MINNITI AL MINISTERO DEGLI ATTENTATI “ISLAMICI”
Di comidad
L’uguaglianza non è un’utopia ma un dato di fatto, purtroppo al ribasso. Si può essere il rampollo di una delle più antiche famiglie d’Europa, aver ricevuto tutte le opportunità di istruzione e dimostrarsi comunque un povero deficiente. Molti commentatori si attendevano dal nuovo Presidente del Consiglio un mutamento di stile rispetto al predecessore, ma le attese sono rimaste deluse.
Nella prima delle sue sortite internazionali, Paolo Gentiloni ha riproposto infatti il velleitarismo e la scompostezza comunicativa che già avevano contraddistinto Renzi. L’occasione della brutta figura è stato l’incontro con il Primo Ministro colombiano, Juan Manuel Santos, chiamato da Gentiloni con il suo nome di battesimo, Manuel, come se fosse il suo amichetto del bar. Ma la conversazione da bar ha caratterizzato anche le dichiarazioni di Gentiloni, il quale, nel congratularsi con i risultati del suo omologo colombiano, non ha esitato a compiere un impietoso paragone tra la situazione in Colombia e quella in Italia, in quanto mentre i Colombiani avrebbero dimostrato di saper superare le difficoltà di una guerra civile, noi Italiani rimarremmo impantanati in guerre di parole.
Che ad un capo di governo estero in visita si facciano i complimenti per il suo accordo interno di pace (ancorché sconfessato da un referendum popolare) e per aver ricevuto il premio Nobel per la pace (per quello che vale, visti i precedenti), fa parte del bon ton diplomatico. Il fatto però, che nel fare tali complimenti, il rappresentante di un Paese denigri pubblicamente il Paese che dovrebbe rappresentare, costituisce non solo un esempio di irresponsabilità comunicativa, ma anche il segnale che egli interpreta la propria pubblica funzione come un mero strumento di salvezza personale. Gentiloni non si è posto infatti come chi svolgesse una pubblica funzione, bensì come un privato che intrattiene rapporti con un altro privato.
Molti commentatori hanno classificato come ennesimo caso di demeritocrazia la promozione di Angelino Alfano a ministro degli Esteri. Sarebbe stato forse più consono collocarlo in quel generale processo di privatizzazione e cialtronizzazione della politica estera italiana di cui sono stati manifestazione prima il Buffone di Arcore, poi Renzi e lo stesso Gentiloni. La nomina di Alfano può infatti vantare una sua logica, poiché dal 2011, anno del disastro diplomatico dell’intervento militare italiano in Libia (imposto dalla NATO per tramite di Giorgio Napolitano) l’Italia non detiene più qualcosa di simile ad una politica estera. L’Italia è notoriamente occupata da basi militari NATO e USA, basi che, come ha ricordato tempo fa anche l’ex deputato verde Mauro Bulgarelli, sono in gran parte pagate dal contribuente italiano, o direttamente o con la fornitura di servizi. Può essere quindi considerato normale che il contribuente italiano paghi anche per una politica estera non propria; e da un Alfano messo a fare il ministro degli Esteri nessuno si attenderà nulla di diverso.
D’altra parte si può esser certi che verrà rimpianto l’Alfano ministro degli Interni ora che a sostituirlo è stato chiamato un “esperto di servizi segreti” come Marco Minniti, il quale vanta un curriculum quasi ventennale in questo campo. Una scelta, quella di Minniti a ministro degli Interni, davvero “preveggente”, visto l’attentato a Berlino di appena due giorni fa.
Nella sua veste di sottosegretario agli Interni come addetto appunto alla “Intelligence”, Minniti aveva tenuto nel novembre scorso una conferenza all’Università di Milano Bicocca nella quale aveva pubblicizzato il ruolo dei servizi segreti lanciando persino un appello per il reclutamento degli studenti in quel campo. L’aspetto contraddittorio ed inquietante del quadro offerto dalle dichiarazioni di Minniti è che in definitiva viene a cadere proprio la “intelligence”, cioè l’esigenza di sapere, di acquisire nuove informazioni. Per Minniti infatti il terrorismo sarebbe inequivocabilmente islamico, i testi da scrutare sarebbero immancabilmente arabi, cioè si hanno già pronte le etichette da appiccicare agli attentati passati, presenti e futuri. Ogni volta che si mette in dubbio la matrice di un attentato, dall’altra parte si grida immediatamente al “complottismo”, uno slogan che in effetti non c’entra assolutamente nulla. Il terrorismo è infatti, per definizione, un’arma ambigua, nella quale l’incertezza dell’attribuzione costituisce un elemento caratterizzante. Una “intelligence” che non dubita della matrice di un attentato non è una “intelligence”, perché rinuncia alla ricerca.
Si potrebbe quindi dedurre che i servizi segreti abbiano ben poco a che fare con la “intelligence” e molto più a che fare con la provocazione e l’intossicazione dell’informazione. Del resto oligarchie che hanno azzerato ogni spazio di mediazione sociale, per cui si drammatizzano all’estremo questioni ovvie come il salvataggio di una banca o come l’eliminazione dei voucher, non dispongono ormai di altro strumento di controllo che il terrore.
Di comidad
L’uguaglianza non è un’utopia ma un dato di fatto, purtroppo al ribasso. Si può essere il rampollo di una delle più antiche famiglie d’Europa, aver ricevuto tutte le opportunità di istruzione e dimostrarsi comunque un povero deficiente. Molti commentatori si attendevano dal nuovo Presidente del Consiglio un mutamento di stile rispetto al predecessore, ma le attese sono rimaste deluse.
Nella prima delle sue sortite internazionali, Paolo Gentiloni ha riproposto infatti il velleitarismo e la scompostezza comunicativa che già avevano contraddistinto Renzi. L’occasione della brutta figura è stato l’incontro con il Primo Ministro colombiano, Juan Manuel Santos, chiamato da Gentiloni con il suo nome di battesimo, Manuel, come se fosse il suo amichetto del bar. Ma la conversazione da bar ha caratterizzato anche le dichiarazioni di Gentiloni, il quale, nel congratularsi con i risultati del suo omologo colombiano, non ha esitato a compiere un impietoso paragone tra la situazione in Colombia e quella in Italia, in quanto mentre i Colombiani avrebbero dimostrato di saper superare le difficoltà di una guerra civile, noi Italiani rimarremmo impantanati in guerre di parole.
Che ad un capo di governo estero in visita si facciano i complimenti per il suo accordo interno di pace (ancorché sconfessato da un referendum popolare) e per aver ricevuto il premio Nobel per la pace (per quello che vale, visti i precedenti), fa parte del bon ton diplomatico. Il fatto però, che nel fare tali complimenti, il rappresentante di un Paese denigri pubblicamente il Paese che dovrebbe rappresentare, costituisce non solo un esempio di irresponsabilità comunicativa, ma anche il segnale che egli interpreta la propria pubblica funzione come un mero strumento di salvezza personale. Gentiloni non si è posto infatti come chi svolgesse una pubblica funzione, bensì come un privato che intrattiene rapporti con un altro privato.
Molti commentatori hanno classificato come ennesimo caso di demeritocrazia la promozione di Angelino Alfano a ministro degli Esteri. Sarebbe stato forse più consono collocarlo in quel generale processo di privatizzazione e cialtronizzazione della politica estera italiana di cui sono stati manifestazione prima il Buffone di Arcore, poi Renzi e lo stesso Gentiloni. La nomina di Alfano può infatti vantare una sua logica, poiché dal 2011, anno del disastro diplomatico dell’intervento militare italiano in Libia (imposto dalla NATO per tramite di Giorgio Napolitano) l’Italia non detiene più qualcosa di simile ad una politica estera. L’Italia è notoriamente occupata da basi militari NATO e USA, basi che, come ha ricordato tempo fa anche l’ex deputato verde Mauro Bulgarelli, sono in gran parte pagate dal contribuente italiano, o direttamente o con la fornitura di servizi. Può essere quindi considerato normale che il contribuente italiano paghi anche per una politica estera non propria; e da un Alfano messo a fare il ministro degli Esteri nessuno si attenderà nulla di diverso.
D’altra parte si può esser certi che verrà rimpianto l’Alfano ministro degli Interni ora che a sostituirlo è stato chiamato un “esperto di servizi segreti” come Marco Minniti, il quale vanta un curriculum quasi ventennale in questo campo. Una scelta, quella di Minniti a ministro degli Interni, davvero “preveggente”, visto l’attentato a Berlino di appena due giorni fa.
Nella sua veste di sottosegretario agli Interni come addetto appunto alla “Intelligence”, Minniti aveva tenuto nel novembre scorso una conferenza all’Università di Milano Bicocca nella quale aveva pubblicizzato il ruolo dei servizi segreti lanciando persino un appello per il reclutamento degli studenti in quel campo. L’aspetto contraddittorio ed inquietante del quadro offerto dalle dichiarazioni di Minniti è che in definitiva viene a cadere proprio la “intelligence”, cioè l’esigenza di sapere, di acquisire nuove informazioni. Per Minniti infatti il terrorismo sarebbe inequivocabilmente islamico, i testi da scrutare sarebbero immancabilmente arabi, cioè si hanno già pronte le etichette da appiccicare agli attentati passati, presenti e futuri. Ogni volta che si mette in dubbio la matrice di un attentato, dall’altra parte si grida immediatamente al “complottismo”, uno slogan che in effetti non c’entra assolutamente nulla. Il terrorismo è infatti, per definizione, un’arma ambigua, nella quale l’incertezza dell’attribuzione costituisce un elemento caratterizzante. Una “intelligence” che non dubita della matrice di un attentato non è una “intelligence”, perché rinuncia alla ricerca.
Si potrebbe quindi dedurre che i servizi segreti abbiano ben poco a che fare con la “intelligence” e molto più a che fare con la provocazione e l’intossicazione dell’informazione. Del resto oligarchie che hanno azzerato ogni spazio di mediazione sociale, per cui si drammatizzano all’estremo questioni ovvie come il salvataggio di una banca o come l’eliminazione dei voucher, non dispongono ormai di altro strumento di controllo che il terrore.
Nessun commento:
Posta un commento
grazie del tuo commento