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giovedì 10 novembre 2016

TRUMP E' PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D'AMERICA

TRUMP E' PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D'AMERICA

Jacques Sapir
VOCIDALLESTERO





Dal blog Russeurope i commenti a caldo dell’economista francese Jacques Sapir sulla vittoria di Donald Trump alle elezioni americane e le sue conseguenze per gli Stati Uniti e il mondo. Una rivolta delle classi popolari contro le élite e una lezione di realtà per l’intero ceto politico, anche in Europa. I leader europeisti mostrano di vivere in una bolla di illusioni, da dove non comprendono più l’evolversi della storia. Situazione pericolosissima, conclude Sapir, quella in cui le élite culturali e politiche si aggrappano a una realtà superata e smentita dai fatti: ma non è affatto sicuro che questa lezione verrà imparata. 

La vittoria di Donald Trump ha scosso gli Stati Uniti e ha sorpreso il mondo. Riflette il montare di un’ondata di rabbia della classe popolare contro le cosiddette “elite”. Firma una reazione storica contro la frattura sociale, ma anche ideologica e culturale, degli Stati Uniti, che ha visto lo sviluppo di una politica, ma anche di media, “fuori dal mondo”. Gli stessi media che hanno condotto una campagna isterica in sostegno di Hillary Clinton oggi sono stati brutalmente smentiti. Dovrebbero imparare la lezione; non è sicuro che lo faranno.

Una vittoria, una sconfitta, un rimpianto

Ci sono stati, è evidente, toni razzisti nella campagna elettorale di Donald Trump, ma gli osservatori che si sono attaccati solo a questo e non hanno voluto vedere altro hanno dimenticato l’essenziale: il montare da mesi di una onda di piena contro la “finanza”, contro Wall Street.
L’elezione di Trump è, simbolicamente, la vittoria della vita reale contro la vita virtuale. Questa elezione ci dice anche, specularmente, che il bilancio della presidenza di Barack Obama non è così positivo come la stampa vuole farci credere, e che l’economia degli Stati Uniti non si è ancora ripresa dalla crisi del 2007-2009.
Questa marea avrebbe anche potuto prendere un’altra direzione. Bernie Sanders, il candidato che ha perso le primarie democratiche, la incarnava anche lui, a modo suo, e sicuramente in un modo più politico rispetto a Donald Trump. Questa è la responsabilità storica dell’establishment democratico, dei pezzi grossi del partito che non hanno esitato a manipolare le primarie, favorendo scandalosamente Hillary Clinton: avere consentito la vittoria di Donald Trump. Ricordiamo questa lezione. La sinistra può vincere quando è vicina alla gente, mai quando parte per la tangente al seguito della finanza e dei grandi poteri, della casta giornalistica e di artisti mutevoli e incostanti. È una delle lezioni da trarre da questa campagna e da questa elezione, e in parte conferma la strategia di Jean-Luc Mélenchon.
Ma questa vittoria è anche e prima di tutto la sconfitta di Hillary Clinton. È stata vista come il candidato della finanza; i suoi legami con le grandi banche d’affari di Wall Street – tra cui Goldman Sachs – erano ben noti. Andava d’amore e d’accordo con i ricchi e le celebrità. I suoi legami finanziari sono andati ben oltre, e il ruolo della Fondazione Clinton resta da chiarire, in particolare i suoi rapporti con i leader di paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar.
Il suo comportamento, il misto di trascuratezza e di arroganza che ha dimostrato nel caso dei suoi messaggi di posta elettronica (l’emailgate) è stato bocciato dalla maggioranza degli americani. Mentre anche le sue posizioni interventiste e avventuriste in politica estera hanno contribuito a spaventare una parte dell’opinione pubblica.

Le conseguenze

L’elezione di Donald Trump avrà conseguenze importanti, sia negli stessi Stati Uniti sia nelle relazioni internazionali. Da una parte dovrà dare una rapida risposta a quella maggioranza di americani che hanno visto il declino del loro tenore di vita, mentre quello di una piccola minoranza decollava.
Il voto degli stati della ex cintura industriale degli Stati Uniti, la cosiddetta “cintura della ruggine” o Rustbelt è tipico in questo senso del movimento che ha portato Trump alla presidenza.
Trump dovrà anche ricostruire il Partito repubblicano, parte dell’élite del quale si è allontanata da lui. Il fatto che i Repubblicani rimangono maggioranza al Congresso potrebbe aiutare. Ma la sua politica sarà strattonata tra l’ala più reazionaria del suo partito e il suo desiderio di soddisfare i suoi elettori, in particolare lanciando grandi programmi di investimenti pubblici. Dovrà riconciliare simbolicamente con se stessi gli americani, che escono lacerati da questa campagna, vissuta come disastrosa da una grande maggioranza.
Ma è nelle relazioni internazionali che le conseguenze delle elezioni di Donald Trump segneranno gradualmente il più grande cambiamento.
Il presidente neo-eletto non ha fatto segreto della sua volontà di migliorare le relazioni degli Stati Uniti con la Russia, di porre fine alla sovra-estensione dell’apparato militare degli Stati Uniti, di tornare a una visione più realistica del commercio internazionale, lontana dal dogma del libero scambio. Non sarà più il momento dei grandi trattati internazionali, come il TTIP o il CETA. Torna il protezionismo, e bisognerà prenderne atto se si vuole sfruttare al massimo e mettere in atto questa “de-globalizzazione” ragionata, che io ho auspicato e che oggi sembra inevitabile. Quindi accogliamone l’auspicio, pur comprendendo che la politica di un paese come gli Stati Uniti non si trasforma in pochi giorni o settimane.
Ma è chiaro che l’elezione di Donald Trump offre una nuova speranza per le relazioni con la Russia, e che l’atteggiamento aggressivo adottato da Washington, sia in Ucraina sia in Siria, non sarà mantenuto. Anche questo è un aspetto positivo di questa elezione. Speriamo che questo sia capito anche nei paesi europei che – stupidamente – hanno deciso di mantenere le sanzioni contro la Russia.

Le conseguenze per l’ideologia europea

Più in generale, questa elezione rimescola le carte anche per l’Unione europea. Non è un caso che l’ex primo ministro italiano Enrico Letta abbia detto che è l’evento più importante dopo la caduta del muro di Berlino. Le élite filo-europee hanno perso un sostegno cruciale nella presidenza americana [1], e questo si coglie sia nelle reazioni di Juncker e Tusk, sia in quelle di Angela Merkel e Francois Hollande. Al contrario, i politici che contestano questo europeismo, da Nigel Farage a Beppe Grillo, passando per Marine Le Pen, hanno accolto con favore la vittoria di Donald Trump.
Naturalmente, ora si cercherà di declamare nuovamente l’inno dell’Europa federale e di riattizzare i fuochi morenti dell’integrazione europea. Ma le divisioni tra gli stati dell’UE non spariranno per magia. Gli interessi di questi stati resteranno quello che sono, opposti a qualsiasi integrazione. Prima o poi bisognerà decidersi a trarne le conseguenze, e tornare a una politica delle Nazioni, che non esclude certo, tra queste Nazioni, cooperazione e amicizia. Rifiutandosi di farlo, i leader europeisti corrono il rischio di aggravare la rabbia che cova anche nell’Unione Europea. Le negazioni della democrazia sono state troppo numerose, troppo sistematiche. Questi leader corrono il rischio, su loro scala e nelle loro condizioni, di fare la fine di Hillary Clinton.
E tuttavia è improbabile che capiscano che i tempi sono cambiati, non certo a causa di questa elezione presidenziale, che è solo un elemento in più nel cambiamento, ma perché viviamo oggi, e da oltre dieci anni, il ritorno delle Nazioni. Nulla è più drammatico di quando le élite, sia politiche sia culturali, si aggrappano a una visione del mondo che la realtà ha superato e smentito. Possiamo, in qualche misura, vivere in una bolla. Ma a un certo punto, la bolla scoppia e si è destinati a pagare a caro prezzo il mondo di illusioni che ci si è fabbricati.

[1] http://www.lastampa.it/2016/11/09/esteri/russia-e-destre-europee-esultano-lue-relazioni-transatlantiche-pi-difficili-KpVb6IQVQoRjaEBIeyH2fM/pagina.html

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