I CAMPIONI DEI SOVRANISTI? SONO ENRICO MATTEI E GIOVANNI PAOLO II. CON TANTI SALUTI A MACRON E ALLA MERKEL
Donald Trump, in un tweet, ha scritto che Macron cerca di parlar d’altro perché ha, in Francia, un livello di consenso troppo basso (il 26%) e un livello di disoccupazione troppo alto (circa il 10%). Poi Trump ha aggiunto: “a proposito, non c’è paese più nazionalista della Francia, gente molto orgogliosa, ed è giusto così”.
Insieme a Macron anche la Merkel ha tuonato contro il nazionalismo: ha detto che porta alla guerra. I due paesi più nazionalisti d’Europa, poco dopo aver dato queste “lezioni” agli altri, hanno realizzato un’intesa a due sul bilancio dell’eurozona, ovviamente penalizzante per l’Italia. L’ennesimo gesto di supremazia ed arroganza.
Chiamano “nazionalismo” il tentativo degli altri paesi di difendere la propria sovranità e i propri interessi dallo strapotere franco-tedesco.
Peraltro, negli ultimi duecento anni, due paesi hanno tentato di soggiogare con le armi tutta l’Europa: prima ci ha provato la Francia napoleonica e poi la Germania del III Reich.
La storia dunque dovrebbe indurre quei due paesi ad evitare di dar lezioni agli altri e piuttosto dare il buon esempio. Invece continua la guerra economica e politica in Europa che è alimentata da una guerra di parole, usate a sproposito.
Per esempio identificare il nazionalismo con la nazione è come identificare la polmonite col polmone. Senza i polmoni non si può vivere e chi se li facesse asportare per evitare la polmonite si suiciderebbe. Egualmente senza sovranità nazionale un paese si suicida.
Il sovranismo è dunque un dovere. Volete il miglior esempio di sovranista mai visto in Italia, un patriota capace di una straordinaria azione di difesa dei nostri interessi nazionali? E’ Enrico Mattei. Il mitico “fondatore” dell’Eni.
Già partigiano cattolico, avendo alle spalle la Dc di De Gasperi, Vanoni e Moro, riuscì a dare al nostro paese quell’indipendenza energetica che lo liberò dalla sudditanza straniera e che fu la precondizione del nostro miracolo economico.
Mattei, difendendo i nostri interessi nazionali, inaugurò anche un rapporto nuovo nei confronti dei paesi sottosviluppati, ma ricchi di petrolio, rispettando e riconoscendo anche i loro giusti interessi. In questo modo mostrò che l’amore alla patria italiana significa anche rispettare la patria e gli interessi altrui. Il miglior campione di sovranismo è dunque Mattei.
Purtroppo oggi si stravolge il linguaggio e “sovranista” (che poi è un’espressione ripresa dall’art. 1 della Costituzione) è diventato un termine deprecabile. Addirittura la parola “nazione” è diventata disdicevole.
Ha stupito per esempio un intervento di Andrea Riccardi pubblicato dal giornale della Cei, “Avvenire” (l’intenzione era quella di attaccare i “movimenti sovranisti e populisti”).
Il concetto principale di Riccardi, leader della Comunità di S. Egidio ed ex ministro del governo Monti, è questo: “La ‘cultura nazionale’ è stata un grande contenitore che ha dato efficienza all’odio, l’ha congelato e conservato negli anni, l’ha diffuso come educazione all’identità. Storia, lingua, geografia, epica letteraria hanno contribuito all’efficienza e alla diffusione dell’odio”.
A dire il vero il Novecento è stato devastato e insanguinato da una cultura dell’odio che proveniva non dalle nazioni, ma dalle ideologie, che erano radicalmente avverse alle diverse identità nazionali: il comunismo e il nazismo.
E’ strano è che una tale demonizzazione dell’idea stessa di nazione appaia sul quotidiano dei vescovi, perché è un concetto totalmente contrapposto al magistero di Giovanni Paolo II, il quale, nel corso del suo pontificato, ha elaborato una vera e propria “teologia delle nazioni”.
Il papa polacco affermò, in uno storico discorso a Varsavia, il 2 giugno 1979, che “non si può comprendere l’uomo fuori da questa comunità che è la nazione”. E lo stesso giorno aggiunse: “la ragion d’essere dello Stato è la sovranità della società, della nazione, della patria”.
In quello storico viaggio incitò i giovani polacchi ad amare la cultura e la storia della propria nazione e concluse: “Restate fedeli a questo patrimonio! Fatene il fondamento della vostra formazione e il motivo del vostro nobile orgoglio! Conservate e accrescete questo patrimonio, trasmettetelo alle generazioni future”.
Altro che la “cultura nazionale” come contenitore di odio. Giovanni Paolo II sottolineò che “la fedeltà all’identità nazionale possiede anche un valore religioso”.
Come si vede da una parte c’è Giovanni Paolo II (a cui si potrebbero aggiungere le parole analoghe di Pio XII, di Benedetto XV, di Leone XIII e di san Tommaso d’Aquino), dalla parte opposta Riccardi e l’“Avvenire” (che su questo concetto sono in consonanza con Emma Bonino).
Fu soprattutto in un discorso all’Onu, il 5 ottobre 1995, che Giovanni Paolo II articolò l’insegnamento della Chiesa sulle nazioni.
Anzitutto dette, del Secondo conflitto mondiale, un’interpretazione opposta a quella oggi dominante: “quel conflitto venne combattuto a causa di violazioni dei diritti delle nazioni. Molte di esse hanno tremendamente sofferto per la sola ragione di essere considerate ‘altre’. Crimini terribili furono commessi in nome di dottrine infauste, che predicavano l’‘inferiorità’ di alcune nazioni e culture”.
E parlava un figlio della nazione polacca che fu la prima ad essere aggredita e annientata da due opposti totalitarismi imperialistici.
Il papa osservò che l’Onu nacque proprio “dalla convinzione che simili dottrine erano incompatibili con la pace”. E nacque assumendo “l’impegno morale di difendere ogni nazione e cultura da aggressioni ingiuste e violente”.
Il papa richiamò, come basi filosofiche, la “notevole riflessione etico-giuridica” che vi fu già al Concilio di Costanza nel XV secolo e “la riflessione” che “nella medesima epoca” a partire dall’Università di Salamanca fece scuola “nei confronti dei popoli del nuovo mondo”.
Ma “purtroppo”, osservò il papa “anche dopo la fine della seconda guerra mondiale i diritti delle nazioni hanno continuato ad essere violati”.
Poi Giovanni Paolo II spiegò, con intuizione profetica, che la globalizzazione, omologando e livellando tutto, avrebbe suscitato nei popoli “un bisogno prorompente di identità e di sopravvivenza” e disse che questo fenomeno “non va sottovalutato, quasi fosse semplice residuo del passato”.
Perché si tratta dei fondamenti dell’umano, infatti il “termine ‘nazione’, evoca il ‘nascere’, mentre, additato col termine ‘patria’ (“fatherland”), richiama la realtà della stessa famiglia” ed è “su questo fondamento antropologico che poggiano anche i ‘diritti delle nazioni’, che altro non sono se non i ‘diritti umani’ colti a questo specifico livello della vita comunitaria”.
Concluse: “Presupposto degli altri diritti di una nazione è certamente il suo diritto all’esistenza: nessuno, dunque – né uno Stato, né un’altra nazione, né un’organizzazione internazionale – è mai legittimato a ritenere che una singola nazione non sia degna di esistere”.
E seppure si possono realizzare forme di aggregazione giuridica tra differenti nazioni è necessario “che ciò avvenga in un clima di vera libertà, garantita dall’esercizio dell’autodeterminazione dei popoli”.
Amare e difendere la propria identità significa dunque amare e difendere anche quelle altrui. Una bellissima poesia di Karol Wojtyla, “Pensando Patria”, dice: “Quando penso ‘patria’, esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 18 novembre 2018
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