Il giornalista Marcello Foa, ex presidente della Rai FOTO: ANSA |
Marcello Foa: «Attenta Meloni, il sistema vuole impedirti di realizzare il tuo programma»
Il giornalista Marcello Foa, ex presidente della Rai, presenta al giornale Diario del Web il suo ultimo libro «Il sistema (in)visibile. Perché non siamo più padroni del nostro destino»
«Non siamo più padroni del nostro destino», anzi, siamo tutti condizionati da un «sistema (in)visibile». Questo è il titolo (e il sottotitolo) dell'ultimo libro, edito da Guerini, di Marcello Foa, giornalista ed ex presidente della Rai. Un'analisi lucida, acuta e per nulla scontata della nostra realtà sociale e politica, così come si è delineata con le crisi degli ultimi anni, dal Covid alla guerra in Ucraina. Ma che suona anche come un avvertimento alla nuova premier Giorgia Meloni e al suo governo: occhio che cambiare l'Italia come intendete fare potrebbe rivelarsi più difficile del previsto.
Ecco cosa ha dichiarato ai microfoni di Diario del Web.
Marcello Foa, se non siamo noi, allora chi è oggi il padrone del nostro destino?
Domanda giustissima, a cui nel libro do una risposta, che però non è semplicistica. Purtroppo siamo abituati ad affrontare queste tematiche secondo uno schema non più attuale.
A che schema si riferisce?
Da un lato una visione molto mainstream della realtà, che si basa su un'analisi superficiale del ruolo delle nostre istituzioni: come la contrapposizione destra-sinistra, che per molti versi non ha più ragione d'essere. All'estremo opposto c'è chi vede una specie di grande Spectre, che comanda il mondo da qualche caverna nascosta.
Il pensiero unico contro il complottismo, in altre parole.
Secondo me, invece, la realtà è più intellegibile di quanto si pensi. E si basa, fondamentalmente, sulla coincidenza di interessi dei diversi attori che, negli ultimi trent'anni, hanno promosso la globalizzazione. Che è stata gestita molto male e i cui effetti ci fanno ritrovare, oggi, in questo stato di disagio democratico.
Quali sono questi attori?
Una struttura che da nazionale diventa sovranazionale, ma non viene dichiarata in quanto tale; un sistema economico in cui un tempo si scoraggiavano le concentrazioni di potere e oggi le si incoraggia; l'utilizzo di tecniche di condizionamento psicologico, sociologico, mediatico e digitale, in buona parte frutto anche della guerra culturale tra Cia e Kgb. Mettendo insieme tutti questi elementi si capisce perché la nostra società, come quella di molti altri Paesi, evolve nella direzione che viviamo in questo momento.
Ci sta dicendo che la politica dei parlamenti e dei governi non è che la mera rappresentazione di scelte che vengono in realtà prese a un altro livello?
Io parlo di limitazione di potere. Mi spiego. Noi eleggiamo un parlamento che esprime un governo, nella speranza che possa cambiare le cose, per il bene comune, rispettando il suo programma.
Questo dovrebbe essere il senso della democrazia.
Esatto. Però, una volta che gli eletti arrivano al governo, si accorgono che anziché avere a disposizione dieci leve, in realtà possono azionarne liberamente soltanto due o tre.
E le altre sette o otto?
Sono vincolate da regole, regolamenti, convenzioni che alla fine non permettono di agire come si vuole. Ma la classe politica è imbarazzata: come fa a chiedere potere se non può esercitarlo pienamente?
Per questo c'è una così forte volatilità nei consensi delle forse politiche?
I partiti che hanno avuto grande consenso popolare hanno seguito tutti la stessa parabola. Renzi è salito al 40% e oggi vale il 2%. Il M5s ha raggiunto il 32% ed è riuscito a mantenerne a stento la metà. La Lega è arrivata al 34% alle europee e ora è finita al 9%.
Anche la Meloni rischia di fare la stessa fine?
Lei è una persona seria e mi auguro che possa far bene. Però non basta essere capaci e volerlo fare, se non hai gli strumenti per realizzare le tue promesse elettorali. Man mano che andrà avanti, temo che scoprirà di non poter azionare le leve che vorrebbe.
Questo è un problema democratico.
Molto importante. Democrazia significa «governo del popolo». Se il popolo non può più esprimere liberamente una scelta che poi determina il proprio destino, allora che democrazia è?
Sarà per colpa di questa impotenza politica che si registra un astensionismo mai così alto?
Io sento a tutti i livelli un forte disagio, un malessere, una delusione profonda nei confronti della politica. Nel libro non mi sono voluto accontentare delle solite spiegazioni tecniche o di parte, ma ho cercato di capirne le cause profonde.
Lei ha avuto un'esperienza diretta come presidente della Rai. Da dentro il sistema che cosa ha capito?
È stata un'esperienza molto importante perché mi ha permesso di aggiungere un altro tassello al mosaico: la difficoltà di cambiare le istituzioni dall'interno. Nelle grandi amministrazioni ci sono diverse eccellenze, ma anche un quadro di condizionamento, il cosiddetto deep state, che alla fine prevale sulla volontà di qualunque riformatore.
La resistenza dei burocrati diventa molto difficile da superare.
I mandati di qualunque azienda pubblica, come la Rai, durano tre anni, che non bastano non dico a cambiarla, ma nemmeno a scalfire le pareti. I governi in Italia durano anche meno, circa un anno e mezzo... Chi lavora dentro le grandi istituzioni sa che i politici o i dirigenti passano, ma loro restano. E conoscono tutta la macchina dei codici, dei regolamenti, delle consuetudini, delle prassi. Hanno un potere di condizionamento enorme e tendono a proteggere se stessi.
Un altro avviso alla Meloni: occhio a non essere paralizzata dai cosiddetti mandarini.
Certo. La Meloni, per come la conosco, è ben intenzionata, determinata, documentata, preparata. Un leader politico capace, che arriva a essere primo ministro al momento giusto, al culmine di una maturazione professionale. La sua grande sfida è riuscire a sciogliere alcuni di questi legami, interni ed esterni, per recuperare la libertà d'azione.
Ci riuscirà?
È difficilissimo, ma se ci riuscirà potrà realizzare almeno in parte il suo programma politico, e sarebbe già un successo. Altrimenti finirà invischiata in talmente tanti problemi e difficoltà che rischieranno di azzopparne l'azione.
I primi inciampi, come il decreto rave o la circolare sulla dicitura «signor presidente», vanno letti come avvertimenti della burocrazia nei suoi confronti?
Secondo me, più che altro, vanno letti come il rischio dell'effetto Trump. L'ex presidente degli Usa è stato frenato dai suoi oppositori, che peraltro lo dichiaravano esplicitamente, utilizzando qualunque strumento: politico, giudiziario, parlamentare, attivistico. Abbiamo assistito a una fortissima mobilitazione della magistratura, anche se poi il Russiagate è risultato un bluff, a manifestazioni dei pacifisti e degli Lgbtq, alla cancel culture... Qualunque pretesto era usato strumentalmente per metterlo in difficoltà.
Dunque con la Meloni sta accadendo lo stesso?
Vedo questo pericolo, sì. Cosa che non accade quando il primo ministro è di sinistra o legato all'establishment, come era Draghi. In quei casi c'è qualche polemica, ma non questo clima di pressione e di scandalo permanente.
Quindi in questo caso la responsabilità è dell'informazione?
Forse i giornalisti dovrebbero farsi qualche domanda, questo sì. Perché non è casuale.
Esiste una via d'uscita da questo «sistema (in)visibile»?
Trovo due elementi di forte speranza. Il primo: le crisi che abbiamo vissuto negli ultimi anni hanno sì stordito l'opinione pubblica, ma d'altro canto hanno permesso la nascita di una forte resistenza, hanno rianimato un forte spirito democratico trasversale, che secondo me è molto salutare. Dimostra una vivacità e un attaccamento ai valori nient'affatto scontati.
E il secondo?
La storia dimostra che, in queste fasi, la qualità delle élite al potere fa la differenza. Quelle che hanno governato la globalizzazione hanno un evidente problema di leadership e di visione. Soprattutto in America, vedo un atteggiamento molto più esplicito e talvolta aggressivo di prima, ma che non mi sembra molto saggio. Persino Kissinger, pur avendo 99 anni, li ha ammoniti a recuperare quella saggezza strategica perduta.
Questo è il suo auspicio?
La speranza è che da questa crisi un po' a tutti i livelli possa risorgere, come dovrebbe avvenire sempre in democrazia, un sistema che riscopra la virtù dell'equilibrio. Cioè la coincidenza tra i valori, la nostra realtà e la comunicazione, la propaganda, elemento centrale della nostra società. Se questo accadrà, avremo un futuro molto più sereno di quello di oggi. E mi auguro che si possa andare in questa direzione.
Marcello Foa, se non siamo noi, allora chi è oggi il padrone del nostro destino?
Domanda giustissima, a cui nel libro do una risposta, che però non è semplicistica. Purtroppo siamo abituati ad affrontare queste tematiche secondo uno schema non più attuale.
A che schema si riferisce?
Da un lato una visione molto mainstream della realtà, che si basa su un'analisi superficiale del ruolo delle nostre istituzioni: come la contrapposizione destra-sinistra, che per molti versi non ha più ragione d'essere. All'estremo opposto c'è chi vede una specie di grande Spectre, che comanda il mondo da qualche caverna nascosta.
Il pensiero unico contro il complottismo, in altre parole.
Secondo me, invece, la realtà è più intellegibile di quanto si pensi. E si basa, fondamentalmente, sulla coincidenza di interessi dei diversi attori che, negli ultimi trent'anni, hanno promosso la globalizzazione. Che è stata gestita molto male e i cui effetti ci fanno ritrovare, oggi, in questo stato di disagio democratico.
Quali sono questi attori?
Una struttura che da nazionale diventa sovranazionale, ma non viene dichiarata in quanto tale; un sistema economico in cui un tempo si scoraggiavano le concentrazioni di potere e oggi le si incoraggia; l'utilizzo di tecniche di condizionamento psicologico, sociologico, mediatico e digitale, in buona parte frutto anche della guerra culturale tra Cia e Kgb. Mettendo insieme tutti questi elementi si capisce perché la nostra società, come quella di molti altri Paesi, evolve nella direzione che viviamo in questo momento.
Ci sta dicendo che la politica dei parlamenti e dei governi non è che la mera rappresentazione di scelte che vengono in realtà prese a un altro livello?
Io parlo di limitazione di potere. Mi spiego. Noi eleggiamo un parlamento che esprime un governo, nella speranza che possa cambiare le cose, per il bene comune, rispettando il suo programma.
Questo dovrebbe essere il senso della democrazia.
Esatto. Però, una volta che gli eletti arrivano al governo, si accorgono che anziché avere a disposizione dieci leve, in realtà possono azionarne liberamente soltanto due o tre.
E le altre sette o otto?
Sono vincolate da regole, regolamenti, convenzioni che alla fine non permettono di agire come si vuole. Ma la classe politica è imbarazzata: come fa a chiedere potere se non può esercitarlo pienamente?
Per questo c'è una così forte volatilità nei consensi delle forse politiche?
I partiti che hanno avuto grande consenso popolare hanno seguito tutti la stessa parabola. Renzi è salito al 40% e oggi vale il 2%. Il M5s ha raggiunto il 32% ed è riuscito a mantenerne a stento la metà. La Lega è arrivata al 34% alle europee e ora è finita al 9%.
Anche la Meloni rischia di fare la stessa fine?
Lei è una persona seria e mi auguro che possa far bene. Però non basta essere capaci e volerlo fare, se non hai gli strumenti per realizzare le tue promesse elettorali. Man mano che andrà avanti, temo che scoprirà di non poter azionare le leve che vorrebbe.
Questo è un problema democratico.
Molto importante. Democrazia significa «governo del popolo». Se il popolo non può più esprimere liberamente una scelta che poi determina il proprio destino, allora che democrazia è?
Sarà per colpa di questa impotenza politica che si registra un astensionismo mai così alto?
Io sento a tutti i livelli un forte disagio, un malessere, una delusione profonda nei confronti della politica. Nel libro non mi sono voluto accontentare delle solite spiegazioni tecniche o di parte, ma ho cercato di capirne le cause profonde.
Lei ha avuto un'esperienza diretta come presidente della Rai. Da dentro il sistema che cosa ha capito?
È stata un'esperienza molto importante perché mi ha permesso di aggiungere un altro tassello al mosaico: la difficoltà di cambiare le istituzioni dall'interno. Nelle grandi amministrazioni ci sono diverse eccellenze, ma anche un quadro di condizionamento, il cosiddetto deep state, che alla fine prevale sulla volontà di qualunque riformatore.
La resistenza dei burocrati diventa molto difficile da superare.
I mandati di qualunque azienda pubblica, come la Rai, durano tre anni, che non bastano non dico a cambiarla, ma nemmeno a scalfire le pareti. I governi in Italia durano anche meno, circa un anno e mezzo... Chi lavora dentro le grandi istituzioni sa che i politici o i dirigenti passano, ma loro restano. E conoscono tutta la macchina dei codici, dei regolamenti, delle consuetudini, delle prassi. Hanno un potere di condizionamento enorme e tendono a proteggere se stessi.
Un altro avviso alla Meloni: occhio a non essere paralizzata dai cosiddetti mandarini.
Certo. La Meloni, per come la conosco, è ben intenzionata, determinata, documentata, preparata. Un leader politico capace, che arriva a essere primo ministro al momento giusto, al culmine di una maturazione professionale. La sua grande sfida è riuscire a sciogliere alcuni di questi legami, interni ed esterni, per recuperare la libertà d'azione.
Ci riuscirà?
È difficilissimo, ma se ci riuscirà potrà realizzare almeno in parte il suo programma politico, e sarebbe già un successo. Altrimenti finirà invischiata in talmente tanti problemi e difficoltà che rischieranno di azzopparne l'azione.
I primi inciampi, come il decreto rave o la circolare sulla dicitura «signor presidente», vanno letti come avvertimenti della burocrazia nei suoi confronti?
Secondo me, più che altro, vanno letti come il rischio dell'effetto Trump. L'ex presidente degli Usa è stato frenato dai suoi oppositori, che peraltro lo dichiaravano esplicitamente, utilizzando qualunque strumento: politico, giudiziario, parlamentare, attivistico. Abbiamo assistito a una fortissima mobilitazione della magistratura, anche se poi il Russiagate è risultato un bluff, a manifestazioni dei pacifisti e degli Lgbtq, alla cancel culture... Qualunque pretesto era usato strumentalmente per metterlo in difficoltà.
Dunque con la Meloni sta accadendo lo stesso?
Vedo questo pericolo, sì. Cosa che non accade quando il primo ministro è di sinistra o legato all'establishment, come era Draghi. In quei casi c'è qualche polemica, ma non questo clima di pressione e di scandalo permanente.
Quindi in questo caso la responsabilità è dell'informazione?
Forse i giornalisti dovrebbero farsi qualche domanda, questo sì. Perché non è casuale.
Esiste una via d'uscita da questo «sistema (in)visibile»?
Trovo due elementi di forte speranza. Il primo: le crisi che abbiamo vissuto negli ultimi anni hanno sì stordito l'opinione pubblica, ma d'altro canto hanno permesso la nascita di una forte resistenza, hanno rianimato un forte spirito democratico trasversale, che secondo me è molto salutare. Dimostra una vivacità e un attaccamento ai valori nient'affatto scontati.
E il secondo?
La storia dimostra che, in queste fasi, la qualità delle élite al potere fa la differenza. Quelle che hanno governato la globalizzazione hanno un evidente problema di leadership e di visione. Soprattutto in America, vedo un atteggiamento molto più esplicito e talvolta aggressivo di prima, ma che non mi sembra molto saggio. Persino Kissinger, pur avendo 99 anni, li ha ammoniti a recuperare quella saggezza strategica perduta.
Questo è il suo auspicio?
La speranza è che da questa crisi un po' a tutti i livelli possa risorgere, come dovrebbe avvenire sempre in democrazia, un sistema che riscopra la virtù dell'equilibrio. Cioè la coincidenza tra i valori, la nostra realtà e la comunicazione, la propaganda, elemento centrale della nostra società. Se questo accadrà, avremo un futuro molto più sereno di quello di oggi. E mi auguro che si possa andare in questa direzione.
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