Poniamo che uno scienziato decida di scrivere i suoi (importanti e innovativi) saggi scientifici in italiano e non più in inglese, che pur conosce bene.
E poniamo che faccia questo perché vuole che lo possano leggere e capire anzitutto non gli addetti ai lavori, nel mondo, ma tutti, nella sua terra, anche quei figli del popolo che – dovendo andare a lavorare senza poter studiare – non conoscono l’inglese.
Un caso simile – se si verificasse oggi – probabilmente convoglierebbe sull’interessato l’accusa di provincialismo, di sovranismo e di populismo. Accuse che di questi tempi non si negano a nessuno: basta solo un vago accento che contraddica il pensiero unico globalista e la moda esterofila e cosmopolita.
In effetti è accaduto qualcosa del genere nel passato, nel Seicento. Ma il personaggio in questione è oggi universalmente (e giustamente) ritenuto un grande, un gigante del pensiero che molto ha dato all’umanità.
Perché si tratta addirittura del fondatore della scienza moderna, colui che tutti considerano un esempio di genialità, di apertura mentale e di opposizione al conformismo pseudoscientifico e pseudofilosofico: Galileo Galilei.
Naturalmente la lingua internazionale del suo tempo (anche per la scienza) non era l’inglese, ma il latino che tuttavia svolgeva la stessa funzione dell’inglese odierno.
Ebbene Annalisa Andreoni, nel suo splendido libro “Ama l’italiano (segreti e meraviglie della lingua più bella)”, nota che “Galileo Galilei non è solo l’inventore del moderno metodo scientifico che tutti conosciamo, ma è stato anche il primo grande scienziato ad abbandonare il latino e a scegliere l’italiano come lingua con cui comunicare al mondo le proprie scoperte”.
Certo, scrisse in latino le opere giovanili e anche il “Sidereus Nuncius” del 1610, che però era intenzionato a tradurre in “toscano”, come già aveva scritto nella sua lingua corrente “La bilancetta” nel 1586.
Tuttavia “dopo il rientro a Firenze” sottolinea la Andreoni “Galileo scelse definitivamente la lingua materna per scrivere di scienza: saranno in italiano Il saggiatore(1623), il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) e l’ultima grande opera, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e i movimenti locali (1638)”.
Fu una scelta clamorosa e del tutto analoga a quella compiuta da un altro grande toscano, Dante Alighieri, quando decise di scrivere il suo poema sacro in volgare toscano anziché in latino che era la lingua della teologia (questa sua scelta infatti fece scalpore e destò scandalo).
Naturalmente Galilei provvide a far fare una traduzione in latino delle sue opere in italiano, per gli scienziati stranieri che non conoscevano la nostra lingua, ma – osserva l’Andreoni – “quella dell’italiano fu una scelta consapevole, basata sulla convinzione che la nostra lingua possedesse ormai tutte le potenzialità espressive necessarie al ragionamento scientifico”.
Inoltre per i destinatari: “È come se dovendo scegliere tra l’essere compreso dagli scienziati suoi pari in Europa o dalle persone ‘non letterate’ che gli stavano intorno” osserva l’Andreoni “Galileo avesse scelto queste ultime”.
Lo provano tre sue celebri lettere a Mark Welser, politico e intellettuale tedesco, dove Galileo discute delle macchie solari, ma lo fa in italiano. E spiega che ha scelto così “perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello [il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono]”.
Lo scienziato toscano nota infatti che ci sono molti giovani che vengono fatti studiare e fanno i medici i filosofi e altre professioni analoghe pur essendo “inettissimi”, mentre altri che – sebbene intelligenti -non possono studiare e imparare il latino perché devono guadagnarsi il pane.
Dunque Galileo vuole farsi leggere pure da questi che hanno gli occhi per vedere le opere della natura e l’intelligenza per capire come i filosofi.
Populista e anti élite dunque. L’Italia del Seicento non era unita politicamente, ma lo era culturalmente e spiritualmente: la lingua è il volto più chiaro di un’identità, infatti è stata la nostra letteratura ad adottare il “toscano” di Dante e Petrarca come lingua nazionale, la quale in seguito ha completato l’unificazione politica (sebbene fatta malamente).
Galileo non si limitò a “lanciare” l’italiano come lingua della scienza, ma coltivò ad alti livelli la nostra lingua a la nostra letteratura.
L’Andreoni ricorda che egli “tenne due lezioni all’Accademia Fiorentina sull’architettura dell’Inferno di Dante, postillò l’Orlando furioso… Divenne inoltre accademico della Crusca e collaborò alla stesura di alcune voci del Vocabolario, sia per la prima edizione del 1612 sia per la seconda del 1623”.
La stessa qualità del suo “italiano scientifico” gli guadagnerà, duecento anni dopo, l’ammirazione di un Giacomo Leopardi. Ritrovare la nostra identità significa anche riscoprire questi ingegni che tutto il mondo ci invidia.
Antonio Socci
Da “Libero”, 21 gennaio 2019
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