giovedì 17 marzo 2011

Uranio impoverito, una nuova pista

Dopo la testimonianza dell'ex direttore tecnico del poligono di Perdasdefogu

Sequestro di documenti nell'aeroporto di Decimomannu

PAOLO CARTA
unione sarda


Fotografia allegata all'articolo


S
i cerca una traccia, un documento, un'ulteriore prova del fatto che nel poligono di Perdasdefogu e Quirra siano state sperimentate armi all'uranio impoverito. Ieri il procuratore di Lanusei, Domenico Fiordalisi, ha disposto il sequestro di tutti gli ordini di servizio degli aerei da combattimento partiti dall'aeroporto militare di Decimomannu per sganciare il loro armamento a Quirra o a Capo Frasca negli ultimi trent'anni.

Nei documenti potrebbe essere registrato anche il tipo di carica in dotazione a mitragliatori e missili.

L'INCHIESTA Il sospetto è che le attività di addestramento militare e sperimentazione bellica abbiano potuto causare quell'inquinamento radioattivo, di emissioni radar o di nanoparticelle di metalli pesanti in grado di far ammalare in un numero superiore alla media i militari e i dipendenti civili del poligono e gli abitanti di Quirra.

URANIO Uno dei clienti del poligono di Quirra, per esempio, era la Hoerlikon Contraves, sospettata di aver preparato munizioni all'uranio impoverito in dotazione agli aerei Usa A 10. Dai documenti sequestrati ieri a Decimomannu, qualche giorno fa negli uffici dello Stato maggiore dell'Aeronautica a Roma e nel Cisam (il Centro militare sperimentale di Pisa) potrebbero emergere ulteriori conferme sull'utilizzo in Sardegna di determinati armamenti.

IL TESTIMONE
Una prima testimonianza gli inquirenti della Squadra Mobile e della Procura di Lanusei l'hanno raccolta nei giorni scorsi da un ex ufficiale in pensione, l'ingegnere Giancarlo Carrusci di Monserrato. Nel suo proposito «di far chiarezza» su quanto è accaduto tra Perdasdefogu e Quirra, l'ex direttore tecnico del poligono ha contattato tv e giornali e ha raccontato nei minimi dettagli quel lancio sperimentale del razzo Kormoran effettuato negli anni 80 dai tedeschi della Messersmith con armamento all'uranio impoverito.


IL LANCIO «Fu l'unico test di quel tipo - racconta Carrusci - di cui io abbia ricordo, ma di quella testata all'uranio impoverito non risulta traccia nei documenti del poligono. Forse perché in quegli anni non si conosceva la pericolosità di quella sostanza». O forse perché chiunque noleggi il poligono (forza armata o industria bellica, non importa) non è soggetto ad alcun controllo dell'attività, è tenuto a rilasciare una semplice autocertificazione.

IL FILMATO
Carrusci ricorda bene quel giorno, ha conservato anche il filmato: «Il missile tedesco sembrava che si stesse dirigendo verso terra, che non dovesse colpire il bersaglio, un vecchio rimorchiatore ormeggiato a largo di Porto Corallo. Fu io a urlare al direttore dell'esercitazione che i radar stavano seguendo alla perfezione la traiettoria, che il Kormoran stava raggiungendo il natante, proprio mentre il collega stava per premere il pulsante dell'autodistruzione. Missione compiuta: se il test fosse andato male, la Messersmith non avrebbe pagato la Difesa».

IL DECLINO
Carrusci ha lavorato a Perdas dal 1977 al 1992: «Ho progettato il sistema radar, ho diretto tutti i lavori, eravamo il poligono d'eccellenza in Europa. Adesso no, i francesi a Bordeaux hanno continuato a investire, l'Italia no. Io penso che un po' in tanti, anche nel Governo e nello Stato maggiore della Difesa, oggi vogliamo chiudere la base di Quirra ormai obsoleta».

INQUINAMENTO
L'ex capitano Carrusci, oggi sessantenne progettista di impianti a energia rinnovabile, è convinto che la base di Perdasdefogu non abbia causato le malattie e le morti denunciate nella zona. «Inquinamento, quello sì. Alcune attività come il brillamento di munizioni o gli spari contro i bersagli corazzati non possono non averne creato negli anni. Ma io ritengo che la zona sia ancora sicura: ci vado a pesca, al mare e a cercare funghi con i miei familiari appena posso».

Ieri la Squadra mobile di Nuoro ha interrogato l'ex senatore leghista Edouard Ballaman. In passato aveva denunciato l'acquisto da parte dell'Itala di munizioni all'uranio impoverito che sarebbero state in parte sparate nelle basi sarde.


Il parlamentare del Pd, Giampiero Scanu, definisce «positivo» l'incontro di ieri: «Il procuratore Fiordalisi va avanti alla ricerca della verità senza tesi precostituite e senza inseguire alcun teorema. Sta svolgendo un lavoro molto serio e approfondito».



TUMORI A QUIRRA , INDAGINE TOP SECRET

Riservato il contenuto dell'audizione del pm Fiordalisi in Senato

Quel che il procuratore di Lanusei, Domenico Fiordalisi, ha detto ieri ai senatori della commissione parlamentare d'inchiesta sull'uranio impoverito resta segreto. Decisione prevedibile, ovvia, necessaria: c'è un'indagine giudiziaria in corso sull'eventuale rapporto tra alta incidenza dei tumori denunciata attorno al poligono di Perdasdefogu e Quirra e le esercitazioni belliche che si svolgono nella base.

I COMMENTI Alla fine dell'audizione, restano i sorrisi e i commenti ufficiosi e ufficiali. Per Giampiero Scanu, parlamentare del Pd eletto in Gallura, «è stata una riunione utilissima. Abbiamo avuto la conferma del rigore delle indagini svolte dal procuratore Fiordalisi, che sta valutando attentamente i fatti e le circostanze senza rincorrere teoremi prestabiliti. L'unico impegno del magistrato è fare emergere la verità dei fatti». Con la visita della Commissione in Sardegna, prevista per il 29 e il 30 marzo, si potrà avere un quadro di insieme più dettagliato. «Suppongo che poi si terrannno diverse audizioni in Prefettura a Cagliari».

L'INDAGINE Evidentemente il pubblico ministero Domenico Fiordalisi ha spiegato nei dettagli ai parlamentari le indagini in corso sul poligono sperimentale del Salto di Quirra.
In due mesi di lavoro a tempo pieno gli uomini della Squadra mobile di Nuoro, diretti da Fabrizio Mustaro, e della Forestale, hanno permesso di individuare bersagli e razzi dimenticati dopo le esercitazioni all'interno dell'area militare in una sorta di discarica, e poi ancora pezzi di razzi utilizzati dai tedeschi negli anni Sessanta e nascosti da chissà chi e da chissà quanto tempo sotto terra.

URANIO Nei depositi di Capo San Lorenzo anche materiale radioattivo (con uranio 238 e trizio) conservato, secondo gli inquirenti, senza tutte le cautele prescritte dalla legge sulla sicurezza dei lavoratori proprio in alcuni magazzini dove si sono ammalati due ex soldati. E anche nello specchio di mare davanti all'isolotto di Quirra in un fondale di pochi metri sono stati trovati ordigni inesplosi e pezzi di razzi.
Il magistrato ha anche raccolto le testimonianze di diversi soldati malati e di un ex ufficiale che ha raccontato il test di un razzo con testata all'uranio impoverito lanciato dai tedeschi nel 1988.

I DOCUMENTI Domenico Fiordalisi sta cercando anche di capire dai documenti del Centro militare sperimentale del Cisam di Pisa, dell'aeroporto di Decimomannu e dello Stato maggiore dell'Aeronautica le procedure per lo smaltimento delle parti dei radar radioattive ormai inservibili e dove veniva registrato il munizionamento degli aerei che si esercitavano in Sardegna.

Quirra, una discarica radioattiva


RAINWES24

Secondo la Procura di Lanusei dal 1970 ad oggi sono state compiute numerose operazioni di distruzione, mediante enormi esplosioni di munizioni di vario genere, probabilmente anche all'uranio impoverito e di armi, nel territorio del poligono.

Alcuni camion senza nemmeno essere scaricati venivano fatti esplodere assieme al loro carico.
Ma vi riproponiamo anche le immagini di distruzioni analoghe effettuate nella ex Jugoslavia che abbiamo trasmesso in una nostra inchiesta del 2002.

Il procuratore di Lanusei, Fiordalisi, ha deciso di sentire anche l'ex deputato della Lega, Edouard Ballaman, che ai nostri microfoni denunciò l'uso dell'uranio impoverito in Sardegna.

Ballaman, nel 2000, presentò una interrogazione parlamentare, all'allora ministro della difesa Mattarella, sul caso di una partita di proiettili all'uranio impoverito acquistata nel 1985 dall'Italia e poi utilizzata dall'esercito in Somalia nel 1993. Ma una parte del munizionamento tornò in Italia e fu sparato, secondo Ballaman, nei poligoni in Sardegna.

Le nostre telecamere sono entrate anche nel bunker dell'Università di Cagliari che custodisce parte del materiale posto sotto sequestro dove abbiamo incontrato, il fisico nucleare Paolo Randaccio, uno dei tecnici incaricati dalla Procura di Lanusei delle analisi.

Numerose anche le testimonianze dei malati e dei parenti delle vittime che vivono nelle zone vicine al poligono.

Quirra
QUIRRA

mercoledì 16 marzo 2011

L’odissea degli sfollati di Fukushima

L’area intorno alla centrale nucleare è stata evacuata e migliaia di persone si spostano da un rifugio all’altro
Mainichi Shimbun
Giappone


Gli abitanti allontanati dall’area della centrale nucleare di Fukushima 1, dove il sisma ha
danneggiato il sistema di raffreddamento, sono stati costretti a spostarsi da un rifugio all’altro.
Quando il pomeriggio dell’11 marzo c’è stato il terremoto, Tomoichi Yamada, 40 anni, stava lavorando in una stazione di servizio a Okuma, a tre chilometri di distanza dalla centrale nucleare. Nonostante la catastrofe, Yamada ha continuato a lavorare per aiutare i terremotati della zona ed è tornato a casa solo la sera. Non potendo lavorare, dato che la stazione di servizio è all’interno della zona evacuata intorno alla centrale subito dopo il terremoto, Yamada si è trasferito con la famiglia a casa della suocera.

Il 12 marzo, però, dopo l’esplosione nel reattore numero 1 della centrale, sono state allontanate le persone che si trovavano nel raggio di 20 chilometri dall’impianto: nell’area si trova la casa dei suoceri di Yamada. L’uomo e la sua famiglia si sono allora spostati a casa della sorella maggiore
di Yamada, appena fuori dalla zona evacuata. Ma dopo l’esplosione al reattore numero 3 della centrale si sono dovuti trasferire in una palestra pubblica trasformata in rifugio. In salvo, per ora.

Prima di sera nella palestra c’erano più di 200 persone, molte più della sua capacità. Come Yamada, molti abitanti della zona sono riusciti a malapena a raggiungere la palestra prima che i serbatoi delle loro auto rimanessero a secco. Il 15 marzo è arrivata la notizia che il reattore numero 2 aveva dei problemi. Yamada, che insieme alla sua famiglia ha già cambiato tre rifugi, è felice di essere in salvo, ma le fughe radioattive dalla centrale di Fukushima lo angosciano.
“Vogliamo andare a ripulire la nostra casa dai detriti, ma fino a quando il livello di radioattività non si abbasserà non potremo tornarci.

Come funziona un reattore Una serie di barre di
uranio rivestite con una lega di zirconio sono immerse
nell’acqua. Il calore generato dalla reazione nucleare
del combustibile trasforma l’acqua in vapore che
aziona le turbine per produrre elettricità. In caso di
arresto, alcune barre di controllo, posizionate tra
quelle di combustibile, possono essere sollevate e
abbassate per fermare la reazione nucleare. Nel
terremoto in Giappone le barre di controllo hanno
funzionato correttamente. Tuttavia, anche se la
reazione si ferma, le barre di combustibile continuano
a rilasciare quantità enormi di calore, per il
decadimento di elementi chimici radioattivi. Per
evitare che si surriscaldino, devono essere immerse
nell’acqua di raffreddamento.
Mancato raffreddamento In Giappone è mancata
l’elettricità necessaria ad avviare il sistema di
raffreddamento. I tecnici hanno aggiunto acqua, ma
ha cominciato a evaporare troppo rapidamente. Le
barre sono rimaste esposte all’aria, surriscaldandosi.
Mentre le temperature salivano vertiginosamente, la
lega di zirconio che riveste le capsule ha cominciato a
fondersi, rilasciando gas radioattivi e idrogeno.
Probabilmente è proprio l’idrogeno ad aver provocato
l’esplosione del 12 marzo. Non si sa, invece, se ci sia
stata fusione di parte del combustibile.
Fusione totale In una fusione totale il combustibile
precipiterebbe sul fondo del reattore, bruciando e
forse sfondando la base dell’involucro di cemento
armato che lo racchiude. Nel peggiore dei casi, c’è il
rischio che il combustibile fuso esca da tutte le
strutture e rilasci quantità enormi di materiale
radioattivo. I fisici, però, non sono sicuri che questo
possa succedere.


Basta con il nucleare

L’allarme atomico in Giappone ha riproposto il problema della sicurezza del nucleare anche in Germania. Il 12 marzo, scrive la Frankfurter Rundschau, migliaia di persone hanno formato una catena umana tra Stoccarda e la centrale di Neckarwestheim per chiedere la chiusura di tutti gli impianti del paese. Nel 2010 il governo tedesco ha prolungato i tempi per la chiusura delle 17 centrali ancora in attività nel paese. Il 14 marzo, però, Angela Merkel ha annunciato una moratoria di tre mesi sul provvedimento e la chiusura provvisoria delle centrali costruite prima del 1980 per efettuare un’analisi approfondita delle condizioni di sicurezza.

Tens of thousands protestors march through the government district during a demonstration against nuclear power in Berlin on Saturday. Photo: AP.
Tens of thousands protestors march through the government district during a demonstration against nuclear power in Berlin on Saturday. Photo: AP.






Il sole nero sopra Tokyo

Il vento gira, sale la radioattività: fuga dalla città assediata dal terrore nucleare. Negozi vuoti, aerei deviati, ambasciate e aziende iniziano i piani d'evacuazione
Scilla Alecci
ilmanifesto
OSAKA

The pool for spent fuel at the No. 4 reactor of TEPCO's Fukushima No. 1 nuclear power plant is pictured in this Feb. 1, 2005, file photo. (Mainichi)
The pool for spent fuel at the No. 4 reactor of TEPCO's Fukushima No. 1 nuclear power plant is pictured in this Feb. 1, 2005, file photo. (Mainichi)

Alle sei di mattina di martedì, un altro reattore dell'impianto nucleare di Fukushima esplode. Così le laconiche agenzie locali: «Secondo il ministero dell'economia, alle 6,10 si è sentito il rumore di un'esplosione presso il secondo reattore del primo impianto di Fukushima». Punto. Quello che una persona comune senza alcuna nozione di fisica nucleare può intendere da questa breve frase è solo che c'è qualcosa che non va.

Il vento è cambiato, e insieme al vento arriva la paura. Dalla mattina le correnti spirano verso sud, dice l'Agenzia metereologica giapponese. Carica di particelle radioattive, l'aria viene spinta verso la megalopoli di 13 milioni di abitanti. Arriva un secondo flash d'agenzia: il livello di radiazioni nella prefettura di Ibaraki (a sud di Fukushima e a circa 150 kilometri da Tokyo) è aumentato «sensibilmente». A Tokyo la radioattività «è dieci volte superiore alla norma».

Alle 6 c'è l'esplosione, poco dopo Ibaraki è in allarme... Ci vuol poco a fare i conti: qualche ora e le radiazioni saranno sulla capitale. E infatti non tardano a arrivare i comunicati ufficiali. Chi si fida del governo, e chi deve, resta. Svuotando i supermercati per affrontare l'assedio nucleare, e i marciapiedi per tapparsi in casa, mettendosi in coda per la preziosissima benzina. Nell'incertezza più assoluta, chi può prende bagagli e famiglie e salta sul primo shinkansen, il supertreno diretto a sud.

Molti sì, ma meno del previsto. Mentre i lavoratori sono andati a lavorare come ogni giorno, sono stranieri e genitori con bambini piccoli ad allontanarsi dalla capitale. «Per quanto dicano che le radiazioni non causino veri problemi di salute agli adulti, non si può mai sapere che effetto può avere su un bambino». Masako Haba, appena ha saputo del rischio radiazioni, si è messa in fuga con la figlia da Tsukuba (la prefettura cuscinetto tra Tokyo e Ibaraki). Munite di mascherina protettiva, mamma e figlia sono dirette dai nonni a Gifu. «Nessuno riesce a capire cosa succede - racconta Haba - ma perché rischiare? Chi lo sa quando la situazione ritornerà alla normalità».

People carry heat blankets as they leave a radiation emergency scanning center in the rain in Koriyama, Fukushima Prefecture, Japan, Tuesday, March 15, 2011 four days after a giant quake and tsunami struck the country's northeastern coast. (AP Photo/Mark Baker)
People carry heat blankets as they leave a radiation emergency scanning center in the rain in Koriyama, Fukushima Prefecture, Japan, Tuesday, March 15, 2011 four days after a giant quake and tsunami struck the country's northeastern coast. (AP Photo/Mark Baker)

Sempre più ambasciate stanno invitando le persone a rientrare nel proprio paese. Anche l'ambasciata italiana a Tokyo si è unita al coro e uno dei messaggi inviati agli italiani residenti in Giappone diceva: «Per il momento raccomandiamo di mantenere la calma e si restare possibilmente in ambienti chiusi». Il ritorno in patria viene vivamente consigliato. L'unico problema è che le compagnie di bandiera non volano più o propongono biglietti che in molti casi superano i 2.500 euro, prezzi tre volte superiori a quelli «normali». La tedesca Lufthansa ha deviato a Osaka i suoi voli da e per Tokyo, cambiando equipaggio a Seul per evitare di farlo pernottare in Giappone. Air France-Klm ha spostato tutti gli impiegati da Tokyo a Osaka. Air China e la taiwanese Eva hanno proprio cancellato i loro voli.

Molti gruppi stranieri hanno lanciato piani di evacuazione. Le aziende di tecnologia tedesche Sap e Infiniteon stanno spostando lo staff nel sud del paese, lontano dalla minaccia radioattiva. Altri giganti europei e americani si tengono pronti: banche come Ubs, Deutsche Bank, Bnp, Societe Generale, costruttori come Volvo e Peugeot (che ha offerto a 230 impiegati la possibilità di tornare a casa). Il fabbricante di pneumatici Continental ha evacuato 100 impiegati non giapponesi, e 400 giapponesi si prepara a spedirli - ironia della storia - a Hiroshima, considerata sicura.

Continue scosse di assestamento, possibile rischio radiazioni e scarsità di cibo e acqua dovuto a panico da isolamento e black out controllati: questo è quello da cui chi può si allontana.
Una volta scesi a Osaka, a sole tre ore di distanza dalla capitale, l'atmosfera è visibilmente diversa. Niente razionamento energetico, niente scaffali svuotati. A Umeda, uno dei quartieri centrali della città e centro della vita notturna, gli alberi sono illuminati come se fosse Natale. Naoki Shimada, cameriere ad un ristorante di okonomiyaki (il piatto tipico di Osaka), dice che la volontà di risparmiare corrente ci sarebbe ma «sono i padroni dei negozi della zona che non vogliono». A circa 500 chilometri dalla capitale al buio, la seconda città più ricca del Giappone si illumina a festa di neon lampeggianti.

«Quello che sta succedendo al nord è sentito come lontano, a Osaka nessuno ha mai avuto esperienza di un forte terremoto», dice Hiroshi Miki, che durante il violento terremoto di Kobe nel 1995 era incaricato di gestire la logistica dei soccorsi e che ora dirige una clinica. Al contrario, la vicina cittadina di Kobe, che fu rasa al suolo da un sisma di 7,2 gradi della scala Richter - circa due in meno rispetto a quello del Tohoku - è stata la prima a fornire aiuti e volontari per aiutare nei soccorsi.

Circa dieci minuti dopo aver incontrato il dottor Miki, una scossa di assestamento di intensità 6 ha fatto tremare anche Osaka, proprio quella che doveva essere l'area del minimo rischio.

This satellite image provided by DigitalGlobe shows the damaged Fukushima Dai-ichi nuclear facility in Japan on Monday, March 14, 2011. Authorities are strugging to prevent the catastrophic release of radiation in the area devastated by a tsunami. (AP Photo/DigitalGlobe)
This satellite image provided by DigitalGlobe shows the damaged Fukushima Dai-ichi nuclear facility in Japan on Monday, March 14, 2011. Authorities are strugging to prevent the catastrophic release of radiation in the area devastated by a tsunami. (AP Photo/DigitalGlobe)

martedì 15 marzo 2011

L'atomo fuggente





Lo tsunami e le esplosioni nelle centrali hanno spaccato in due il Giappone: nel sud la vita scorre tranquilla come se nulla fosse. Nel nord i sopravvissuti hanno perso tutto e non hanno ancora ricevuto gli aiuti promessi
Pio d'Emilia
ilmanifesto.it

KESENNUMA (TOHOKU)
Peccato. Peccato davvero, perché invece della finta trasparenza, invece della voglia di distinguere il suo governo da quelli passati, noti per omertà e menzogne,il premier Naoto Kan sta perdendo una grande occasione. Invece di rassicurare, fingendo una trasparenza che non può esserci per via degli enormi interessi economici e politici della questione atomica, potrebbe approfittare di questo disastro annunciato per passare alla storia. Basta con il nucleare. Una scelta difficile, come la pena di morte, ma diventata indispensabile.
Lo chiedono in tanti, ormai, in Giappone, e non solo i vecchi rompiballe intellettuali di sinistra. Per la prima volta sabato 20 marzo, ci sarà una manifestazione nazionale, autogestita, contro il nucleare. «Facciamo di Kasumigaseki (il quartiere della «politica», ndr) la nostra piazza Tahrir», si legge sul sito che l'ha lanciata.
Per ora, purtroppo, Kan resiste, e assieme al suo fido portavoce Yukio «Dumbo» Edano insiste nel dire che tutto è a posto, che sì qualche problema, un paio di esplosioni, un po' di zozzerie radioattive in circolazione, ma poca roba.
Esplosione a Fukushima (Credit: Ansa/EPA ABC TV)

L'apparente «trasparenza» del governo divide anche gli stranieri e le loro ambasciate. Americani e italiani gettano acqua sul fuoco, francesi e tedeschi invitano invece i loro cittadini ad abbandonare i paese. Il rischio di una nuova Chernobyl c'è, eccome. Una nuvoletta che se il vento ci aiuta finisce dritta nel Pacifico. Blowin in the wind: basta soffiare nel vento e tutto passa. E se cambia rotta?
Ammesso e non concesso che il nocciolo dei reattori sia ancora integro, che la fusione non sia già avvenuta.
Ma di questo si parla a Tokyo, capitale del Giappone del sud e sempre più «città aperta», vibrante e creativo melting pot che separa i due Giapponi. Quello del sud, dove la vita scorre tranquilla come se nulla fosse, con i bambini che vanno a scuola, la gente in ufficio, treni e aerei in perfetto orario. E quello del nord, che sta collassando giorno dopo giorno. A partire dalla benzina, esaurita ovunque.

Qui a Kesennuma, nello sfigato e distrutto Giappone del Nord, ci sono altri problemi. «Le centrali? Che le riaprissero in fretta, così torna la corrente». Wakagi ha 71 anni, fa il pescatore, o meglio lo faceva, perché è difficile che un governo incapace di portargli dell'acqua e una ciotola di riso dopo tre giorni riesca a ridargli una barca. Del rischio nucleare e delle radiazioni se ne frega. Ha altro a cui pensare, e un po' di energia elettrica, che manca da tre giorni, gli farebbe comodo. Lo tsunami ha portato via tutto a Wakagi, casa, barca e famiglia. Tranne la dignità. I veri samurai, oggi, sono questi pescatori e contadini del Tohoku.

Sono tre giorni che vanno avanti da soli, senza l'ombra di un soccorso, senza lanentarsi e lagnarsi, che in giapponese suona come una parolaccia. Di notte si rannicchiano su una stuoia, il giorno lo passano a rovistare tra le macerie e a fare la fila per un po' acqua piovana. Senza sapere, perché nessuno glielo dice, che in questi giorni forse è meglio ubriacarsi di sake piuttosto che bere quell'acqua. A Kesennuma, una delle roccaforti delle musciare indigene, i pescherecci che cacciano i tonni, siamo arrivati prima noi dell'esercito giapponese. Noi all'alba, dopo un viaggio allucinante attraverso l'Appennino giapponese, loro a mezzogiorno. Noi costretti a peripli assurdi, tra deviazioni improvvise e incomprensibili blocchi stradali. Loro usando le autostrade lasciate libere per facilitare i soccorsi (ed eventuali evacuazioni).

Ma quali soccorsi? L'esercito arriva, fa un paio di giri nell'inferno di Kesennuma, quattro inchini con le autorità locali e poi via, per continuare il giro di perlustrazione. Scrivono, annotano, fotografano, fischiano. Tutti perfetti, tutti ordinati. Non un sorriso, non una parola. Sembra un'esercitazione più che un'emergenza, una operazione di soccorso. Niente tendopoli, niente ospedali da campo, niente pasti caldi, un paio di coperte. E qui non c'è la Caritas, e ai volontari (ammesso che ci siano) il governo ha detto chiaramente di starsene a casa per non intralciare i soccorsi. Ma intanto tutti si arrangiano. Tanto lo sanno come andrà a finire. I giapponesi si sa, non chiedono e tantomeno non pretendono. E qui non siamo a Kobe, teatro del grande terremoto del 1995, quando furono le cosche della Yamaguchi Gumi, la yakuza, a mobilitarsi e dare una mano. Kesennuma è nel Tohoku, il mezzogiorno del Giappone. Una regione oramai separata dal resto del paese. Aereoporti chiusi, treni fermi, strade intasate. Quei pochi che ci arrivano, tra i quali il sottoscritto, rischiano di restarci chissà fino a quando.

Persone esposte alla radiazioni in seguito all'esplosione nella centrale di Fukushima (Credit: AP/Daisuke Tomita)
Persone esposte alla radiazioni in seguito all'esplosione nella centrale di Fukushima (Credit: AP/Daisuke Tomita)

Difficile capire, anche venendo fin qui, le dimensioni di questa catastrofe, e forse il paragone è scorretto. Ma appena arrivi pensi a Hiroshima, a quelle foto dove tutto è raso al suolo tranne il famoso Palazzo delle Esposizioni. Qui è lo stesso, lo tsunami ha risparmiato solo un paio di edifici in cemento armato, oltre al municipio e una chiesa protestante, che però sono appollaiati su una collina. Il resto è stato spazzato via, strizzato e risputato fuori senza alcun ordine e ritegno. Un peschereccio è finito su un tetto, una moto è appesa a un palo del telefono, resti umani spuntano dal baule di una macchina. Di gente in giro ce n'è, chi viene a cercare, a controllare, semplicemente a guardare. Ma non senti un pianto, un grido, un lamento, una imprecazione, un insulto.


Tutti sereni, tranquilli nel loro dolore, pronti ad eseguire le istruzioni delle autorità, anche quelle senza senso, senza discutere e lamentarsi, come è stato insegnato loro sin da piccini. Quattro persone sono indaffarate ad attaccare un cartello sulla porta di un edificio distrutto. La filiale di una banca. «Causa il terremoto, siamo temporaneamente chiusi». Basta rispettare le forme, e anche la più tragica delle realtà diventa più sopportabile. Un vecchio ci guarda, ci chiede da dove veniamo. Dall'Italia. «Siete come noi, avete perso la guerra, ma vi siete rimbiccati le maniche». Lo rifarà, certo, anche ora... «Non so. Quella volta il futuro era nostro, eravamo fiduciosi. Ora non so. Mio figlio non ha più voglia di far nulla. Io nemmeno. Non so voi, ma noi giapponesi abbiamo perso l'entusiasmo». Speriamo lo ritrovino. Ne hanno proprio bisogno. Per ricostruire il paese. E bandire il nucleare.

Il mondo ripensa all’impatto del nucleare Ma Prestigiacomo dice: “L’Italia va avanti”

ilfattoquotidiano

Giappone: non solo Fukushima. Problemi anche a centrali di Miyagi e Tokai


La linea italiana sul nucleare “non cambia”. La Germania frena e congela due reattori, gli Stati Uniti anche (Obama ribadisce la necessità di servirsi anche di fonti rinnovabili), ma l’Italia va avanti. La linea è quella di costruire impianti, e così – almeno secondo i ministri Stefania Prestigiacomo e Renato Brunetta – sarà. Difficile capire dove, visto che le regioni guidate dal centrodestra hanno già risposto no, grazie. Il primo intervento è stato quello del titolare del dicastero per l’Ambiente Prestigiacomo, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles, a margine del Consiglio dei ministri che ha affrontato anche la catastrofe avvenuta in Giappone. “Nessuna sottovalutazione”, ha aggiunto il ministro, secondo cui non va comunque creato “neppure un allarmismo rispetto a una situazione eccezionale, una calamità che è stata definita un’apocalisse in un paese ad altissimo rischio sismico”. Prestigiacomo ha quindi di nuovo criticato lo “sciacallaggio politico a fini domestici” e la “macabra speculazione” messa in atto in Italia dagli anti-nuclearisti.


Questa mattina i ministri dell’Ambiente europei si sono riuniti in Consiglio a Bruxelles. E il portavoce del ministro Prestigiacomo ha parlato di un “problema” dei danni subiti dalle centrali giapponesi: “In apertura della riunione – spiega una nota del portavoce del ministro – il Commissario Ue è intervenuto sul problema dei danni subiti da alcune centrali giapponesi in seguito al sisma e allo tsunami”.

Le dichiarazioni della Prestigiacomo sul progetto del nucleare italiano che non si ferma arrivano a poche ore dall’annuncio di un incontro del ministro con i rappresentanti delle associazioni del settore delle rinnovabili. Gli incontri sono in programma mercoledì pomeriggio: “Obiettivo degli incontri, convocati dopo la recente approvazione del decreto sulle rinnovabili da parte del Consiglio dei Ministri è ascoltare le richieste degli operatori della filiera per giungere a decisioni condivise che tutelino le aziende e i lavoratori, assicurando all’Italia un futuro da protagonista nel settore”.

Considerazione che hanno suscitato subito critiche e reazioni, ma Prestigiacomo, in serata, ha proseguito nella sua arringa a favore dell’energia nucleare.

Il rischio sismico, ha detto ancora il ministro, ”e’ uno dei parametri che viene considerato per escludere parti di territorio dove questo è particolarmente elevato” e la frequenza con la quale avvengono terremoti in Giappone “non è paragonabile alla nostra. Evitiamo quindi di fare speculazioni, usando situazioni che non hanno alcuna analogia”. Secondo Prestigiacomo i programmi europei e internazionali sull’energia “non cambieranno sulla base di quello che è avvenuto in Giappone e i paesi occidentali si sono già impegnati a raggiungere mix energetici”. Circostanza anche questa smentita da Angela Merkel e Barack Obama, per la Germania e gli Usa.

Rischi dopo l'esplosione nella centrale nucleare di Fukushima


Il ministro della Pubblica amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ospite a Sky Tg 24, è andato oltre, criticando – come sottolinea anche l’Ansa – le scelte di Germania e Usa, sottolineando che “c’è molta ipocrisia. Noi che non le abbiamo fatte non dovremmo neanche pensare di farle?” precisa Brunetta, che fa notare: “Se tutti dicessero ora lo stop al nucleare che fine farebbe il prezzo del petrolio?”. Il ministro sottolinea, inoltre, che l’Italia è un paese “parzialmente sismico, in alcune aree non ci sono mai stati terremoti, e questo è già presente nelle valutazioni sui siti e sulle centrali che si costruiranno”.

Ma le idee, anche all’interno della maggioranza, sono confuse. Luca Zaia ha ribadito l’altro giorno che “in Veneto non verranno mai costruiti siti nucleari, lo stesso che ripete da mesi Roberto Formigoni. Stesso discorso per quello che riguarda il Lazio, come ha spiegato ieri il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: ”Prendemmo impegno insieme alla presidente Renata Polverini, in sede di campagna elettorale, per far si che non vengano costruite centrali nucleari nel Lazio che è già autosufficiente dal punto di vista energetico”.


Il leader dell‘Udc, Pierferdinando Casini, spiega di non aver cambiato idea. “Credo chela politica stia morendo in Italia per la demagogia e perchè cavalchiamo le paure della gente. Così però non riusciamo ad essere seri. Questo terremoto – prosegue il leader Udc – è stato migliaia di volte superiore a quello dell’Aquila. In Giappone sono saltate raffinerie, impianti chimici, tubature del gas e migliaia di tonnellate di rifiuti tossici navigano per il Giappone, però noi pensiamo solo ai problemi del nucleare. Queste centrali tutto sommato producono effetti molto più limitati rispetto al resto. Niente di per sé è sicuro. Il progresso porta margini di rischio”. Ma in ambito terzo polo ci pensa Francesco Rutelli a mescolare le carte: “Anche per il nucleare in Italia si presenta un grande punto interrogativo. Sconsiglierei oggi di fare commenti come se la partita fosse chiusa – sottolinea Rutelli – Il punto, però, è che se l’Italia, paese ad alta attività sismica, decidesse di dare il via libera ad un programma nucleare dovrebbe affrontare spese molto superiori per dare garanzie sulla sicurezza degli impianti”.

mercoledì 9 marzo 2011

«Quirra? Come una centrale nucleare»

PAOLO CARTA

www.unionesarda.it

Il docente dell'Università La Sapienza promuove la relazione del veterinari Asl


Il professor Cristaldi: stessi danni riscontrati a Garigliano

Mauro Cristaldi è impegnato nel comitato “Scienziati contro la guerra” e studia da anni i poligoni sardi e l'alta incidenza dei tumori.

Salto di Quirra



Le guerre simulate possono aver creato nel tempo danni alla salute di chi abita e lavora a Quirra?
«Le cosiddette guerre simulate sono esercitazioni militari vere e proprie in cui vengono testate le armi da usare nelle missioni Nato».

Allora sono guerre dove mancano soltanto i morti?
«No, ci sono anche i morti. Arrivano dopo qualche anno, tumori e leucemie, per l'inquinamento causato dai test».
Mauro Cristaldi, docente di Anatomia comparata nell'Università La Sapienza di Roma, segue da anni il caso dei poligoni sardi, dell'alta incidenza dei tumori denunciata dai pacifisti e confermata di recente da due veterinari delle Asl. Per interesse professionale, certo, ma soprattutto perché da anni ha aderito al movimento internazionale “Scienziate e scienziati contro la guerra”.

Nei giorni scorsi Cristaldi ha potuto esaminare la relazione dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari che, dopo un controllo ovile per ovile, ha certificato la presenza di dieci allevatori malati di tumore sui 18 che lavorano entro un raggio di 2,7 chilometri dalla base e di agnelli nati con sei zampe, senza naso e bocca, sventrati. «Ottimo lavoro, con un solo neo: non è stato indicato il tipo di tumore». E arriva a fornire un parere inquietante: «Avevo riscontrato le stesse malformazioni genetiche negli animali attorno a Garigliano, nella zona della centrale nucleare poi dismessa, qualche tempo dopo alcuni guasti agli impianti».

Quale spiegazione scientifica si è dato?
«La stessa che convince la comunità scientifica internazionale da sempre. Cioè che queste malformazioni si verificano nelle zone contaminate dal punto di vista ambientale».

Da cosa?
«Da sostanze radioattive oppure dai mutageni chimici presenti per attività industriali, compresi i metalli polverizzati da esplosioni o combustioni».

Solo teorie?
«No, prove scientifiche. Dal 1979 il mio gruppo di studio dell'Università La Sapienza è in grado, attraverso l'analisi del midollo osseo degli animali, di vedere le mutazioni genetiche prodotte da radioattività o miscele di contaminanti ambientali e di indicare precocemente la probabilità dell'insorgenza di certe patologie comprese quelle tumorali».

Nell'uomo?
«Non abbiamo mai esteso questi test sull'uomo, ma riguardo a Quirra si sarebbe comunque in ritardo: certe analisi andavano fatte negli anni 2000 per prevenire i tumori che sono rimasti latenti e si manifestano solo adesso».

È possibile scoprire se in una località è stato utilizzato uranio impoverito?
«Sì, per esempio attraverso lo studio dei rapporti tra i diversi isotopi dell'uranio, quello presente in natura e quelli modificati da combustione nucleare o da arricchimento. Oppure studiando gli animali come le pecore destinate alla macellazione o piccoli mammiferi come di topi di campagna presenti in grandi quantità in quella zona e in possesso di organi recettori di quelle sostanze».

I Governi italiani hanno sempre negato l'utilizzo dell'uranio impoverito.
«Noi scienziati lo diamo invece per scontato o perlomeno molto probabile. Partendo dalle ammissioni degli Usa, che hanno detto di averlo utilizzato in Somalia e nel Kosovo: da qualche parte devono averlo testato di sicuro. Adesso vedremo cosa utilizzerà la Nato in Libia».

In Libia?
«Sì, certo, anche lì si arriverà alla guerra. Stanno già demonizzando Gheddafi come avevano fatto per Saddam. Vogliono giustificare l'intervento militare. L'Occidente dipende dal Medio Oriente per l'approvvigionamento energetico e il petrolio della Libia è il migliore al mondo».

lunedì 7 marzo 2011

Nel rio Tinto i rifiuti industriali di Pioltello

nerva_discarica_rifiuti_tossici


Andrea Palladino
ilmanifesto

NAVI DEI VELENI Rifiuti pericolosi dall'Italia alla Spagna, con l'avallo del ministero dell'Ambiente. Provengono dalla bonifica di un'area ex industriale nel milanese, per la quale l'Italia rischiava una sanzione europea. Destinazione: la discarica di Nerva, in un territorio protetto. La protesta degli ambientalisti spagnoli, di Izquierda unida e di Greenpeace


I veleni provenienti dalla dismissione di una fabbrica chimica, la Sisal, in una discarica e un fiume andalusi

Chi si aspetta una terra di Andalusia secca ed inospitale dalle parti di Nerva rimarrà sorpreso. La terra al nord di Siviglia è bagnata dal Rio Tinto, che nella vallata di Nerva sembra voler inglobare tutto. È un luogo dimenticato, fuori dai normali itinerari turistici, interrotto dai resti delle miniere, con i colori grigi del ferro che costellano il paesaggio. E il nero dei fumi di Pioltello, intriso di mercurio e idrocarburi, che oggi cola verso il fiume dal deposito di rifiuti della società Befesa, ultima tappa del tour italiano di un pericoloso carico di scorie industriali. Come negli anni '80 e '90 - quando dai porti di Marina di Carrara e di La Spezia partivano le navi dei veleni dirette in Africa - dai docks nostrani continuano a salpare in queste ore i cargo carichi di rifiuti pericolosi, sotto la diretta egida del ministero dell'Ambiente. Una storia già anticipata dal manifesto lo scorso 18 febbraio e che oggi si arricchisce di nuovi e gravi dettagli.

«Quello che avviene è semplicemente un deposito, senza nessun trattamento, e in più la gestione è nulla o pessima - racconta al telefono Juan Romero, di Ecologistas en Accion dell'Andalusia - Questa discarica di Nerva ha un'alta quantità di acqua e stanno mescolando direttamente i rifiuti pericolosi che arrivano dall'Italia con i liquidi che ristagnano». Il risultato è devastante: «Si crea una reazione chimica e l'acqua che filtra insieme alla pioggia finisce nel Rio Tinto. Una fine paradossale, visto che questo fiume è stato dichiarato dalla stessa Unione europea come luogo di interesse comunitario». Quella stessa commissione che ha imposto all'Italia di bonificare il sito industriale dell'ex Sisas da dove vengono i rifiuti finiti in fondo al Rio Tinto, in piena Andalusia. E sarà forse un caso, ma l'ispezione che doveva avvenire la scorsa settimana a Pioltello da parte della Direzione Ambiente della Commissione Europea è saltata, senza un apparente motivo. I commissari dovevano verificare che la bonifica fosse stata realizzata secondo i criteri di legge, ma nessuno si presentato. Il viaggio veleni può dunque continuare indisturbato.

Per capire la gravità di quanto sta accadendo occorre partire dalla periferia industriale di Milano, dove sorgeva l'area della Sisas, polo chimico dismesso, destinato oggi ad ospitare metri cubi di cemento. Le terre qui erano intrise di veleni. Da anni si parlava della bonifica, fino a quando - pena pesanti sanzioni comunitarie - il commissario straordinario Luigi Pelaggi, braccio destro del ministro Prestigiacomo, ha affidato l'intervento alla Daneco dei fratelli Colucci, grandi finanziatori del Pdl fin dai primi anni 2000. La destinazione della discarica di Nerva era già prevista, nero su bianco, nella relazione tecnica del luglio dello scorso anno, firmata dallo studio di Claudio Tedesi. Un nome noto alle cronache giudiziarie lombarde, dopo che la Procura di Milano lo ha indagato lo scorso anno per la bonifica di Santa Giulia, affidata al gruppo Green Holding di Giuseppe Grossi, arrestato nel 2009. Ero lo stesso Grossi ad avere in carico la bonifica dell'ex Sisas, progetto che abbandonò nel corso del 2010. Un incrocio tra interessi, tecnici e gruppi lombardi che da anni gestiscono bonifiche e rifiuti industriali, sfiorando il sistema milanese dei poteri forti, come quello di Comunione e Liberazione, area di riferimento per Claudio Tedesi.

Cosa sta uscendo dalla bonifica dell'area Sisas di Pioltello? Secondo alcune analisi che il manifesto ha potuto consultare si tratta di rifiuti pericolosi che, secondo la normativa europea, non possono finire in discarica senza passare per un trattamento specifico. La conferma della presenza di scorie pericolose (classificate secondo il codice europeo 191301) è contenuta all'interno della stessa relazione firmata dallo studio di consulenza di Claudio Tedesi. Le analisi di laboratorio realizzate anche successivamente mostrano un superamento dei limiti di legge per almeno tre elementi pericolosi: il mercurio, il carbonio organico totale (Toc) e alcuni idrocarburi aromatici. Le direttive comunitarie - adottate sia dall'Italia che dalla Spagna - sono chiare in questo senso: questo tipo di rifiuto, ritenuto pericoloso, deve essere trattato e non gettato nelle discariche, come sta avvenendo in queste ore a Nerva, secondo quanto riferisce l'associazione Ecologistas en Accion. Una denuncia supportata da un'ampia documentazione fotografica, realizzata nei giorni scorsi mentre i rifiuti lombardi entravano nell'invaso di Nerva.

La destinazione finale delle scorie pericolose di Pioltello - la discarica di Nerva che appare nelle foto - è la peggior soluzione. Da anni gli ambientalisti spagnoli si battono per chiusura e messa in sicurezza del sito, che sta contaminando il Rio Tinto. Dalle fotografie realizzate appare evidente la mancanza delle strutture minime che dovrebbero garantire il corretto trattamento delle scorie pericolose di Pioltello: manca, ad esempio, la gestione dei biogas nella zona dove sono svuotati i big bags, oltre alle attrezzature necessarie per il trattamento dei rifiuti pericolosi.
La partenza delle navi con le terre contaminate di Pioltello non si ferma, dunque. La denuncia fatta da Izquierda Unida in Spagna - che nei giorni scorsi ha presentato una petizione al Parlamento europeo - non ha per ora attivato le autorità spagnole o italiane. Se, come denunciano le associazioni ambientaliste spagnole, i residui della bonifica di Pioltello non potevano finire nella discarica nel cuore dell'Andalusia, si tratterebbe di una gigantesca operazione illegale, con l'aggravante di vedere coinvolto direttamente il ministero dell'Ambiente e la Regione Lombardia. Una situazione che ricorda quello che per anni è avvenuto in luoghi come Pitelli, la collina dei veleni sul golfo di La Spezia, il cui processo di primo grado terminerà il 10 marzo prossimo, dopo dieci anni di udienze. Una impunità che è la madre di tutti i traffici di rifiuti, che ancora oggi solcano il Mar mediterraneo

sabato 5 marzo 2011

La ricchezza dei tiranni


Moises Saman for The New York Times
The Economist,

Le rivolte in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto salire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile. Tutto il mondo teme una crisi petrolifera. Dopo la Libia, tocca all’Arabia Saudita? I commenti della stampa internazionale

Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile e Hosni Mubarak governava l’Egitto. Ora se n’è andato, il suo governo è stato rovesciato dalle manifestazioni popolari che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medio Oriente. E il prezzo del petrolio ha raggiunto i 114 dollari. Non c’è da stupirsi: la regione produce il 35 per cento del petrolio mondiale. Dalla Libia arrivano 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno in tutto il mondo.

A far impennare il prezzo del petrolio non è stata l’interruzione degli approvvigionamenti: il rincaro da record è arrivato prima che alcune società petrolifere annunciassero tagli alla produzione e che i porti del paese fossero chiusi. I prezzi del petrolio, fa notare Adam Sieminski della Deutsche Bank, sono inluenzati anche dalle aspettative. Ai mercati petroliferi inoltre
non piacciono le sorprese.

La caduta di Mubarak e le rivolte in Libia, Bahrein, Yemen, Iran e Algeria (che insieme forniscono un decimo del petrolio mondiale) hanno fatto aumentare il prezzo del greggio di almeno il 20 per cento. La preoccupazione è che il difondersi delle rivolte possa tradursi in uno shock paragonabile a quello dell’embargo petrolifero del 1973, della rivoluzione iraniana o dell’invasione irachena del Kuwait.

Oggi la produzione del petrolio è più globalizzata di quanto non fosse durante quelle crisi. Negli anni settanta si concentrava soprattutto nel golfo Persico e da allora i mercati sono stati invasi da un mare di petrolio proveniente dall’America Latina, dall’Africa occidentale e da altre regioni.
Principali produttori di petrolio: dato in barili al giorno
con indicazione (in rosso) dei paesi attualmente in rivolta

Un paio d'interessanti grafici sul PETROLIO (release 2.0)

Nel 2009 la Russia ha superato l’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio mondiale e la quota di petrolio prodotta dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) è passata dal 51 per cento della metà degli anni settanta a poco più del 40 per cento.

La globalizzazione della produzione petrolifera non ha diminuito l’importanza dell’Opec. Al momento i mercati sono cauti. Con la ripresa dei paesi ricchi e il boom asiatico, le riserve accumulate durante la crisi economica stanno diminuendo di nuovo. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel 2010 la domanda è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, e secondo i calcoli della Deutsche Bank nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. Molti produttori stanno vendendo a pieno regime e l’Opec possiede l’unico petrolio di scorta.

Se il petrolio della Libia smettesse di scorrere, gli importatori dovrebbero rivolgersi all’Arabia Saudita, che sarebbe in grado di soddisfare le esigenze dell’Europa, il mercato della Libia, nel giro di poche settimane. L’Opec sostiene di poter estrarre sei milioni di barili al giorno ma forse esagera. Gli analisti ritengono che la quantità reale sia più vicina ai 4-5 milioni, in gran parte nelle mani dei sauditi. Questo sarebbe più che suiciente per colmare il vuoto lasciato dalla Libia ma farebbe avvicinare il giorno in cui la crescente domanda mondiale esaurirà tutte le riserve. Gli analisti della banca Nomura sostengono che basterebbe una battuta d’arresto delle esportazioni algerine per portare il prezzo del petrolio a 220 dollari al barile.

Lo scenario peggiore sarebbe un’interruzione degli approvvigionamenti da parte dell’Arabia Saudita. Questa preoccupazione è diventata più forte dopo le rivolte in Bahrein, che produce poco petrolio ma è di grande importanza strategica per il golfo Persico, dove transita il 18 per cento del petrolio mondiale. I sauditi temono che le proteste della popolazione sciita del Bahrein possano estendersi al loro paese. Le province orientali dell’Arabia Saudita ospitano sia le industrie petrolifere sia la maggior parte degli sciiti, che potrebbero ribellarsi al regime sunnita. Intanto il re ha annunciato che distribuirà al popolo 35 miliardi di dollari.

Scorte strategiche

Quali potrebbero essere gli efetti di una crisi degli approvvigionamenti in Medio Oriente e in Nordafrica? Le crisi petrolifere degli anni settanta spinsero il mondo ad accumulare scorte, come i 727 milioni di barili che formano la riserva strategica di petrolio statunitense, a cui attingere in caso di sconvolgimenti in Medio Oriente o altrove.

Anche la Cina sta costruendo una riserva strategica. Secondo l’Energy information administration statunitense, le scorte nelle mani dei governi e delle industrie di tutto il mondo ammontano a 4,3 miliardi di barili, equivalenti a quasi cinquanta giorni di consumo globale al ritmo corrente.

L’impatto di un’eventuale crisi quindi dipenderà dalla quantità di petrolio che si perderà e per quanto a lungo. Ma l’esempio dell’Iran dimostra che cosa può andare storto. Leo Drollas del Centre for global energy studies sottolinea che l’Iran prerivoluzionario estraeva sei milioni di barili al giorno. Allontanati gli esperti e i capitali occidentali, il nuovo regime non ha più raggiunto quel livello di produzione. Oggi estrae 3,7 milioni di barili al giorno. Il petrolio mediorientale è in gran parte controllato dagli stati ma gli investimenti esteri sono vitali solo per l’industria petrolifera del Nordafrica. Se emergessero regimi più ostili agli stranieri, potrebbero esserci efetti duraturi sulla produzione.

Il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa. Per quanto riguarda la possibilità di ridurre il peso del Medio Oriente come fornitore di petrolio a livello mondiale, non vale neanche la pena di parlarne. Probabilmente la forte domanda asiatica farà di nuovo aumentare la quota Opec della produzione di petrolio. E questa regione travagliata avrà ancora il potere di causare problemi.

venerdì 4 marzo 2011

Elezioni a Cagliari......Capitale


Sergio Gabriele Cossu


Essere indipendentisti significa, prima di ogni altra cosa al mondo, accettare di fare parte di un progetto "globale" che preveda la rottura del legame che ci vincola a poteri esterni, siano essi politici economici o culturali, nella piena consapevolezza di raggiungere l'autodeterminazione.
Il compito di ogni indipendentista è adoperarsi interamente nel perseguire tale obiettivo, sfruttando ogni singola occasione perché le componenti della nazione siano sensibilizzate fino al coinvolgimento totale, la sola condizione, in un contesto democratico, che possa favorire il raggiungimento dell'indipendenza. Nel frattempo ognuno ha il dovere di occuparsi di fatti che riguardino la società in cui vive, secondo la propria sensibilità e formazione sociale, oltre che culturale, ma essi, però, non dovranno mai e poi mai avere la priorità su tutto ciò che serva a questo popolo per unirsi, coalizzarsi, compattarsi intorno al suo obiettivo primario.
La soggettività di ogni movimento va esperita nella piena e legittima funzione, propria del formatore che lavora sulle inclinazioni ideologiche di ogni aderente, con il quale possa condividere la forma socio - istituzionale desiderata per il futuro stato indipendente, e contemporaneamente, nella fase intermedia, dovrà responsabilmente dare il proprio contributo perché l'unione delle componenti indipendentista sia realizzata.
Qualsiasi altro espediente metterebbe in una posizione contraddittoria coloro che si definiscono indipendentisti, dato che agirebbero, sebbene in buona fede, in ragione di interessi contingenti e avulsi dal progetto globale: esempio, fare indipendentismo sostenendo i partiti italiani, cioè gli stessi soggetti politici che rappresentano tutto ciò che di italiano si vuole combattere, essendo notorio che il potere colonizzante si sostanzia, soprattutto, attraverso il loro operato senza distinzione di sigle e di etichette.
E' un dovere di tutti fare in modo che i sardi vedano in noi l'esempio della "coesione" su questioni che potrebbero avere risvolti epocali per loro, e che fino adesso, in Sardegna, abbiamo visto essere prerogativa solo dei partiti italiani.
Sardigna Natzione Indipendentzia ha fatto suo, sin dalla nascita, questo principio: siamo quelli che hanno sempre sostenuto l'unità di tale forze come condizione necessaria per influire nel panorama politico sardo, il quale, voglio ricordare, oggi è monopolizzato dalle forze italianiste proprio a causa della nostra frammentazione.
Oggi i partiti italiani sono in grado di raccogliere solo il 40% dei consensi dei sardi - il resto è rappresentato dall'astensionismo e dai soggetti politici che non si riconoscono con Roma - rendendoli di fatto una minoranza, tra l'altro, in sensibile calo. Ciò significa che le potenzialità di metterli "all'angolo" dipenderà dalla nostra esclusiva capacità di coalizzarci, ma anche dai nuovi consensi che deriverebbero a seguito della nuova immagine vincente che ci daremo tra i soggetti non ancora schierati, i quali, come già detto, sono la vera maggioranza relativa.
Le prossime elezioni di Cagliari rappresentano un banco di prova importante.
Per la sua importanza, la capitale della Sardegna sarà soggetta, ancora una volta, a sperimentare le forme consuete della contrapposizione politica tipica dei melodrammi romani, in una prevedibile sequela di giochi che avranno come fine quello di assicurarsi che gli equilibri di potere rimangano immutati.
Immancabilmente tutte le sigle che rispecchiano i partiti italiani saranno presenti, e con loro gli schieramenti i quali esprimeranno i soliti programmi.
Vuole l'indipendentismo inserirsi autorevolmente all'interno di questa lotta con un programma di rottura rispetto al passato?
Ma soprattutto vuole farlo dando un segnale ai sardi che l'indipendentismo è deciso a fare fronte comune a partire da Cagliari?
Il buon senso di chi è fedele all'idea di vedere il popolo sardo finalmente unito suggerirebbe di si!
Voglio evitare di invadere il campo dei Cagliaritani i quali sono i soli aventi diritto di entrare nel merito delle loro questioni cittadine, per ribadire che dalla nostra capitale può, realmente, partire quel segnale che, senza nessuna ombra di retorica, potrebbe rappresentare una svolta verso il cammino per l'indipendenza di tutta la Sardegna. Nelle prossime settimane verranno avanzate delle proposte a questo riguardo. Il mio suggerimento è quello di considerare le varie proposte alla luce di quanto qui è stato detto, che corrisponde a brevi linee a ciò che la stragrande maggioranza dei sardi desidera. Sta solo a noi diventare i sud tirolesi della situazione, mostrando come fanno loro, che la "nostra" è vera volontà di agire da popolo, e che la disunione è stata solamente un capitolo triste della nostra storia, a cui abbiamo saputo porre rimedio per il bene della nostra terra.


Fintzas a s'indipendentzia!


► Potrebbe interessare anche: