mercoledì 30 marzo 2011

NO ALLA ULTERIORE SERVITU' MILITARE: NO RADAR IN SARDINIA


Durante la riunione del comitato No all'istallazione del radar a Capo sperone , il sindaco di Sant Antioco ha affermato che è a conoscenza del progetto che riguarda la costruzione di altri 4 radar nella costa occidentale della Sardegna , tra i luoghi prescelti oltre Sant Antioco vi sono Arbus , Capo Frasca e l'isola dell'Asinara (dalla bacheca di Fabio Dongu)

I Radar emettono onde elettromagnetiche molto potenti , esse, con il tempo sterilizzano le persone che subiscono passivamente i suoi raggi, aumentando sia gli aborti che le leucemie le onde radar sono teratogene nelle donne gravide (che può causare alterazioni mostruose nello sviluppo di un embrione: malattia teratogena;) ecco un'altra lotta anticoloniale e anti militarista da fare per non farci sterminare.

Il popolo sardo non ha altra scelta che autodeterminarsi se vuole sopravvivere a questo ulteriore attacco contro la sua terra e le sue future generazioni!!

Prepararsi a manifestare con forza e determinazione la nostra contrarietà a questa ulteriore servitù militare italiota!!



Danni provocati 
dalle onde elettromagnetiche
Autore:orsettabella - Liceo scientifico di Milano

Gli effetti che tali radiazioni possono provocare sugli organismi si distinguono in:
1) effetti termici o a breve termine
2) effetti non termici o cronici.

Per effetto termico si intende il riscaldamento del corpo o di sue parti esposte alle radiazioni. La gravità di questo tipo di effetto, va ricercata nel fatto che questo riscaldamento avviene internamente al corpo e non viene percepito dagli organi sensoriali: per l’organismo non è così possibile attivare meccanismi di compensazione. Gli organi con scarsa circolazione sanguigna (che favorisce la dispersione del calore prodotto) e bassa conducibilità termica (fattore negativo ai fini di una efficace dispersione del calore) sono i più colpiti (testicoli, cornea, ecc.).


Che le radiazioni elettromagnetiche influenzino i nostri ritmi fisiologici lo dimostra la ghiandola pineale, situata nella parte posteriore del cervello. Questa minuscola ghiandola a forma di pigna (da cui il nome) secerne melatonina, un ormone che regola, oltre l’umore, il sistema endocrino e riproduttivo. La produzione di melatonina è massima durante la notte e scende al minimo durante il giorno, poiché la luce inibisce il funzionamento della ghiandola. La melatonina, secondo gli studi fatti, sembra essere in grado di proteggere l’organismo da alcune forme di tumore. La sua riduzione in soggetti esposti in modo prolungato spiegherebbe, oltre la promozione di tumori, i vari disturbi riproduttivi e neurologici segnalati da alcune ricerche epidemiologiche.
Negli ultimi anni l’attenzione dei biologi di base si è andata via via spostando dalle mutazioni genetiche ad altri possibili meccanismi responsabili della crescita tumorale.

Il prof. Ross Adey, biofisico, che fa ricerca sui campi elettromagnetici sin dalla fine degli anni ’50 ed ha avuto la possibilità di studiare gli effetti di radar e microonde sui militari, afferma: "Gli studi di laboratorio hanno identificato nelle membrane cellulari la parte dei tessuti che, con tutta probabilità, per prima subisce le interazioni con i campi elettromagnetici a bassa frequenza e i campi modulati a radiofrequenza/micronde.

Studi epidemiologici hanno attirato l’attenzione verso i Campi elettromagnetici e i campi modulati a radiofrequenza come possibili fattori di rischio per leucemie, linfomi, tumori al seno, melanomi epiteliali, tumori al cervello".
Nel mondo anglosassone si stanno adottando misure cautelative per i bambini, a fronte di una evidenza scientifica riferita a rischi per la salute derivati da esposizione continuata e inconsapevole a microonde, anche a bassa intensità.

Misure cautelative e restrittive, con specifico riferimento alle strutture scolastiche o comunque destinate a bambini e ragazzi, sono attuate in Nuova Zelanda, in Svezia, in Canada, in Australia e negli Stati Uniti.
In molti paesi, si moltiplicano le proteste da parte di gruppi di cittadini e associazioni, movimenti ambientalisti e gruppi di tecnici (medici, fisici, biofisici, oncologi.).


Conferme sugli effetti tumorali dei campi magnetici provengono dall’autorevole Karolinska Institut di Stoccolma (centro di riferimento dell’OMS e del premio Nobel) e da altre istituzioni scandinave: i risultati dei loro studi epidemiologici indicano un aumento del rischio per esposizioni prolungate a campi magnetici con intensità superiori a 0,2 microTesla.
In Italia, ricercatori come il dott. Franco Merlo (Istituto Nazionale per la ricerca sul cancro), il Prof. Giuseppe Masera (coordinatore di numerose ricerche internazionali sui tumori infantili) e il Prof. Cesare Maltoni (Fondazione europea di oncologia e scienze ambientali, presidente onorario della Società italiana tumori e segretario generale del Collegium Ramazzini) hanno evidenziato da anni il nesso tra l’esposizione a campi elettromagnetici (CEM) a bassa frequenza (a cui nessuno di noi sfugge) e l’insorgenza di leucemie in popolazioni di età pediatrica (0-14 anni): bambini a lungo esposti a valori di CEM 50-60 Hz superiori a 0,2 microTesla – come quelli prodotti dagli elettrodotti ad alta tensione – hanno una probabilità doppia di sviluppare una leucemia rispetto a bambini esposti a livelli inferiori. I dati scientifici disponibili, giustificano seri sospetti sulla possibilità che i CEM determinino danni biologici, favorendo la carcinogenesi. I motivi di preoccupazione sono tanto più fondati se riferiti ad un organismo in fase di crescita. Per tali motivi è doveroso cercare di limitare il più possibile l’esposizione dei bambini e in ogni caso, va chiarito che le conoscenze oncologiche indicano che non esistono livelli di salvaguardia assoluta, cioè dosi, anche se basse, tali da essere ritenute assolutamente innocue.

Effetti termici o a breve termine
per densità di potenza elettromagnetica irradiata maggiore di 10 milliwatt/cm2:
* variazioni della permeabilità cellulare
* variazione del metabolismo
* variazioni delle funzioni ghiandolari, del sistema immunitario, del sistema nervoso centrale e del comportamento.
per densità di potenza elettromagnetica irradiata maggiore di 50 milliwatt/cm2:
* possibili lesioni cerebrali
* influenza sulla crescita cellulare
* malformazioni fetali
* ustioni interne
* cataratta
* morte per infarto.

Effetti non termici o cronici per intensità inferiore a quella che determina gli effetti termici
* variazione del numero dei linfociti e granulociti (esperimenti su cellule)
* variazioni del livello di anticorpi e delle attività dei macrofagi (esperimenti su animali)
* tachicardia
* dolore agli occhi
* vertigini
* depressione
* limitazione della capacità di apprendimento
* perdita di memoria
* caduta di capelli
nei paesi dell’Est europeo studi hanno evidenziato anche:
* sterilità
* aumento aborti
* abbassamento della fertilità

Secondo l’Agenzia per l’Ambiente degli USA (EPA), su otto studi epidemiologici cinque hanno evidenziato rischi statisticamente significativi associati a:
* neoplasie linfatiche ed emopoietiche
* cancri totali in abitanti (Hawai) in stretta prossimità a torri a radiofrequenze (RF)
* cancro del sistema emopoietico (leucemia, linfoma e linfosarcoma, melanoma e esposizione a radiazione RF) in ufficiali e militari polacchi

Le leggi ed i controlli
L’inadeguata normativa in vigore per gli elettrodotti (D.P.C.M. del 23.4. e D.P.C.M. 28.9.95) indica dei limiti massimi di esposizione in 100 microTesla e distanze da rispettare per i campi elettromagnetici a bassa frequenza di 28, 18 e 10 metri dal filo rispettivamente per elettrodotti da 380, 220 e 132 KV. Questi limiti fanno riferimento a esposizioni di breve durata (effetti a breve termine) e non ad esposizioni prolungate (effetti a lungo termine).
Per i campi elettromagnetici generati da alte frequenze (cellulari) il decreto del Ministero dell’Ambiente n. 381/98 indica i limiti per le radiofrequenze da 100 kHz a 300 GHz.
L’antenna dei telefoni sul tetto solo se tutti i condomini sono d’accordo
* Monza (Milano) 9 marzo 1999 -L’installazione di una antenna sul tetto per la ricezione del segnale dei telefoni cellulari, può avvenire solo se tutti i condomini sono d’accordo. Questo è quanto ha stabilito il giudice del Tribunale civile di Monza, Piero Calabrò, nella causa intentata da due inquilini contro il loro condominio in Via Tevere, 31 a Sesto S. Giovanni.


lunedì 28 marzo 2011

L'isola cuore segreto delle strategie Nato

lanuovasardegna
di Piero Mannironi


Una foto storica:
tre sommergibili Usa nella base di Santo Stefano

La presa di coscienza è stato un processo lungo e difficile. Deformato spesso dalla visione dei fatti attraverso occhiali ideologici oppure, più semplicemente, sdrammatizzato perché molte realtà scomode, per quasi mezzo secolo, sono state negate e occultate. Si parla del ruolo strategico della Sardegna nel complesso scacchiere della geopolitica e, conseguentemente, della reale consapevolezza dei sardi di essere stati protagonisti inconsapevoli in una storia nascosta, decisa lontano.

La ferita politica e istituzionale, quella cioé della militarizzazione dell'isola mortificando il ruolo del Parlamento, non è ancora sanata. E questo nonostante sia stata chiusa quattro anni fa la base appoggio per sommergibili nucleari della Us Navy nell'arcipelago della Maddalena. Un po' il simbolo di questa politica che ha condannato la Sardegna a un ruolo strategico di primo piano negli anni della Guerra Fredda.

Sarebbe comunque un errore credere che lo smantellamento della base di Santo Stefano sia stato un punto d'arrivo, l'esaurimento di una politica atlantica che vedeva la Sardegna in una prima linea virtuale. Non punto di partenza, dunque, di un processo di normalizzazione, ma molto più semplicemente simbolo di un cambiamento di ruolo. Perché ora la potenziale area di conflitto è il Mediterraneo.

Per arrivare a capire il perché la Sardegna abbia avuto un'importanza strategica di primo piano dopo la Seconda guerra mondiale, è importante andare a rileggere alcuni documenti del Pentagono, desecretati negli ultimi anni. Si ha la prova così che, per quasi mezzo secolo, l'isola è stata un perno strategico nel fronte virtuale di una guerra mai dichiarata. Senza saperlo, infatti, la Sardegna era considerata dal Pentagono, fin dal lontano aprile del 1954, «a pivotal geographic location».

Ovvero il cuore, il punto critico, del sistema politico-militare, creato dall'alleanza atlantica nello scenario europeo. Di più: l'accordo di reciproco impegno, firmato il 26 novembre del 1956, tra il Sifar (l'allora servizio segreto militare italiano) e la Cia era basato «da parte statunitense, sul presupposto che i piani dello Stato maggiore della Difesa italiano prevedessero «l'attuazione di tutti gli sforzi per mantenere l'isola di Sardegna». Il grande interesse di Washington è poi confermato anche da una nota della Cia del 7 ottobre del 1957, nella quale si legge: «La Sardegna è considerata nei piani di guerra degli Usa».

Ecco così che, proprio in quegli anni, nascono i poligoni di Teulada, del Salto di Quirra e di Capo Frasca. Aree militari con scopo addestrativo, ma anche pronte a trasformarsi in prezioso supporto logistico e operativo. E sempre in questa logica rientra la centralità della Sardegna nella struttura supersegreta Gladio. Se la testa di questa organizzazione era nascosta a Forte Braschi il cuore era infatti nella base di Poglina a pochi chilometri da Alghero.

Gli americani tenevano molto a una rapida attuazione dei loro piani. Tanto che, fin dal 1956, inviarono al capo del Sifar (il servizio segreto militare) De Lorenzo una nota con la quale gli "ordinavano" di rispettare il piano Demagnetize (smagnetizzare). Di cosa si trattava? Secondo un documento dello stato maggiore Usa declassificato negli anni '90, il piano consisteva in una serie di «operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, finalizzate a ridurre la presenza del Partito comunista in Italia».

Nel 1972, poi, la creazione della base americana nell'arcipelago della Maddalena come supporto ai sommergibili della Us Navy a propulsione nucleare e capaci di montare sulle loro rampe di lancio anche i famigerati Cruise con testata atomica. Fu quello, forse, il momento in cui la Sardegna svelò il suo ruolo fondamentale nelle strategie degli Usa e della Nato.

Tutto questo è avvenuto in una riduzione di sovranità del nostro Parlamento e di umiliazione dei valori dell'autonomia per la Sardegna.

L'ultimo "segreto" svelato è quello di Capo Frasca. Con la declassificazione di alcuni documenti riservatissimi del Pentagono e della Nato si è infatti scoperto che in Italia esiste un arsenale di armi nucleari americane. Novanta, per l'esattezza. E la Sardegna, pur non ospitando bombe atomiche, fa parte di un triangolo strategico, nel quale gli altri due vertici sono le basi di Aviano e di Ghedi Torre, vicino a Brescia (nome in codice Stone Ax). In questa struttura operativa ultrasegreta, creata negli anni '50 il poligono di Capo Frasca viene utilizzato per l'addestramento di piloti della Nato - anche italiani quindi - alla guerra atomica.

domenica 27 marzo 2011

Castedhu i niaxis sardus cuntra su nucreari calant in pratza


Castedhu i niaxis sardus cuntra su nucreari calant in pratza

Cagliari l'orda dei cinquemila antinuke scendono in piazza a rivendicare la nazione sarda libera dal nucleare.
Il significato di questa manifestazione è di grande risonanza internazionale, in quanto dalla nostra terra la Sardinia , terra colonizzata dagli italioti e resa serva e becera sotto molti aspetti della nostra vita quotidiana, a motivo della logica coloniale: le basi militari che invadono enormi fette della nostra terra dei nostri mari e cieli, lo sfruttamento del suolo e del turismo con la logica italiota del: vieni consuma sporca e fuggi.

Ecco perchè siamo quì oggi a dover lottare, contro tale logica e l'installazione delle cinque centrali nucleari proposte dal governo italiano, nella nostra piccola ma bella nazione, la risposta un referendum consultivo regionale il 15 maggio a cui seguirà quello italiano il 12 giugno 2011.

La Sardinia estesa su per valli monti e pianure , boschi e laghi con un mare stupendo un territorio di soli 24mila kmq, da quì prende corpo , finalmente, la riscossa di un popolo, di una moltitudine desiderosa di libertà, asserragliata nella difesa primaria del diritto fondamentale di ogni uomo: la difesa della propria vita...

Davanti lo striscione del comitato Si.NoNucle che si sta impegnando da mesi in tutta l'isola con continue manifestazioni di città e paesi per spiegare la pericolosità del nucleare, decine di tecnici uomini e donne sono impegnati giornalmente a parlare e spiegare cosa significa avere una centrale nucleare sul nostro territorio.

Sardigna natzione indipendentzia ed il comitato No nuke una risata sardonica vi seppellirà, sono impegnati da due anni per raggiungere il risultato referendario, prima nella raccolta firme poi con la festa antinuke del 8 dicembre 2009 in piazza del Carmine a Cagliari hanno dato il via all'input antinucleare in Sardinia, oggi a distanza di quindici mesi da allora il comitato Si.NONucle ha tenuto centinaia di convegni ed oggi ha portato in piazza migliaia di sardi a sostengno del referendum consultivo del 15 maggio in Sardinia e del 12 giugno in Italia.

I movimenti in piazza oltre al comitato organizzatore SI NOnucle, erano molti tra cui Sardigna Natzione, iRS, CSS, Cagliari Social Forum, Gettiamo le Basi, Federazione della Sinistra, USB, ProgReS, Par.I.S Malu Entu, A Manca Pro S'Indipendentzia, Sinistra Critica, Cobas, A Foras, No Radar, Italia dei Valori, Verdi, molte associazioni di cittadini, e molti uomini e donne liberi/e.







giovedì 24 marzo 2011

L’illusione dell’atomo sicuro

Fritz Vorholz,
Die Zeit,
Germania





Il nucleare senza rischi non esiste. L’ha dimostrato una volta per tutte l’incidente nella centrale giapponese di Fukushima. L’unica soluzione è spegnere i reattori, scrive la Zeit

Rischio residuo. Per molto tempo questa espressione è stata sinonimo di qualcosa di imponderabile. Il termine tedesco, restrisiko, è anche il titolo di un teleilm del filone catastroico trasmesso in Germania due mesi fa. Finora il rischio residuo è stato solo fantascienza, intrattenimento. Ma dalle 15.36 di sabato 12 marzo tutti sanno che cosa signiicano davvero queste parole. Dopo il devastante tsunami che ha travolto il Giappone, si è bloccato il sistema di raffreddamento d’emergenza del primo reattore del complesso nucleare di Fukushima I, facendo temere una catastrofe atomica senza precedenti.

A prescindere dalla direzione in cui il vento spingerà le eventuali nubi radioattive, era ora che si aprisse un dibattito serio sulla sicurezza della produzione energetica. Il punto decisivo è capire quali sofferenze si possono accettare in nome del nucleare. Rispondere a questo interrogativo è inevitabile anche per l’industria dell’atomo.
La catastrofe giapponese segna la fine del sogno atomico, che già da tempo si è trasformato in un incubo. Nel mondo non esistono depositi di stoccaggio sicuri per le scorie radioattive o reattori nucleari che possano resistere a sabotaggi o attentati. E quasi nessuna centrale atomica è in grado di tollerare le conseguenze di un incidente aereo. Una cosa deve essere chiara anche ai sostenitori del nucleare: questa tecnologia è incontrollabile. È disumana. E per questo non dovremmo utilizzarla.

centrale nucleare in fiammeL'esplosione nella centrale di Onagawa


D’ora in poi lobbisti, economisti e politici non potranno più parlare di energia atomica come se non fosse successo niente.
Nessuno potrà più sostenere che esistono reattori del tutto sicuri. Le centrali nucleari non sono mai state sicure e non lo saranno mai. L’umanità deve fare marcia indietro e rinunciare il prima possibile all’energia atomica, anche se la riconversione sarà molto difficile. L’industria nucleare, che gestisce nel mondo 442 centrali quasi tutte concentrate in una decina di paesi ricchi, è sempre stata al centro di critiche e polemiche. Tuttavia il disastro di Cernobyl, nell’aprile del 1986, ha danneggiato questo settore solo in modo supericiale. I manager e i leader politici occidentali hanno sempre sostenuto che la tragedia ucraina è stata il risultato dei ritardi della tecnologia sovietica, e che le centrali europee e statunitensi sono sicure. Più sbiadiva il ricordo di Cernobyl, più rumorosi sono diventati i loro appelli per il rilancio del nucleare.

Fino al 12 marzo 2011 le centrali nucleari giapponesi sono state considerate affidabili come quelle statunitensi, francesi o tedesche. Il Giappone è un paese altamente tecnologico, con una fiorente esportazione di auto ecologiche e una serie di centrali atomiche antisismiche. È la patria di Hitachi e Toshiba. Il primo reattore della centrale Fukushima I era stato costruito dalla società statunitense General Electric. Ma l’incidente ha dimostrato con chiarezza l’inconsistenza del mito della sicurezza nucleare, inventato per sofocare sul nascere ogni domanda scomoda. Anche se in altre zone della Terra il rischio sismico non è elevato come in Giappone, non si può escludere che negli impianti nucleari possano verificarsi eventi catastroici di tipo diverso. La storia dell’energia atomica è una sequenza ininterrotta di brutte sorprese.

Dopo Cernobyl

La sicurezza tecnologica è già di per sé un mito. Nel gennaio del 2007 dal tetto della stazione centrale di Berlino, appena inaugurata, si è staccata una trave d’acciaio di due tonnellate che è precipitata a terra da quaranta metri d’altezza. Nel marzo del 2009 l’archivio di stato di Colonia è crollato a causa dei lavori in corso per la costruzione della metropolitana. Nell’aprile del 2010 da un treno ad alta velocità delle ferrovie tedesche si è staccata una porta lungo la tratta che collega Montabaur a Limburg.

In seguito a questi incidenti, però, nessuno ha chiesto di sospendere la costruzione di stazioni ferroviarie, treni veloci e metropolitane. E a ragione, perché anche nel peggiore degli scenari i danni sarebbero stati comunque contenuti. Ma un grave incidente nucleare è un evento di tutt’altro tipo, in grado di trasformarsi in una disgrazia non solo per interi stati, ma anche per tutto un continente. Sotto questo aspetto, il nucleare si distingue da tutte le altre tecnologie. E proprio per questo è rischioso evocare una sicurezza che è già stata smentita dai fatti.

Il termine “sicurezza” non si riferisce a una condizione “oggettiva”, si legge in uno studio dell’Ufficio per la sicurezza dell’atomo di Bonn, ma alla “valutazione di un rischio”. Quando si dichiara che un reattore è sicuro si aferma solo di essere disposti ad accettare un certo livello di rischio. Ma di che rischio si tratta? Considerato che la possibilità di fusione del nocciolo è di 1 a centomila per ciascun impianto, la probabilità che nell’arco di sessant’anni in una delle diciassette centrali atomiche tedesche si veriichi la fusione del nucleo del reattore (meltdown) è dell’1 per cento. Una simile percentuale si può definire sicura? È una scommessa. Una roulette russa.

Nell’autunno del 1986, pochi mesi dopo l’incidente di Cernobyl, il governo tedesco aveva promesso che “la sicurezza delle centrali nucleari del paese sarebbe stata sottoposta a nuove verifiche”. Qual è stato il verdetto? Che gli impianti erano sicuri. E oggi? A poche ore dalla catastrofe giapponese, la cancelliera Angela Merkel ha chiesto una nuova verifica dei parametri di sicurezza, perché “la tutela della vita umana è un imperativo categorico”.

Se queste parole fossero sincere, le 17 centrali tedesche dovrebbero essere spente immediatamente. E i tentativi di costruire nuovi impianti dovrebbero già essere tutti falliti. Otto anni dopo Cernobyl, nel 1994, il governo di Helmuth Kohl ha modificato la legge sull’energia nucleare. Grazie a quel provvedimento, la licenza per la costruzione di nuove centrali è legata alla garanzia che gli efetti di una fusione del nocciolo rimangano circoscritti all’area del complesso e che, perino in caso di meltdown totale, non ci siano danni oltre i confini dell’impianto. Questa condizione, definita “sicurezza implicita”, non era altro che un eufemismo politico alimentato da un’illusione. Sul pianeta non esiste nessun reattore che possa garantire questi livelli di sicurezza. Se i progetti delle centrali atomiche avessero mai dovuto soddisfare questi criteri, sulla Terra non ci sarebbe un solo reattore.

È necessario, quindi, assumersi simili rischi per assicurare l’approvvigionamento energetico agli abitanti del pianeta? Il nucleare contribuisce alla produzione globale di energia appena per il 6 per cento: meno della metà delle energie rinnovabili. I paesi dove le centrali atomiche hanno un peso rilevante sono pochi: Francia, Slovacchia e Svezia. Gli Stati Uniti e la Germania ricavano circa un quinto della loro elettricità dall’atomo. Se però si considera la produzione di elettricità, l’apporto del nucleare sale al 15 per cento. Bisogna ammetterlo: è una quantità considerevole, che ammonta al consumo annuo della Cina. Certo, il fabbisogno elettrico potrebbe essere coperto anche dall’energia prodotta dal carbone, ma questo comporterebbe enormi emissioni di CO2, il gas responsabile del riscaldamento globale. Se quindi il mondo rinunciasse all’energia atomica, la conseguenza sarebbe il collasso climatico? I promotori del nucleare vorrebbero farcelo credere, ma tendono a trascurare la domanda chiave: spegnere i reattori, sostenibili ma pericolosi, servirà a contenere davvero l’aumento della temperatura entro livelli tollerabili?

Se vogliamo che il riscaldamento globale rimanga entro i due gradi, nei prossimi quarant’anni le emissioni di CO2 dovranno ridursi di oltre il 50 per cento: un obiettivo raggiungibile solo risparmiando energia e attingendo alle fonti rinnovabili. Se nel frattempo i reattori nucleari saranno smantellati, occorrerà risparmiare ancora di più, e produrre ancora più energia pulita. Non è un compito impossibile. I piani per una svolta energetica esistono: per esempio quello di Greenpeace, elaborato con il supporto dall’agenzia spaziale tedesca, o quello del Wwf, dai quali si desume che il clima può essere tutelato anche senza ricorrere all’energia atomica.

L’efficienza energetica è il punto fondamentale di tutti questi progetti. Oggi viene sprecata molta energia. Sappiamo che il deserto assorbe nell’arco di sei ore più energia solare di quanta ne usa il genere umano in un anno. E le tecnologie per lo sfruttamento delle rinnovabili sono molto avanzate. Eppure le fonti sostenibili coprono solo una piccola parte della produzione di energia globale. Le pompe e i motori, per esempio, possono funzionare anche con una frazione infinitesimale della corrente che impiegano oggi: basta dotarli di dispositivi di controllo. E l’illuminazione si può ottenere anche con sistemi che consentono un grande risparmio di energia. Ma usare lampadine più efficienti non risolverà il problema. Anche gli stili di vita devono cambiare, e questo rende tutto più complicato.

C’è bisogno di coraggio, da parte dei leader politici ma anche dei cittadini. Un gruppo di ricerca internazionale ha pubblicato di recente sulla rivista The Energy Journal uno studio sulle fonti energetiche da usare per fermare il riscaldamento globale. Uno dei possibili scenari prevede l’eliminazione delle centrali nucleari. Questa soluzione costerebbe all’umanità lo 0,7 per cento della sua ricchezza. Si può imporre al mondo un simile sforzo? Un costo simile è quasi insignificante rispetto a quello provocato dalla catastrofe che si è verificata in Giappone e che potrebbe ripetersi altrove in qualsiasi momento. D’ora in poi chi vuole tenersi strette le centrali nucleari sarà costretto ad affidarsi ad argomentazioni deboli. I buoni motivi sono tutti scomparsi a Fukushima.

mercoledì 23 marzo 2011

Moratoria «bluff» sul nucleare



ilmanifesto

Il governo annuncia lo slittamento di un anno del piano per l'energia atomica
L'opposizione: mossa truffaldina. Sì del Senato al decreto sui siti


Eleonora Martini
ROMA

Davanti all'impasse, sul nucleare il governo Italiota tenta la mossa del cavallo. E con un discreto effetto mediatico, per bocca del ministro dello sviluppo economico Paolo Romani annuncia una «moratoria di un anno sull'attuazione e la ricerca di siti e sull'installazione di centrali». Nessun atto giuridico, spiegano fonti ministeriali, solo un impegno politico che il Consiglio dei ministri formalizzerà oggi stesso.

La legge 133 del 2008, quella che reintroduce l'opzione energetica nucleare in Italia e che è oggetto del quesito referendario abrogativo, non dovrebbe subire - assicura Palazzo Chigi - alcun tentativo di modifica. Dunque il referendum si farà anche se, spera assai la maggioranza, a questo punto altamente "depotenziato". «Mi aspetto che non si decida sull'onda dell'emotività ma sull'onda di un ragionamento e delle certezze che dobbiamo dare come governo e come Unione europea», incalza Romani che assicura: «La decisione è stata presa alla luce di quanto discusso lunedì in sede europea sulle procedure standard di sicurezza da stabilire per tutti i paesi comunitari».

Ma sotto il vestito, almeno fino a ieri sera, non sembra esserci davvero molto: perfino il decreto legislativo correttivo sulla localizzazione delle centrali nucleari e dei siti di stoccaggio non è stato ritirato, come sembrava ipotizzare la maggioranza e in molti speravano, e ha proseguito invece il suo iter parlamentare. Ieri sera la commissione Industria del Senato italiano ha dato (con il voto contrario di Pd e Idv) l'ultimo parere favorevole necessario al governo per mettere a punto entro oggi, giorno di scadenza della delega parlamentare, il testo definitivo. «Fino all'ultimo - racconta il senatore Filippo Bubbico, membro della commissione - abbiamo sperato che il governo ritirasse il decreto, ma non lo ha fatto».

Ermete Realacci, responsabile della green economy del Pd, parla di «lingua biforcuta» e di «bluff atomico». In realtà, secondo quanto annunciato dal ministro italiano Romani, la moratoria di un anno non dovrebbe comprendere la localizzazione dei siti di stoccaggio dei rifiuti nucleari, visti i ripetuti richiami all'Italia da parte dell'Unione europea proprio per la mancanza di un «idoneo deposito nazionale» di rifiuti radioattivi derivanti dalle vecchie centrali dismesse ma anche dalle attività ospedaliere. «La nostra volontà - ha spiegato il titolare dello Sviluppo economico - è di portare al Consiglio dei ministri quella parte del decreto legge correttivo che riguarda il deposito nazionale per lo stoccaggio delle scorie perché si tratta di un grande tema per la sicurezza».

«Cosa significa la moratoria di un anno sul nucleare, se la maggioranza al tempo stesso approva la norma che consente di costruire centrali nucleari e impianti di stoccaggio di scorie anche in caso di parere contrario di Regioni e Comuni?», protesta Realacci riferendosi alle norme contenute nel decreto. Un problema che si ripresenta anche solo per i siti di stoccaggio. Come faranno a scegliere l'area senza il consenso della regione "prescelta"? Niente paura, spiegano da Palazzo Piacentini: l'iter di individuazione è lungo e complesso, e ancora di più lo è la successiva «fase di concertazione».

Dal leader di Fli, Gianfranco Fini, alla Cgil passando per l'Anci (comuni) e per il presidente della conferenza stato-regioni Vasco Errani, sono in molti a tirare un sospiro di sollievo o a complimentarsi per la moratoria, definita da alcuni un felice anche se non esaustivo «primo passo». Ma dal Pd all'Idv, dai Verdi al comitato "Vota sì per fermare il nucleare" costituito da oltre 60 associazioni, l'opposizione compatta grida invece alla «truffa» e al «sabotaggio». «Una mossa furba e truffaldina per far credere agli italiani che non c'è alcun bisogno di andare a votare al referendum», attacca Massimo Donadi, presidente dei deputati Idv. Per il partito di Antonio Di Pietro, come anche per i Verdi di Angelo Bonelli, non è del tutto infondato il timore che il governo possa «preparare un decreto legge per modificare la norma oggetto del quesito referendario», in modo da sabotare non solo politicamente il referendum che dovrebbe tenersi il 12 e il 13 giugno prossimi.

«Non possono farlo», reagisce il Radicale Marco Cappato che anche ieri mattina, da Milano in conferenza stampa con Emma Bonino, aveva chiesto di nuovo lo stop del piano nucleare e una decisa virata verso il risparmio energetico e le rinnovabili, colpite invece quasi a morte con l'ultimo decreto legislativo. «Non si può modificare una legge oggetto di referendum - spiega Cappato - ma nel Paese della distruzione della Costituzione, è lecito sospettare perfino una manovra del genere. Tanto più da parte di un governo che ha messo in piedi un piano nucleare costoso, insensato, e che ci rende subalterni a Sarkozy».



22.03.2011
il manifesto
Europa no nuke, la sinistra ci prova
Alberto D'Argenzio
BRUXELLES

Giappone, ora scatta l'allarme per il cibo L'Oms: grave pericolo di contaminazione

Giappone, è allarme per il cibo


Non un referendum vero e proprio, ma un'iniziativa legislativa popolare per segnare il cammino di uscita dal nucleare in tutta la Ue. Questa è l'idea lanciata ieri dal presidente della Spd, ex ministro dell'ambiente nella grande coalizione, Sigmar Gabriel e dal cancelliere austriaco Werner Faymann. «Devono essere i popoli europei - ha affermato Gabriel in un'intervista alla Bild - a decidere e non i lobbisti dei gruppi economici e i governi».

Lo strumento indicato dai due per fermare l'atomo è una delle maggiori novità previste dal Trattato di Lisbona: «C'è un nuovo diritto in Europa, quello di un'iniziativa popolare a livello europeo», indica Gabriel. Lui, che a suo tempo firmò la legge per la fuoriuscita tedesca dall'atomo (poi ritardata dalla Merkel), pensa all'Europa anche perché in Germania il referendum non è possibile. Invece, con un milione di firme raccolte in un terzo degli Stati membri, i cittadini comunitari possono chiedere alla Commissione Ue di presentare una proposta legislativa.

Qui iniziano però i problemi, legati alle prerogative dell'esecutivo comunitario. «Il Trattato di Lisbona - replica Marlene Holzner, portavoce del commissario all'energie Guenther Oettinger - dice chiaro e tondo che il mix energetico è di competenza degli Stati membri». Bruxelles avrebbe la scappatoia pronta, ma basta un articolo del Trattato per non porsi il problema?
«La Commissione non ha competenze ed è vero - l'analisi di Monica Frassoni, presidente dei verdi europei - ma se Bruxelles si dovesse trovare di fronte a 10 milioni di firme, allora avrebbe davanti una chiara richiesta politica non facile da evadere, anche perché esistono altri sistemi per agire». «Ci sono dei margini di azione - spiega sempre Frassoni - legati alla fissazione degli obiettivi per le rinnovabili e agli strumenti per combattere il riscaldamento globale». Insomma, non contro l'atomo, ma a favore delle sue alternative, le rinnovabili.

Il tutto partendo da due considerazioni. La prima di carattere economico, secondo cui se si investe sul nucleare, non lo si fa sulle rinnovabili, come dimostra la politica energetica italiana. E viceversa, come dimostrano invece Spagna e Germania. La seconda riguarda invece l'introduzione o meno del nucleare nel novero delle energie 'verdi', di quelle buone per combattere le emissioni di CO2, una battaglia lanciata anni fa da Sarkozy e sempre sostenuta dalla lobby dell'atomo. L'incidente giapponese dimostra che il nucleare non è poi tanto verde, nel senso che non emetterà CO2, ma può fare anche di peggio. «Se rinunciamo all'idea malsana del nucleare come elemento della low carbon economy - insiste Frassoni - fissiamo obiettivi più ambiziosi per le rinnovabili e target vincolanti l'efficienza energetica, il cammino di uscita dall'atomo è segnato».

La tragedia in Giappone ha rilanciato il dibattito e fermato lo sdoganamento dell'atomo, facendo traballare i piani energetici europei. Tanto che Oettinger molto probabilmente rivedrà la Energy road map per l'Europa, inizialmente prevista per disegnare il panorama energetico comunitario del 2050. Lo scenario verrà anticipato al 2030, per «dare risposte più concrete». Per quelle date il commissario immagina un futuro non in crescita per l'atomo: «Adesso abbiamo il 30% di energia elettrica dal nucleare, paesi come Francia e Regno unito puntano su questa fonte di energia e non parlano di abbandonarla, ma in futuro prevedo che il nucleare non sarà così importante come adesso: non arriveremo allo 0%, ma l'importante è che il nucleare non aumenti». L'Italia, con i suoi massicci investimenti, va esattamente contromano.

lunedì 21 marzo 2011

SULLE CONDIZIONI DELLA SARDEGNA

E' ovvio che le considerazioni quì riportate sono di parte e non diretta testimonianza del popolo sardo!

sa defenza


dal rapporto del console W.J.Craig a Sir James Hudson del 21 agosto 1860 - da: "Le relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna" a cura di G. Giarrizzo, Roma, 1962 - ripreso in: D. Mack Smith"Il Risorgimento italiano" Edizioni Laterza, Bari, 1973

Il desiderio che la Sardegna venga annessa a una grande potenza non è, tra i sardi, di nascita recente. Posso testimoniare della sua esistenza durante gli ultimi quarantadue anni. Quando per la prima volta presi a viaggiare nell'isola, le lagnanze del ceto mercantile erano unanimi e generali; ci si imbatteva ovunque negli stessi commenti: "Il nostro governo, per debolezza o per parzialità, limita le sue cure paterne agli Stati continentali, si nutre del nostro grasso e si veste della nostra lana, ma trascura il suo gregge.

Gli stessi doni che la provvidenza ci ha concesso in grande abbondanza, hanno per noi l'effetto di una maledizione; infatti, poiché l'isola viene tenuta solo per sopportazione, la politica vuole che le sue risorse siano tenute nascoste. Dovremmo essere annessi a nazioni potenti come l'Inghilterra o la Francia, che avrebbero il potere di tenere l'isola con la volontà e con i mezzi necessari per promuoverne la prosperità e per svilupparne le risorse". Era dunque la politica del clero e della nobiltà nativa a soffocare questa idea, essendo lo status quo tutto ciò che essi potevano desiderare; ma i loro sforzi furono inutili, e se questa idea poteva esistere quando la superstizione e il dominio della nobiltà cercavano entrambi di sopprimerla, si può immaginare quanta più forza essa abbia ora che sia l'una che l'altro hanno il quotidiano effetto dl farle mettere radici più profonde. Ora che il clero e la nobiltà sono privati dei loro privilegi e sono costretti a una posizione di uguaglianza politica con coloro che erano abituati a considerare gonzi ignoranti o zotici abbrutiti, si può facilmente capire, sia per lo spirito delle caste in questione, sia per la caratteristica indole vendicativa dei sardi, quale tipo di sentimenti queste due classi ora nutrano nei confronti della perpetrazione di questi atti per loro sacrileghi. ……. In un paese dove la superstizione e l'ignoranza prevalgono, la volontà del popolo è sempre dominata dai preti, e per dimostrare che questo è in particolare il caso della Sardegna, basta solo accennare al fatto che il censimento del 1848 dava i seguenti risultati:


Maschi

Femmine

Totale

Non sanno leggere

246.916

265.265

512.181

Sanno solo leggere

3.928

3.082

7.010

Sanno leggere e scrivere

23.483

4.238

27.721


274.327

272.585

546.912

La percentuale di ecclesiastici è di 1 per ogni 208 abitanti. Parlando dell'annessione dell'isola alla Francia i commenti sono ovunque gli stessi: "Non possiamo stare peggio di come stiamo e non abbiamo quindi nulla da perdere da un cambiamento. Noi gemiamo sotto il peso di una pesante tassazione che è in continuo aumento e non abbiamo la consolazione di una speranza di sollievo. Il nostro governo non fa nulla per aiutarci o incoraggiarci, ma ci lascia dibattere nelle difficoltà senza aiutarci. Ci si dice che abbiamo chiesto di nostra spontanea volontà una parità di trattamento e che l'abbiamo ottenuta: sì, nella forma, ma non nella sostanza; ci è stata concessa una eguaglianza scrupolosa ma non proporzionata alla natura e alle condizioni dell'isola. Siamo ad uno stadio infantile, schiacciati dal peso che i maturi e consolidati Stati continentali possono reggere con relativa facilità. Se fossimo annessi a una grande nazione saremmo in parte alleviati da tale peso; essa promuoverebbe l'industria locale, introdurrebbe capitalisti e capitali, valorizzerebbe per il meglio le possibilità dell'isola e ci aiuterebbe a tal punto che, alla fine, potrebbe renderci autosufficienti e non più a suo carico".

La guerra in Libia vista da George Friedman

Domenica 20.03.2011

affaritaliani


libia guerra apertura

George Friedman è uno dei massimi studiosi e commentatori di geopolitica e scrive su Stratfor, una delle migliori riviste americane del settore
(1).

Ora la guerra libica è cominciata. Essa mette insieme una coalizione di potenze europee più gli Stati Uniti, alcuni stati arabi e i ribelli libici contro il governo libico. Lo scopo, a lungo termine, non confessato ma chiaro, è un cambiamento di regime, che rimuova il governo del leader libico Muhammar Gheddafi e lo sostituisca con un nuovo regime costruito intorno ai ribelli. La missione è più chiara della sua strategia, e la strategia non può essere dedotta dalle prime mosse.

La strategia potrebbe essere costituita dall’imposizione di una no-fly zone e attacchi contro i centri di comando e controllo della Libia, o queste due cose più diretti attacchi terrestri contro le forze di Gheddafi. E queste cose potrebbe anche combinarsi con un’invasione ed occupazione della Libia. La questione, dunque, non è la missione ma la strategia da perseguire. Quanto lontano è disposta ad andare la coalizione, o almeno alcuni dei suoi membri, per realizzare il cambiamento di regime e occuparsi poi delle conseguenze del cambiamento di regime? Quante risorse sono disposti a fornire e quanto a lungo sonno disposti a combattere? Bisognerebbe ricordare che in Iraq e in Afghanistan l’occupazione divenne il cuore della guerra e il cambio di regime fu soltanto l’atto introduttivo.

È possibile che i membri della coalizione non abbiano ancora deciso la strategia, oppure ci potrebbe essere disaccordo fra loro. Consideriamo dunque le prime fasi della guerra, senza tener conto di quanto lontano essi siano disposti ad andare perseguendo la loro missione. Segue un’analisi delle prime mosse: la distruzione di postazioni contraeree missilistiche, di basi e depositi, e di molti altri obiettivi, sempre dal cielo. Questa è la parte in cui gli Stati Uniti in particolare e l’Occidente in generale sono veramente bravissimi. Ma è l’inizio della guerra. Le principali capacità di Gheddafi sono nel campo dell’armamento convenzionale e in particolare dell’artiglieria. Distruggere la sua forza aerea ed isolare le sue forze non porterà per ciò stesso a vincere la guerra. La guerra si fa sul terreno. La questione è la motivazione delle sue truppe: se esse percepiscono che arrendersi è inaccettabile o personalmente catastrofico, potrebbero continuare a combattere. A quel punto la coalizione dovrebbe decidere se intende impegnarsi nella distruzione delle forze di terra di Gheddafi con gli attacchi aerei. Questo può essere realizzato, ma non è affatto una conclusione scontata che funzionerebbe. Per di più, questa è la fase in cui le perdite civili cominciano a salire. È un paradosso dello stato di guerra nato dallo scopo di porre termine alle sofferenze umane che i mezzi per realizzarlo possono a volte imporre notevoli sofferenze umane. Questa non è un’affermazione meramente teorica.

È a questo punto che i sostenitori della guerra che vogliono porre un termine alle sofferenze potrebbero rivoltarsi contro i loro leader politici per non aver posto un termine alle sofferenze senza un alto costo. Bisognerebbe ricordare che Saddam Hussein è stato universalmente detestato ma che coloro che lo detestavano spesso non erano disposti ad imporre il prezzo necessario per rovesciarlo. Gli europei sono particolarmente sensibili, al riguardo. Il problema dunque diviene il punto fino al quale questa rimane un’operazione aerea, come è stato per il Kosovo, o diviene un’operazione di terra. Il Kosovo è l’ideale, ma Gheddafi non è Slobodan Milosevic e potrebbe pensare che non ha nessun posto dove andare, se si arrende. Per lui combattere potrebbe essere questione di vita o di morte, mentre per Milosevic non lo era. Lui e i suoi seguaci potrebbero resistere. Questa è la grande incognita. La scelta qui è fra il mantenere le operazioni aeree per un periodo molto lungo senza risultati chiari, o invadere quel Paese. E questo solleva la questione di sapere quale nazione sarebbe disposta ad inviare le truppe che lo invadono. L’Egitto appare pronto ma c’è una vecchia animosità fra i due Paesi, e le sue azioni potrebbero non essere viste come una liberazione. Potrebbero farlo gli europei. È difficile immaginare Obama che prenda in considerazione una terza guerra nel mondo musulmano come la propria guerra. Questo è il punto in cui veramente la coalizione è messa alla prova. Se c’è un’invasione, è probabile che abbia successo. Il problema poi diviene se le forze di Gheddafi si daranno all’opposizione e alla rivolta. Questo, ancora una volta, dipende dal loro morale ed anche dal loro comportamento. Gli americani provocarono una rivolta in Iraq mettendo i baathisti in una posizione insopportabile. In Afghanistan i Taliban rinunciarono al potere formale senza essere stati sconfitti in modo decisivo. Essi si raggrupparono, si riorganizzarono e tornarono. Non si sa se Gheddafi possa fare questo o no. È chiaro che questa è la principale incognita.

Il problema in Iraq non fu costituito dalle forze per operazioni speciali. Non furono gli attacchi per decapitare o sopprimere le difese aeree dei nemici. Non fu la sconfitta dell’esercito irakeno sul terreno. Fu l’occupazione, quando il nemico si riorganizzò e impose una rivolta con cui gli Stati Uniti trovarono estremamente difficile avere a che fare. Dunque il successo dei prossimi giorni non ci dirà nulla. Anche se Gheddafi si arrende o è ucciso, anche se nessuna invasione è necessaria, salva una piccola forza di occupazione per aiutare i ribelli, la possibilità di una rivolta rimane intatta. Noi non sapremo se comincerà una rivolta fino al momento in cui essa comincerà. Per conseguenza, l’unica cosa che sarebbe sorprendente riguardo all’attuale fase delle operazioni, sarebbe se essa fallisse. La decisione è stata presa nel senso che la missione deve ottenere il cambiamento di regime in Libia. La sequenza strategica è l’organizzazione di routine per la guerra, sin dal 1991: stavolta con una maggiore componente europea. I primi giorni andranno estremamente bene ma essi non ci diranno se la guerra andrà bene o andrà male. Il test da superare si avrà se una guerra che ha lo scopo di porre fine alle umane sofferenze comincia ad infliggere umane sofferenze. Questo sarà il momento in cui sarà necessario adottare decisioni politiche difficili e quando sapremo se la strategia, la missione e la volontà politica si accordano bene le une con le altre. George Friedman Un paio di domande del traduttore, Gianni Pardo: Vale la pena fare una guerra in queste condizioni? E poi, siamo tanto interessati al “regime change” in Libia da fare una guerra per questo? E se ci sono altri scopi, quali sono?

di Gianni Pardo

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(1) Il testo originale.


The Libyan war has now begun. It pits a coalition of European powers plus the United States, a handful of Arab states and rebels in Libya against the Libyan government. The long-term goal, unspoken but well understood, is regime change — displacing the government of Libyan leader Moammar Gadhafi and replacing it with a new regime built around the rebels. The mission is clearer than the strategy, and that strategy can’t be figured out from the first moves. The strategy might be the imposition of a no-fly zone, the imposition of a no-fly zone and attacks against Libya’s command-and-control centers, or these two plus direct ground attacks on Gadhafi’s forces. These could also be combined with an invasion and occupation of Libya. The question, therefore, is not the mission but the strategy to be pursued. How far is the coalition, or at least some of its members, prepared to go to effect regime change and manage the consequences following regime change? How many resources are they prepared to provide and how long are they prepared to fight? It should be remembered that in Iraq and Afghanistan the occupation became the heart of the war, and regime change was merely the opening act.

It is possible that the coalition partners haven’t decided on the strategy yet, or may not be in agreement. Let’s therefore consider the first phases of the war, regardless of how far they are prepared to go in pursuit of the mission. Like previous wars since 1991, this war began with a very public buildup in which the coalition partners negotiated the basic framework, sought international support and authorization from multinational organizations and mobilized forces. This was done quite publicly because the cost of secrecy (time and possible failure) was not worth what was to be gained: surprise. Surprise matters when the enemy can mobilize resistance. Gadhafi was trapped and has limited military capabilities, so secrecy was unnecessary. While all this was going on and before final decisions were made, special operations forces were inserted in Libya on two missions. First, to make contact with insurgent forces to prepare them for coming events, create channels of communications and logistics and create a post-war political framework. The second purpose was to identify targets for attack and conduct reconnaissance of those targets that provided as up-to-date information as possible. This, combined with air and space reconnaissance, served as the foundations of the war. We know British SAS operators were in Libya and suspect other countries’ special operations forces and intelligence services were also operating there. War commences with two sets of attacks.

The first attacks are decapitation attacks designed to destroy or isolate the national command structure. These may also include strikes designed to kill leaders such as Gadhafi and his sons or other senior leaders. These attacks depend on specific intelligence on facilities, including communications, planning and so on along with detailed information on the location of the leadership. Attacks on buildings are carried out from the air but not particularly with cruise missile because they are especially accurate if the targets are slow, and buildings aren’t going anywhere. At the same time, aircraft are orbiting out of range of air defenses awaiting information on more mobile targets and if such is forthcoming, they come into range and fire appropriate munitions at the target. The type of aircraft used depends on the robustness of the air defenses, the time available prior to attack and the munitions needed. They can range from conventional fighters or stealth strategic aircraft like the U.S. B-2 bomber (if the United States authorized its use). Special operations forces might be on the ground painting the target for laser-guided munitions, which are highly accurate but require illumination. At the same time these attacks are under way, attacks on airfields, fuel storage depots and the like are being targeted to ground the Libyan air force.

Air or cruise missile attacks are also being carried out on radars of large and immobile surface-to-air (SAM) missile sites. Simultaneously, “wild weasel” aircraft — aircraft configured for the suppression of enemy air defenses — will be on patrol for more mobile SAM systems to locate and destroy. This becomes a critical part of the conflict. Being mobile, detecting these weapons systems on the ground is complex. They engage when they want to, depending on visual perception of opportunities. Therefore the total elimination of anti-missile systems is in part up to the Libyans. Between mobile systems and man-portable air-defense missiles, the threat to allied aircraft can persist for quite a while even if Gadhafi’s forces might have difficulty shooting anything down. This is the part that the United States in particular and the West in general is extremely good at. But it is the beginning of the war. Gadhafi’s primary capabilities are conventional armor and particularly artillery. Destroying his air force and isolating his forces will not by itself win the war. The war is on the ground. The question is the motivation of his troops: If they perceive that surrender is unacceptable or personally catastrophic, they may continue to fight. At that point the coalition must decide if it intends to engage and destroy Gadhafi’s ground forces from the air.

This can be done, but it is never a foregone conclusion that it will work. Moreover, this is the phase at which civilian casualties begin to mount. It is a paradox of warfare instigated to end human suffering that the means of achieving this can sometimes impose substantial human suffering itself. This is not merely a theoretical statement. It is at this point at which supporters of the war who want to end suffering may turn on the political leaders for not ending suffering without cost. It should be remembered that Saddam Hussein was loathed universally but those who loathed him were frequently not willing to impose the price of overthrowing him. The Europeans in particular are sensitive to this issue. The question then becomes the extent to which this remains an air operation, as Kosovo was, or becomes a ground operation. Kosovo is the ideal, but Gadhafi is not Slobodan Milosevic and he may not feel he has anywhere to go if he surrenders. For him the fight may be existential, whereas for Milosevic it was not. He and his followers may resist. This is the great unknown. The choice here is to maintain air operations for an extended period of time without clear results, or invade.


This raises the question of whose troops would invade. Egypt appears ready but there is long animosity between the two countries, and its actions might not be viewed as liberation. The Europeans could do so. It is difficult to imagine Obama adopting a third war in Muslim world as his own. This is where the coalition is really tested. If there is an invasion, it is likely to succeed. The question then becomes whether Gadhafi’s forces move into opposition and insurgency. This again depends on morale but also on behavior. The Americans forced an insurgency in Iraq by putting the Baathists into an untenable position. In Afghanistan the Taliban gave up formal power without having been decisively defeated. They regrouped, reformed and returned. It is not known to us what Gadhafi can do or not do. It is clear that it is the major unknown. The problem in Iraq was not the special operations forces. It was not in the decapitation strikes or suppression of enemy air defenses. It was not in the defeat of the Iraqi army on the ground. It was in the occupation, when the enemy reformed and imposed an insurgency on the United States that it found extraordinarily difficult to deal with. Therefore the successes of the coming day will tell us nothing. Even if Gadhafi surrenders or is killed, even if no invasion is necessary save a small occupation force to aid the insurgents, the possibility of an insurgency is there. We will not know if there will be an insurgency until after it begins. Therefore, the only thing that would be surprising about this phase of the operation is if it failed. The decision has been made that the mission is regime change in Libya. The strategic sequence is the routine buildup to war since 1991, this time with a heavier European component. The early days will go extremely well but will not define whether or not the war is successful. The test will come if a war designed to stop human suffering begins to inflict human suffering. That is when the difficult political decisions have to be made and when we will find out whether the strategy, the mission and the political will fully match up.

domenica 20 marzo 2011

La sinistra deve rompere il tabù: l’opzione indipendentista ha un serio fondamento politico

lanuovasardegna

Perché non potremmo fare come la Groenlandia, cui la Danimarca ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione?

di Massimo Dadea *

Sono trascorsi oltre tre mesi dall’approvazione dell’ordine del giorno unitario in materia di riforme istituzionali che impegna la prima commissione del Consiglio regionale ad elaborare, entro novanta giorni, un percorso costituente: riscrittura dello Statuto, legge Statutaria, legge elettorale, normativa sulla incompatibilità ed ineleggibilità, riforma dell’organizzazione regionale. E tutto tace. E allora, in attesa dell’Assemblea costituente e prima ancora che la prima commissione si decida a dedicare un po’ del proprio prezioso tempo a queste tematiche, potrebbe essere utile iniziare ad entrare nel merito delle questioni.

Incominciamo a prendere atto che l’Autonomia speciale è finita. Dobbiamo con coraggio inoltrarci in territori finora sconosciuti, battere strade nuove, sfatare, specie per la sinistra, tabù ritenuti intoccabili, come ad esempio l’opzione indipendentista. Un moderno concetto d’indipendenza è qualcosa di molto lontano da quello ottocentesco e risorgimentale. In un mondo globalizzato, indipendenza non vuol dire né «separatismo» né «separatezza».

Indipendenza vuol dire costruire, consensualmente, un rapporto paritario, tra eguali, senza vincoli gerarchici, con lo Stato italiano. Un rapporto paritario tra eguali che hanno condiviso oltre 60 anni di democrazia repubblicana, che hanno convissuto con lealtà sotto la stessa Carta costituzionale.

Queste tematiche diventano ancora più rilevanti alla luce dei sommovimenti che stanno agitando i Paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma nella ricerca di una via originale verso l’autodeterminazione, può essere di un qualche aiuto anche l’e sperienza della Groenlandia. Un’isola «distante», come la Sardegna, dal territorio metropolitano danese, con una propria identità culturale e linguistica.

Un’isola che, dopo un lungo iter preparatorio gestito consensualmente dalle autorità danesi e da quelle groenlandesi, confortato da un referendum consultivo, ha approvato, nel giugno del 2009, il nuovo Statuto autonomico. L’aspetto interessante è che nel nuovo Statuto sono contenute apposite procedure istituzionali per la scelta della definitiva indipendenza della Groenlandia.

Nel preambolo si afferma che «il popolo groenlandese è un popolo ai sensi del diritto internazionale, con il conseguente diritto all’a utodeterminazione» e che lo Statuto è frutto dell’accordo del governo danese con quello groenlandese in qualità di parti equivalenti. All’articolo 1 si prevede che le autorità groenlandesi hanno la facoltà di istituire Corti di giustizia, alle quali è affidato l’esercizio del potere giudiziario, così come di acquisire sotto il loro controllo le forze di polizia e della guardia costiera, mentre la lingua groenlandese diventa la lingua ufficiale in sostituzione del danese.

I proventi dell’estrazione del petrolio verranno invece divisi in modo progressivo tra Groenlandia e Danimarca. In sostanza, il vero principio costituzionale regolatore del processo autonomico groenlandese risiede nel consenso, nella condivisione, nel reciproco rispetto, nella pari dignità. L’indipendenza sarà il frutto di un accordo tra le autorità locali e quelle centrali, nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Ecco quindi, mentre il mondo cambia vorticosamente, in Sardegna tutto tace, niente si muove, tutto ristagna. Ancora una volta l’a ssemblea regionale si trova difronte ad un bivio: dare inizio ad un’esaltante fase costituente oppure sancire il definitivo fallimento di una classe politica rivelatasi non all’altezza delle aspettative della Sardegna.

* ex assessore regionale al Bilancio PD regione Sardegna

DONNA SARDA IN ABITO TRADIZIONALE
















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