IL GRAFOLOGO di Mariano Abis quindicesima parte
Dicendo quelle parole guardava soprattutto in faccia il mio amico, in modo intenso, mentre al sottoscritto lanciava solo qualche raro sguardo di sfuggita. Romano risponde che avremmo dovuto consultarci, e gli chiede il tempo sufficiente a decidere in tutta tranquillità, da soli. Il capo non ha nessun problema ad assecondare la richiesta, e ci lascia liberi di scegliere un posto tranquillo. Decidiamo di fare una passeggiata lontano da orecchie e occhi indiscreti, e quando siamo sicuri di non essere controllati discutiamo sul da farsi.
Lui non ha nessuna remora ad assecondare la richiesta del capo, dicendo che è restato troppo tempo senza entrare in azione, e quasi gli fa piacere un po’ di movimento e adrenalina, del resto è un militare e quello che gli si chiede non fa parte che del suo mestiere, nel quale si sente preparatissimo. Altro discorso è la mia posizione, seppure convinto di dare anch’io una risposta positiva, non saprei quali mansioni potrei svolgere, dato che non ho mai preso in mano un’arma. In un quarto d’ora abbiamo preso la nostra decisione, e la comunichiamo al capo, che resta favorevolmente colpito dalla rapidità che abbiamo dimostrato. Inizia così il mio addestramento alle armi, un’eventualità che mai avrei pensato potesse accadere, data la mia repulsione per simili aggeggi, ma me ne faccio una ragione e quasi provo un senso di forza quando mi mettono in mano un fucile e una pistola. Ma quando si tratta di centrare qualche improvvisato bersaglio, i miei limiti sono orrendamente evidenti.Viene delegato il mio amico a rendere la mia persona un combattente, ma dopo qualche giorno si accorge che la missione è quasi impossibile.
I giorni successivi io, Romano e altri due partigiani, trascorriamo giorni e notti a controllare il territorio, il nostro gruppo agisce sui colli piacentini, ma si spinge fino all’oltrepo pavese, questa è la zona di nostra competenza, e da ciò deduciamo che tutto il nord è controllato dai partigiani, collegati tra loro da un’organizzazione capillare, che dovrebbe avere, da qualche parte, per forza di cose, un suo apparato dirigente.Nonostante abbia come istruttore il meglio che potessi desiderare, la mia reputazione come guerriero lascia molto a desiderare. In un’azione contro militari tedeschi, però, forse perché a fianco di turbine, mi sono sentito sicuro delle mie capacità guerriere, ed ho assolto egregiamente il compito che mi è stato assegnato. E trascorriamo le giornate tra la natura, con interminabili camminate tra i boschi, raccogliendo informazioni, ma ho l’esigenza di essere almeno un po’ credibile come combattente, e turbine, ormai il suo nome è questo, mi insegna mille trucchi del mestiere, dicendomi che in caso di battaglia dovrò potermela cavare da solo, e che lui non dovrà trascorrere il tempo proteggendomi in eterno, zirogna dovrà potersela cavare da solo! Mi istruisce sull’uso di pistole, fucili, bombe a mano, ma l’emozione più forte la provo quando mi mette in mano un fucile mitragliatore, poi mi dà qualche lezione sul combattimento corpo a corpo. Mi tornano in mente i giochi della mira da ragazzino, i confronti con gli altri rioni del mio paese, della volta che i tre rioni si sono coalizzati e abbiamo deciso di confrontarci con ragazzi di un paese limitrofo, in campo neutro, e in campagna, scegliendo un giorno di festa, in modo da essere sicuri che la zona ai confini tra i due paesi fosse sgombra da contadini. E ricordo i confronti a “s’istrumpa”, giochi pericolosi, ma immensamente più abbordabili di quelli a cui avremmo dovuto far fronte in questo futuro imminente. Questa vita a contatto della natura mi piace, perché mi ricorda i tempi felici della mia infanzia, il gusto di compiere azioni pericolose, le lunghe camminate, il raccogliere frutti dalle piante, e consumarli subito, come succede ora, una vita sempre in tensione, sempre a decidere ogni minima azione, a valutare di chi avremmo dovuto fidarci, ad agire allo scoperto o in maniera velata, a farci riconoscere o a nascondere i nostri obiettivi, e persino a valutare se ci si possa fidare dei nostri stessi compagni, è in gioco la nostra stessa vita, e il futuro dell’organizzazione. E se il lavoro che gli occupanti del palazzo romano erano volti a carpire informazioni, senza pericoli da parte nostra, ora ogni minimo contatto va preso senza leggerezze di sorta, con la massima ponderatezza, con propensione al rischio calcolato.
E ogni gruppo, mi dicono, è strutturato in maniera simile, tutti i componenti sono votati sia al rischio del combattimento, sia ad essere agenti che cercano informazioni, persone i cui compiti spaziano per molti campi di intervento, ci sono vari livelli di collaborazione, chi direttamente coinvolto, come ormai siamo noi, chi collabora in maniera blanda, senza esporsi troppo, chi conduce una vita apparentemente normale, ma pronto ad entrare in azione quando necessario. E sembrerebbe che l’organizzazione sia diffusa in maniera capillare in tutto il nord italia, e parte del centro. E alla fine la lunga escursione a sud della zona pavese del po, termina, e decidiamo di affrontare il lungo tragitto verso i colli piacentini, destinazione il quartier generale del nostro gruppo, il casolare che ha visto i nostri interrogatori.
Dopo qualche giorno siamo a destinazione, senza sorpresa notiamo che fa parte del nostro gruppo partigiano anche Massimo. Durante i lunghi trasferimenti si dormiva una sola notte dalle famiglie che ci ospitavano, eravamo relativamente tranquilli, qui invece, paradossalmente, pur avendo una folta cinta di osservatori attorno al casolare, pronti ad avvisarci ad ogni minimo segnale di pericolo, ci sentiamo meno protetti, perché una postazione stabile potrebbe essere più riconoscibile; però l’organizzazione deve per forza di cose avere dei punti fissi, in caso di comunicazioni tra gruppi di diverse regioni. Pian piano, col trascorrere del tempo, tra un’azione militare e l’altra, conosciamo i capi delle varie aree territoriali, che si fanno vivi abbastanza spesso, mi dicono che durante la nostra escursione verso ovest è venuto a trovarci il capo del nucleo che opera nella zona dei monti sibillini, ai confini tra quattro regioni: marche, abruzzi, lazio e umbria, uno dei gruppi partigiani tra i più numerosi, a cui è stato affidato il compito di controllare quella vasta zona montagnosa.
Quando vengo a conoscere il suo nome, mi viene da pensare al mio amico di fermo. Il nome è proprio quello che avevo deciso di adottare io stesso: lupo solitario, ma ora non è sicuramente più tanto solitario … Mi assale la frenesia immediata di chiedere quale sia l’aspetto di quella persona, e magari, ancora meglio, leggere eventuali suoi manoscritti, se ciò fosse possibile avrei avuto la certezza assoluta che il capo di quel piccolo esercito sia o meno la persona a cui penso. Mi viene messo tra le mani un foglio di quattro righe scritto proprio da lui, appena qualche giorno prima. Non posso avere dubbi, la grafia è proprio quella che avevo analizzato nel palazzo, e che mi aveva fatto pensare a lui, ma ora ne ho la certezza assoluta perché associo alla grafia che è quasi una sua riproduzione sia psicologica che somatica del mio amico Lupo. Quando mi descrivono l’aspetto fisico ne ho la certezza assoluta. Voglio operare col suo gruppo, e faccio il diavolo a quattro perché ciò avvenga, qui non mi trovo male, ma stare a contatto con la persona che più di tutte mi ha comunicato un senso di amicizia, per me, ora, è diventato obbligatoriamente necessario. Ogni giorno che passa non faccio che essere sgradevolmente ripetitivo col mio capo, voglio andare nella zona di Lupo.
Ma giornate così ne trascorrono tante, e finalmente, un giorno, arriva un componente della squadra di Lupo, che ci porta informazioni e ordini scaturiti da una riunione tra molti capi della resistenza. La notizia che ci comunica fa lo stesso effetto di una bomba scoppiata nelle nostre vicinanze, improvvisa e inaspettata, e gli ordini sono che ora inizia veramente in maniera esponenziale la nostra campagna bellica. Il re ha destituito ed arrestato il dittatore Italiano, il potere è stato affidato ad un generale che gode della sua fiducia, e che come prima azione stipula una convenzione con l’esercito alleato, diciamo pure una resa, e impartisce ordini confusionari e frammentari al nostro esercito, che a questo punto non sa più chi siano i veri nemici da combattere. Il re, invece, ha pensato bene, pensando alla sua incolumità, di abbandonare l’italia. Gli ordini portati dal messaggero di Lupo sono quelli di collaborare con l’esercito alleato, e combattere i sostenitori del vecchio regime, le frange dell’esercito che eventualmente fosse restate fedeli al dittatore, e soprattutto l’esercito Tedesco presente nel territorio nazionale, che avrebbe sicuramente adottato forme di vendetta contro un popolo che ha cambiato così improvvisamente bandiera, da alleato a nemico. E mentre sia noi che l’esercito Tedesco sappiamo bene cosa fare, chi si trova senza ordini precisi, nell’impossibilità di valutare attentamente e lucidamente la situazione, con la certezza di aver compiuto un grossolano e inaudito tradimento, per cui verremo condannati dalla storia come un popolo inaffidabile, sarà proprio l’esercito Italiano, che senza ordini precisi si trova ora in balia degli eventi e della casualità.
Ottengo dal mio capo di poter seguire il messaggero di Lupo, Romano decide anche lui di affrontare il lunghissimo e ora ancora più pericoloso viaggio, che affrontiamo a bordo di due motociclette. Ogni curva ci mette apprensione, non sappiamo se la strada sarà libera o ci sarà un posto di blocco, e il terzetto non dà certo l’aria di essere in gita di piacere. Il messaggero conosce ogni minimo particolare del territorio che stiamo percorrendo, e in prossimità di eventuali ponti, o crocicchi, o punti strategici di strade importanti, ci invita a scendere e nascondere i mezzi di trasporto, per controllare a piedi se esistano pericoli nell’attraversarli. Più di una volta abbiamo dovuto fare lunghissimi giri per eludere quei controlli, e il viaggio, di questo passo, potrebbe diventare infinito, ma pian piano ci avviciniamo sempre più alla meta. Ma una volta arrivati in prossimità del tevere non abbiamo trovato un solo ponte non presidiato da truppe Italiane favorevoli al dittatore, e abbiamo dovuto separarci dalle moto che abbiamo consegnato ad un gruppo di partigiani della zona. Guadiamo il fiume in un punto sicuro e proseguiamo la nostra camminata di avvicinamento al piccolo esercito di Lupo. Ma se il trasferimento in moto è stato finora veloce, anche se rischioso, ora dobbiamo fare i conti con la fatica, e spesso ci vede rintanati in qualche casa di persone favorevoli ai partigiani di giorno, e attraversare di notte le zone più pericolose, specialmente quando attraversiamo zone pianeggianti. Ma la fortuna ci viene in aiuto, e veniamo a sapere che da una località poco distante sarebbe passato un camion verso il rifugio di Lupo, ci dirigiamo nel posto che ci hanno indicato, e aspettiamo per sette ore l’arrivo del mezzo, che finalmente arriva, proprio quando stavamo perdendo le speranze. Trasporta alimenti, armi, e vestiario pesante per poter affrontare i mesi invernali. Dopo qualche alternanza di colline e pianure, arriviamo ai piedi del massiccio montuoso, ad una certa altezza la neve la fa da padrona, il messaggero ci dice che il rifugio più importante si trova ad un’altezza rilevante, e sicuramente a quell’altezza è già abbondantemente innevato. Col camion riusciamo ad arrivare quasi a destinazione, percorriamo qualche chilometro trasportando sulle spalle quello che possiamo portare degli oggetti trasportati, aiutati da due partigiani che controllavano il territorio in quella zona, ma buona parte della merce resta sul camion.
E finalmente arriviamo al rifugio, e chiedo dove si trovi Lupo, purtroppo lui non c’è, manca spesso, impegnato per lo più a contattare gli altri capi della resistenza. Non ho la fortuna di incontrare subito il mio amico, ma mi sembra di riconoscere una persona con la quale mi sono incontrato in uno dei salotti della roma bene, allora era vestito in maniera inappuntabile, mentre ora porta un pesante cappotto grigio, una sciarpa colorata, grossi calzoni, scarponi e guanti di lana. Si, è proprio lui, il politico e scrittore Sardo, baffi e pizzetto, corporatura magra, alto e dai modi di fare che denotano sicurezza di sé. Seppure questa è la seconda volta che ci incontriamo, ci salutiamo come due grandi amici, e raccontiamo le nostre avventure. Alle storie mie e di Romano, non monotone, ma vissute abbastanza normalmente, si contrappone il racconto ipnotico delle sue avventure, a cominciare dal periodo della grande guerra, quando, al fronte, giovane capitano dell’esercito italiano, ha vissuto tutte le assurde e catastrofiche contraddizioni della guerra, e descritto in maniera mirabile, in un suo libro di grande successo, il comportamento disumano di generali che non tenevano in alcun conto il valore da attribuire alle vite dei loro soldati. Poi racconta i fatti della vita politica italiana, subito dopo la fine della grande guerra, vissuta direttamente perché parlamentare, i suoi dissidi con il regime, che lo portarono ad uccidere uno degli squadristi venuti a casa sua per arrestarlo perché dissidente. Partecipò anche ad una guerra civile contro un altro dittatore europeo, ed ora fa parte del gruppo di Lupo. Un racconto entusiasmante, coinvolgente al massimo, una maniera di esprimersi pacata, ma incisiva nella sua esposizione di fatti obiettivamente di grande rilevanza, tra noi nasce subito una reciproca simpatia, accresciuta dalle nostre origini comuni. Una personalità che avrebbe potuto dirigere il gruppo al posto di Lupo, ma, essendo venuto dopo di lui, ed essendo i due legati da una profonda amicizia, ha lasciato l’onere di quell’impegno a lui.
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