Home

domenica 10 dicembre 2017

Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente

Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente 

Dani Rodrik 
bostonreview.net/
vocidallestero


Ronald Reagan e Margaret Thatcher nel 1984 alla White House


Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo.

Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia.


di Dani Rodrik, 14 novembre 2017

Il neoliberismo e le sue ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di fatto sono una distorsione della scienza economica tradizionale.


Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.



Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.



Viviamo nell’epoca del neoliberismo, a quanto pare. Ma chi sono i seguaci e i divulgatori del neoliberismo – i neoliberali stessi? Stranamente, per trovare qualcuno che sposi esplicitamente il neoliberismo bisogna tornare parecchio indietro nel tempo. Nel 1982, Charles Peters, l’editore storico della rivista politica Washington Monthly, pubblicò un saggio intitolato A Neo-Liberal’s Manifesto. Trentacinque anni dopo è una lettura interessante, dal momento che il neoliberismo che descrive ha ben poco in comune con l’oggetto della odierna esecrazione. I politici che Peters nomina come esemplificatori del movimento non sono del tipo Thatcher o Reagan, ma piuttosto liberal – nel senso americano del termine – che, disillusi dai sindacati e dal grande governo, hanno abbandonato i loro pregiudizi contro i mercati e le forze armate.



L’uso del termine “neoliberale” è esploso negli anni 90, strettamente associato a due fenomeni, nessuno dei quali era stato menzionato nell’articolo di Peters. Il primo è la deregolamentazione finanziaria, che sarebbe culminata nel crollo finanziario del 2008 e nell’ancora in atto crisi dell’euro. Il secondo è la globalizzazione economica, che ha subìto una forte accelerazione a causa della libertà di circolazione dei flussi di capitali e a un nuovo e più ambizioso tipo di trattati commerciali. La finanziarizzazione e la globalizzazione sono diventate le manifestazioni più evidenti del neoliberismo nel mondo di oggi.



Il fatto che il neoliberismo sia un concetto scivoloso e mutevole, privo di una esplicita lobby di difensori, non significa però che sia irrilevante o irreale. Chi può negare che dagli anni 80 in poi il mondo abbia sperimentato uno spostamento decisivo verso i mercati? O che i leader politici di centrosinistra – i Democratici negli Stati Uniti, i socialisti e i socialdemocratici in Europa – abbiano sposato con entusiasmo alcuni dei dogmi fondamentali del thatcherismo e del reaganismo, come la deregolamentazione, la privatizzazione, la liberalizzazione finanziaria e l’impresa individuale? Gran parte della nostra discussione politica contemporanea è imbevuta di principi che si possono considerare fondati sul concetto di homo economicus, l’essere umano perfettamente razionale, presente in molte teorie economiche, che persegue sempre il proprio interesse personale.



Ma l’indeterminatezza del termine neoliberismo significa anche che le critiche che gli sono rivolte spesso non centrano il bersaglio. Non c’è niente che non va nei mercati, nell’imprenditoria privata o negli incentivi – quando sono dispiegati nel modo giusto. Il loro uso creativo è alla base dei risultati economici più significativi del nostro tempo. Disprezzando il neoliberismo, rischiamo di buttare via anche alcune delle sue idee utili.



Il vero problema è che l’economia mainstream sconfina troppo facilmente nell’ideologia, limitando le scelte che abbiamo di fronte e proponendo soluzioni fatte con lo stampino. Una corretta comprensione del pensiero economico che si cela dietro al neoliberismo ci permettere di identificarne – e di respingerne – l’ideologia, quando si traveste da scienza economica. Soprattutto, ci aiuta a sviluppare l’immaginazione nel creare nuove istituzioni, qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno per ridisegnare il capitalismo per il XXI secolo.



Il neoliberismo, tipicamente, è considerato fondato sui princìpi chiave della scienza economica tradizionale. Per identificare questi princìpi al di là dell’ideologia, proviamo a fare un esperimento mentale. Immaginiamo che un noto e stimato economista approdi in un paese che non ha mai visitato e di cui non sa nulla. Qui ne incontra i principali responsabili politici. “Il nostro paese è nei guai”, gli dicono. “L’economia è stagnante, gli investimenti sono bassi e non c’è in vista alcuna crescita.” Si rivolgono a lui, pieni di aspettative: “Per favore, ci dica cosa dovremmo fare per far crescere la nostra economia”.



L’economista fa appello alla sua ignoranza e spiega che sa troppo poco del paese per formulare raccomandazioni. Dovrebbe studiare la storia dell’economia, analizzare le statistiche e viaggiare in tutto il paese prima di poter dire qualcosa.



Tony Blair e Bill Clinton: politici di centro-sinistra che hanno adottato con entusiasmo alcuni dei dogmi fondamentali del thatcherismo e del reaganismo. Fotografia: Reuters



Ma i suoi ospiti insistono. “Capiamo le sue reticenze e avremmo tanto desiderato che lei avesse avuto il tempo per farlo”, gli dicono. “Ma l’economia non è una scienza, e lei non è uno dei suoi più illustri cultori? Anche se non sa molto della nostra economia, sicuramente ci sono teorie e prescrizioni generali che può condividere con noi, per guidare le nostre politiche economiche e le nostre riforme. ”



L’economista a questo punto è alle strette. Non vuole emulare i guru economici che ha sempre criticato perché vanno in giro a propalare le loro teorie. Ma si sente sfidato dalla domanda. Ci sono verità universali in economia? Per lui è possibile dire loro qualcosa di valido e utile?



E così inizia a parlare. L’efficienza con cui sono allocate le risorse di un’economia è un fattore determinante per i risultati di quella economia, afferma. L’efficienza, a sua volta, richiede che gli incentivi alle famiglie e alle imprese tengano conto dei relativi costi e benefici sociali. Gli incentivi per gli imprenditori, investitori e produttori sono particolarmente importanti quando si parla di crescita economica. La crescita, poi, ha bisogno di un sistema che tuteli i diritti di proprietà e il rispetto dei contratti, in modo da garantire a chi investe il rendimento dei suoi investimenti. Inoltre l’economia deve essere aperta alle idee e alle innovazioni che provengono dal resto del mondo.



Ma l’economia di un paese può deragliare a causa dell’instabilità macroeconomica, prosegue. Per questo i governi devono perseguire una sana politica monetaria, il che significa porre come limite alla crescita della liquidità l’aumento della domanda nominale di moneta a un tasso di inflazione ragionevole. Devono garantire la sostenibilità dei bilanci pubblici, facendo in modo che l’aumento del debito pubblico non superi il reddito nazionale. E devono provvedere a una regolamentazione prudenziale delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, per evitare che il sistema finanziario diventi eccessivamente rischioso.



Ora l’economista sta iniziando a scaldarsi. L’economia non riguarda solo l’efficienza e la crescita, aggiunge. I princìpi economici si riflettono anche sull’equità e sulla politica sociale. L’economia ha poco da dire sulla quantità di redistribuzione della ricchezza cui dovrebbe aspirare una società. Ma ci dice che la base imponibile per la tassazione dovrebbe essere la più ampia possibile e che i programmi di aiuto sociale dovrebbero essere concepiti in modo da non incoraggiare i lavoratori ad abbandonare il mercato del lavoro.



Quando l’economista smette di parlare, sembrerebbe che abbia delineato un programma neoliberista a tutti gli effetti. Un critico tra il pubblico avrebbe sentito tutte le parole chiave: efficienza, incentivi, diritto alla proprietà, politica monetaria solida, prudenza fiscale. E invece non è così. I principi universali descritti dall’economista sono in realtà piuttosto aperti. Presuppongono un’economia capitalista, in cui le decisioni di investimento sono prese da privati ​​e imprese, ma non vanno molto oltre. Consentono – anzi, richiedono – una sorprendente varietà di sistemi istituzionali.



Quindi l’economista ha appena snocciolato un pistolotto neoliberista? Saremmo in errore a pensarlo, e il nostro errore consisterebbe nell’associare ogni termine astratto – incentivi, diritti di proprietà, moneta solida – a una precisa corrispondenza nel campo delle istituzioni. E qui sta la presunzione centrale, e il difetto fatale, del neoliberismo: la convinzione che i princìpi economici davvero solidi e corretti coincidano con un unico insieme di politiche, approssimativamente quelle del tipo Thatcher/ Reagan.



Prendiamo per esempio i diritti di proprietà. Hanno importanza fino a quando garantiscono il ritorno degli investimenti. Un sistema ottimale garantirebbe i diritti di proprietà a coloro che fanno il miglior uso di un bene e li difenderebbe contro quelli che hanno maggiore probabilità di espropriarne i rendimenti. I diritti di proprietà sono utili quando proteggono gli innovatori dai free riders, ma sono dannosi quando li proteggono dalla concorrenza. A seconda del contesto, un regime legale che fornisce gli incentivi appropriati può essere molto diverso dal regime standard di diritti di proprietà privata degli Stati Uniti.



Potrebbe sembrare una questione puramente semantica, poco importante nella pratica; e invece il fenomenale successo economico della Cina è in gran parte dovuto al suo architettare istituzioni che sfidavano l’ortodossia. La Cina si è aperta ai mercati, ma non ha copiato le pratiche occidentali sui diritti di proprietà. Le sue riforme hanno prodotto incentivi basati sul mercato attraverso una serie di forme istituzionali originali, che erano più adatte al contesto locale. Invece di passare direttamente dallo Stato alla proprietà privata, ad esempio, che sarebbe stata ostacolata dalla debolezza delle strutture giuridiche prevalenti in Cina, il paese ha fatto affidamento su forme miste di proprietà, che in pratica hanno garantito diritti di proprietà più efficaci per gli imprenditori. I Township and Village Enterprises (TVE), che hanno guidato la crescita economica cinese durante gli anni 80, erano collettivi posseduti e controllati dai governi locali. Anche se le TVE erano di proprietà pubblica, gli imprenditori ricevevano la necessaria protezione contro l’esproprio. I governi locali avevano un interesse diretto nei profitti delle imprese, e quindi non avrebbero certo ucciso la loro gallina dalle uova d’oro.



La Cina ha fatto affidamento su una serie di innovazioni di questo tipo, ognuna delle quali ha applicato i principi economici più consolidati in contesti istituzionali originali. Con un altro esempio, ha protetto il suo ampio settore statale dalla competizione globale istituendo zone economiche speciali in cui le imprese straniere potevano operare con regole diverse rispetto al resto del paese. Tenendo conto di questo stacco dai classici modelli ortodossi, definire le riforme economiche della Cina come neoliberali – come i critici tendono a fare – distorce più di quanto spieghi. Se vogliamo definire anche questo neoliberismo, dobbiamo sicuramente guardare con occhio più benevolo alle idee che stanno alla base della più marcata riduzione della povertà della storia.



Qualcuno potrebbe controbattere che le innovazioni istituzionali cinesi sono un fenomeno prettamente transitorio. Forse, per sostenere il suo progresso economico, la Cina dovrà convergere su istituzioni di stile occidentale. Ma questa linea di pensiero, peraltro molto comune, trascura la ancora prevalente diversità delle caratteristiche delle economie avanzate, nel mondo capitalistico, nonostante la notevole uniformità del nostro contesto politico.



Dopo tutto, infatti, quali sono le caratteristiche tipiche del mondo occidentale? La dimensione del settore pubblico nei paesi dell’Ocse varia da un terzo dell’economia in Corea a quasi il 60% in Finlandia. In Islanda l’86% dei lavoratori è membro di un sindacato; il numero corrispondente in Svizzera è solo del 16%. Negli Stati Uniti, le aziende possono licenziare i lavoratori quasi a piacimento; mentre le leggi sul lavoro francesi, storicamente, richiedono ai datori di lavoro di doversi sottoporre prima a una trafila di passaggi. I mercati azionari sono cresciuti fino al valore totale di quasi una volta e mezzo il PIL negli Stati Uniti; in Germania sono grandi solo un terzo, soltanto il 50% del PIL.


La Cina si è aperta ai mercati, ma non ha copiato le pratiche occidentali. Fotografia: AFP / Getty



L’idea che ognuno di questi modelli di tassazione, rapporti di lavoro o organizzazione finanziaria sia intrinsecamente superiore agli altri è smentita dalle diverse vicissitudini economiche che ognuna di queste economie ha vissuto negli ultimi decenni. Gli Stati Uniti hanno attraversato periodi successivi di angoscia, in cui le sue istituzioni economiche sono state giudicate inferiori a quelle di Germania, Giappone, Cina e ora forse ancora della Germania. Certo, livelli comparabili di ricchezza e produttività possono essere raggiunti sotto modelli di capitalismo molto diversi. Potremmo anche fare un passo in più: i modelli prevalenti di oggi probabilmente non arrivano neanche lontanamente a esaurire la gamma di ciò che potrebbe essere possibile e auspicabile per il futuro.



L’economista in visita, nel nostro esperimento mentale, sa tutto questo e riconosce che i princìpi che ha enunciato devono essere concretizzati con i dettagli sulle istituzioni per diventare operativi. Diritti di proprietà? Sì, ma come? Moneta solida? Certo, ma come? Forse sarebbe più facile criticare la sua lista di princìpi perché è vacua, piuttosto che denunciarla come un pistolotto neoliberista.



Tuttavia, questi principi non sono completamente privi di contenuto. La Cina, e in realtà tutti i paesi che sono riusciti a svilupparsi rapidamente, dimostrano l’utilità di questi principi, una volta adattati al contesto locale. Al contrario, troppe economie sono state spinte alla rovina, grazie ai leader politici che hanno scelto di violarle. Ci basta prendere in considerazione i governi populisti latinoamericani o i regimi comunisti dell’Europa orientale per apprezzare il significato pratico di moneta stabile, sostenibilità fiscale e incentivi privati.



Naturalmente l’economia va ben oltre un elenco di princìpi di buon senso, in gran parte astratti. Una grande parte del lavoro degli economisti consiste nello sviluppo di modelli stilizzati su come funzionano le economie, da confrontare poi con le prove. Gli economisti tendono a pensare a ciò che fanno come a un progressivo affinamento della loro comprensione del mondo: i loro modelli dovrebbero migliorare sempre di più, quindi, visto che sono testati e modificati nel tempo. Ma i progressi in economia avvengono in modo diverso.



Gli economisti studiano la realtà sociale, che è diversa dall’universo fisico. È completamente creata dall’uomo, estremamente malleabile e funziona secondo regole diverse nel tempo e nello spazio. L’economia va avanti non stabilendo il giusto modello o la giusta teoria per rispondere a queste domande, ma migliorando la nostra comprensione della diversità delle relazioni causali. Il neoliberismo e i suoi rimedi abituali – sempre più mercato, sempre meno Stato – sono in realtà una perversione dell’economia mainstream. I bravi economisti sanno che la risposta corretta a qualsiasi domanda in economia è: dipende.



Un aumento del salario minimo fa calare l’occupazione? Sì, se il mercato del lavoro è veramente competitivo e i datori di lavoro non hanno alcun controllo sul salario che devono pagare per attirare i lavoratori; ma non necessariamente, se la situazione è diversa. La liberalizzazione degli scambi favorisce la crescita economica? Sì, se aumenta la redditività delle industrie in cui si svolge il grosso degli investimenti e dell’innovazione; ma in caso contrario, no. Una maggior spesa pubblica aumenta l’occupazione? Sì, quando l’economia è fiacca e i salari non aumentano; ma in altre situazioni, no. Il monopolio nuoce all’innovazione? Sì e no, dipende da un nugolo di circostanze di mercato.






Oggi [il neoliberismo] è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista… Trump firma un decreto per strappare gli Stati Uniti dal TPP. Fotografia: AFP / Getty



In economia, nuovi modelli raramente soppiantano i modelli precedenti. Il modello base dei mercati competitivi risalente ad Adam Smith è stato modificato nel tempo dall’inclusione, in ordine storico approssimativo, dei concetti di monopolio, esternalità, economie di scala, informazioni incomplete e asimmetriche, comportamenti irrazionali e molte altre caratteristiche del mondo reale. Ma i modelli più vecchi rimangono più utili che mai. Capire come funzionano i mercati reali richiede però un’analisi diversa a seconda dei momenti.



Forse l’analogia migliore è offerta dalle carte geografiche. Proprio come i modelli economici, le carte sono rappresentazioni altamente stilizzate della realtà. Sono utili proprio perché sono prive dei molti dettagli del mondo reale, che potrebbero intralciarne l’uso. Ma l’astrazione implica anche che abbiamo bisogno di una mappa diversa, a seconda della natura del nostro viaggio. Se viaggiamo in bicicletta, avremo bisogno di una mappa delle piste ciclabili. Se dobbiamo andare a piedi, avremo bisogno di una mappa dei sentieri. Se viene costruita una nuova metropolitana, avremo bisogno di una cartina della metropolitana – ma non per questo elimineremo le altre mappe.



Gli economisti tendono a essere molto bravi a fare mappe, ma non abbastanza bravi a scegliere quella più adatta al bisogno. Di fronte alle questioni politiche del tipo affrontato dal nostro economista in visita, troppi economisti ricorrono a modelli “benchmark”, che favoriscono l’ approccio laissez-faire. Reazioni automatiche e arroganza sostituiscono la ricchezza e l’umiltà della discussione nei seminari. John Maynard Keynes una volta ha definito l’economia come la “scienza del pensiero in termini di modelli, unita all’arte di scegliere i modelli adatti”. Gli economisti hanno spesso problemi con la parte di “arte”.



Anche questo può essere illustrato con una parabola. Un giornalista chiama un professore di economia per domandargli il suo parere sul libero scambio: ritiene che sia una buona idea? Il professore risponde entusiasticamente di sì. Il giornalista quindi, fingendo di essere uno studente, partecipa a un seminario per specialisti del professore sul commercio internazionale. E pone la stessa domanda: il libero scambio è positivo? Questa volta il professore si ferma. “Che cosa intende con ‘positivo’?”, risponde. “E positivo per chi?” Il professore si lancia poi in una lunga spiegazione, che alla fine culminerà in una dichiarazione molto circostanziata: “Quindi, se tutta la lunga lista di condizioni che ho appena descritto sono soddisfatte, e ipotizzando anche che possiamo tassare i beneficiari per compensare i perdenti, un commercio più libero ha il potenziale di aumentare il benessere di tutti”. Se in quel momento è di umore espansivo, il professore potrebbe aggiungere che gli effetti del libero commercio sul tasso di crescita di un’economia a lungo termine non sono comunque assodati, e che dipendono da tutta un’altra serie di condizioni diverse.



Questo professore è piuttosto diverso da quello che il giornalista ha incontrato in precedenza. Quando si rivolge alla stampa, trasuda la massima fiducia, non certo reticenza, sulla strategia appropriata. Esiste un solo ed unico modello, almeno per quanto riguarda l’opinione pubblica, e c’è un’unica risposta corretta, indipendentemente dal contesto. Stranamente, il professore ritiene che la conoscenza che impartisce ai suoi studenti specializzati sia inappropriata (o pericolosa) per il pubblico generale. Perché?



Le radici di un simile comportamento affondano in profondità nella cultura della professione economica. Ma un motivo importante è lo zelo nel voler ostentare i gioielli della corona della professione – l’efficienza del mercato, la mano invisibile, il vantaggio comparato – nella loro forma immacolata, e nel volerli proteggere dall’attacco dei barbari egoisti, vale a dire i protezionisti. Sfortunatamente, questi economisti di solito ignorano i barbari schierati dall’altra parte della barricata: finanzieri e multinazionali, le cui motivazioni non sono più nobili e che sono anche troppo pronti a dirottare queste idee verso il proprio vantaggio.



Di conseguenza, il contributo degli economisti al dibattito pubblico è spesso distorto in una direzione, a favore di più commercio, più finanza e meno Stato. Ecco perché gli economisti si sono guadagnati la reputazione di tifosi del neoliberismo, anche se l’economia mainstream è tutt’altro che un peana continuo del laissez-faire. Ma gli economisti che non pongono freni al loro entusiasmo per il libero mercato in realtà non sono fedeli alla propria disciplina.



Ma allora, in che termini dovremmo pensare alla globalizzazione, per liberarla dalla morsa delle pratiche neoliberiste? Dobbiamo iniziare dal capire il potenziale positivo di un mercato globale. L’accesso ai mercati mondiali di beni, tecnologie e capitali ha svolto un ruolo importante in quasi tutti i miracoli economici del nostro tempo. La Cina ci ha fornito il promemoria più recente e convincente di questa verità storica, ma non è l’unico caso. Prima della Cina, miracoli simili sono stati compiuti dalla Corea del Sud, da Taiwan, dal Giappone e da paesi non asiatici come le Mauritius. Tutti paesi che hanno abbracciato la globalizzazione, piuttosto che voltarle le spalle, e ne hanno beneficiato ottimamente.



I difensori dell’ordine economico esistente fanno immediatamente riferimento a questi esempi, quando la globalizzazione viene messa in discussione. Quello che non dicono, però, è che quasi tutti questi paesi hanno sì aderito all’economia mondiale, ma trasgredendo le costrizioni di stampo neoliberista. La Corea del Sud e Taiwan, ad esempio, hanno sovvenzionato abbondantemente i loro esportatori, nel primo caso attraverso il sistema finanziario, nel secondo attraverso incentivi fiscali. Tutti alla fine hanno rimosso la maggior parte delle loro restrizioni alle importazioni, ma solo molto tempo dopo che la crescita economica era decollata.



Nessuno, con la sola eccezione del Cile negli anni 80 sotto la dittatura di Pinochet, ha seguito la raccomandazione neoliberista di una rapida apertura alle importazioni. L’esperimento neoliberista del Cile alla fine ha prodotto la peggiore crisi economica di tutta l’America Latina. Sebbene i dettagli differiscano da un paese all’altro, in tutti i casi i governi hanno svolto un ruolo attivo nella ristrutturazione dell’economia e nel fungere da ammortizzatori contro un ambiente esterno instabile. Le politiche industriali, le restrizioni sui movimenti di capitale e i controlli valutari – tutte misure proibite nel sussidiario neoliberista – erano largamente presenti ovunque.






Proteste contro il Nafta a Città del Messico nel 2008: dopo le riforme della metà degli anni 90, l’economia del paese ha avuto risultati inferiori alle attese. Fotografia: EPA



Al contrario, i paesi che hanno aderito più rigidamente al modello neoliberista della globalizzazione sono stati dolorosamente delusi. Il Messico ce ne dà un esempio particolarmente triste. Dopo una serie di crisi macroeconomiche a metà degli anni 90, il Messico ha abbracciato l’ortodossia macroeconomica, ha liberalizzato ampiamente la sua economia, ha sbloccato il sistema finanziario, ridotto drasticamente le restrizioni sulle importazioni e firmato l’accordo nordamericano di libero scambio (Nafta). Queste strategie hanno portato alla stabilità macroeconomica e a un aumento significativo del commercio estero e degli investimenti interni. Ma dove conta – cioè nella produttività generale e nella crescita economica – l’esperimento è fallito. Da quando ha intrapreso le riforme, la produttività complessiva in Messico è ristagnata e l’economia ha avuto un risultato inferiore alle attese persino per gli standard poco esigenti dell’America Latina.



Questi risultati non sono una sorpresa, se ci si mette nell’ottica di una economia sana. Sono un’ulteriore evidenza della necessità che le politiche economiche siano fatte in modo da prevenire i fallimenti a cui il mercato è incline e adattate alle circostanze specifiche di ciascun paese. Non esiste un singolo progetto che si adatta a tutti.



Come dimostra il manifesto di Peters’s del 1982, il significato del termine “neoliberismo” è cambiato considerevolmente nel tempo, e questa etichetta ha acquisito connotazioni più rigide per quanto riguarda la deregolamentazione, la finanziarizzazione e la globalizzazione. Ma c’è un filo che collega tutte le versioni del neoliberismo, ed è l’enfasi sulla crescita economica. Nel 1982 Peters scrisse che l’enfasi era giustificata dal fatto che la crescita è essenziale per tutti i nostri fini sociali e politici: comunità, democrazia, prosperità. L’imprenditorialità, gli investimenti privati ​​e la rimozione degli ostacoli che vi si frappongono (come una regolamentazione eccessiva) sono stati tutti strumenti per raggiungere la crescita economica. Se un simile manifesto neoliberale fosse scritto oggi, senza dubbio sosterrebbe lo stesso argomento.



I critici sottolineano spesso che porre tutta questa enfasi sull’economia indebolisce e sacrifica altri valori importanti, come l’uguaglianza, l’inclusione sociale, la decisione attraverso sistemi democratici e la giustizia. Questi obiettivi politici e sociali ovviamente contano enormemente e in alcuni contesti sono i più importanti. E non possono sempre, e neanche spesso, essere raggiunti attraverso strategie economiche tecnocratiche; la politica deve svolgere un ruolo centrale.



Tuttavia, i neoliberali non sbagliano nel sostenere che è più probabile raggiungere i nostri ideali più preziosi quando la nostra economia è fiorente, forte e in crescita. Sbagliano nel credere che esista una ricetta unica e universale per migliorare le prestazioni economiche: la loro. Il difetto fatale del neoliberismo è che non interpreta correttamente l’economia. Deve essere affrontato e sconfitto sul suo stesso terreno, per il semplice motivo che si tratta di cattiva economia.



Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul Boston Review

Illustrazione principale di Eleanor Shakespeare

Nessun commento:

Posta un commento

grazie del tuo commento