Come al solito questi globalisti hanno poca fantasia e riversano la loro porcheria sulla nostra terra, non bastano 20mila km2 di coste occupate per le esercitazioni militari NATO, oltre tremila pale eoliche che vogliono infilare in ogni pertuso (o buco di culo) di questa martoriata terra, con decine di migliaia di km2 con fattorie del sole e pannelli fotovoltaici al posto della produzione di buon cibo, inoltre non dimentichiamo i depositi di scorie nucleari che vogliono appioppare a sette regioni la cui peggio trattata è sempre la Sardinya con un totale di 14 aree idonee per lo stoccaggio dei rifiuti nucleari, pur sempre nella nostra isola.
Insomma la loro idea è trasformarci in una bella discarica, una piattaforma per le loro esercitazioni un hub energetico per i loro bisogni di energia, con la merda peggiore cancerogena e distruttiva, che ci trasforma in immondezzaio altamente tossico lontano dalle loro belle città continentali dei 15 minuti. Ma non hanno tenuto conto, o non hanno idea, della opposizione di popolo, a Pratobello già si è dimostrato il carattere antimilitarista ma oggi sarà molto più potente per la determinazione del popolo shardana... non passeranno i loro biechi progetti, la lotta sarà dura e all'ultimo sangue visto che le parole e le manifestazioni non bastano a farli recedere e tornare sui loro passi, si dovrà per questo tornare e applicare la legge del taglione del" occhio per occhio, dente per dente"...
Mauro Pili
In previsione di questa nuova calata di veleni nell’ultimo “parallelo” della Sardegna gli schieramenti sono consolidati da sempre: da una parte coloro che credono ad occhi chiusi ai benefattori della multinazionale svizzera propinatrice di questo nuovo progetto e dall’altra coloro che già da tempo hanno aperto gli occhi sul “ricatto” del lavoro e della salute. Pensare che questo piano di smaltimento-riciclo della batterie proveniente dal mondo intero sia un “regalo” disinteressato per il Sulcis è come credere alle favole di Cappuccetto rosso. In realtà, quando i tecnici incaricati e pagati dalla multinazionale scrivono che si tratta del primo e unico progetto occidentale ed europeo per questo tipo di riciclo, bisognerebbe farsi una domanda e cercare di darsi una risposta.
Canton Ticino o Ruhr
Perchè quando si tratta di smaltire e riciclare questo genere di materiali non pensano alle ricche pianure del nord Italia o ai pascoli verdi del Canton Ticino, alle distese di miniere di carbone della Ruhr tedesca o quelle immense distese di vigneti nella Provenza francese? Semplice, perchè nessuno, queste scorie di “Black Mass”, le vuole gestire. Una materia sconosciuta, di cui si ignora tutto o quasi, dove persino i parametri sugli effetti sull’ambiente e sulla salute umana restano preclusi ai più, circoscritti nell’aulica affermazione non ci sono precedenti
Far soldi
E non è un caso che l’impianto presentato in Regione dalla multinazionale che gestisce, dopo il trapasso e la fuga dell’Eni, la Portovesme srl, la metallurgia del piombo e delle zinco, abbia proposto un progetto sperimentale. L’ambizione è quella di far soldi, molti soldi, realizzando il più grande hub di smaltimento e riciclo delle batterie esauste, piene, per i comuni mortali, di veleni, gli stessi che i riciclatori di batterie considerano materiali rari e preziosi, come il Litio o il Cobalto, Nickel e Manganese. Il piano parte da lontano, anticipato con frasi soffuse, e, poi, nelle ultime giornate di maggio, proclamato come futuro del Sulcis nelle carte trasmesse nei palazzi regionali. In realtà le carte depositate nell’icloud della Glencore dicono ben altro.
Elemosine a caro prezzo
Nelle 133 pagine dello studio preliminare ambientale e nella «Progettazione e realizzazione del nuovo impianto dimostrativo per la produzione di carbonato di Litio e Ossidi di Metalli Misti dal trattamento di Black Mass» c’è una mappa non solo di processo, chimico fisico, ma anche di impatto economico e occupazionale. Questo primo step, venduto come toccasana per compensare licenziamenti e chiusura degli impianti di Portovesme e San Gavino, altro non è che un investimento di cinque milioni di euro, dicasi 5, compresi «tra nuovi investimenti e lavori di ammodernamento di impianti esistenti».
Finanziamenti no, ma...
È illuminante la previsione di spesa in cui si parla di finanziamenti per il nuovo impianto: «Non previsti finanziamenti o fondi ( ma ovviamente aperti al loro utilizzo se disponibili (JFT, Piano Mezzogiorno, ect.)». Fanno tutto loro: da una parte affermano che non sono previsti finanziamenti, ma, poi, dichiarano senza pudore che non rinunceranno se fossero disponibili. In realtà è scontato che li chiederanno, come vuole la premessa del progetto. È semplicemente disarmante, ancor di più, quella che pomposamente definiscono «Stima delle ricadute occupazionali sia in fase di cantiere che in fase di esercizio». Mai nel Sulcis una multinazionale aveva osato tanto.
Pizzeria & mozzarella
Gli svizzeri hanno anche il coraggio di metterlo nero su bianco: «Il progetto prevede una fase di cantiere, per la quale si stima una ricaduta occupazionale pari a 15 persone per un periodo di sette mesi ed una fase di esercizio che prevede l’impiego di circa 20 unità di personale (tra diretti e indiretti)». Una pizzeria ben organizzata produrrebbe molta più occupazione e non avrebbe bisogno di importare nemmeno la mozzarella.
Massa nera & povertà
Qui, invece, per una previsione occupazionale al limite dell’insulto in una terra in ginocchio, si pianifica uno sbarco in grande stile di navi provenienti da mezzo mondo cariche di “Black Mass”, la massa nera che i signori della Glencore acquisirebbero direttamente dai loro partner canadesi della Li-Cycle, coloro che produrrebbero questo miscuglio di veleni triturati da batterie raccattate in giro per il mondo. La verità, quella senza fronzoli e fiocchetti, emerge quando si deve affrontare la questione autorizzazioni. La procedura non lascia scampo: «Impianti di smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi».
Coraggio Glencore
Il “coraggio” della Glencore è notorio, visto il modo con il quale ha annunciato di buttare per strada centinaia, se non migliaia di lavoratori. L’azzardo procedurale, però, è tale che la multinazionale di Baar, Svizzera tedesca, supera se stessa candidandosi ad un procedura che di fatto vorrebbe evitare la Valutazione di impatto ambientale, proponendo una «Verifica di assoggettabilità a V.I.A. finalizzata ad autorizzare l’impianto denominato Li-Demo della Portovesme srl». Non è un caso che gli ultimi capitoli del piano depositato in Regione siano quelli relativi all’ambiente e alla salute pubblica. Le questioni “cruente, quelle della vita o della morte, sono affrontate come se quell’impianto dovesse essere realizzato in un’area vergine, priva di inquinamento e malattie letali legate alle produzioni da sempre inquinanti. Eppure, tutto questo, per gli svizzeri, sembra essere un elemento rafforzativo. Come dire: visto che siamo in una zona industriale già fortemente inquinata e compromessa, nulla aggiunge e nulla toglie un nuovo impianto di questa portata. La frase più shock del piano è nel capito «Rischio sanitario». Lo scrivono come se la questione potesse essere derubricata nel capitolo delle postille riservate in fondo alla pagina con caratteri da lente d’ingrandimento: «Non è stato possibile effettuare una valutazione degli effetti cancerogeni mediante l’approccio UE, in quanto non sono disponibili le Benchmark dose (BMD) per le sostanze d’interesse». Tradotto, sugli effetti cancerogeni non possiamo utilizzare le regole europee di valutazione perchè non ci sono regole e precedenti. Del resto il Sulcis e Portovesme vengono scelti per questo motivo: sperimentare, sulla pelle dei sardi e sulla terra povera di Sardegna. Nel mondo, del resto, c’è una montagna di “Black Mass” che nessuno vuole, gli svizzeri, invece, sanno cosa farne: spedirla in Sardegna.
La multinazionale svizzera punta a trasferire in Sardegna gli scarti tossici provenienti da ogni parte del mondo
Il nome non è una garanzia. Tutt’altro. Black Mass in terra sarda è massa nera. Spedisce il mondo intero, riceve, senza colpo ferire, l’eterno Sulcis. Sardegna profonda, da sempre crocevia di veleni e lavorazioni a rischio salute, barattate in cambio di lavoro e un tozzo di pane. Il progetto ora ha un numero di protocollo. Spedito nelle stanze di viale Trento con un codice di accesso per file da tenere ancora sotto chiave.
Primo, licenziare tutti
La strategia di questa nuova nuova missione di veleni da spedire in terra sarda è scritta nella storia passata e recente: licenziare tutti, fermare gli impianti, far provare ancora più forte la morsa della carestia e della miseria, per costringere, poi, tutti ad accettare qualsiasi cosa, persino la “Black Mass”, quella spedita in Sardegna da ogni latitudine del mondo. Loro, i proponenti, svizzeri con affari metallurgici e minerari in mezzo mondo, la descrivono come linfa vitale per un giardino fiorito di dollari, pronto a far rinascere le speranze del Sulcis in ginocchio. La realtà, però, è tutta un’altra. Il quesito è disarmante: per quale ragione questo tipo di impianto para-industriale per estrarre “Litio & company” dalle scorie di batterie esauste, provenienti dal mondo intero, lo vogliono costruire proprio nella landa devastata di Portovesme? La risposta sarebbe automatica e pure lapalissiana se non ci fosse di mezzo il Dio denaro, quello capace di annientare senza pudore il diritto alla salute e all’ambiente.
Regalo “nero”
Il nome non è una garanzia. Tutt’altro. Black Mass in terra sarda è massa nera. Spedisce il mondo intero, riceve, senza colpo ferire, l’eterno Sulcis. Sardegna profonda, da sempre crocevia di veleni e lavorazioni a rischio salute, barattate in cambio di lavoro e un tozzo di pane. Il progetto ora ha un numero di protocollo. Spedito nelle stanze di viale Trento con un codice di accesso per file da tenere ancora sotto chiave.
Primo, licenziare tutti
La strategia di questa nuova nuova missione di veleni da spedire in terra sarda è scritta nella storia passata e recente: licenziare tutti, fermare gli impianti, far provare ancora più forte la morsa della carestia e della miseria, per costringere, poi, tutti ad accettare qualsiasi cosa, persino la “Black Mass”, quella spedita in Sardegna da ogni latitudine del mondo. Loro, i proponenti, svizzeri con affari metallurgici e minerari in mezzo mondo, la descrivono come linfa vitale per un giardino fiorito di dollari, pronto a far rinascere le speranze del Sulcis in ginocchio. La realtà, però, è tutta un’altra. Il quesito è disarmante: per quale ragione questo tipo di impianto para-industriale per estrarre “Litio & company” dalle scorie di batterie esauste, provenienti dal mondo intero, lo vogliono costruire proprio nella landa devastata di Portovesme? La risposta sarebbe automatica e pure lapalissiana se non ci fosse di mezzo il Dio denaro, quello capace di annientare senza pudore il diritto alla salute e all’ambiente.
Regalo “nero”
In previsione di questa nuova calata di veleni nell’ultimo “parallelo” della Sardegna gli schieramenti sono consolidati da sempre: da una parte coloro che credono ad occhi chiusi ai benefattori della multinazionale svizzera propinatrice di questo nuovo progetto e dall’altra coloro che già da tempo hanno aperto gli occhi sul “ricatto” del lavoro e della salute. Pensare che questo piano di smaltimento-riciclo della batterie proveniente dal mondo intero sia un “regalo” disinteressato per il Sulcis è come credere alle favole di Cappuccetto rosso. In realtà, quando i tecnici incaricati e pagati dalla multinazionale scrivono che si tratta del primo e unico progetto occidentale ed europeo per questo tipo di riciclo, bisognerebbe farsi una domanda e cercare di darsi una risposta.
Canton Ticino o Ruhr
Perchè quando si tratta di smaltire e riciclare questo genere di materiali non pensano alle ricche pianure del nord Italia o ai pascoli verdi del Canton Ticino, alle distese di miniere di carbone della Ruhr tedesca o quelle immense distese di vigneti nella Provenza francese? Semplice, perchè nessuno, queste scorie di “Black Mass”, le vuole gestire. Una materia sconosciuta, di cui si ignora tutto o quasi, dove persino i parametri sugli effetti sull’ambiente e sulla salute umana restano preclusi ai più, circoscritti nell’aulica affermazione non ci sono precedenti
Far soldi
E non è un caso che l’impianto presentato in Regione dalla multinazionale che gestisce, dopo il trapasso e la fuga dell’Eni, la Portovesme srl, la metallurgia del piombo e delle zinco, abbia proposto un progetto sperimentale. L’ambizione è quella di far soldi, molti soldi, realizzando il più grande hub di smaltimento e riciclo delle batterie esauste, piene, per i comuni mortali, di veleni, gli stessi che i riciclatori di batterie considerano materiali rari e preziosi, come il Litio o il Cobalto, Nickel e Manganese. Il piano parte da lontano, anticipato con frasi soffuse, e, poi, nelle ultime giornate di maggio, proclamato come futuro del Sulcis nelle carte trasmesse nei palazzi regionali. In realtà le carte depositate nell’icloud della Glencore dicono ben altro.
Elemosine a caro prezzo
Nelle 133 pagine dello studio preliminare ambientale e nella «Progettazione e realizzazione del nuovo impianto dimostrativo per la produzione di carbonato di Litio e Ossidi di Metalli Misti dal trattamento di Black Mass» c’è una mappa non solo di processo, chimico fisico, ma anche di impatto economico e occupazionale. Questo primo step, venduto come toccasana per compensare licenziamenti e chiusura degli impianti di Portovesme e San Gavino, altro non è che un investimento di cinque milioni di euro, dicasi 5, compresi «tra nuovi investimenti e lavori di ammodernamento di impianti esistenti».
la merda nera la black mass |
È illuminante la previsione di spesa in cui si parla di finanziamenti per il nuovo impianto: «Non previsti finanziamenti o fondi ( ma ovviamente aperti al loro utilizzo se disponibili (JFT, Piano Mezzogiorno, ect.)». Fanno tutto loro: da una parte affermano che non sono previsti finanziamenti, ma, poi, dichiarano senza pudore che non rinunceranno se fossero disponibili. In realtà è scontato che li chiederanno, come vuole la premessa del progetto. È semplicemente disarmante, ancor di più, quella che pomposamente definiscono «Stima delle ricadute occupazionali sia in fase di cantiere che in fase di esercizio». Mai nel Sulcis una multinazionale aveva osato tanto.
Pizzeria & mozzarella
Gli svizzeri hanno anche il coraggio di metterlo nero su bianco: «Il progetto prevede una fase di cantiere, per la quale si stima una ricaduta occupazionale pari a 15 persone per un periodo di sette mesi ed una fase di esercizio che prevede l’impiego di circa 20 unità di personale (tra diretti e indiretti)». Una pizzeria ben organizzata produrrebbe molta più occupazione e non avrebbe bisogno di importare nemmeno la mozzarella.
Massa nera & povertà
Qui, invece, per una previsione occupazionale al limite dell’insulto in una terra in ginocchio, si pianifica uno sbarco in grande stile di navi provenienti da mezzo mondo cariche di “Black Mass”, la massa nera che i signori della Glencore acquisirebbero direttamente dai loro partner canadesi della Li-Cycle, coloro che produrrebbero questo miscuglio di veleni triturati da batterie raccattate in giro per il mondo. La verità, quella senza fronzoli e fiocchetti, emerge quando si deve affrontare la questione autorizzazioni. La procedura non lascia scampo: «Impianti di smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi».
Coraggio Glencore
Il “coraggio” della Glencore è notorio, visto il modo con il quale ha annunciato di buttare per strada centinaia, se non migliaia di lavoratori. L’azzardo procedurale, però, è tale che la multinazionale di Baar, Svizzera tedesca, supera se stessa candidandosi ad un procedura che di fatto vorrebbe evitare la Valutazione di impatto ambientale, proponendo una «Verifica di assoggettabilità a V.I.A. finalizzata ad autorizzare l’impianto denominato Li-Demo della Portovesme srl». Non è un caso che gli ultimi capitoli del piano depositato in Regione siano quelli relativi all’ambiente e alla salute pubblica. Le questioni “cruente, quelle della vita o della morte, sono affrontate come se quell’impianto dovesse essere realizzato in un’area vergine, priva di inquinamento e malattie letali legate alle produzioni da sempre inquinanti. Eppure, tutto questo, per gli svizzeri, sembra essere un elemento rafforzativo. Come dire: visto che siamo in una zona industriale già fortemente inquinata e compromessa, nulla aggiunge e nulla toglie un nuovo impianto di questa portata. La frase più shock del piano è nel capito «Rischio sanitario». Lo scrivono come se la questione potesse essere derubricata nel capitolo delle postille riservate in fondo alla pagina con caratteri da lente d’ingrandimento: «Non è stato possibile effettuare una valutazione degli effetti cancerogeni mediante l’approccio UE, in quanto non sono disponibili le Benchmark dose (BMD) per le sostanze d’interesse». Tradotto, sugli effetti cancerogeni non possiamo utilizzare le regole europee di valutazione perchè non ci sono regole e precedenti. Del resto il Sulcis e Portovesme vengono scelti per questo motivo: sperimentare, sulla pelle dei sardi e sulla terra povera di Sardegna. Nel mondo, del resto, c’è una montagna di “Black Mass” che nessuno vuole, gli svizzeri, invece, sanno cosa farne: spedirla in Sardegna.
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