti, provenienti dai settori più disparati, che si uniscono per condividere idee e risolvere problemi. Questo nuovo ambiente di apprendimento collaborativo e non gerarchico chiama in causa la saggezza collettiva delle folle, con risultati sorprendenti se paragonati agli ambienti di apprendimento aziendali tradizionali, organizzati gerarchicamente.
pp. 489-490
I progetti di calcolo distribuito sono sempre più diffusi. Milioni di computer sono attualmente connessi per raccogliere e analizzare dati raccolti nell’ambito di una vasta gamma di progetti, fra cui, solo per citarne alcuni, la ricerca di nuove strutture proteiche, delle onde gravitazionali, dei nanosistemi, dei numeri primi, e lo sviluppo di nuovi farmaci.”
Perché un individuo dovrebbe essere disposto a prestare il proprio computer per questo genere di progetti? Le motivazioni sono le più varie, ma l’«altruismo» è la risposta data più frequentemente dai cosiddetti crunchers, come sono affettuosamente chiamati nella comunità del calcolo distribuito. Milioni di persone sono disposte ad aiutare, in tutti i modi possibili, a risolvere i grandi problemi con cui l’umanità si sta confrontando, dal cambiamento climatico alla cura delle malattie.
Donare il tempo del proprio computer è solo un piccolo aspetto del nuovo approccio distribuito alla collaborazione umana. Milioni di persone vengono anche attivamente reclutate dalle imprese o dalle istituzioni universitarie per condividere le proprie conoscenze e la propria creatività. «Wikinomics» è il termine che si usa per descrivere il nuovo modello di collaborazione di massa per la raccolta di dati, la condivisione della conoscenza e la soluzione di problemi che ha dato in molti campi risultati stupefacenti e tali da oscurare spesso le conoscenze accumulate e le soluzioni proposte dai professionisti di quegli stessi campi. Si definisce «wiki workplace» un’impresa collaborativa che coinvolge decine, centinaia o migliaia di persone, alcune esperte, altre dilettanti, provenienti dai settori più disparati, che si uniscono per condividere idee e risolvere problemi. Questo nuovo ambiente di apprendimento collaborativo e non gerarchico chiama in causa la saggezza collettiva delle folle, con risultati sorprendenti se paragonati agli ambienti di apprendimento aziendali tradizionali, organizzati gerarchicamente.
pp. 489-490
La saggezza collettiva delle folle ha un’incidenza straordinaria sulla concezione liberale della natura umana come tendenzialmente egoista:
Don Tapscott e Antonhy D. Williams, nel loro libro Wikinomics, La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, sottolineano che il potenziale collaborativo dell’uomo, connesso attraverso tecnologie di calcolo distribuito, porta l’economia dal modello di business tradizionale a un nuovo territorio basato «sull’apertura, il peering, la condivisione e l’azione su scala globale».
Le tecnologie «peer-to-peer» (da pari a pari) della Terza rivoluzione industriale danno il via al «capitalismo distribuito» e, nel farlo, rendono obsoleti e irrilevanti numerosi presupposti fondamentali del capitalismo di mercato. Consideriamo per esempio la ferma convinzione di Adam Smith che la natura predisponga ciascun individuo a perseguire il proprio interesse particolare nel mercato, contro l’interesse altrui. Smith offriva la dubbia consolazione che, nonostante il singolo individuo perseguisse esclusivamente il proprio interesse particolare, nel farlo contribuiva in qualche misura al bene comune.
Il modello distribuito parte da un’ipotesi opposta sulla natura umana, cioè che quando gli si dà la possibilità di farlo, l’uomo è per natura disposto a collaborare con gli altri, spesso gratuitamente, per la pura gioia di contribuire a un bene comune. Inoltre, contribuendo al benessere del gruppo, l’individuo si mette nella migliore condizione per promuovere il proprio interesse particolare. In altre parole, i sostenitori della collaborazione distribuita celebrano quella che chiamano «proprietà collettiva digitale», più che lamentare la «tragedia della proprietà collettiva». E’ stato l’ecologo Garret Hardin a scrivere il famoso saggio in cui si proponeva l’idea che l’interesse particolare porti al fallimento delle iniziative economiche collettive, semplicemente perché è nella natura dell’uomo cercare di primeggiare.
Come si spiegano allora Linux e Wikipedia? Nel caso di Linux migliaia di programmatori offrono volontariamente e gratuitamente la propria competenza per contribuire a migliorare e correggere un codice di programmazione usato da milioni di altre persone. Il codice stesso è liberamente accessibile, e non è una proprietà intellettuale di uno qualsiasi degli individui che ha contribuito a scriverlo. Se avessi insegnato una versione teorica di questo modello economico ai corsi per manager della Wharton School nei primi anni Novanta, sarebbe stata respinta in quanto è totalmente contrario alla natura egoista dell’uomo dedicarsi a questa attività per un periodo protratto di tempo. Eppure, oggi Linux è uno dei protagonisti della scena informatica globale e compete con imprese tradizionali attive nel medesimo settore, come Microsoft.
Analogamente, pensiamo a Wikipedia, un’enciclopedia libera online che ha solo cinque dipendenti a tempo pieno ma ha una dimensione pari a dieci volte quella dell’Enciclopedia Britannica. La versione in lingua inglese contiene più di 2,8 milioni di voci. Tutti i contributi sono offerti gratuitamente: chiunque è libero di aggiungere il proprio testo e il proprio commento a qualsiasi articolo ma, data la natura collaborativa ditale processo, il tasso di errore è solo leggermente superiore a quello dell’Enciclopedia Britannica, nonostante quest’ultima si avvalga della collaborazione di esperti selezionati in ogni campo del sapere.
Nel caso di Linux e Wikipedia, contribuendo al bene di una rete collaborativa sempre più vasta, i partecipanti provano la gioia di usare la propria creatività al servizio degli altri e traggono beneficio dal libero accesso a reti in continuo miglioramento.
L’attività economica non è più un duello fra venditori e compratori agguerriti ma è, piuttosto, un’impresa collaborativa fra attori che la pensano nello stesso modo. La classica idea economica che il beneficio dell’uno corrisponda al danno dell’altro è sostituita dall’idea che il benessere degli altri amplifica il proprio benessere. I giochi a somma zero lasciano il posto a scenari di reciproco vantaggio.
Allo stesso modo, il vecchio adagio caveat emptor, «stia in guardia chi compra», è sostituito da un’idea di trasparenza e apertura. In un contesto aziendale tradizionale non si divulgano mai i dati interni che potrebbero compromettere il vantaggio sui fornitori, sui concorrenti, sui clienti e, perfino, sui colleghi. In un contesto collaborativo, al contrario, solo condividendo apertamente e reciprocamente i dati tutti gli attori possono trarre il massimo vantaggio dalla collaborazione e creare valore aggiunto per tutti i partecipanti alla rete. Un’iniziativa come Linux, per esempio, funziona solo se il codice sorgente, il software e le nuove applicazioni vengono condivisi fra tutti i partecipanti alla rete.
pp. 493-494
Le tecnologie «peer-to-peer» (da pari a pari) della Terza rivoluzione industriale danno il via al «capitalismo distribuito» e, nel farlo, rendono obsoleti e irrilevanti numerosi presupposti fondamentali del capitalismo di mercato. Consideriamo per esempio la ferma convinzione di Adam Smith che la natura predisponga ciascun individuo a perseguire il proprio interesse particolare nel mercato, contro l’interesse altrui. Smith offriva la dubbia consolazione che, nonostante il singolo individuo perseguisse esclusivamente il proprio interesse particolare, nel farlo contribuiva in qualche misura al bene comune.
Il modello distribuito parte da un’ipotesi opposta sulla natura umana, cioè che quando gli si dà la possibilità di farlo, l’uomo è per natura disposto a collaborare con gli altri, spesso gratuitamente, per la pura gioia di contribuire a un bene comune. Inoltre, contribuendo al benessere del gruppo, l’individuo si mette nella migliore condizione per promuovere il proprio interesse particolare. In altre parole, i sostenitori della collaborazione distribuita celebrano quella che chiamano «proprietà collettiva digitale», più che lamentare la «tragedia della proprietà collettiva». E’ stato l’ecologo Garret Hardin a scrivere il famoso saggio in cui si proponeva l’idea che l’interesse particolare porti al fallimento delle iniziative economiche collettive, semplicemente perché è nella natura dell’uomo cercare di primeggiare.
Come si spiegano allora Linux e Wikipedia? Nel caso di Linux migliaia di programmatori offrono volontariamente e gratuitamente la propria competenza per contribuire a migliorare e correggere un codice di programmazione usato da milioni di altre persone. Il codice stesso è liberamente accessibile, e non è una proprietà intellettuale di uno qualsiasi degli individui che ha contribuito a scriverlo. Se avessi insegnato una versione teorica di questo modello economico ai corsi per manager della Wharton School nei primi anni Novanta, sarebbe stata respinta in quanto è totalmente contrario alla natura egoista dell’uomo dedicarsi a questa attività per un periodo protratto di tempo. Eppure, oggi Linux è uno dei protagonisti della scena informatica globale e compete con imprese tradizionali attive nel medesimo settore, come Microsoft.
Analogamente, pensiamo a Wikipedia, un’enciclopedia libera online che ha solo cinque dipendenti a tempo pieno ma ha una dimensione pari a dieci volte quella dell’Enciclopedia Britannica. La versione in lingua inglese contiene più di 2,8 milioni di voci. Tutti i contributi sono offerti gratuitamente: chiunque è libero di aggiungere il proprio testo e il proprio commento a qualsiasi articolo ma, data la natura collaborativa ditale processo, il tasso di errore è solo leggermente superiore a quello dell’Enciclopedia Britannica, nonostante quest’ultima si avvalga della collaborazione di esperti selezionati in ogni campo del sapere.
Nel caso di Linux e Wikipedia, contribuendo al bene di una rete collaborativa sempre più vasta, i partecipanti provano la gioia di usare la propria creatività al servizio degli altri e traggono beneficio dal libero accesso a reti in continuo miglioramento.
L’attività economica non è più un duello fra venditori e compratori agguerriti ma è, piuttosto, un’impresa collaborativa fra attori che la pensano nello stesso modo. La classica idea economica che il beneficio dell’uno corrisponda al danno dell’altro è sostituita dall’idea che il benessere degli altri amplifica il proprio benessere. I giochi a somma zero lasciano il posto a scenari di reciproco vantaggio.
Allo stesso modo, il vecchio adagio caveat emptor, «stia in guardia chi compra», è sostituito da un’idea di trasparenza e apertura. In un contesto aziendale tradizionale non si divulgano mai i dati interni che potrebbero compromettere il vantaggio sui fornitori, sui concorrenti, sui clienti e, perfino, sui colleghi. In un contesto collaborativo, al contrario, solo condividendo apertamente e reciprocamente i dati tutti gli attori possono trarre il massimo vantaggio dalla collaborazione e creare valore aggiunto per tutti i partecipanti alla rete. Un’iniziativa come Linux, per esempio, funziona solo se il codice sorgente, il software e le nuove applicazioni vengono condivisi fra tutti i partecipanti alla rete.
pp. 493-494
Il capitalismo distribuito comporta anche il superamento dei diritti di proprietà a favore dei diritti di accesso:
L’ambito nel quale il vecchio paradigma economico classico e il nuovo modello del capitalismo distribuito sono maggiormente in contraddizione è il concetto di detenzione dei diritti di proprietà intellettuale. Nello schema tradizionale dell’attività economica brevetti e dritti d’autore sono sacrosanti, mentre in un’economia collaborativa il libero accesso a informazioni critiche è essenziale alla collaborazione stessa. Il possesso e il controllo della conoscenza rendono impossibile la collaborazione.
p. 494
p. 494
Le contestazioni nei confronti dei diritti di proprietà intellettuale fanno parte di una più vasta contestazione del concetto stesso di proprietà, cioè del presupposto fondamentale su cui è stata costruita tutta la teoria economica. Ricordiamo che john Locke, Adam Smith e altri filosofi illuministi erano convinti che l’acquisizione di proprietà fosse intrinseca alla natura umana e che il mercato offrisse meccanismi di autoregolazione in grado di garantire la continuità dell’acquisizione e dello scambio di proprietà fra compratori e venditori.
L’idea stessa di individuo autonomo e proprietario è alla base del pensiero illuminista e del moderno concetto di libertà individuale. Per i filosofi e i giuristi del Settecento e dell’Ottocento, la libertà si definiva in termini negativi, come diritto di escludere gli altri. Nobilitare l’idea di proprietà privata permise alla nascente borghesia europea di creare un baluardo giuridico alternativo contro gli antichi obblighi nei confronti della Chiesa e delle signorie feudali, le limitazioni imposte dalle corporazioni delle arti e dei mestieri, e le molte altre convenzioni legate al vecchio ordine. Comprensibilmente, una classe capitalista emergente considerava la proprietà privata come un simbolo di libertà personale. I diritti di proprietà, tutelati dalla legge, implicavano che nessun uomo potesse essere oppresso, aggredito e assoggettato alla volontà di un altro. Un maggiore accumulo di proprietà e il controllo sul loro uso assicuravano un’autonomia e una mobilità maggiori, ed esse, a loro volta, garantivano la libertà personale. Se si era in grado di tutelare la proprietà, tutti gli i diritti sarebbero stati garantiti: i diritti alla privacy, alla libertà dalla coercizione e, soprattutto, alla felicità…
L’intera realtà terrena fu sintetizzata in una sola formula: «Il mio contro il tuo>’. Con questa parola d’ordine gli europei si dedicarono a colonizzare lo spazio e il tempo. Nel nuovo futuro appena nato ogni individuo sarebbe diventato il Dio di se stesso, la cui divinità si fondava sull’accumulazione di proprietà e sull’espansione del proprio dominio esistenziale e dell’influenza acquisita su spazio e tempo. Più mio, meno tuo. Chi poteva, per talento o spregiudicatezza, acquisire più proprietà, poteva trasformarle in capitale e usare quel capitale per controllare non solo la natura, ma anche la vita di altre persone: era, insomma, un «capitalista».
La moderna economia di mercato e lo Stato-nazione, a loro volta, divennero il meccanismo istituzionale per accelerare la nuova riorganizzazione del mondo. Il mercato era l’arena imparziale in cui ogni capitalista si impegnava nella battaglia contro i propri simili, nel tentativo di conquistare lo spazio e accaparrarsi il tempo sotto forma di proprietà privata. Il neonato Stato-nazione aveva il ruolo di tutore della proprietà di ciascuno, stabilendo codici giuridici e meccanismi di protezione; ciò facendo, diventava il garante della libertà individuale.
Fare dei rapporti di proprietà privata parte integrante della natura umana si rivelò un’arma a doppio taglio. Garantire il diritto di ognuno al frutto del proprio lavoro, contro il privilegio dell’ordine feudale e, più tardi, dei regimi monarchici, alimentò il processo di differenziazione, individualizzazione e acquisizione della consapevolezza di sé. Ogni maschio bianco dotato di proprietà diventava sovrano del proprio dominio proprietario: un’isola in sé. Nella storia occidentale lo sviluppo della teoria del diritto naturale nel campo dei rapporti di proprietà privata è andato di pari passo con l’emergere dell’individuo dotato di autonomia.
Una maggiore e più profonda consapevolezza di sé contribuì a elevare l’idea di unicità e importanza della vita di ogni singolo essere umano nell’ambito del grande schema delle cose, promuovendo al contempo un più forte senso della solitudine esistenziale nel mondo. Questi cambiamenti psicologici rafforzarono la pulsione empatica e gli individui divennero più attenti all’essere dell’altro e alla sua lotta esistenziale per superare il proprio isolamento, stabilire un rapporto con gli altri esseri umani, trovare il significato della propria esistenza e avere successo.
Eppure, il legame quasi fanatico con la proprietà privata – al punto da attribuirle un posto primario nella definizione della natura umana – ebbe anche l’effetto opposto di stabilire una linea di confine fra «il mio e il tuo», separando gli uni dagli altri secondo modalità completamente nuove, per mezzo di nuove barriere sociali erette fra privilegiati e sfortunati. Porre i rapporti di proprietà privata al centro dell’organizzazione sociale contribuì all’appiattimento su un unico livello della dimensione umana, diffondendo l’idea che ogni uomo, se dotato di proprietà, è sovrano, ma stabilendo contemporaneamente il nuovo principio di esclusione – “il mio contro il tuo” – come base per la gestione delle relazioni economiche, politiche e sociali fra le persone. In questo modo, l’estensione empatica sì trovò a essere simultaneamente incentivata e repressa.
Ora, però, le motivazioni che hanno portato alla ribalta i rapporti di proprietà cominciano a indebolirsi a fronte dell’avvento di nuove tecnologie, che ancora una volta stanno alterando il nostro senso dello spazio e del tempo. La sempre più rapida possibilità di connessione del sistema nervoso centrale di ogni essere umano con quello di ogni altro essere umano sulla terra, attraverso Internet e le altre nuove tecnologie di comunicazione, ci sta lanciando in uno spazio globale e in un ambito temporale di simultaneità. Il risultato è che nel ventunesimo secolo lo scambio di proprietà nell’ambito dei mercati nazionali cederà progressivamente il passo alle relazioni di accesso in vaste reti globali.
La minore importanza attribuita al regime di proprietà privata ha un forte impatto potenziale sia sul futuro dei commerci globali sia sulla psicologia collettiva. Se l’attaccamento economico, psicologico e ideologico alla proprietà privata continuerà a indebolirsi, quale sarà il destino ultimo del mercato? Parimenti importante è il potenziale effetto di questo cambiamento sulla coscienza e sulla nostra concezione della natura umana.
L’economia di mercato è troppo lenta per trarre pieno vantaggio dalla velocità e dal potenziale produttivo delle rivoluzioni del software e delle comunicazioni. Il risultato è che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo sistema economico, diverso dal capitalismo di mercato quanto questo lo era dall’economia feudale che lo aveva preceduto.
E non si tratta semplicemente di trovare nuovi modelli organizzativi per aggiornare la gestione delle attività economiche in un’economia di mercato. E il meccanismo di scambio nel mercato in sé che sta diventando inadeguato.
I mercati sono modalità operative lineari, discrete e discontinue: compratori e venditori si incontrano per un istante per scambiare beni e servizi, poi tornano a separarsi. Il tempo che intercorre fra il completamento di una transazione e l’avvio della successiva rappresenta una perdita di produttività e un costo aggiuntivo dell’attività economica che, alla fine, renderà il mercato inevitabilmente obsoleto.
Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, al contrario, sono cibernetiche, non lineari. Consentono un’attività continua per prolungati periodi di tempo. Questo significa che il meccanismo di avvio e conclusione dello scambio di mercato è rimpiazzato dall’idea di stabilire una relazione commerciale continua nel tempo fra le parti.
pp. 497-498
L’idea stessa di individuo autonomo e proprietario è alla base del pensiero illuminista e del moderno concetto di libertà individuale. Per i filosofi e i giuristi del Settecento e dell’Ottocento, la libertà si definiva in termini negativi, come diritto di escludere gli altri. Nobilitare l’idea di proprietà privata permise alla nascente borghesia europea di creare un baluardo giuridico alternativo contro gli antichi obblighi nei confronti della Chiesa e delle signorie feudali, le limitazioni imposte dalle corporazioni delle arti e dei mestieri, e le molte altre convenzioni legate al vecchio ordine. Comprensibilmente, una classe capitalista emergente considerava la proprietà privata come un simbolo di libertà personale. I diritti di proprietà, tutelati dalla legge, implicavano che nessun uomo potesse essere oppresso, aggredito e assoggettato alla volontà di un altro. Un maggiore accumulo di proprietà e il controllo sul loro uso assicuravano un’autonomia e una mobilità maggiori, ed esse, a loro volta, garantivano la libertà personale. Se si era in grado di tutelare la proprietà, tutti gli i diritti sarebbero stati garantiti: i diritti alla privacy, alla libertà dalla coercizione e, soprattutto, alla felicità…
L’intera realtà terrena fu sintetizzata in una sola formula: «Il mio contro il tuo>’. Con questa parola d’ordine gli europei si dedicarono a colonizzare lo spazio e il tempo. Nel nuovo futuro appena nato ogni individuo sarebbe diventato il Dio di se stesso, la cui divinità si fondava sull’accumulazione di proprietà e sull’espansione del proprio dominio esistenziale e dell’influenza acquisita su spazio e tempo. Più mio, meno tuo. Chi poteva, per talento o spregiudicatezza, acquisire più proprietà, poteva trasformarle in capitale e usare quel capitale per controllare non solo la natura, ma anche la vita di altre persone: era, insomma, un «capitalista».
La moderna economia di mercato e lo Stato-nazione, a loro volta, divennero il meccanismo istituzionale per accelerare la nuova riorganizzazione del mondo. Il mercato era l’arena imparziale in cui ogni capitalista si impegnava nella battaglia contro i propri simili, nel tentativo di conquistare lo spazio e accaparrarsi il tempo sotto forma di proprietà privata. Il neonato Stato-nazione aveva il ruolo di tutore della proprietà di ciascuno, stabilendo codici giuridici e meccanismi di protezione; ciò facendo, diventava il garante della libertà individuale.
Fare dei rapporti di proprietà privata parte integrante della natura umana si rivelò un’arma a doppio taglio. Garantire il diritto di ognuno al frutto del proprio lavoro, contro il privilegio dell’ordine feudale e, più tardi, dei regimi monarchici, alimentò il processo di differenziazione, individualizzazione e acquisizione della consapevolezza di sé. Ogni maschio bianco dotato di proprietà diventava sovrano del proprio dominio proprietario: un’isola in sé. Nella storia occidentale lo sviluppo della teoria del diritto naturale nel campo dei rapporti di proprietà privata è andato di pari passo con l’emergere dell’individuo dotato di autonomia.
Una maggiore e più profonda consapevolezza di sé contribuì a elevare l’idea di unicità e importanza della vita di ogni singolo essere umano nell’ambito del grande schema delle cose, promuovendo al contempo un più forte senso della solitudine esistenziale nel mondo. Questi cambiamenti psicologici rafforzarono la pulsione empatica e gli individui divennero più attenti all’essere dell’altro e alla sua lotta esistenziale per superare il proprio isolamento, stabilire un rapporto con gli altri esseri umani, trovare il significato della propria esistenza e avere successo.
Eppure, il legame quasi fanatico con la proprietà privata – al punto da attribuirle un posto primario nella definizione della natura umana – ebbe anche l’effetto opposto di stabilire una linea di confine fra «il mio e il tuo», separando gli uni dagli altri secondo modalità completamente nuove, per mezzo di nuove barriere sociali erette fra privilegiati e sfortunati. Porre i rapporti di proprietà privata al centro dell’organizzazione sociale contribuì all’appiattimento su un unico livello della dimensione umana, diffondendo l’idea che ogni uomo, se dotato di proprietà, è sovrano, ma stabilendo contemporaneamente il nuovo principio di esclusione – “il mio contro il tuo” – come base per la gestione delle relazioni economiche, politiche e sociali fra le persone. In questo modo, l’estensione empatica sì trovò a essere simultaneamente incentivata e repressa.
Ora, però, le motivazioni che hanno portato alla ribalta i rapporti di proprietà cominciano a indebolirsi a fronte dell’avvento di nuove tecnologie, che ancora una volta stanno alterando il nostro senso dello spazio e del tempo. La sempre più rapida possibilità di connessione del sistema nervoso centrale di ogni essere umano con quello di ogni altro essere umano sulla terra, attraverso Internet e le altre nuove tecnologie di comunicazione, ci sta lanciando in uno spazio globale e in un ambito temporale di simultaneità. Il risultato è che nel ventunesimo secolo lo scambio di proprietà nell’ambito dei mercati nazionali cederà progressivamente il passo alle relazioni di accesso in vaste reti globali.
La minore importanza attribuita al regime di proprietà privata ha un forte impatto potenziale sia sul futuro dei commerci globali sia sulla psicologia collettiva. Se l’attaccamento economico, psicologico e ideologico alla proprietà privata continuerà a indebolirsi, quale sarà il destino ultimo del mercato? Parimenti importante è il potenziale effetto di questo cambiamento sulla coscienza e sulla nostra concezione della natura umana.
L’economia di mercato è troppo lenta per trarre pieno vantaggio dalla velocità e dal potenziale produttivo delle rivoluzioni del software e delle comunicazioni. Il risultato è che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo sistema economico, diverso dal capitalismo di mercato quanto questo lo era dall’economia feudale che lo aveva preceduto.
E non si tratta semplicemente di trovare nuovi modelli organizzativi per aggiornare la gestione delle attività economiche in un’economia di mercato. E il meccanismo di scambio nel mercato in sé che sta diventando inadeguato.
I mercati sono modalità operative lineari, discrete e discontinue: compratori e venditori si incontrano per un istante per scambiare beni e servizi, poi tornano a separarsi. Il tempo che intercorre fra il completamento di una transazione e l’avvio della successiva rappresenta una perdita di produttività e un costo aggiuntivo dell’attività economica che, alla fine, renderà il mercato inevitabilmente obsoleto.
Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, al contrario, sono cibernetiche, non lineari. Consentono un’attività continua per prolungati periodi di tempo. Questo significa che il meccanismo di avvio e conclusione dello scambio di mercato è rimpiazzato dall’idea di stabilire una relazione commerciale continua nel tempo fra le parti.
pp. 497-498
Il superamento del diritto di proprietà apre la via ad una società collaborativa e non più aspramente competitiva:
Il cambiamento nel modo di pensare il rapporto con la proprietà sta costringendo anche a nuova valutazione della condizione umana, esattamente come accadde nella prima era moderna. La “grande trasformazione’” dagli obblighi di servitù nell’ambito della proprietà collettiva feudale allo scambio di titoli di proprietà nell’economia di mercato ha segnato uno spartiacque nel modo di pensare alla natura e agli scopi dell’esistenza umana. Analogamente, oggi la transizione dallo scambio di titoli di proprietà ai rapporti di accesso all’interno di reti sta nuovamente cambiando ciò che diamo per scontato sulla natura umana.
Sfortunatamente, ci sono state ben poche discussioni, sia in ambito accademico sia nei circoli della politica, su come riformulare le nostre teorie sui rapporti di proprietà per allinearle alla realtà delle attività economiche in rete in un’economia globalizzata distribuita.
Siamo così abituati a pensare alla proprietà come al diritto di escludere gli altri dall’uso o dal beneficio di qualcosa da aver perso di vista il fatto che in epoche precedenti la proprietà era anche definita come il diritto a non essere esclusi dal godimento di qualcosa. Fu Crawford Macpherson, un tempo docente alla University of Toronto, a riportare all’attenzione la vecchia definizione di proprietà come diritto di accesso a proprietà collettive: il diritto di navigare le vie d’acqua, di percorrere le strade e i sentieri, di accedere alla pubblica piazza.
Questa doppia visione del concetto di proprietà esiste ancora, ma il diritto di pubblico accesso e di inclusione è stato progressivamente messo da parte e sminuito dal diritto di proprietà privata e di esclusione, nell’Ottocento e nel Novecento, quando l’economia di mercato ha cominciato a dominare sempre più anche l’ambito sociale.
Attualmente, diceva Macpherson, almeno nei paesi avanzati, l’interesse si sta rapidamente volgendo alla più espansiva e profonda questione del garantire una «qualità della vita». Macpherson affermava che la proprietà deve essere ridefinita per includere il «diritto a un rendimento immateriale, il rendimento che deriva dal godimento di una migliore qualità della vita». E suggeriva che «tale rendimento deve essere calcolato in termini di diritto di partecipazione a relazioni sociali soddisfacenti».
In un’economia collaborativa il diritto di inclusione diventa più importante, nell’istituzione di relazioni sociali ed economiche, del diritto di esclusione. Come abbiamo visto, i diritti di proprietà tradizionali, in forma sia reale sia intellettuale, possono agire da freno sulle opportunità sociali ed economiche aperte dalle nuove tecnologie di comunicazione e dalle forme distribuite di energia che costituiscono l’infrastruttura operativa dell’economia della Terza rivoluzione industriale.
In una società collaborativa i valori immateriali, soprattutto il perseguimento dell’autorealizzazione e della trasformazione personale, assumono una maggiore importanza. Il diritto di non essere escluso da «una vita piena» – il diritto di accesso – diventa il valore di proprietà più importante per le persone. Nella nuova era la proprietà, come affermava Macpherson, «deve diventare il diritto di partecipare a un sistema di relazioni di potere che permette all’individuo di vivere una vita pienamente umana».
Nel ventunesimo secolo la lotta individuale e collettiva per assicurarsi i «diritti di accesso» sarà probabilmente altrettanto aspra, e altrettanto importante, della lotta per assicurarsi il diritto alla proprietà che ha connotato Ottocento e Novecento.
pp. 502-503
Sfortunatamente, ci sono state ben poche discussioni, sia in ambito accademico sia nei circoli della politica, su come riformulare le nostre teorie sui rapporti di proprietà per allinearle alla realtà delle attività economiche in rete in un’economia globalizzata distribuita.
Siamo così abituati a pensare alla proprietà come al diritto di escludere gli altri dall’uso o dal beneficio di qualcosa da aver perso di vista il fatto che in epoche precedenti la proprietà era anche definita come il diritto a non essere esclusi dal godimento di qualcosa. Fu Crawford Macpherson, un tempo docente alla University of Toronto, a riportare all’attenzione la vecchia definizione di proprietà come diritto di accesso a proprietà collettive: il diritto di navigare le vie d’acqua, di percorrere le strade e i sentieri, di accedere alla pubblica piazza.
Questa doppia visione del concetto di proprietà esiste ancora, ma il diritto di pubblico accesso e di inclusione è stato progressivamente messo da parte e sminuito dal diritto di proprietà privata e di esclusione, nell’Ottocento e nel Novecento, quando l’economia di mercato ha cominciato a dominare sempre più anche l’ambito sociale.
Attualmente, diceva Macpherson, almeno nei paesi avanzati, l’interesse si sta rapidamente volgendo alla più espansiva e profonda questione del garantire una «qualità della vita». Macpherson affermava che la proprietà deve essere ridefinita per includere il «diritto a un rendimento immateriale, il rendimento che deriva dal godimento di una migliore qualità della vita». E suggeriva che «tale rendimento deve essere calcolato in termini di diritto di partecipazione a relazioni sociali soddisfacenti».
In un’economia collaborativa il diritto di inclusione diventa più importante, nell’istituzione di relazioni sociali ed economiche, del diritto di esclusione. Come abbiamo visto, i diritti di proprietà tradizionali, in forma sia reale sia intellettuale, possono agire da freno sulle opportunità sociali ed economiche aperte dalle nuove tecnologie di comunicazione e dalle forme distribuite di energia che costituiscono l’infrastruttura operativa dell’economia della Terza rivoluzione industriale.
In una società collaborativa i valori immateriali, soprattutto il perseguimento dell’autorealizzazione e della trasformazione personale, assumono una maggiore importanza. Il diritto di non essere escluso da «una vita piena» – il diritto di accesso – diventa il valore di proprietà più importante per le persone. Nella nuova era la proprietà, come affermava Macpherson, «deve diventare il diritto di partecipare a un sistema di relazioni di potere che permette all’individuo di vivere una vita pienamente umana».
Nel ventunesimo secolo la lotta individuale e collettiva per assicurarsi i «diritti di accesso» sarà probabilmente altrettanto aspra, e altrettanto importante, della lotta per assicurarsi il diritto alla proprietà che ha connotato Ottocento e Novecento.
pp. 502-503
La lotta in corso per i diritti di accesso definisce la qualità della vita come il valore più importante:
Il nuovo spirito empatico si manifesta con maggiore evidenza nel cambiamento delle aspirazioni personali. Per molto tempo il sogno americano, con l’importanza da esso attribuita alle opportunità individuali e al successo materiale, è stato il parametro di riferimento a cui gran parte del mondo guardava per trarre ispirazione e guida. Nel ventunesimo secolo il nascente sogno europeo della qualità della vita sta cominciando a fare proseliti nella generazione di Internet. Sebbene per molti sia ancora un punto di riferimento, il sogno americano ha perso parte del proprio fascino presso i giovani, che stanno progressivamente rivolgendo la loro attenzione al problema del cambiamento climatico, al risanamento della biosfera, alla protezione delle specie viventi, alla sicurezza delle comunità, alla possibilità di garantire l’accesso universale al sistema sanitario, a una vita meno materialistica e più densa di esperienze, e alla creazione di comunità ricche di diversità culturale. La qualità della vita è un sogno comune che può essere realizzato solo collaborativamente. Per quanto costituisca ancora una visione minoritaria, che caratterizza le giovani generazioni della classe media, il sogno della qualità della vita sta conquistando popolarità fra i giovani di tutto il mondo…
Il vecchio sogno americano e il più recente sogno europeo riflettono due concezioni molto diverse della natura umana. II primo privilegia l’autonomia dell’individuo e le opportunità a sua disposizione e mette l’accento sull’interesse materiale del singolo come mezzo per garantire sia la libertà personale sia la felicità. Il secondo non disdegna l’iniziativa personale e le opportunità economiche, ma tende ad attribuire altrettanta importanza al miglioramento della qualità della vita nell’intera società. Tale sogno è il riconoscimento del fatto che non si prospera da soli, in un isolamento autonomo, bensì in profondo rapporto con gli altri in uno spazio sociale condiviso. La qualità della vita mette l’accento sul bene comune come importante strumento per garantire la felicità a ogni membro della comunità.
pp. 506-507
Il vecchio sogno americano e il più recente sogno europeo riflettono due concezioni molto diverse della natura umana. II primo privilegia l’autonomia dell’individuo e le opportunità a sua disposizione e mette l’accento sull’interesse materiale del singolo come mezzo per garantire sia la libertà personale sia la felicità. Il secondo non disdegna l’iniziativa personale e le opportunità economiche, ma tende ad attribuire altrettanta importanza al miglioramento della qualità della vita nell’intera società. Tale sogno è il riconoscimento del fatto che non si prospera da soli, in un isolamento autonomo, bensì in profondo rapporto con gli altri in uno spazio sociale condiviso. La qualità della vita mette l’accento sul bene comune come importante strumento per garantire la felicità a ogni membro della comunità.
pp. 506-507
Questo cambiamento implica un’ulteriore progresso della coscienza, che da psicologica diventa drammaturgica:
Fra i giovani del nuovo millennio, la prima generazione a essere cresciuta con Internet e a vivere nei grandi spazi sociali e collaborativi del World Wide Web, sta cominciando a diffondersi una nuova coscienza drammaturgica. Essa caratterizza il regime di comunicazione ed energia distribuite della Terza rivoluzione industriale, nello stesso modo in cui la coscienza psicologica ha connotato la Seconda rivoluzione industriale, e la coscienza ideologica la Prima.
I primi segnali di questa nuova coscienza drammaturgica indicano un progressivo avvicinamento dei giovani al cosmopolitismo globale e a una sensibilità empatica universale. Il problema è che le tecnologie di comunicazione che stanno aprendo la strada a una coscienza globale hanno un lato oscuro che può deviare il cammino e indirizzare la generazione di Internet in un vicolo cieco di sfrenato narcisismo, inf into voyeurismo e soverchiante noia.
La coscienza drammaturgica deriva direttamente dalla coscienza psicologica e costituisce un’universalizzazione della sperimentazione di ruolo cominciata con la teoria e la prassi dello psicodramma elaborate da Moreno, che poi trovò espressione nei gruppi T, nei gruppi di incontro e nei gruppi di autoaiuto nella seconda metà del Novecento. La generazione dei baby-boomers sperimentò l’interpretazione del ruolo come tecnica terapeutica, ma con la maturità integrò tale esperienza nella prassi genitoriale, allevando la prima generazione della storia a crescere con una mentalità teatrale. L’interpretazione del ruolo non è più una tecnica terapeutica ma, piuttosto, una forma di coscienza per la «generazione X» e la «generazione del Millennio».
Il cambiamento di coscienza riflette il cambiamento verificatosi nel sistema delle comunicazioni con il passaggio dall’elettricità centralizzata di prima generazione all’elettricità distribuita di seconda generazione. Il mondo può anche essere un palcoscenico, ma nel ventesimo secolo la maggior parte delle persone sedeva in platea, mentre nel ventunesimo sono tutti in scena, sotto le luci della ribalta, grazie a YouTube, MySpace, Facebook, alla blogosfera, ecc.
L’avvento del cinema, della radio e della televisione ha creato il primo pubblico di massa della storia. Milioni di persone si sono affollate in gigantesche sale cinematografiche, o si sono raccolte a casa intorno alla radio e, più tardi, davanti al televisore, per ascoltare e guardare poche storie molto stilizzate e accuratamente coreografate che sondavano le profondità dei sentimenti e delle emozioni umane, dalla tragedia alla farsa. I canali di comunicazione erano centralizzati e i racconti fluivano dall’alto verso il basso: milioni di persone costituivano un pubblico passivo che non aveva modo di interagire direttamente con chi stava sullo schermo o in studio.
Eppure il pubblico non era completamente passivo. Certamente non poteva rispondere agli attori o influenzarne le azioni – anche se, nel film parodia di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo, gli attori uscivano dallo schermo ed entravano in platea, mentre alcuni spettatori lasciavano le poltrone per entrare nello schermo e interagire con gli attori – ma era in grado di dare vita a una qualche forma di rapporto con loro, attraverso il coinvolgimento in relazioni parasociali…
Oggi le relazioni parasociali sono diventate parte della vita di ognuno di noi: spesso parliamo dei nostri attori e conduttori preferiti, e di altri personaggi pubblici, come se fossero amici intimi le cui vite si intrecciano alla nostra. Anche se, in un certo senso, questo dovrebbe essere considerato un comportamento patologico, siamo giunti ad accettarlo come quasi normale. Il punto importante da sottolineare è che, ancora più del romanzo settecentesco e ottocentesco, il cinema, la radio e la televisione permettono a milioni di persone di sospendere l’incredulità, rivestire nuovi ruoli e sperimentare nuove personalità. I giovani, in particolare, si appropriano dell’immagine dei personaggi mediatici preferiti – la pettinatura, l’abbigliamento, il vocabolario e perfino il modo di fare – arrivando addirittura a imitarli e ad assumere atteggiamenti che, secondo loro, gli eroi e le eroine dello schermo troverebbero congeniali. Interpretare tali ruoli e sviluppare una pretesa intimità con un personaggio mediatico consente allo spettatore di esercitarsi ad abbattere le barriere sociali, conquistando un nuovo senso di mobilità sociale. Ancor più importante, le relazioni parasociali permettono a milioni di persone di venire in contatto con le storie di personaggi eterogenei in una varietà di ambienti unici, anche se di natura fittizia. Le relazioni parasociali, in effetti, sono una palestra per esplorare una gamma di risposte emotive alla sofferenza o alle condizioni altrui e per allargare il proprio repertorio empatico.
La rivoluzione di Internet ha trasformato le relazioni parasociali in relazioni peer-to-peer. Il passaggio da connessioni centralizzate, dall’alto al basso e da uno a molti, a connessioni piatte, open source e da molti a molti ha permesso a una nuova generazione di essere attrice della propria sceneggiatura e di condividere il palcoscenico globale con 2 miliardi di altri «attori», ciascuno dei quali recita con e per gli altri. Oggi il mondo è davvero un palcoscenico, e tutti sono attori. Ma la famosa frase di Andy Warhol, secondo cui a ognuno sarebbero toccati quindici minuti di celebrità, è stata necessariamente corretta: oggi milioni di persone trascorrono tutta la vita recitando e rappresentandosi in rete; centinaia di milioni di giovani equipaggiati di webcam, Skype, telefoni cellulari con videocamera, videoregistratori e altri apparecchi del genere recitano la propria vita a beneficio degli altri, sperimentando nuovi ruoli e personaggi nel più grande e continuo spettacolo della storia.
I giovani di oggi si trovano invariabilmente davanti o dentro uno schermo, passando gran parte della loro giornata in mondi virtuali dove mettono in scena diverse vicende contemporaneamente, dirigendo la propria rappresentazione e coreografando quasi tutti gli aspetti della propria vita, nella speranza che milioni di altri si colleghino allo spettacolo e lo seguano. L’espressione «intimità di massa» non può più essere considerata un ossimoro, almeno per la generazione del Millennio…
La coscienza drammaturgica è quasi una necessità in una civiltà complessa, interconnessa e ad alta velocità. Se la vita è la recita di infiniti copioni personali e sociali, quanto più complesse sono le reti economiche e sociali in cui l’individuo è intrappolato, tanto più vari sono i ruoli che deve recitare.
In una prospettiva drammaturgica del comportamento umano il sé non è più proprietà privata del singolo, come affermava John Locke, ma diventa invece, come dice Goffman, «il senso dato a una persona dalle persone con le quali desidera condividerlo». Il sé, dunque, non è un’entità, come affermano Dennis Brissett e Charles Edgley nel loro libro Life as Theatre, ma piuttosto «una dimensione immaginaria, costruita, consensualmente convalidata» che scaturisce dall’interazione e dalla comunicazione fra le persone. Se così è, allora l’essere di ciascuno nel mondo dipende dalla rappresentazione di un copione su un palcoscenico insieme ad altri attori, ciascuno dei quali convalida una parte del sé dell’altro…
La prospettiva drammaturgica colloca la comunicazione al centro delle attività umane, ridefinisce il sé in termini relazionali, rende l’esperienza stessa una faccenda teatrale e trasforma ciò che si possiede nei simboli che aiutano le persone a recitare i molti ruoli che acquisiscono nell’entrare e uscire da diverse reti di esperienze vissute, ciascuno dei quali rappresenta un diverso aspetto della storia della loro vita. La prospettiva drammat-urgica è, in ultima analisi, una vivida descrizione dell’atteggiamento intellettuale che accompagna una generazione che cambia continuamente ruolo e identità, copione e palcoscenico, oscillando fra reti sociali e commerciali, nello spazio reale come in quello virtuale.
pp. 515-521
I primi segnali di questa nuova coscienza drammaturgica indicano un progressivo avvicinamento dei giovani al cosmopolitismo globale e a una sensibilità empatica universale. Il problema è che le tecnologie di comunicazione che stanno aprendo la strada a una coscienza globale hanno un lato oscuro che può deviare il cammino e indirizzare la generazione di Internet in un vicolo cieco di sfrenato narcisismo, inf into voyeurismo e soverchiante noia.
La coscienza drammaturgica deriva direttamente dalla coscienza psicologica e costituisce un’universalizzazione della sperimentazione di ruolo cominciata con la teoria e la prassi dello psicodramma elaborate da Moreno, che poi trovò espressione nei gruppi T, nei gruppi di incontro e nei gruppi di autoaiuto nella seconda metà del Novecento. La generazione dei baby-boomers sperimentò l’interpretazione del ruolo come tecnica terapeutica, ma con la maturità integrò tale esperienza nella prassi genitoriale, allevando la prima generazione della storia a crescere con una mentalità teatrale. L’interpretazione del ruolo non è più una tecnica terapeutica ma, piuttosto, una forma di coscienza per la «generazione X» e la «generazione del Millennio».
Il cambiamento di coscienza riflette il cambiamento verificatosi nel sistema delle comunicazioni con il passaggio dall’elettricità centralizzata di prima generazione all’elettricità distribuita di seconda generazione. Il mondo può anche essere un palcoscenico, ma nel ventesimo secolo la maggior parte delle persone sedeva in platea, mentre nel ventunesimo sono tutti in scena, sotto le luci della ribalta, grazie a YouTube, MySpace, Facebook, alla blogosfera, ecc.
L’avvento del cinema, della radio e della televisione ha creato il primo pubblico di massa della storia. Milioni di persone si sono affollate in gigantesche sale cinematografiche, o si sono raccolte a casa intorno alla radio e, più tardi, davanti al televisore, per ascoltare e guardare poche storie molto stilizzate e accuratamente coreografate che sondavano le profondità dei sentimenti e delle emozioni umane, dalla tragedia alla farsa. I canali di comunicazione erano centralizzati e i racconti fluivano dall’alto verso il basso: milioni di persone costituivano un pubblico passivo che non aveva modo di interagire direttamente con chi stava sullo schermo o in studio.
Eppure il pubblico non era completamente passivo. Certamente non poteva rispondere agli attori o influenzarne le azioni – anche se, nel film parodia di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo, gli attori uscivano dallo schermo ed entravano in platea, mentre alcuni spettatori lasciavano le poltrone per entrare nello schermo e interagire con gli attori – ma era in grado di dare vita a una qualche forma di rapporto con loro, attraverso il coinvolgimento in relazioni parasociali…
Oggi le relazioni parasociali sono diventate parte della vita di ognuno di noi: spesso parliamo dei nostri attori e conduttori preferiti, e di altri personaggi pubblici, come se fossero amici intimi le cui vite si intrecciano alla nostra. Anche se, in un certo senso, questo dovrebbe essere considerato un comportamento patologico, siamo giunti ad accettarlo come quasi normale. Il punto importante da sottolineare è che, ancora più del romanzo settecentesco e ottocentesco, il cinema, la radio e la televisione permettono a milioni di persone di sospendere l’incredulità, rivestire nuovi ruoli e sperimentare nuove personalità. I giovani, in particolare, si appropriano dell’immagine dei personaggi mediatici preferiti – la pettinatura, l’abbigliamento, il vocabolario e perfino il modo di fare – arrivando addirittura a imitarli e ad assumere atteggiamenti che, secondo loro, gli eroi e le eroine dello schermo troverebbero congeniali. Interpretare tali ruoli e sviluppare una pretesa intimità con un personaggio mediatico consente allo spettatore di esercitarsi ad abbattere le barriere sociali, conquistando un nuovo senso di mobilità sociale. Ancor più importante, le relazioni parasociali permettono a milioni di persone di venire in contatto con le storie di personaggi eterogenei in una varietà di ambienti unici, anche se di natura fittizia. Le relazioni parasociali, in effetti, sono una palestra per esplorare una gamma di risposte emotive alla sofferenza o alle condizioni altrui e per allargare il proprio repertorio empatico.
La rivoluzione di Internet ha trasformato le relazioni parasociali in relazioni peer-to-peer. Il passaggio da connessioni centralizzate, dall’alto al basso e da uno a molti, a connessioni piatte, open source e da molti a molti ha permesso a una nuova generazione di essere attrice della propria sceneggiatura e di condividere il palcoscenico globale con 2 miliardi di altri «attori», ciascuno dei quali recita con e per gli altri. Oggi il mondo è davvero un palcoscenico, e tutti sono attori. Ma la famosa frase di Andy Warhol, secondo cui a ognuno sarebbero toccati quindici minuti di celebrità, è stata necessariamente corretta: oggi milioni di persone trascorrono tutta la vita recitando e rappresentandosi in rete; centinaia di milioni di giovani equipaggiati di webcam, Skype, telefoni cellulari con videocamera, videoregistratori e altri apparecchi del genere recitano la propria vita a beneficio degli altri, sperimentando nuovi ruoli e personaggi nel più grande e continuo spettacolo della storia.
I giovani di oggi si trovano invariabilmente davanti o dentro uno schermo, passando gran parte della loro giornata in mondi virtuali dove mettono in scena diverse vicende contemporaneamente, dirigendo la propria rappresentazione e coreografando quasi tutti gli aspetti della propria vita, nella speranza che milioni di altri si colleghino allo spettacolo e lo seguano. L’espressione «intimità di massa» non può più essere considerata un ossimoro, almeno per la generazione del Millennio…
La coscienza drammaturgica è quasi una necessità in una civiltà complessa, interconnessa e ad alta velocità. Se la vita è la recita di infiniti copioni personali e sociali, quanto più complesse sono le reti economiche e sociali in cui l’individuo è intrappolato, tanto più vari sono i ruoli che deve recitare.
In una prospettiva drammaturgica del comportamento umano il sé non è più proprietà privata del singolo, come affermava John Locke, ma diventa invece, come dice Goffman, «il senso dato a una persona dalle persone con le quali desidera condividerlo». Il sé, dunque, non è un’entità, come affermano Dennis Brissett e Charles Edgley nel loro libro Life as Theatre, ma piuttosto «una dimensione immaginaria, costruita, consensualmente convalidata» che scaturisce dall’interazione e dalla comunicazione fra le persone. Se così è, allora l’essere di ciascuno nel mondo dipende dalla rappresentazione di un copione su un palcoscenico insieme ad altri attori, ciascuno dei quali convalida una parte del sé dell’altro…
La prospettiva drammaturgica colloca la comunicazione al centro delle attività umane, ridefinisce il sé in termini relazionali, rende l’esperienza stessa una faccenda teatrale e trasforma ciò che si possiede nei simboli che aiutano le persone a recitare i molti ruoli che acquisiscono nell’entrare e uscire da diverse reti di esperienze vissute, ciascuno dei quali rappresenta un diverso aspetto della storia della loro vita. La prospettiva drammat-urgica è, in ultima analisi, una vivida descrizione dell’atteggiamento intellettuale che accompagna una generazione che cambia continuamente ruolo e identità, copione e palcoscenico, oscillando fra reti sociali e commerciali, nello spazio reale come in quello virtuale.
pp. 515-521
In quale misura la coscienza drammaturgica, però, è compatibile con l’autenticità? Rifkin risponde:
La questione dell’autenticità viene sollevata ogniqualvolta si ricorre alla teoria drammaturgica del comportamento conscio per descrivere le azioni delle persone in situazioni sociali. Molto semplicemente, c’è l’inquietante sensazione che il comportamento umano, se è effettivamente drammaturgico, non sia molto onesto. Dopotutto, in un certo senso, un teatro senza inganno è impossibile. D’altra parte, assumere l’identità di vari personaggi, di diverse maschere – ricordiamo che il termine latino per «maschera» era persona – in diverse situazioni può costituire un’espressione autentica di un aspetto dell’identità di un individuo. Cioè, se ognuno di noi è, in effetti, la composizione di molteplici personalità, la questione è se siamo autentici rispetto allo specifico ruolo che recitiamo in uno specifico momento.
Ancora una volta, il teatro offre un modo per distinguere fra puro inganno, da una parte, e immaginazione attiva, dall’altra. Mentre l’inganno è universalmente disprezzato, l’immaginazione attiva è lodata come essenziale alla creazione del senso del sé e del mondo e alla formazione di maturi legami empatici. Il teorico del teatro Konstantin Stanislavskij parla di recitazione superficiale e recitazione profonda: la prima si fonda sull’arte dell’inganno e la seconda sull’arte dell’immaginazione; la recitazione superficiale riguarda la forma e non la sostanza, mentre la recitazione profonda scaturisce dal profondo dell’inconscio dell’attore.
Con la recitazione superficiale, l’attore carica i gesti, modula la voce ed esagera i movimenti per «ritrarre» un carattere, ma non mette nulla della propria vita nella parte. «E solo tecnica» dice Stanislavskij della recitazione superficiale.
[La sua] forma è più interessante del contenuto. Agisce più sull’udito e la vista che sullo spirito, e perciò meraviglia più che non commuova … Non tutto è alla sua portata, ma solo quello che deve colpire perché inaspettato e teatrale, o che esige un pathos pittoresco. Per esprimere passioni profonde le possibilità di quest’arte sono troppo appariscenti e superficiali. Ma i sentimenti umani più profondi e delicati non si possono rendere con questa tecnica. Hanno bisogno della cooperazione della natura, nell’atto di essere rivissuti e incarnati.
In altre parole, con la recitazione superficiale l’attore recita come se avesse sentimenti, ma non prova i sentimenti che sta mettendo in scena. Invece, la vera recitazione profonda, che Stanislavskij definisce «recitazione metodica», si ha quando l’attore attinge alla propria memoria subconscia e semiconscia alla ricerca di esperienze emotive passate analoghe che gli permettano di vivere lo stato emotivo del personaggio che sta mettendo in scena.
Stanislavskij avvertiva gli attori di non cercare semplicemente di evocare nuovamente il sentimento, affermando che non è quello il modo in cui si formano i sentimenti nella vita vera. Scrive:
Sul palcoscenico non può essere, in nessun caso, un’azione diretta a provocare immediatamente un sentimento in quanto tale… Non cercate mai di essere gelosi, innamorati o sofferenti in sé e per sé.
Stanislavskij sottolinea che tutti i sentimenti hanno una storia: sono il risultato di esperienze materiali passate. Perciò, la recitazione profonda richiede all’attore di tornare indietro con il proprio subconscio e ricordare come ci si è sentiti e le emozioni che si sono provate in situazioni analoghe.
L’obiettivo della preparazione degli attori è superare la soglia del subconscio… Allora era «sentimento verosimile», ora è «vera passione».
Ricordare emotivamente le esperienze è fondamentale per farle riemergere in un momento futuro. Stanislavskij chiede ai suoi attori di allenarsi a pensare ai propri sentimenti come oggetti, oltre che come esperienze, con l’idea di poterle richiamare e utilizzare successivamente, in futuro.
Il ricordo di un sentimento passato, però, acquisisce valore per l’attore solo se questi riesce a sfruttarlo per mezzo della propria immaginazione e a recitare come se quel sentimento stesse manifestandosi di nuovo mentre egli impersona il suo ruolo. L’attore deve sentire il ruolo che sta recitando come se lui stesso fosse il personaggio.
Con la recitazione profonda l’attore si trasforma per un breve periodo e diventa ciò che sta rappresentando. Ma quando la performance finisce, anche la parte finisce. Nella vita vera tutti siamo impegnati in una recitazione profonda, ma secondo una modalità operativa diversa: influenzando la realtà del nostro rapporto con gli altri. Nella vita reale la recitazione profonda ha conseguenze reali…
La recitazione profonda, dunque, può preparare le persone a estendere i legami empatici e, con questi, ad approfondire il senso della realtà: siamo ben lontani dalla recitazione superficiale, che riesce a creare simulacri nella forma e inganni nella sostanza.
pp. 523-528
Ancora una volta, il teatro offre un modo per distinguere fra puro inganno, da una parte, e immaginazione attiva, dall’altra. Mentre l’inganno è universalmente disprezzato, l’immaginazione attiva è lodata come essenziale alla creazione del senso del sé e del mondo e alla formazione di maturi legami empatici. Il teorico del teatro Konstantin Stanislavskij parla di recitazione superficiale e recitazione profonda: la prima si fonda sull’arte dell’inganno e la seconda sull’arte dell’immaginazione; la recitazione superficiale riguarda la forma e non la sostanza, mentre la recitazione profonda scaturisce dal profondo dell’inconscio dell’attore.
Con la recitazione superficiale, l’attore carica i gesti, modula la voce ed esagera i movimenti per «ritrarre» un carattere, ma non mette nulla della propria vita nella parte. «E solo tecnica» dice Stanislavskij della recitazione superficiale.
[La sua] forma è più interessante del contenuto. Agisce più sull’udito e la vista che sullo spirito, e perciò meraviglia più che non commuova … Non tutto è alla sua portata, ma solo quello che deve colpire perché inaspettato e teatrale, o che esige un pathos pittoresco. Per esprimere passioni profonde le possibilità di quest’arte sono troppo appariscenti e superficiali. Ma i sentimenti umani più profondi e delicati non si possono rendere con questa tecnica. Hanno bisogno della cooperazione della natura, nell’atto di essere rivissuti e incarnati.
In altre parole, con la recitazione superficiale l’attore recita come se avesse sentimenti, ma non prova i sentimenti che sta mettendo in scena. Invece, la vera recitazione profonda, che Stanislavskij definisce «recitazione metodica», si ha quando l’attore attinge alla propria memoria subconscia e semiconscia alla ricerca di esperienze emotive passate analoghe che gli permettano di vivere lo stato emotivo del personaggio che sta mettendo in scena.
Stanislavskij avvertiva gli attori di non cercare semplicemente di evocare nuovamente il sentimento, affermando che non è quello il modo in cui si formano i sentimenti nella vita vera. Scrive:
Sul palcoscenico non può essere, in nessun caso, un’azione diretta a provocare immediatamente un sentimento in quanto tale… Non cercate mai di essere gelosi, innamorati o sofferenti in sé e per sé.
Stanislavskij sottolinea che tutti i sentimenti hanno una storia: sono il risultato di esperienze materiali passate. Perciò, la recitazione profonda richiede all’attore di tornare indietro con il proprio subconscio e ricordare come ci si è sentiti e le emozioni che si sono provate in situazioni analoghe.
L’obiettivo della preparazione degli attori è superare la soglia del subconscio… Allora era «sentimento verosimile», ora è «vera passione».
Ricordare emotivamente le esperienze è fondamentale per farle riemergere in un momento futuro. Stanislavskij chiede ai suoi attori di allenarsi a pensare ai propri sentimenti come oggetti, oltre che come esperienze, con l’idea di poterle richiamare e utilizzare successivamente, in futuro.
Il ricordo di un sentimento passato, però, acquisisce valore per l’attore solo se questi riesce a sfruttarlo per mezzo della propria immaginazione e a recitare come se quel sentimento stesse manifestandosi di nuovo mentre egli impersona il suo ruolo. L’attore deve sentire il ruolo che sta recitando come se lui stesso fosse il personaggio.
Con la recitazione profonda l’attore si trasforma per un breve periodo e diventa ciò che sta rappresentando. Ma quando la performance finisce, anche la parte finisce. Nella vita vera tutti siamo impegnati in una recitazione profonda, ma secondo una modalità operativa diversa: influenzando la realtà del nostro rapporto con gli altri. Nella vita reale la recitazione profonda ha conseguenze reali…
La recitazione profonda, dunque, può preparare le persone a estendere i legami empatici e, con questi, ad approfondire il senso della realtà: siamo ben lontani dalla recitazione superficiale, che riesce a creare simulacri nella forma e inganni nella sostanza.
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Come ogni nuovo fenomeno psicosociologico, la coscienza drammaturgica è aperta a sviluppi poco prevedibili:
Che cosa ci rivela la coscienza drammaturgica sulla psicologia della generazione del Millennio? Molti psicologi – forse la maggior parte – concordano che in un mondo variegato, complesso e interconnesso, fatto di novità continue e contesti in rapido cambiamento, con i bambini che crescono tanto nel ciberspazio quanto nel mondo reale, e in una temporalità sia lineare sia parallela, l’interpretazione di ruoli molteplici e le identità multiple stanno diventando la norma. Sono però in disaccordo sull’eventualità che la coscienza drammaturgica rappresenti un progresso della coscienza, o preluda alla sua disintegrazione.
Kenneth J. Gergen riconosce che in un mondo in via di globalizzazione, connesso alla velocità della luce, «siamo coinvolti in un gran numero di relazioni, in una gamma di forme e con un’intensità molto maggiori che in passato». Siamo immersi nelle relazioni, alcune virtuali, altre reali. Se la privacy era un valore per le generazioni borghesi che definivano la libertà in termini di autonomia ed esclusività, l’accesso è il valore cardine della generazione del Millennio, che definisce la libertà in termini di profondità e portata delle relazioni che si intrattengono. L’esclusività è diventata meno importante dell’inclusività e l’ethos della competizione sta cominciando a essere messo in discussione – per quanto timidamente dall’ethos della collaborazione.
Nell’era della coscienza drammaturgica, in cui l’identità stessa del singolo è relazionale ed esiste solo nella misura in cui è integrata in un complesso di relazioni, essere privati dell’accesso significa essere isolati e cessare di esistere. Il tempo che passiamo in solitudine – ben distinto dall’essere soli – continua a restringersi e sta ormai avvicinandosi allo zero in un mondo interconnesso ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. In una società affamata di tempo, ogni nanosecondo libero diventa un’occasione per creare l’ennesima connessione.
Viviamo in un mondo in cui ottenere e conservare l’attenzione altrui è fondamentale e relazioni di tutti i tipi diventano centrali nella nostra esistenza. Il detto di Cartesio, «Penso, dunque sono», e quello degli psicologi umanisti, «Partecipo, dunque sono», sono stati sostituiti dal nuovo adagio: «Sono connesso, dunque esisto».
Il vecchio concetto di «mio contro tuo», che promuoveva il senso di un «sé unidimensionale» prevedibile, sta cedendo il passo a una nuova idea di inclusività e a un «sé multidimensionale». Gergen osserva:
Il senso di sé relativamente coerente e unitario implicito in una cultura tradizionale cede il posto a potenziali molteplici e in reciproca competizione. Emerge una condizione multifrenica in cui si naviga in correnti dell’essere in continuo cambiamento, concatenate e litigiose.
Come artisti dell’improvvisazione immersi in contesti mutevoli e in storie che cambiano rapidamente, ciascuna delle quali reclama la nostra attenzione, siamo spinti a passare a nuovi ruoli e a muoverci avanti e indietro fra diverse scene e diversi copioni, tanto rapidamente da rischiare di perderci lentamente nella labirintica rete di connessioni ed esperienze dinamiche e di breve durata in cui siamo avviluppati. Gergen ci avverte:
Questa frammentazione delle concezioni di sé corrisponde a una molteplicità di relazioni incoerenti e disconnesse. Tali relazioni ci spingono in molteplici direzioni, invitandoci a recitare una varietà di ruoli tale che l’idea stessa di un «sé autentico» con caratteristiche conoscibili scompare alla vista. Un sé completamente saturo diventa un non-sé.
Gergen teme che nel nuovo mondo che si sta profilando il sé retroceda completamente a uno stadio di relatività … Si cessa di credere a un sé indipendente dalle relazioni in cui è integrato mettendo le relazioni in quella posizione centrale occupata dal sé negli ultimi secoli della storia occidentale.
La maggior parte dei pensatori postmoderni saluta con entusiasmo il nuovo senso del sé relazionale, ipotizzando che, nel ventunesimo secolo, abbattendo le barriere del «mio contro tuo» si possa aprire la possibilità di un approccio più tollerante e multiculturale alla socializzazione. Jean Baudrillard, per esempio, vede svilupparsi una società globalizzata in cui «il nostro spazio privato cessa di essere il palcoscenico dove si recita il dramma del soggetto incompatibile con i suoi oggetti». Non esistiamo più come soggetto, afferma Baudrillard, ma solo come «terminale di reti multiple». Robert J. Lifton ha un’altra posizione rispetto al cambiamento della coscienza: ritiene che la coscienza drammaturgica – avendo più «maschere» – sia un meccanismo di adattamento, un modo della psiche per adeguarsi alle richieste sempre più pressanti che le vengono rivolte nell’emergente società globale iperreale. Lifton afferma che recitare ruoli e interpretare molteplici personaggi, anziché condurre a una scomparsa del sé, porta a uno stadio più plastico e maturo della coscienza, nel quale l’individuo è in grado di convivere con priorità ambigue, complesse e spesso conflittuali. Essere in grado di vivere e sperimentare tutte le possibili realtà potenziali, a volte addirittura contemporaneamente, richiede, secondo Lifton, una coscienza proteiforme.
Gergen sembra condividere l’analisi di Lifton, ma con qualche riserva. Non che Gergen sia pessimista rispetto alla direzione presa dall’evoluzione della coscienza umana: sarebbe perfettamente d’accordo con l’analisi della natura umana del filosofo e teologo Martin Buber, che riteneva che «all’inizio è la relazione». Gergen vede un mondo complesso in via di globalizzazione, nel quale l’essere umano è sempre più integrato in relazioni di ogni stile e genere. La sua preoccupazione è che le pressioni a cui le relazioni sottopongono la nostra attenzione e la nostra psiche possano sopraffare la nostra coscienza individuale e collettiva, facendo precipitare l’identità nel caos.
Gergen precisa una cosa importante che i teorici della coscienza drammaturgica spesso ignorano o aggirano, cioè che il modo di pensare drammaturgico è specifico dell’età moderna. Nota che la consapevolezza di «recitare una parte» dipende per sua natura dal senso contrastante di un «vero sé». Se non c’è coscienza di ciò che significa essere «fedeli a se stessi», non c’è alcuna coscienza di «recitare una parte».36
All’epoca in cui Shakespeare scriveva che «il mondo è tutto un palcoscenico sul quale tutti noi, uomini e donne siam solo attori», il sé era già sufficientemente sviluppato da capire quando stava recitando una parte: la mente poteva separarsi dal comportamento abbastanza da acquisire consciamente un ruolo o una maschera, sapendo di farlo. Oggi il sé deve fare i conti con una tale molteplicità di nuovi ruoli e passare continuamente e così rapidamente dall’uno all’altro da correre il rischio di dissolversi completamente.
Mentre il sé drammaturgico acquisisce una dimensione sempre più plastica e teatrale, e i suoi comportamenti vengono considerati sempre più normali, la stessa idea di autenticità perde importanza. Essere «autentico» presuppone un nucleo immutabile del sé, una psiche autonoma. Ma nell’era della coscienza drammaturgica la personalità pastiche è un camaleonte sociale, che prende continuamente a prestito spizzichi e bocconi di identità da qualsiasi fonte disponibile e li compone, per utilità o diletto, in funzione di ogni data circostanza.
Il sé drammaturgico, dunque, è aperto a due diverse interpretazioni. Il sociologo Louis Zurcher ipotizza che se abbandoniamo l’idea del sé come «oggetto» e lo pensiamo più come «processo», allora il sé si apre «alla più vasta esperienza possibile» e diventa veramente cosmopolita.
Ma Zurcher avverte anche che il sé mutevole può altrettanto facilmente portare al narcisismo, facendo perdere all’individuo il senso dell’autenticità del sé cui è legato e nei confronti del quale è responsabile, intrappolandolo in una sequenza di inganni – un’esistenza machiavellica – dove l’assunzione della parte è funzionale a promuovere un’autogratificazione senza fine.
Gergen, in ultima analisi, sembra cautamente ottimista sul futuro della coscienza umana: nutre la speranza che in un mondo sempre più interconnesso e collaborativo, fatto di relazioni sempre più integrate che trascendono i tradizionali confini che separano «il mio dal tuo», «si possa compiere la transizione da un sistema di convinzioni basate sul sé alla coscienza di una relazione implicita ed esistenziale con gli altri»: io con te. Questo è possibile, ma solo se conserviamo una misura sufficiente di senso del sé, come un «io» che permetta all’impulso empatico di crescere.
Ognuno di noi è il risultato delle relazioni che lo compongono, ma è l’unicità della costellazione di esperienze relazionali che distingue una persona dall’altra. Non c’è un’implicita contraddizione tra la convinzione che il sé sia la somma totale delle esperienze in cui l’individuo è coinvolto nel corso della vita e l’idea che queste relazioni ed esperienze rendano ciascun essere unico, diverso da tutti gli altri. Solo tenendo a mente questa distinzione la coscienza empatica continua a crescere e diventa il collante psicologico e sociale di una coscienza globale.
Se si perde il senso di sé come insieme unico di relazioni, e si diventa solamente un «noi», anche l’empatia viene meno e la progressione storica verso una coscienza globale si blocca. Questo accade perché la coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita.
Se cadessimo preda di un «noi» globale indifferenziato, potremmo ritrovarci al punto di partenza, quando vivevano in una nebbia mitologica indifferenziata, con scarso senso di sé e solo un rudimentale senso di disagio empatico integrato nella nostra struttura biologica. Mantenere un equilibrio dialettico fra un senso di sé sempre più differenziato, radicato in una rete di relazioni sempre più integrata che abbraccia il mondo intero, è la prova del fuoco che potrebbe determinare le prospettive future della nostra sopravvivenza come specie.
pp. 528-533
Kenneth J. Gergen riconosce che in un mondo in via di globalizzazione, connesso alla velocità della luce, «siamo coinvolti in un gran numero di relazioni, in una gamma di forme e con un’intensità molto maggiori che in passato». Siamo immersi nelle relazioni, alcune virtuali, altre reali. Se la privacy era un valore per le generazioni borghesi che definivano la libertà in termini di autonomia ed esclusività, l’accesso è il valore cardine della generazione del Millennio, che definisce la libertà in termini di profondità e portata delle relazioni che si intrattengono. L’esclusività è diventata meno importante dell’inclusività e l’ethos della competizione sta cominciando a essere messo in discussione – per quanto timidamente dall’ethos della collaborazione.
Nell’era della coscienza drammaturgica, in cui l’identità stessa del singolo è relazionale ed esiste solo nella misura in cui è integrata in un complesso di relazioni, essere privati dell’accesso significa essere isolati e cessare di esistere. Il tempo che passiamo in solitudine – ben distinto dall’essere soli – continua a restringersi e sta ormai avvicinandosi allo zero in un mondo interconnesso ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. In una società affamata di tempo, ogni nanosecondo libero diventa un’occasione per creare l’ennesima connessione.
Viviamo in un mondo in cui ottenere e conservare l’attenzione altrui è fondamentale e relazioni di tutti i tipi diventano centrali nella nostra esistenza. Il detto di Cartesio, «Penso, dunque sono», e quello degli psicologi umanisti, «Partecipo, dunque sono», sono stati sostituiti dal nuovo adagio: «Sono connesso, dunque esisto».
Il vecchio concetto di «mio contro tuo», che promuoveva il senso di un «sé unidimensionale» prevedibile, sta cedendo il passo a una nuova idea di inclusività e a un «sé multidimensionale». Gergen osserva:
Il senso di sé relativamente coerente e unitario implicito in una cultura tradizionale cede il posto a potenziali molteplici e in reciproca competizione. Emerge una condizione multifrenica in cui si naviga in correnti dell’essere in continuo cambiamento, concatenate e litigiose.
Come artisti dell’improvvisazione immersi in contesti mutevoli e in storie che cambiano rapidamente, ciascuna delle quali reclama la nostra attenzione, siamo spinti a passare a nuovi ruoli e a muoverci avanti e indietro fra diverse scene e diversi copioni, tanto rapidamente da rischiare di perderci lentamente nella labirintica rete di connessioni ed esperienze dinamiche e di breve durata in cui siamo avviluppati. Gergen ci avverte:
Questa frammentazione delle concezioni di sé corrisponde a una molteplicità di relazioni incoerenti e disconnesse. Tali relazioni ci spingono in molteplici direzioni, invitandoci a recitare una varietà di ruoli tale che l’idea stessa di un «sé autentico» con caratteristiche conoscibili scompare alla vista. Un sé completamente saturo diventa un non-sé.
Gergen teme che nel nuovo mondo che si sta profilando il sé retroceda completamente a uno stadio di relatività … Si cessa di credere a un sé indipendente dalle relazioni in cui è integrato mettendo le relazioni in quella posizione centrale occupata dal sé negli ultimi secoli della storia occidentale.
La maggior parte dei pensatori postmoderni saluta con entusiasmo il nuovo senso del sé relazionale, ipotizzando che, nel ventunesimo secolo, abbattendo le barriere del «mio contro tuo» si possa aprire la possibilità di un approccio più tollerante e multiculturale alla socializzazione. Jean Baudrillard, per esempio, vede svilupparsi una società globalizzata in cui «il nostro spazio privato cessa di essere il palcoscenico dove si recita il dramma del soggetto incompatibile con i suoi oggetti». Non esistiamo più come soggetto, afferma Baudrillard, ma solo come «terminale di reti multiple». Robert J. Lifton ha un’altra posizione rispetto al cambiamento della coscienza: ritiene che la coscienza drammaturgica – avendo più «maschere» – sia un meccanismo di adattamento, un modo della psiche per adeguarsi alle richieste sempre più pressanti che le vengono rivolte nell’emergente società globale iperreale. Lifton afferma che recitare ruoli e interpretare molteplici personaggi, anziché condurre a una scomparsa del sé, porta a uno stadio più plastico e maturo della coscienza, nel quale l’individuo è in grado di convivere con priorità ambigue, complesse e spesso conflittuali. Essere in grado di vivere e sperimentare tutte le possibili realtà potenziali, a volte addirittura contemporaneamente, richiede, secondo Lifton, una coscienza proteiforme.
Gergen sembra condividere l’analisi di Lifton, ma con qualche riserva. Non che Gergen sia pessimista rispetto alla direzione presa dall’evoluzione della coscienza umana: sarebbe perfettamente d’accordo con l’analisi della natura umana del filosofo e teologo Martin Buber, che riteneva che «all’inizio è la relazione». Gergen vede un mondo complesso in via di globalizzazione, nel quale l’essere umano è sempre più integrato in relazioni di ogni stile e genere. La sua preoccupazione è che le pressioni a cui le relazioni sottopongono la nostra attenzione e la nostra psiche possano sopraffare la nostra coscienza individuale e collettiva, facendo precipitare l’identità nel caos.
Gergen precisa una cosa importante che i teorici della coscienza drammaturgica spesso ignorano o aggirano, cioè che il modo di pensare drammaturgico è specifico dell’età moderna. Nota che la consapevolezza di «recitare una parte» dipende per sua natura dal senso contrastante di un «vero sé». Se non c’è coscienza di ciò che significa essere «fedeli a se stessi», non c’è alcuna coscienza di «recitare una parte».36
All’epoca in cui Shakespeare scriveva che «il mondo è tutto un palcoscenico sul quale tutti noi, uomini e donne siam solo attori», il sé era già sufficientemente sviluppato da capire quando stava recitando una parte: la mente poteva separarsi dal comportamento abbastanza da acquisire consciamente un ruolo o una maschera, sapendo di farlo. Oggi il sé deve fare i conti con una tale molteplicità di nuovi ruoli e passare continuamente e così rapidamente dall’uno all’altro da correre il rischio di dissolversi completamente.
Mentre il sé drammaturgico acquisisce una dimensione sempre più plastica e teatrale, e i suoi comportamenti vengono considerati sempre più normali, la stessa idea di autenticità perde importanza. Essere «autentico» presuppone un nucleo immutabile del sé, una psiche autonoma. Ma nell’era della coscienza drammaturgica la personalità pastiche è un camaleonte sociale, che prende continuamente a prestito spizzichi e bocconi di identità da qualsiasi fonte disponibile e li compone, per utilità o diletto, in funzione di ogni data circostanza.
Il sé drammaturgico, dunque, è aperto a due diverse interpretazioni. Il sociologo Louis Zurcher ipotizza che se abbandoniamo l’idea del sé come «oggetto» e lo pensiamo più come «processo», allora il sé si apre «alla più vasta esperienza possibile» e diventa veramente cosmopolita.
Ma Zurcher avverte anche che il sé mutevole può altrettanto facilmente portare al narcisismo, facendo perdere all’individuo il senso dell’autenticità del sé cui è legato e nei confronti del quale è responsabile, intrappolandolo in una sequenza di inganni – un’esistenza machiavellica – dove l’assunzione della parte è funzionale a promuovere un’autogratificazione senza fine.
Gergen, in ultima analisi, sembra cautamente ottimista sul futuro della coscienza umana: nutre la speranza che in un mondo sempre più interconnesso e collaborativo, fatto di relazioni sempre più integrate che trascendono i tradizionali confini che separano «il mio dal tuo», «si possa compiere la transizione da un sistema di convinzioni basate sul sé alla coscienza di una relazione implicita ed esistenziale con gli altri»: io con te. Questo è possibile, ma solo se conserviamo una misura sufficiente di senso del sé, come un «io» che permetta all’impulso empatico di crescere.
Ognuno di noi è il risultato delle relazioni che lo compongono, ma è l’unicità della costellazione di esperienze relazionali che distingue una persona dall’altra. Non c’è un’implicita contraddizione tra la convinzione che il sé sia la somma totale delle esperienze in cui l’individuo è coinvolto nel corso della vita e l’idea che queste relazioni ed esperienze rendano ciascun essere unico, diverso da tutti gli altri. Solo tenendo a mente questa distinzione la coscienza empatica continua a crescere e diventa il collante psicologico e sociale di una coscienza globale.
Se si perde il senso di sé come insieme unico di relazioni, e si diventa solamente un «noi», anche l’empatia viene meno e la progressione storica verso una coscienza globale si blocca. Questo accade perché la coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita.
Se cadessimo preda di un «noi» globale indifferenziato, potremmo ritrovarci al punto di partenza, quando vivevano in una nebbia mitologica indifferenziata, con scarso senso di sé e solo un rudimentale senso di disagio empatico integrato nella nostra struttura biologica. Mantenere un equilibrio dialettico fra un senso di sé sempre più differenziato, radicato in una rete di relazioni sempre più integrata che abbraccia il mondo intero, è la prova del fuoco che potrebbe determinare le prospettive future della nostra sopravvivenza come specie.
pp. 528-533
Dunque:
Le prove empiriche suggeriscono che il nuovo capitalismo distribuito e la nuova coscienza drammaturgica che sta emergendo nelle prime fasi della transizione alla Terza rivoluzione industriale stanno portando sia a una maggiore connessione ed estensione empatica sia a un sé più frammentato e narcisista.
La prima domanda da porsi è se le nuove forme distribuite di tecnologia delle comunicazioni creino effettivamente una maggiore connessione e interconnettività sociale. Per anni i critici hanno ipotizzato che l’aumento del tempo trascorso nel ciberspazio, nelle realtà virtuali, comportasse una diminuzione del tempo dedicato a relazioni sociali reali, personali. Il timore era che Internet, pur connettendo un numero sempre maggiore di persone in reti, generasse nuove affiliazioni sociali meno intime e più superficiali di quelle tipiche della comunicazione sociale tradizionale. I dati accumulati in anni recenti indicano che questi timori erano, generalmente, infondati, e che anzi è vero l’opposto…
Svelare maggiormente il proprio vero sé agli altri è fondamentale per creare intimità e legami empatici. Solo essendo aperti e vulnerabili, condividendo il nostro essere più profondo, le nostre sofferenze, la nostra lotta per esistere possiamo stabilire legami empatici. E se si scoprisse che effettivamente per mezzo di Internet lo svelamento del proprio vero sé agli altri è facilitato ed è promossa la creazione di legami e relazioni empatiche con gli altri, guarderemmo senz’altro sotto una luce diversa questa nuova forma di comunicazione, capace di portare a nuovi traguardi la consapevolezza empatica.
Gli studi hanno rivelato che Internet fa esattamente questo. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che «il relativo anonimato delle interazioni via Internet riduce grandemente il rischio» connesso con la rivelazione personale, «soprattutto per quanto attiene gli aspetti più intimi del sé, data la possibilità di condividere le proprie convinzioni e reazioni emotive più intime con minor timore di disapprovazione o sanzione sociale».
Altrettanto importante è la scoperta di alcuni ricercatori che il contatto iniziale attraverso Internet incoraggia «una maggiore espressione di sé» a causa della mancanza di quei connotati barriera che spesso bloccano lo sviluppo di un rapporto più stretto, come l’aspetto fisico, la timidezza, l’introversione, l’ansia o altre caratteristiche personali percepite come deficit sociali. In Internet, queste «prime impressioni» sono assenti e permettono alle parti di rivelarsi l’una all’altra e di cominciare a creare una relazione.
Infine, Internet aiuta le persone che hanno interessi comuni a incontrarsi più facilmente. Un interesse condiviso è un utile spunto per cominciare a conoscersi e stabilire un legame. Internet permette letteralmente a milioni di persone di individuare con facilità chi ha interessi simili, senza grandi sforzi e in modi prima inconcepibili, aprendo la porta a nuove relazioni che nelle normali interazioni sociali sarebbero potute nascere solo per caso. Internet permette anche a chi è vincolato dalla routine – lavoro, accudimento dei figli e così via – di trovare nel ciberspazio occasioni di incontro e conoscenza che, altrimenti, sarebbero state limitate…
Offrendo agli individui l’opportunità di interpretare il proprio vero sé, Internet rappresenta un eccezionale palcoscenico virtuale per la diffusione della coscienza drammaturgica. Per quanto interpretare il proprio vero sé sia un ruolo, come lo è interpretare il proprio sé attuale o ideale, si tratta del ruolo di un’intera vita. È strano pensare che la manifestazione del proprio vero sé a volte sia resa possibile da un contesto virtuale e sia ostacolata dalla realtà. Ma a pensarci bene, forse non è così strano. Nel Settecento e nell’Ottocento il romanzo, una forma di finzione, ha permesso a milioni di persone di definire i propri sentimenti più intimi e di manifestarli, sviluppando una sensibilità empatica più profonda. Le vere differenze oggi sono la portata immensa di Internet e la facoltà che milioni di persone hanno di entrare in contatto diretto e intimo le une con le altre in una piazza pubblica globale. La possibilità di sperimentare la sensibilità empatica e di portarla a un livello globale è a nostra disposizione.
pp. 533-537
La prima domanda da porsi è se le nuove forme distribuite di tecnologia delle comunicazioni creino effettivamente una maggiore connessione e interconnettività sociale. Per anni i critici hanno ipotizzato che l’aumento del tempo trascorso nel ciberspazio, nelle realtà virtuali, comportasse una diminuzione del tempo dedicato a relazioni sociali reali, personali. Il timore era che Internet, pur connettendo un numero sempre maggiore di persone in reti, generasse nuove affiliazioni sociali meno intime e più superficiali di quelle tipiche della comunicazione sociale tradizionale. I dati accumulati in anni recenti indicano che questi timori erano, generalmente, infondati, e che anzi è vero l’opposto…
Svelare maggiormente il proprio vero sé agli altri è fondamentale per creare intimità e legami empatici. Solo essendo aperti e vulnerabili, condividendo il nostro essere più profondo, le nostre sofferenze, la nostra lotta per esistere possiamo stabilire legami empatici. E se si scoprisse che effettivamente per mezzo di Internet lo svelamento del proprio vero sé agli altri è facilitato ed è promossa la creazione di legami e relazioni empatiche con gli altri, guarderemmo senz’altro sotto una luce diversa questa nuova forma di comunicazione, capace di portare a nuovi traguardi la consapevolezza empatica.
Gli studi hanno rivelato che Internet fa esattamente questo. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che «il relativo anonimato delle interazioni via Internet riduce grandemente il rischio» connesso con la rivelazione personale, «soprattutto per quanto attiene gli aspetti più intimi del sé, data la possibilità di condividere le proprie convinzioni e reazioni emotive più intime con minor timore di disapprovazione o sanzione sociale».
Altrettanto importante è la scoperta di alcuni ricercatori che il contatto iniziale attraverso Internet incoraggia «una maggiore espressione di sé» a causa della mancanza di quei connotati barriera che spesso bloccano lo sviluppo di un rapporto più stretto, come l’aspetto fisico, la timidezza, l’introversione, l’ansia o altre caratteristiche personali percepite come deficit sociali. In Internet, queste «prime impressioni» sono assenti e permettono alle parti di rivelarsi l’una all’altra e di cominciare a creare una relazione.
Infine, Internet aiuta le persone che hanno interessi comuni a incontrarsi più facilmente. Un interesse condiviso è un utile spunto per cominciare a conoscersi e stabilire un legame. Internet permette letteralmente a milioni di persone di individuare con facilità chi ha interessi simili, senza grandi sforzi e in modi prima inconcepibili, aprendo la porta a nuove relazioni che nelle normali interazioni sociali sarebbero potute nascere solo per caso. Internet permette anche a chi è vincolato dalla routine – lavoro, accudimento dei figli e così via – di trovare nel ciberspazio occasioni di incontro e conoscenza che, altrimenti, sarebbero state limitate…
Offrendo agli individui l’opportunità di interpretare il proprio vero sé, Internet rappresenta un eccezionale palcoscenico virtuale per la diffusione della coscienza drammaturgica. Per quanto interpretare il proprio vero sé sia un ruolo, come lo è interpretare il proprio sé attuale o ideale, si tratta del ruolo di un’intera vita. È strano pensare che la manifestazione del proprio vero sé a volte sia resa possibile da un contesto virtuale e sia ostacolata dalla realtà. Ma a pensarci bene, forse non è così strano. Nel Settecento e nell’Ottocento il romanzo, una forma di finzione, ha permesso a milioni di persone di definire i propri sentimenti più intimi e di manifestarli, sviluppando una sensibilità empatica più profonda. Le vere differenze oggi sono la portata immensa di Internet e la facoltà che milioni di persone hanno di entrare in contatto diretto e intimo le une con le altre in una piazza pubblica globale. La possibilità di sperimentare la sensibilità empatica e di portarla a un livello globale è a nostra disposizione.
pp. 533-537
Non mancano ovviamente i pericoli:
Prima di lasciarci prendere troppo dall’entusiasmo, ricordiamoci che questo palcoscenico pubblico globale mediato tecnologicamente ha un lato oscuro che merita pari attenzione, cioè l’incredibile potere di Internet di gonfiare e amplificare il desiderio di riconoscimento di ogni individuo: il fattore celebrità. Pur essendo uno strumento validissimo per condividere e collaborare, Internet è anche il palcoscenico ideale per innumerevoli forme di esibizionismo e narcisismo. Lo stesso mezzo che offre la possibilità di manifestare agli altri il proprio vero sé e far crescere relazioni più profonde e un’intimità condivisa può anche mettere qualsiasi abitante del pianeta sotto le luci della ribalta, di fronte al più grande pubblico della storia. Per chi tende al narcisismo, l’opportunità di esibirsi è tanto irresistibile quanto lo è quella di guardare per i voyeur. In un mondo commerciale che strumentalizza in misura crescente le tendenze narcisistiche e voyeuristiche, Internet diventa uno strumento imbattibile per trasformare in merce ogni aspetto e ambito della vita…
Il desiderio di fama è diventato una tale ossessione fra i giovani da stimolare discussioni e dibattiti, oltre che una gran messe di ricerche, fra un numero crescente di psicologi e sociologi che si domandano: perché adesso? La ragione risiede, almeno in parte, nel mezzo: il solo fatto di poter usare Internet per richiamare l’attenzione su di sé è un buon motivo per farlo.
Ma i ricercatori avvertono anche che la pulsione alla celebrità è il riflesso di un nuovo senso di solitudine esistenziale e di un disperato bisogno di essere riconosciuti. Il desiderio di fama è spesso scatenato dalla paura della morte e dal bisogno di conquistare almeno una debole parvenza di immortalità o, quantomeno, di sapere che la propria esistenza è stata notata, riconosciuta e celebrata da milioni di altre persone. La fama rafforza l’idea che la vita abbia un senso. Alcuni si domandano se la precarietà dell’esistenza – con la prospettiva del cambiamento climatico e dell’apocalisse nucleare a minacciare la nostra sopravvivenza – non possa giocare un ruolo subconscio nel generare e rafforzare l’aspirazione a raggiungere l’immortalità attraverso la fama.
Il desiderio di celebrità non è una passione esclusivamente americana. Indagini sul tema condotte in Cina e Germania riferiscono che il 30% degli adulti «regolarmente sogna a occhi aperti di essere famoso» e, incredibilmente, più del 40% è convinto che, prima o poi, godrà di una certa notorietà, anche limitata. Queste percentuali sono ancora più elevate tra i giovani.
Il narcisismo e la ricerca della fama vanno da sempre a braccetto: ipotizzare che la crescente ondata di narcisismo possa alimentare la convinzione di essere destinati alla celebrità – per la semplice ragione che ognuno si sente importante e speciale – non è affatto peregrino.
I giovani sono davvero così egocentrici? Abbiamo allevato una generazione di assoluti narcisisti – dei mostri, se volete – che si preoccupano solo di se stessi? I dati empirici sono più ambigui di quanto lascino supporre gli studi che abbiamo citato. Alcuni educatori ritengono che gli eccessi iniziali del movimento per l’autostima si stiano riducendo, a scuola e in famiglia, a causa degli allarmanti segnali giunti, e che abbiano cominciato a prendere piede approcci più sofisticati e adeguatamente strutturati alla costruzione dell’autostima.
pp. 537-542
Il desiderio di fama è diventato una tale ossessione fra i giovani da stimolare discussioni e dibattiti, oltre che una gran messe di ricerche, fra un numero crescente di psicologi e sociologi che si domandano: perché adesso? La ragione risiede, almeno in parte, nel mezzo: il solo fatto di poter usare Internet per richiamare l’attenzione su di sé è un buon motivo per farlo.
Ma i ricercatori avvertono anche che la pulsione alla celebrità è il riflesso di un nuovo senso di solitudine esistenziale e di un disperato bisogno di essere riconosciuti. Il desiderio di fama è spesso scatenato dalla paura della morte e dal bisogno di conquistare almeno una debole parvenza di immortalità o, quantomeno, di sapere che la propria esistenza è stata notata, riconosciuta e celebrata da milioni di altre persone. La fama rafforza l’idea che la vita abbia un senso. Alcuni si domandano se la precarietà dell’esistenza – con la prospettiva del cambiamento climatico e dell’apocalisse nucleare a minacciare la nostra sopravvivenza – non possa giocare un ruolo subconscio nel generare e rafforzare l’aspirazione a raggiungere l’immortalità attraverso la fama.
Il desiderio di celebrità non è una passione esclusivamente americana. Indagini sul tema condotte in Cina e Germania riferiscono che il 30% degli adulti «regolarmente sogna a occhi aperti di essere famoso» e, incredibilmente, più del 40% è convinto che, prima o poi, godrà di una certa notorietà, anche limitata. Queste percentuali sono ancora più elevate tra i giovani.
Il narcisismo e la ricerca della fama vanno da sempre a braccetto: ipotizzare che la crescente ondata di narcisismo possa alimentare la convinzione di essere destinati alla celebrità – per la semplice ragione che ognuno si sente importante e speciale – non è affatto peregrino.
I giovani sono davvero così egocentrici? Abbiamo allevato una generazione di assoluti narcisisti – dei mostri, se volete – che si preoccupano solo di se stessi? I dati empirici sono più ambigui di quanto lascino supporre gli studi che abbiamo citato. Alcuni educatori ritengono che gli eccessi iniziali del movimento per l’autostima si stiano riducendo, a scuola e in famiglia, a causa degli allarmanti segnali giunti, e che abbiano cominciato a prendere piede approcci più sofisticati e adeguatamente strutturati alla costruzione dell’autostima.
pp. 537-542
La risposta al quesito è controversa.
Quella del Millennio è la prima generazione della storia cresciuta con Internet e completamente assuefatta ai social network, allo scambio di SMS e ad altre innovazioni come a un naturale stile di vita. Nuove indagini e studi suggeriscono che la natura distribuita dell’information and communication technology e i rapporti collaborativi che essa promuove si riflettono sempre più sulla psicologia collettiva di questa generazione…
Le ricerche mostrano che, diversamente dai membri della generazione x, i ragazzi del Millennio hanno «una probabilità sensibilmente superiore di provare empatia verso gli altri componenti del proprio gruppo e di cercare di capire il punto di vista di ognuno». Inoltre, risultano essere molto più disposti ad attribuire uguale peso alle opinioni espresse dagli altri membri del gruppo, a lavorare collaborativamente e a cercare di creare il consenso all’interno del gruppo. Cresciuti su Internet, hanno meno probabilità di accettare la parola degli esperti e tendono, invece, a credere nella saggezza delle folle. Si fidano meno delle catene di comando e controllo centralizzate e dell’esercizio gerarchico dell’autorità e sono più propensi a modelli di conoscenza orizzontali e collaborativi sviluppati nell’ambito di iniziative open source come Linux e Wikipedia…
I giovani della generazione del Millennio hanno un approccio più empatico verso l’ambiente, i bisogni dei poveri e la comunità in senso lato, e questo si manifesta anche nel loro coinvolgimento civile…
Le statistiche dimostrano che la generazione del Millennio, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo o, almeno, nei paesi avanzati, è la più tollerante della storia per il suo sostegno alla causa dell’uguaglianza di genere e la sua disponibilità a sostenere i diritti dei disabili, degli omosessuali e delle altre creature del pianeta.
Per quanto questi nuovi dati siano incoraggianti, dobbiamo considerarli alla luce di uno sconcertante fenomeno che minaccia di compromettere seriamente i forti progressi nella coscienza globale finora registrati. Se la connettività resa possibile da Internet sta stringendo i giovani della generazione del Millennio in quello che potremmo considerare un grande abbraccio empatico cosmopolita, nuove ricerche permettono di ipotizzare che quella stessa tecnologia stia progressivamente erodendo la loro capacità di comunicare intelligentemente. Per quanto sia paradossale, bisogna considerare la possibilità che una tecnologia nata per favorire un aumento esponenziale di raccolta, archiviazione e scambio delle informazioni fra le persone possa depauperare le capacità linguistiche e gli strumenti che le persone utilizzano per comunicare e interpretare i propri sentimenti e pensieri e quelli degli altri…
Le indagini svolte negli ultimi dieci anni mostrano un’allarmante tendenza fra i giovani che crescono davanti allo schermo del computer: la ricchezza del loro vocabolario sta diminuendo rapidamente e, con essa, la capacità di leggere e comunicare efficacemente; e ciò non può che avere conseguenze di vasta portata sulla capacità delle persone di empatizzare…
La tendenza è inquietante e gli studi dimostrano che l’aumentato uso di Internet ha portato a un drastico declino della lettura dei quotidiani, delle riviste e dei libri, cioè i mezzi di comunicazione che espongono la gente a un linguaggio sofisticato e articolato.
In tutte le precedenti rivoluzioni della comunicazione della storia – dall’oralità alla scrittura, alla stampa – il vocabolario si è ampliato, offrendo alle persone una riserva più ricca di metafore e costrutti linguistici per comunicare. Un vocabolario più ampio permette di creare pensieri più complessi e, attraverso questi, di espandere l’ambito dell’empatia, per l’ovvia ragione che in tal modo le persone possono meglio esprimersi a vicenda i sentimenti, le intenzioni e le speranze più intime.
Ci troviamo di fronte a un altro paradosso dell’attuale congiuntura storica: la nuova connettività via Internet offre agli esseri umani una riserva sconfinata di conoscenze e canali di comunicazione, ma a causa della natura del mezzo e del modo in cui viene usato, riduce la capacità dell’uomo di esprimersi in quel modo profondo e significativo che fa progredire le conoscenze comuni, compromettendo così la sua capacità di comprensione, di condivisione di significati e di connessione empatica. Che cosa dobbiamo fare, dunque, con questa generazione del Millennio?
La situazione attuale è tutt’altro che chiara. Accanto ai giovani che sognano solo la celebrità personale, ce ne sono altrettanti che si dedicano al servizio della comunità e all’assistenza dei meno fortunati. Forse la realtà è che le giovani generazioni stanno crescendo dilaniate fra una mentalità narcisistica e una empatica: in alcuni prevale l’una, in altri l’altra.
La recessione economica a lungo termine che l’economia globale sta attraversando, con il tramonto della Seconda rivoluzione industriale, molto probabilmente indebolirà la pulsione narcisistica: la sopravvivenza personale e collettiva è sempre più minacciata e l’illusione individuale di grandezza, in mezzo al caos globale, apparirà sempre più fragile, se non addirittura ridicola. Ma un narcisismo collettivo potrebbe facilmente mutarsi in una virulenta xenofobia, attraverso polemiche politiche volte a bollare le minoranze, le altre culture e le altre nazioni come inferiori, o subumane. E’ già accaduto in passato.
I tempi difficili possono anche portare a un’estensione della coscienza empatica – «siamo tutti sulla stessa barca» – rendendoci più sensibili alle reciproche sofferenze. La Grande Depressione degli anni Trenta, almeno negli Stati Uniti, sortì proprio questo effetto: i vicini di casa erano disponibili ad aiutarsi reciprocamente nei momenti di difficoltà.
Molto dipenderà dalla capacità di accelerare la nuova, Terza rivoluzione industriale, cioè una forma di capitalismo distribuito fondato sulla nostra natura collaborativa, motivato dal senso del bene comune ed espresso dal nuovo sogno di qualità della vita e di sostenibilità planetaria.
pp. 544-546
Le ricerche mostrano che, diversamente dai membri della generazione x, i ragazzi del Millennio hanno «una probabilità sensibilmente superiore di provare empatia verso gli altri componenti del proprio gruppo e di cercare di capire il punto di vista di ognuno». Inoltre, risultano essere molto più disposti ad attribuire uguale peso alle opinioni espresse dagli altri membri del gruppo, a lavorare collaborativamente e a cercare di creare il consenso all’interno del gruppo. Cresciuti su Internet, hanno meno probabilità di accettare la parola degli esperti e tendono, invece, a credere nella saggezza delle folle. Si fidano meno delle catene di comando e controllo centralizzate e dell’esercizio gerarchico dell’autorità e sono più propensi a modelli di conoscenza orizzontali e collaborativi sviluppati nell’ambito di iniziative open source come Linux e Wikipedia…
I giovani della generazione del Millennio hanno un approccio più empatico verso l’ambiente, i bisogni dei poveri e la comunità in senso lato, e questo si manifesta anche nel loro coinvolgimento civile…
Le statistiche dimostrano che la generazione del Millennio, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo o, almeno, nei paesi avanzati, è la più tollerante della storia per il suo sostegno alla causa dell’uguaglianza di genere e la sua disponibilità a sostenere i diritti dei disabili, degli omosessuali e delle altre creature del pianeta.
Per quanto questi nuovi dati siano incoraggianti, dobbiamo considerarli alla luce di uno sconcertante fenomeno che minaccia di compromettere seriamente i forti progressi nella coscienza globale finora registrati. Se la connettività resa possibile da Internet sta stringendo i giovani della generazione del Millennio in quello che potremmo considerare un grande abbraccio empatico cosmopolita, nuove ricerche permettono di ipotizzare che quella stessa tecnologia stia progressivamente erodendo la loro capacità di comunicare intelligentemente. Per quanto sia paradossale, bisogna considerare la possibilità che una tecnologia nata per favorire un aumento esponenziale di raccolta, archiviazione e scambio delle informazioni fra le persone possa depauperare le capacità linguistiche e gli strumenti che le persone utilizzano per comunicare e interpretare i propri sentimenti e pensieri e quelli degli altri…
Le indagini svolte negli ultimi dieci anni mostrano un’allarmante tendenza fra i giovani che crescono davanti allo schermo del computer: la ricchezza del loro vocabolario sta diminuendo rapidamente e, con essa, la capacità di leggere e comunicare efficacemente; e ciò non può che avere conseguenze di vasta portata sulla capacità delle persone di empatizzare…
La tendenza è inquietante e gli studi dimostrano che l’aumentato uso di Internet ha portato a un drastico declino della lettura dei quotidiani, delle riviste e dei libri, cioè i mezzi di comunicazione che espongono la gente a un linguaggio sofisticato e articolato.
In tutte le precedenti rivoluzioni della comunicazione della storia – dall’oralità alla scrittura, alla stampa – il vocabolario si è ampliato, offrendo alle persone una riserva più ricca di metafore e costrutti linguistici per comunicare. Un vocabolario più ampio permette di creare pensieri più complessi e, attraverso questi, di espandere l’ambito dell’empatia, per l’ovvia ragione che in tal modo le persone possono meglio esprimersi a vicenda i sentimenti, le intenzioni e le speranze più intime.
Ci troviamo di fronte a un altro paradosso dell’attuale congiuntura storica: la nuova connettività via Internet offre agli esseri umani una riserva sconfinata di conoscenze e canali di comunicazione, ma a causa della natura del mezzo e del modo in cui viene usato, riduce la capacità dell’uomo di esprimersi in quel modo profondo e significativo che fa progredire le conoscenze comuni, compromettendo così la sua capacità di comprensione, di condivisione di significati e di connessione empatica. Che cosa dobbiamo fare, dunque, con questa generazione del Millennio?
La situazione attuale è tutt’altro che chiara. Accanto ai giovani che sognano solo la celebrità personale, ce ne sono altrettanti che si dedicano al servizio della comunità e all’assistenza dei meno fortunati. Forse la realtà è che le giovani generazioni stanno crescendo dilaniate fra una mentalità narcisistica e una empatica: in alcuni prevale l’una, in altri l’altra.
La recessione economica a lungo termine che l’economia globale sta attraversando, con il tramonto della Seconda rivoluzione industriale, molto probabilmente indebolirà la pulsione narcisistica: la sopravvivenza personale e collettiva è sempre più minacciata e l’illusione individuale di grandezza, in mezzo al caos globale, apparirà sempre più fragile, se non addirittura ridicola. Ma un narcisismo collettivo potrebbe facilmente mutarsi in una virulenta xenofobia, attraverso polemiche politiche volte a bollare le minoranze, le altre culture e le altre nazioni come inferiori, o subumane. E’ già accaduto in passato.
I tempi difficili possono anche portare a un’estensione della coscienza empatica – «siamo tutti sulla stessa barca» – rendendoci più sensibili alle reciproche sofferenze. La Grande Depressione degli anni Trenta, almeno negli Stati Uniti, sortì proprio questo effetto: i vicini di casa erano disponibili ad aiutarsi reciprocamente nei momenti di difficoltà.
Molto dipenderà dalla capacità di accelerare la nuova, Terza rivoluzione industriale, cioè una forma di capitalismo distribuito fondato sulla nostra natura collaborativa, motivato dal senso del bene comune ed espresso dal nuovo sogno di qualità della vita e di sostenibilità planetaria.
pp. 544-546
La risposta al paradosso formulato nell’Introduzione è affidata, naturalmente, a quelle finali, che riporto integralmente:
La crisi globale che sta cominciando a colpire la nostra civiltà ci costringe a domandarci se non abbiamo già raggiunto il punto di svolta nella storia dell’umanità, perlomeno come è stata definita fin dall’avvento delle grandi civiltà agricolo-idrauliche che hanno segnato la nascita della «coscienza storica». La nostra ricerca di un senso di appartenenza universale ci ha catapultato in sistemi sociali ed economici sempre più complessi, ciascuno dei quali si è progressivamente espanso, occupando una porzione sempre maggiore del pianeta in cui viviamo. Adesso ne abbiamo colonizzato praticamente ogni centimetro quadrato e abbiamo creato la struttura di base per un’autentica civiltà globale che possa unire l’umanità in un unico abbraccio, ma solo a prezzo di un conto entropico che ci pone a rischio di estinzione.
Attraverso tutte le grandi fasi della storia dell’uomo – caccia e raccolta, agricoltura irrigua, Prima, Seconda e Terza rivoluzione industriale – la coscienza umana si è evoluta per poter comprendere le strutture energetico-comunicazionali che abbiamo creato. Lo sviluppo della psiche è stato scandito dal succedersi di diversi stadi: mitologico, teologico, ideologico, psicologico e, ora, drammaturgico, e ogni riorientamento della coscienza ha portato la sensibilità empatica a nuovi livelli. Ma l’aumento della complessità dell’organizzazione sociale ha portato anche a grandi tensioni e ad ancor più grandi implosioni, soprattutto quando le forze laceranti prodotte dalla crescita della differenziazione e dell’individualizzazione si sono scontrate con la domanda di una maggiore integrazione nei nuovi, complessi sistemi che abbiamo creato.
Gli esseri umani non sempre sono riusciti a adeguare il proprio orientamento spaziale e temporale alle molte e nuove esigenze imposte dalla società al loro organismo e alla loro psiche. Anche se siamo animali profondamente sociali, che cercano l’inclusione e anelano a un abbraccio universale, la nostra biologia ci predispone a far parte di gruppi ristretti, fra i 30 e i 150 individui. E qui ci imbattiamo in un altro enigma che ci rende gli unici animali capaci di provare autenticamente un senso di stupore e angoscia: la simultanea ricerca di intimità e di universalità spinge senza sosta la nostra mente a protendersi in entrambe le direzioni. Sebbene i due ambiti sembrino spesso in contraddizione, la verità è che l’essere umano cerca da sempre un’«intimità universale», un senso di appartenenza al tutto. Ciò che ha l’aspetto di una strana convergenza di opposti è, in realtà, un’aspirazione profondamente sentita dall’uomo: è la nostra natura empatica che ci permette di vivere l’apparente paradosso di una maggiore intimità in un ambito sempre più vasto. La ricerca di un’«intimità universale» è l’essenza stessa di ciò che chiamiamo «trascendenza».
In alcuni casi la dialettica fra individualizzazione e integrazione e la conseguente pulsione verso intimità e universalità diventano troppo tese: la nuova connessione non si instaura o quella esistente si spezza. È in questi momenti di puro terrore e sconforto, quando la società vacilla, smarrendo il senso di intimità e universalità, che le paure primordiali dell’umanità si scatenano, sotto forma di violenza e oppressione incontrollabili. Ogni grande civiltà ha avuto la sua dose di olocausti.
La predisposizione all’empatia che fa parte della nostra biologia non è un meccanismo infallibile che ci permette di perfezionare la nostra umanità, ma un’opportunità per riunire sempre più la razza umana in un’unica famiglia allargata, cosa che richiede un continuo esercizio. Purtroppo, però, la spinta verso l’empatia viene spesso messa a tacere proprio quando le forze sociali rischiano di disgregarsi.
Forse, proprio in questo momento ci stiamo avvicinando a una simile circostanza. La Terza rivoluzione industriale e la nuova era del capitalismo distribuito ci permettono di creare un diverso approccio alla globalizzazione, che questa volta ponga l’accento sulla continentalizzazione dal basso. Dato che le energie rinnovabili sono più o meno equamente distribuite nel mondo, ogni area ha potenzialmente a disposizione l’energia che le serve per rendersi relativamente autosufficiente e per adottare uno stile di vita sostenibile, pur interconnettendosi con le altre aree mediante reti intelligenti che attraversano paesi e continenti.
Anche se un certo livello di globalizzazione continuerà a esistere nell’ambito della Terza rivoluzione industriale, molto probabilmente sarà la continentalizzazione a giocare un ruolo preminente nello sviluppo dei commerci e degli scambi, perché le reti della Terza rivoluzione industriale e i suoi sistemi logistici favoriscono la condivisione di energia attraverso masse terrestri contigue.
Ogni comunità, una volta diventata localmente autosufficiente, potrà farsi coinvolgere in scambi regionali, transnazionali, continentali e, in misura limitata, globali, senza le severe restrizioni che sono imposte dalla geopolitica che presiede alla distribuzione delle energie elitarie dei combustibili fossili e dell’uranio.
La continentalizzazione sta già portando con sé una nuova forma di governo. Lo Stato-nazione, che si è sviluppato insieme alla Prima e alla Seconda rivoluzione industriale e ha fornito il meccanismo di regolazione per la gestione di un regime energetico la cui portata era la geosfera, non è adatto alla Terza rivoluzione industriale, il cui ambito è la biosfera. Le energie rinnovabili distribuite, generate localmente e regionalmente, e condivise apertamente – alla pari – attraverso vaste masse terrestri continentali, connesse da reti di servizi pubblici e catene logistiche e produttive intelligenti, favoriscono istituzioni di governo continentali.
L’Unione europea è la prima istituzione di governo continentale dell’era della Terza rivoluzione industriale. L’UE sta già cominciando a erigere le infrastrutture fondate sui quattro pilastri che porteranno a un regime energetico europeo, e a elaborare un corpus di norme, standard e regolamenti per promuovere reti di trasporto, di comunicazione e di energia che, entro la metà del secolo, si estenderanno senza soluzione di continuità dal Mare d’Irlanda alla soglia della Russia. Stanno per nascere unioni politiche africane, asiatiche e latino-americane: molto probabilmente, in ciascuno di questi continenti ci saranno istituzioni di governo transnazionali entro ii 2050.
In questa nuova era dell’energia distribuita le istituzioni di governo assomiglieranno sempre più, nel funzionamento, agli ecosistemi che devono governare. Come gli habitat dentro gli ecosistemi e gli ecosistemi dentro la biosfera funzionano in una rete di interrelazioni, così le istituzioni di governo funzionano in una rete collaborativa di relazioni, ognuna delle quali è integrata nell’altra e nell’insieme. Questo nuovo, complesso organismo politico agisce come la biosfera che governa, in maniera sinergica e reciproca: è la politica della biosfera.
La geopolitica si è sempre fondata sull’assunto che l’ambiente è un campo di battaglia, dove si combatte una guerra di tutti contro tutti per accaparrarsi le risorse necessarie alla propria sopravvivenza. Viceversa, la politica della biosfera si fonda sull’idea che la terra è come un organismo vivente, fatto di relazioni interdipendenti, e che ciascuno di noi può sopravvivere solo mettendosi al servizio della più vasta comunità di cui fa parte.
La nuova continentalizzazione dal basso e la globalizzazione ci permettono di portare a termine il compito di connettere gli esseri umani e di estendere la sensibilità empatica alla nostra specie nel suo insieme, oltre che alle molte altre specie che vivono con noi sul pianeta.
L’epoca di trinceramento economico nella quale ci troviamo adesso, al tramonto della Seconda rivoluzione industriale e all’alba della Terza, molto probabilmente durerà una generazione. Tale periodo dovrebbe essere sfruttato per ripensare le concezioni convenzionali che ci hanno portato a questa pericolosa impasse della storia umana e per preparare una nuova, grande narrazione per le generazioni future, a cui toccherà la spaventosa responsabilità di guarire la terra e creare un pianeta sostenibile.
Per ironia della sorte, il cambiamento climatico ci sta costringendo a riconoscere la nostra umanità condivisa e la nostra comune sofferenza come mai prima d’ora. Siamo davvero tutti insieme in questa vita e su questo pianeta e, semplicemente, non c’è più nessun luogo verso cui scappare o rifugiarsi, perché il conto entropico che la nostra specie ha creato soffoca la terra e minaccia di portarci all’estinzione.
Ho la sensazione che la reazione iniziale al cambiamento climatico, che oscillava fra negazione, disinteresse e, nel migliore dei casi, accettazione passiva – priva, cioè, del dovuto coinvolgimento politico ed emotivo – stia rapidamente modificandosi. Stiamo entrando in una nuova fase, in cui gli effetti di tale cambiamento sono percepibili «qui e ora» e influenzano negativamente intere regioni e ampi settori della popolazione del mondo. E la cosa è destinata solo a peggiorare nei prossimi decenni, con l’aggravamento delle condizioni climatiche e il coinvolgimento personale e diretto di un numero ancora maggiore di persone.
A un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini non sono diverse dalle nostre. Allora recriminazioni e rivendicazioni non serviranno a risolvere l’enormità della crisi. Solo un’azione concertata che stabilisca un senso collettivo di affiliazione con l’intera biosfera potrà assicurarci un futuro. Ma per questo ci servirà una coscienza biosferica.
La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?
pp. 566-570
Attraverso tutte le grandi fasi della storia dell’uomo – caccia e raccolta, agricoltura irrigua, Prima, Seconda e Terza rivoluzione industriale – la coscienza umana si è evoluta per poter comprendere le strutture energetico-comunicazionali che abbiamo creato. Lo sviluppo della psiche è stato scandito dal succedersi di diversi stadi: mitologico, teologico, ideologico, psicologico e, ora, drammaturgico, e ogni riorientamento della coscienza ha portato la sensibilità empatica a nuovi livelli. Ma l’aumento della complessità dell’organizzazione sociale ha portato anche a grandi tensioni e ad ancor più grandi implosioni, soprattutto quando le forze laceranti prodotte dalla crescita della differenziazione e dell’individualizzazione si sono scontrate con la domanda di una maggiore integrazione nei nuovi, complessi sistemi che abbiamo creato.
Gli esseri umani non sempre sono riusciti a adeguare il proprio orientamento spaziale e temporale alle molte e nuove esigenze imposte dalla società al loro organismo e alla loro psiche. Anche se siamo animali profondamente sociali, che cercano l’inclusione e anelano a un abbraccio universale, la nostra biologia ci predispone a far parte di gruppi ristretti, fra i 30 e i 150 individui. E qui ci imbattiamo in un altro enigma che ci rende gli unici animali capaci di provare autenticamente un senso di stupore e angoscia: la simultanea ricerca di intimità e di universalità spinge senza sosta la nostra mente a protendersi in entrambe le direzioni. Sebbene i due ambiti sembrino spesso in contraddizione, la verità è che l’essere umano cerca da sempre un’«intimità universale», un senso di appartenenza al tutto. Ciò che ha l’aspetto di una strana convergenza di opposti è, in realtà, un’aspirazione profondamente sentita dall’uomo: è la nostra natura empatica che ci permette di vivere l’apparente paradosso di una maggiore intimità in un ambito sempre più vasto. La ricerca di un’«intimità universale» è l’essenza stessa di ciò che chiamiamo «trascendenza».
In alcuni casi la dialettica fra individualizzazione e integrazione e la conseguente pulsione verso intimità e universalità diventano troppo tese: la nuova connessione non si instaura o quella esistente si spezza. È in questi momenti di puro terrore e sconforto, quando la società vacilla, smarrendo il senso di intimità e universalità, che le paure primordiali dell’umanità si scatenano, sotto forma di violenza e oppressione incontrollabili. Ogni grande civiltà ha avuto la sua dose di olocausti.
La predisposizione all’empatia che fa parte della nostra biologia non è un meccanismo infallibile che ci permette di perfezionare la nostra umanità, ma un’opportunità per riunire sempre più la razza umana in un’unica famiglia allargata, cosa che richiede un continuo esercizio. Purtroppo, però, la spinta verso l’empatia viene spesso messa a tacere proprio quando le forze sociali rischiano di disgregarsi.
Forse, proprio in questo momento ci stiamo avvicinando a una simile circostanza. La Terza rivoluzione industriale e la nuova era del capitalismo distribuito ci permettono di creare un diverso approccio alla globalizzazione, che questa volta ponga l’accento sulla continentalizzazione dal basso. Dato che le energie rinnovabili sono più o meno equamente distribuite nel mondo, ogni area ha potenzialmente a disposizione l’energia che le serve per rendersi relativamente autosufficiente e per adottare uno stile di vita sostenibile, pur interconnettendosi con le altre aree mediante reti intelligenti che attraversano paesi e continenti.
Anche se un certo livello di globalizzazione continuerà a esistere nell’ambito della Terza rivoluzione industriale, molto probabilmente sarà la continentalizzazione a giocare un ruolo preminente nello sviluppo dei commerci e degli scambi, perché le reti della Terza rivoluzione industriale e i suoi sistemi logistici favoriscono la condivisione di energia attraverso masse terrestri contigue.
Ogni comunità, una volta diventata localmente autosufficiente, potrà farsi coinvolgere in scambi regionali, transnazionali, continentali e, in misura limitata, globali, senza le severe restrizioni che sono imposte dalla geopolitica che presiede alla distribuzione delle energie elitarie dei combustibili fossili e dell’uranio.
La continentalizzazione sta già portando con sé una nuova forma di governo. Lo Stato-nazione, che si è sviluppato insieme alla Prima e alla Seconda rivoluzione industriale e ha fornito il meccanismo di regolazione per la gestione di un regime energetico la cui portata era la geosfera, non è adatto alla Terza rivoluzione industriale, il cui ambito è la biosfera. Le energie rinnovabili distribuite, generate localmente e regionalmente, e condivise apertamente – alla pari – attraverso vaste masse terrestri continentali, connesse da reti di servizi pubblici e catene logistiche e produttive intelligenti, favoriscono istituzioni di governo continentali.
L’Unione europea è la prima istituzione di governo continentale dell’era della Terza rivoluzione industriale. L’UE sta già cominciando a erigere le infrastrutture fondate sui quattro pilastri che porteranno a un regime energetico europeo, e a elaborare un corpus di norme, standard e regolamenti per promuovere reti di trasporto, di comunicazione e di energia che, entro la metà del secolo, si estenderanno senza soluzione di continuità dal Mare d’Irlanda alla soglia della Russia. Stanno per nascere unioni politiche africane, asiatiche e latino-americane: molto probabilmente, in ciascuno di questi continenti ci saranno istituzioni di governo transnazionali entro ii 2050.
In questa nuova era dell’energia distribuita le istituzioni di governo assomiglieranno sempre più, nel funzionamento, agli ecosistemi che devono governare. Come gli habitat dentro gli ecosistemi e gli ecosistemi dentro la biosfera funzionano in una rete di interrelazioni, così le istituzioni di governo funzionano in una rete collaborativa di relazioni, ognuna delle quali è integrata nell’altra e nell’insieme. Questo nuovo, complesso organismo politico agisce come la biosfera che governa, in maniera sinergica e reciproca: è la politica della biosfera.
La geopolitica si è sempre fondata sull’assunto che l’ambiente è un campo di battaglia, dove si combatte una guerra di tutti contro tutti per accaparrarsi le risorse necessarie alla propria sopravvivenza. Viceversa, la politica della biosfera si fonda sull’idea che la terra è come un organismo vivente, fatto di relazioni interdipendenti, e che ciascuno di noi può sopravvivere solo mettendosi al servizio della più vasta comunità di cui fa parte.
La nuova continentalizzazione dal basso e la globalizzazione ci permettono di portare a termine il compito di connettere gli esseri umani e di estendere la sensibilità empatica alla nostra specie nel suo insieme, oltre che alle molte altre specie che vivono con noi sul pianeta.
L’epoca di trinceramento economico nella quale ci troviamo adesso, al tramonto della Seconda rivoluzione industriale e all’alba della Terza, molto probabilmente durerà una generazione. Tale periodo dovrebbe essere sfruttato per ripensare le concezioni convenzionali che ci hanno portato a questa pericolosa impasse della storia umana e per preparare una nuova, grande narrazione per le generazioni future, a cui toccherà la spaventosa responsabilità di guarire la terra e creare un pianeta sostenibile.
Per ironia della sorte, il cambiamento climatico ci sta costringendo a riconoscere la nostra umanità condivisa e la nostra comune sofferenza come mai prima d’ora. Siamo davvero tutti insieme in questa vita e su questo pianeta e, semplicemente, non c’è più nessun luogo verso cui scappare o rifugiarsi, perché il conto entropico che la nostra specie ha creato soffoca la terra e minaccia di portarci all’estinzione.
Ho la sensazione che la reazione iniziale al cambiamento climatico, che oscillava fra negazione, disinteresse e, nel migliore dei casi, accettazione passiva – priva, cioè, del dovuto coinvolgimento politico ed emotivo – stia rapidamente modificandosi. Stiamo entrando in una nuova fase, in cui gli effetti di tale cambiamento sono percepibili «qui e ora» e influenzano negativamente intere regioni e ampi settori della popolazione del mondo. E la cosa è destinata solo a peggiorare nei prossimi decenni, con l’aggravamento delle condizioni climatiche e il coinvolgimento personale e diretto di un numero ancora maggiore di persone.
A un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini non sono diverse dalle nostre. Allora recriminazioni e rivendicazioni non serviranno a risolvere l’enormità della crisi. Solo un’azione concertata che stabilisca un senso collettivo di affiliazione con l’intera biosfera potrà assicurarci un futuro. Ma per questo ci servirà una coscienza biosferica.
La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?
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6.
Mi capita piuttosto raramente, dopo una vita dedicata prevalentemente alla saggistica nell’ambito delle scienze umane e sociali, di rimanere affascinato e, al tempo stesso, perplesso e confuso nel corso e alla fine della lettura di un libro.
Il fascino de La civiltà dell’Empatia, per quanto mi riguarda, non è dovuto all’avvento dell’era che preconizza, a mio avviso improbabile, bensì al fatto che esso chiude la stagione del pensiero debole o almeno di quella corrente di pensatori post-moderni che, inneggiando alla fine delle ideologie, di fatto, consapevolmente o meno, hanno fornito al sistema capitalistico contemporaneo la possibilità di ammantarsi come sistema non ideologico, empirico e pragmatico.
Rifkin (con Bauman, Beck, Attali, ecc.) non ha mai partecipato a quella corrente. Tutti i suoi saggi sono vasti affreschi del mondo contemporaneo che cercano una chiave di lettura globale atta ad illuminarne i valori, i limiti, le contraddizioni, le potenzialità regressive e quelle evolutive.
Con La civiltà dell’empatia, egli fornisce l’esempio di un pensiero a tal punto “forte” da non temere di avventurarsi sul terreno di una ricostruzione storica dell’intera vicenda umana al fine di cogliere in essa un “filo” significativo che, se non è finalistico, in quanto non esclude una catastrofe ecologica, comporta però anche la possibilità di un salto di qualità dell’umanità rivoluzionario sotto il profilo ecologico, economico, politico, sociale e antropologico.
Rifkin parla a più riprese della crisi globale del capitalismo liberista che, pur avendo prodotto una crescita straordinaria della ricchezza, ha imboccato progressivamente, e con un andamento esponenziale negli ultimi venticinque anni, la via di uno sviluppo squilibrante socialmente e ecologicamente, ed è venuto meno alla promessa di produrre la “felicità”. La catastrofe che si delinea all’orizzonte, grave al punto di mettere in gioco la sopravvivenza stessa della specie umana, è il paradossale prodotto di quello sviluppo.
La diagnosi di Rifkin, a ben vedere, è la stessa formulata da Marx centocinquanta anni fa, e si fonda sullo stesso presupposto antropologico: la contestazione dell’homo oeconomicus, vale a dire di un’ideologia che attribuisce all’uomo una natura sostanzialmente egoistica, competitiva e asociale, orientata univocamente alla massimizzazione dei vantaggi quantitativi ricavabili dall’interazione con gli altri sul piano del libero mercato.
Che Rifkin citi Marx appena di sfuggita non è sorprendente. Egli vive e lavora in un contesto, quello statunitense, nel quale il nome di Marx continua ad essere demonizzato e associato al fantasma del comunismo.
Cionondimeno, egli non ha alcuna difficoltà nel far suonare la campana a morte sul regime della proprietà privata e nel fare presente che essa va sormontata in nome dei diritti dell’umanità all’accesso alla straordinaria ricchezza che essa ha prodotto nel corso della sua evoluzione.
La prima e la seconda parte dell’opera rappresentano, inoltre, lo svolgimento di due tematiche proposte da Marx e abbandonate allo stato di abbozzo: l’evoluzione della coscienza umana dalla dipendenza all’indipendenza
Più torniamo indietro nella storia e più l’individuo, e quindi anche l’individuo che produce, ci appare non autonomo, parte di una totalità più vasta: dapprima ancora in modo del tutto naturale nella famiglia e nella famiglia allargata a tribù; più tardi nella comunità, sorta dal contrasto e dalla fusione delle tribù, nelle sue diverse forme. Solo nel XVIII secolo, nella «società civile», le differenti forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come una necessità esteriore. Ma l’epoca che crea questo modo di vedere, il modo di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per questo modo di vedere) finora più sviluppati.
I rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in misura ristretta e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio…
Grundrisse
I rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in misura ristretta e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio…
Grundrisse
e il rapporto tra infrastruttura e sovrastruttura
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e delle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese.
L’ideologia tedesca
L’ideologia tedesca
Al di sopra delle differenti forme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di differenti impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita… L’individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l’educazione, si può immaginare che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività.
Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
C’è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale? Cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale?
Manifesto del Partito Comunista
Manifesto del Partito Comunista
Non c’è da sorprenders, come accennato, se Rifkin approfondisce queste intuizioni senza citare Marx. Rifiutato come ideologico, il pensiero marxiano nondimeno ha profondamente influenzato l’economia, la sociologia, la storia, ecc. In una certa misura esso è onnipresente in tutti gli studiosi di scienze umane e sociali, funzionando come un fertilizzante. Laddove esso è assente, come per esempio negli epigoni contemporanei del liberismo o in quelli dello spiritualismo, non si produce cultura, ma ideologia.
Detto questo, sarebbe poco onesto riconoscere che il pensiero di Rifkin, per quanto muova da presupposti antropologici affini a quelli di Marx e condivida la sua diagnosi sul sistema capitalistico nato con la rivoluzione industriale ottocentesca, ha una sua indubbia originalità. Partendo da quei presupposti e da quella diagnosi, infatti, esso riconosce uno sviluppo e giunge a conclusioni che sono molto diverse rispetto a quelle di Marx.
Lo sviluppo, infatti, è incentrato sulla valorizzazione dell’empatia, considerata come un attributo proprio della natura umana. La rassegna che Rifkin fa della riscoperta dell’empatia promossa dalla psicoanalisi, confermata dagli studi di psicologia evolutiva e, infine, resa certa dalla scoperta dei neuroni specchio, è tra le più limpide, precise e profonde tra quelle prodotte di recente. La sua proposta di rileggere la storia della specie alla luce della nuova idea della natura umana che discende dall’attribuzione ad essa di una socialità empatica primaria è assolutamente affascinante. Gli esiti della rilettura, però, non mi sembrano convincenti.
Ho già accennato al fatto che Rifkin accoglie acriticamente la teoria hofmaniana sull’empatia, la quale comporta stadi di sviluppo che portano da un’originaria modalità viscerale ed egocentrica ad un’empatia globale e matura per effetto dello sviluppo cognitivo. Si tratta di uno schema astratto, poiché esso non prende in considerazione la possibilità che lo sviluppo cognitivo, in conseguenza delle influenze culturali ambientali, possa piuttosto produrre una mortificazione e un’anestetizzazione dell’empatia.
Questa possibilità non è meramente teorica. La civiltà borghese, con il suo riferimento all’homo oeconomicus, non si sarebbe potuta affermare se non in virtù di questa anestetizzazione, funzionale ad affrancare l’individuo dai legami di appartenenza familiari e gruppali, ma al tempo stesso inevitabilmente incline a separare l’uomo dall’uomo (e – oggi potremmo dire – dalla sua stessa natura).
C’è un secondo aspetto, però, da considerare nel modo in cui Rifkin utilizza il concetto di empatia, influenzato anch’esso dal cognitivismo. L’empatia, così come è stata definita dai neuroscienziati che hanno scoperto i neuroni specchio, è una modalità preriflessiva e precognitiva che consente di “capire intuitivamente” ciò che avviene nel mondo interiore di un altro. Per utilizzare un linguaggio contemporaneo, si tratta di una modalità di condivisione dell’esperienza umana “peer to peer”, che per molti aspetti rimane del tutto inconscia. E’ fuori di dubbio che essa comporta la possibilità di “teorizzare” riflessivamente e coscientemente ciò che avviene nella mente degli altri.
Identificare, però, l’empatia con la capacità di utilizzare una teoria della mente, come fanno i cognitivisti, è un errore. In quanto influenzata, infatti, dal contesto culturale all’interno del quale avviene lo sviluppo cognitivo individuale, la teoria della mente può comportare anche esiti paradossali. Due di questi vanno evidenziati per capire meglio come stanno le cose. La pubblicità, come anche la psicologia di ogni commerciante, comporta senz’altro una teoria della mente, in quanto è rivolta a comprendere le aspettative e i desideri del cliente. Cionondimeno, il suo intento, di solito, è tutt’altro che empatico dacché il fine che si propone è di manipolare, in qualche misura, la mente del cliente fino al punto di produrre in essa falsi bisogni.
Un secondo esempio, meno banale, è più inquietante. Lo sviluppo cognitivo, infatti, comporta anche la possibilità di simulare un’emozione empatica che, di fatto, a livello viscerale non è più avvertita per effetto di un’anestetizzazione. Anche e non voler considerare la torma dei filantropi, particolarmente rappresentati negli Stati Uniti, che vivono un regime di dissociazione tra l’empatia simulata come virtù sociale e un comportamento quotidiano espressivo di una logica egoistica e competitiva, basta pensare all’ondata di buonismo che ha invaso di recente i talk show televisivi dietro la quale è assolutamente evidente una più o meno completa indifferenza sociale.
Questi aspetti sono importanti perché incidono profondamente nella ricostruzione che Rifkin fa degli stadi di coscienza che, in conseguenza degli sviluppi tecnologici, sarebbero evoluti quasi linearmente nella direzione di uno sviluppo approdato infine alla coscienza empatica contemporanea.
Nella seconda e ancora più nella terza parte del saggio, infatti, è del tutto evidente che, sulla base della confusione cui ho fatto cenno, Rifkin identifica in qualunque forma di interconnessione sociale, e soprattutto in quella che si sta realizzando grazie all’estensione globale della rete Internet, l’espressione della coscienza empatica che si andrebbe universalizzando.
Tale identificazione sembra piuttosto azzardata. E’ fuori di dubbio che quella interconnessione attesta un bisogno di interazione sociale molto intenso. Per molti aspetti, però, quel bisogno può essere interpretato come espressione di una profonda angoscia di solitudine più che di una coscienza empatica, vale a dire come espressione di una fobia dell’affettività che costringe le persone a realizzare virtualmente quel bisogno non potendolo realizzare nella rete dei rapporti sociali quotidiani.
Da intellettuale riflessivo e profondo, Rifkin intuisce che non è tutto oro quel che luce e che egli stesso tende a valorizzare. Il capitolo sulla coscienza drammaturgica è un pezzo di bravura oltremodo significativo, che pone in luce il pericolo che il gran teatro di un mondo interconnesso divenga la ribalta di un frenetico esibizionismo narcisistico, al di sotto del quale si dà la solitudine e l’assenza di relazioni significative. Tale pericolo è immediatamente minimizzato in nome di “ricerche” univoche nell’attestare che le giovani generazioni più aperte alle novità, al pluralismo culturale, al lavoro di èquipes, alla socialità empatica.
La confusione che induce la lettura del saggio di Rifkin è da ricondurre al fatto che la viva percezione dei mali che affliggono il nostro mondo, dall’aumento degli squilibri sociali al malessere psicologico che si va diffondendo epidemicamente, è compensata da un orientamento sostanzialmente ottimistico che vede nello sviluppo della tecnologia – dallo stoccaggio delle energie rinnovabili all’irresistibile avanzata della democrazia, dello scambio e del reciproco aiuto su Internet – il fattore destinato a realizzare la Civiltà dell’Empatia.
Nell’intimo, mi verrebbe da augurarmi che Rifkin avesse ragione. Purtroppo questo augurio contrasta con il pessimismo dell’intelligenza critica. Se è vero che l’empatia fa parte della natura umana, ci sono infiniti dati che attestano che nel contesto della nostra società, e anche in giro per il mondo, i livelli di anestetizzazione empatica hanno raggiunto un picco critico. L’indizio più importante da questo punto di vista, anche se non è certo l’unico, è la diffusione epidemiologica dei disturbi psichici, la cui matrice univoca e universale è la relazione conflittuale con l’Altro (reale e immaginario), in conseguenza della quale l’Io si riduce, per dirla con Cristopher Lasch, ad uno stato “minimo” sotteso da vissuti persecutori, dall’angoscia della solitudine e da un senso di svuotamento esistenziale.
Che questo stato, in nome di un’esigenza interiore e di un codice normativo (estroverso), venga compensato dalla ricerca di contatti sociali la più ampia possibile e da modalità relazionali che sembrano simulare l’empatia, è un dato di fatto psicosociologico. Vedere in ciò un progresso della coscienza umana verso il raggiungimento del suo stadio ottimale – lo stadio dell’individuo universalmente socializzato ed empatico – sembra viceversa un errore.
Perché Rifkin lo commette? Perché, presumibilmente, egli, adottando un principio dialettico, ritiene che la Civiltà borghese, la quale ha prodotto uno sviluppo straordinario della tecnologia e della ricchezza, e, al tempo stesso, l’immiserimento dell’uomo fino allo stato “minimo”, ha rappresentato e rappresenta un passaggio obbligato sulla via dell’umanizzazione, vale a dire del recupero dell’Altro come riferimento indispensabile dello sviluppo dell’individuo sociale.
Più o meno, è ciò che pensava Marx stesso elogiando con toni emotivamente quasi concitati il significato storico del Capitalismo.
Laddove, però, egli postulava una discontinuità storica, al di là della quale l’uomo avrebbe recuperato l’Altro come fine e non come mezzo, Rifkin ritiene che la Rivoluzione possa avvenire, e di fatto stia già avvenendo, sulla base di una continuità. E’ quella stessa Civiltà, infatti, che starebbe producendo, attraverso la tecnologia, i presupposti del suo superamento.
Mi augurerei – ripeto – che le cose stessero così. Temo, però, che se non si realizza una forte discontinuità, vale a dire una crisi collettiva che restituisca all’umanità, e soprattutto a quella occidentale, la consapevolezza di avere imboccato un vicolo cieco, la prospettiva catastrofica non potrà essere scongiurata.
La coscienza umana con la sua indefinità capacità di essere ingannata e di ingannarsi: questo è il problema. Che tale capacità conviva con un orientamento empatico originario e, ormai, fuori di dubbio, rende la circostanza solo più inquietante e dolorosa.
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