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martedì 9 novembre 2021

Sapelli: Se Russia e Cina sono alleate è tutta colpa degli Usa di Biden




Giulio Sapelli: «Quando si voterà per il Colle ci saranno pressioni dai grandi Paesi occidentali e forse dalla Cina»

Fabio Dragoni 
da La Verità

«Se Russia e Cina sono alleate è tutta colpa degli Usa di Biden»

Il professore di storia economica: «I democratici americani si stanno sgretolando Se l’Ue resta una tecnocrazia non dura. Draghi in politica estera deve fare pratica»

«Cina e Russia hanno molti punti di contrasto storicamente determinati. È solo l’unipolarismo Usa che le ha spinte e le spinge purtroppo l’una nelle braccia dell’altra. L’impegno dovrebbe, invece, essere quello di ricostruire un percorso di relazioni Usa-Russia in funzione anticinese. Gli Stati europei e l’Ue potrebbero svolgere un ruolo importante in questo campo, contestando la politica tedesca nelle relazioni commerciali».

La geopolitica di queste ultime settimane è stata squassata da due eventi di importanza mondiale: il G20 di Roma e la Cop26 di Glasgow. In entrambi i casi Mosca e Pechino sembrano aver fatto fronte comune. Non partecipando in presenza coi loro leader Vladimir Putin e Xi Jinping. Una situazione anomala e per certi aspetti preoccupante. La Russia ricca di risorse naturali che va a braccetto con la superpotenza economica cinese. Entrambe hanno un apparato bellico di importanza planetaria. L’uomo giusto per parlarci di tutto quello che succede fra Mosca, Pechino e Washington è senza dubbio Giulio Sapelli. Professore ordinario di storia economica all’Università di Milano ed un’esperienza internazionale di straordinario livello in tutte le più importanti università del mondo: Parigi, Lisbona, Praga, Berlino, Buenos Aires, Santiago del Cile, Barcellona, Madrid, Vienna, South California, Sidney e New York. Ne tralascio altrettante per motivi di spazio. Accanto a ruoli di primo piano nei consigli di amministrazione di Eni, Ferrovie dello Stato e Fondazione Mps. Ma è la storia la sua vera passione. Ed è li che ho bisogno di capire. Devo richiamarlo più di una volta.

Professore, perché Pechino e Mosca sarebbero così distanti?

«Dai tempi dell’impero zarista la Russia non ha semplicemente cercato il mare caldo del Mediterraneo tentando di sottomettere l’i mpero ottomano. Ma anche il Pacifico. Quindi entrando in conflitto non solo con il Giappone ma anche con la Cina. Ma come lei sa Vladivostok è a 50 km da Pyongyang in Corea. La Russia ha sempre proteso ad essere una potenza talassocratica che do-mina i due mari. Anche perché con-trollare il Mediterraneo significa affacciarsi sull’Atlantico. Non poteva non entrare in conflitto con il dispotismo cinese. E non potrà non entrarci ancora in futuro».

Perché ?

«La Russia più che una potenza eurasiatica rimane comunque una potenza europea. Putin è, a modo suo, europeo culturalmente. Ha la-vorato nel Kgb a Berlino».

Ma neppure il comunismo ha unito Pechino e Mosca?

«Tra il partito comunista poi forgiato da Stalin e quello comunista di Mao Zedong c’era una frattura insanabile. Che inizia col fallimento dello sciopero di Shanghai del 1927 organizzato da trotskisti cinesi, se così si può dire. L’ala più a sinistra. Lenin e Trotsky avevano provato ad influenzare la nascita e la crescita del partito comunista cinese. Tutto doveva partire dagli operai della nascente industria. Ma a loro si oppose Mao. Anni di minoranza e sconfitte per lui prima di scatenare la rivoluzione culturale contro soprattutto l’ala filosovietica del partito comunista cinese. Mao non aveva quasi nulla in comune con il partito comunista cinese delle origini. Oggi lo definiremmo un populista. La sua rivoluzione mette al centro i contadini. Non gli operai. Invece che falce e martello solo la falce. Senza il martello. Ed avendo alla fine vinto Mao, la frattura fra Mosca e Pechino aumenta».

Un errore clamoroso dell’amministrazione Biden aver permesso questo riavvicinamento?

«Ben descritto dal grande studioso americano David Calleo. Cattolico. Ed ecco perché lo leggono poco in America. L’unipolarismo ha scatenato questo avvicinamento. Tutto comincia con l’amministrazione Clinton. Seguito da Bush, sia chiaro. L’ultimo Obama ebbe poi, anni dopo, un attimo di ripensamento, ma era troppo tardi. Biden si incastra perfettamente nell’unipolarismo clintoniano».

Biden è in difficoltà come sembrano dimostrare le ultime elezioni in Virginia e New Jersey? Oppure no?

«Certo che lo è: la situazione sociale si aggrava e il partito democratico dà segni di sgretolamento: la politica della “cancel culture”e del “me too”è un tritacarne che non risparmia nessuno».

Esiste quindi una differenza nel modo di condurre la politica estera fra repubblicani e democratici?

«Basta studiare la storia recente. Reagan ha stretto la mano a Gorbaciov e anche con la dissoluzione dell’Unione sovietica il patto d’onore era chiaro. Nessuno Stato della confederazione russa e nessuna nazione confinante (quindi i Paesi del Patto di Varsavia) sarebbero mai entrati nell’Ue e nella Nato. Non è andata così».

Le chiedo un giudizio su Mario Draghi in politica estera ricordandole alcuni episodi «forti»: lo scontro a distanza con Erdogan, il G20 improvvisato per parlare di Afghanistan e poi il G20 ufficiale. Dimostrazione di coraggio o di imperia?

«È troppo presto per giudicare: deve far pratica. Certo la frase su Erdogan era fuori posto nella “didattica per l’apprendimento diplomatico”. Un mondo diverso da quello delle negoziazioni finanziarie » .

La legge di bilancio proposta da Draghi è diversa rispetto al passa-to oppure no? 

«Nella struttura neoliberista nulla è mutato. È diverso l’ammontare dei sussidi mutualizzati e non la filosofia economica dominante, se così si può definire il debolissimo pensiero neoliberista …».

Condivide gli allarmi di intellettuali come Cacciari, Agamben e Freccero in merito alla presunta deriva autoritaria in atto? Tra lockdown e green pass l’Italia è una sorta di avanguardia occidentale nella sperimentazione di misure restrittive delle libertà personali?

«No, perché si tratta di misure per la difesa del patrimonio di vite e di riproducibilità degli esseri umani. La libertà politica non c’entra un bel nulla. Certo uno sforzo per far partecipare alle decisioni e convincere più che reprimere va fatto. E condivido altre perplessità di fondo. La trasformazione delle poliarchie, ossia i rapporti tra poteri istituzionali e poteri di fatto, è in corso da 30 e più anni. Deriva dalla disgregazione sociale e partitica in atto da tempo. Si va verso una poliarchia dove contano sempre più i poteri di fatto rispetto ai cosiddetti poteri elettivi».

Si fa un gran parlare di modifica del patto di Stabilità. I Paesi frugali hanno detto: si ritorni ai vecchi santi. Il Mes propone una riformi-na di facciata. Lei che idea si è fatto?

«La pandemia richiede per definizione risposte centralizzate. Ma senza una Costituzione federale l’Ue non può durare se non con continui conflitti di potenza tra i Paesi membri, soprattutto ora che la Germania si indebolisce politicamente e la Francia è in bilico sull’abisso istituzionale » .

Si parla molto di Trattato del Quirinale fra Italia e Francia. E sul Financial times anche di un accordo commerciale fra Italia e Regno Unito. Questa riscoperta del bilateralismo da una parte e del multilateralismo dall’altra (ne ha parlato Draghi al G20) non sono forse un duro colpo all’ortodossia europeista? Questa si basa sul conferire deleghe a Bruxelles che tratta per tutti, mentre qui sembriamo assistere ad una riscoperta dei poteri degli Stati sovrani? 

«Non si tratta altro che dell’emersione di un principio di realtà. Tutto dipende dal grado di resistenza “autistica”della burocrazia europea, ossia delle migliaia e migliaia di funzionari che rischiano di perdere potere e influenza se si va verso una Costituzione europea. Il “neo-cameralismo neo-prussiano” dell’Ue si sta rivelando una iattura, perché è potentissimo ma in preda al panico: vedi le reazioni scomposte della Corte di giustizia europea » .

Le confesso che questa risposta è un po’ spiazzante. La burocrazia europea dovrebbe sguazzare su un’ipotetica Costituzione europea. Perché invece dovrebbe essere il contrario?

«La Costituzione europea, soprattutto federale, come immaginata dai padri fondatori - tutti cattolici - parte dal presupposto che si dia il potere a un Parlamento europeo eletto. Con partiti europei non più nazionali. È un processo storico lungo che richiederà molti anni. Quello della creazione dello stato di diritto europeo. Ma la burocrazia europea e il neo-cameralismo neo-prussiano prescindono da questo concetto. Non si governa con la democrazia ma con l’amministrazione. Un’antitetica visione ingegneristica e tecnocratica del progetto europeo » .

Parlando di modifica dei Trattati a che parte dovremmo rifarci?

«Una Banca centrale europea che assuma poteri simili a quelli della Federal Reserve americana. Ma qui occorre uniformare i sistemi fiscali e bancari. Ma soprattutto - come insegnano i nostri maestri Guarino e Predieri - dobbiamo abrogare il Fiscal compact che non ha nessuna base giuridica. È frutto di un regolamento che va cancellato » .

Si avvicina una scadenza molto importante. L’elezione del presi-dente della Repubblica. Le chiedo se secondo lei ci saranno pressioni dalle varie cancellerie internazionali. E se sì, di che tipo? Tese ad influenzare l’elezione in che modo?

«Le pressioni ci saranno come sempre. I francesi e gli Usa sono in campo e anche il Regno Unito: è normale, ma oggi con la crisi tedesca tutto assumerà un profilo decisivo. Sono curioso di vedere cosa farà la Cina, che è attivissima in Italia, come è noto, in un contesto come questo. Ma mi pare che quelle pressioni siano scomposte e quindi, forse, meno influenti di quanto si pensi».

In quanto analista le chiedo di tratteggiare l’identikit ideale del presidente della Repubblica per i prossimi sette anni. 

«Impossibile. Bisogna, tuttavia, chiedersi se Draghi sia la scelta che consentirebbe di tornare al più presto al confronto politico necessario».


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