venerdì 19 luglio 2013

Per una nuova indipendenza, le sfide del Partito dei Sardi


Per una nuova indipendenza, le sfide del Partito dei Sardi

di GIORGIO PISANO
www.unionesarda.it


Franciscu Sedda
Gli stati generali del nuovo indipendentismo sono convocati domani (sabato 20 luglio 13) a Losa per assistere al battesimo quasi ufficiale d'una ultimissima creatura politica: il Partito dei Sardi. Obiettivo: correre (e possibilmente vincere) alle prossime elezioni regionali. Dietro si muove Franciscu Sedda, semiologo all'università di Tor Vergata, transfuga dall'Irs di Gavino Sale e da Progres di cui era padre legittimo. Con lui c'è Paolo Maninchedda, prof universitario a Cagliari, plurischierato, nel senso che ha attraversato l'universo dal pianeta Dc al centrosinistra per transitare poi in area sardista e riproporsi adesso in veste inedita.
Trentasette anni, sposato a una militante (Ornella), una figlia (Soliana), un bel manifesto politico alle spalle ( I sardi sono capaci d'amare ), Sedda si lancia in questa avventura «con l'entusiasmo dell'evoluzione».

Che vuol dire?«Significa che mi sono liberato da un'idea vecchia e folcloristica di indipendentismo, dalla logica dei duri e puri che però non contano niente. Ai sardi dico che dobbiamo liberare la parte migliore di noi e diventare sovrani in casa nostra, come accade a Malta, in Scozia o in Catalogna».

Che significa sovrani?«Recuperare, per esempio, quei diritti sanciti dallo Statuto eppure ignorati. In questa logica si spiega la battaglia per creare un'Agenzia sarda delle Entrate. Dopo la raccolta di firme, aspettiamo che il Consiglio regionale la faccia diventare legge».

Andate soli alle elezioni?«Noi confidiamo di far parte del cartello di centrosinistra. Non credo ci siano problemi anche perché il nostro programma di governo ha molti punti in comune con quell'area».

Candidato presidente?«Quasi certamente Paolo Maninchedda».

Strana alleanza la vostra, no?«No. Maninchedda ed io siamo profondamente diversi ma il Partito dei Sardi non deve far le pulci a nessuno. È già una vittoria saper guardare oltre, verso il futuro. In fondo, chiediamo di liberare la parte migliore di noi stessi. Eppoi, Maninchedda è l'unico consigliere regionale che ha presentato una mozione sull'indipendentismo».

I compagni di ieri che ne dicono?«Ci siamo confrontati ma non c'è stato nulla da fare. Avremmo voluto unirli, fare fronte comune, ma ha prevalso la divisione: ognuno per conto proprio, ciascuno con certezze sacrali, inviolabili».

Cosa manca ai sardi per acquisire coscienza nazionale?«La capacità di guardare al presente e alla storia di questa terra. Già nel dodicesimo secolo Barisone parlava di sovranità dei sardi, sovranità di un popolo che decide il destino comune. Da allora non siamo cresciuti granché».

Però restiamo liberi di lamentarci.«Appunto. Non siamo riusciti a svezzarci da vizi antichi come quello del vittimismo. Non ci ha aiutato, negli anni, la classe politica: è rimasta inerte e passiva di fronte al governo di Roma anche nel caso, come succede per le entrate fiscali, di diritti sacrosanti».

E i sardisti, che dire dei fratelli coltelli?«Il Psd'Az ha fatto da tempo una scelta di centrodestra che noi non condividiamo. Ne prendiamo atto: il partito di Giacomo Sanna è una delle tante sfaccettature di un malinteso senso dell'indipendentismo. Non è un caso che Maninchedda sia separato in casa nel gruppo consiliare per evidente incompatibilità».

Piccoli e fragili: come pensate di superare lo sbarramento?«Faremo parte di una coalizione piuttosto ampia e questo ci metterà al riparo dal rischio di restare a bocca asciutta, fuori dal prossimo Consiglio regionale».

L'incognita 5 Stelle vi preoccupa?«Non più di tanto. Si tratta di un movimento che ha dato un forte segnale di rottura ma ha finito poi per perdersi in questioni di nessun valore. Ho la sensazione che dopo il boom elettorale alle Politiche, i grillini siano adesso in fase calante. La novità siamo noi».

Ugo Cappellacci vi ha deluso?«Ha governato il vuoto per quattro anni mentre negli ultimi dodici mesi ha riscoperto un attivismo sorprendente impadronendosi, tra l'altro, di battaglie che non gli appartengono. Sto parlando, giusto per capirci, di sovranità fiscale. Dovessi fare un bilancio direi che la giunta Cappellacci ha sprecato il suo tempo e, purtroppo, quello di tutti noi».

L'opposizione ha funzionato?«Poteva certamente fare di più. Si è trovata spesso in panne, divisa e polemica al suo interno. La mia impressione è che abbia svolto il suo ruolo per senso del dovere piuttosto che per convinzione. È mancata la grinta necessaria, la consapevolezza di quella che noi chiamiamo costante esistenziale».

Che sarebbe?«A differenza di quella resistenziale di cui parlava il professor Lilliu, la costante esistenziale è la conquista d'una consapevolezza: capire chi siamo, quali siano i nostri diritti, dove dovremmo puntare. Per questo vogliamo creare un Partito dei Sardi in Europa».

La variabile Michela Murgia?«È una libera cittadina, siamo in democrazia e dunque può fare quello che crede».

Non la sentite affatto vicina. Eppure è indipendentista.«Quando abbiamo avviato il nostro progetto, Paolo Maninchedda ed io abbiamo scommesso sull'unità, sul raggruppamento delle varie anime indipendentiste. Che però hanno scelto altre strade».

Lei, ad esempio, perché ha abbandonato Progres?«Perché non mi piace un indipendentismo che si parla addosso, che si chiude nel fortino della purezza ideologica per guardarsi allo specchio. Preferisco scendere in piazza per conquistarmi la fiducia di quelli che ancora indipendentisti non sono; preferisco parlare ai sardi, a tutti i sardi, senza fare le pagelle dei buoni e cattivi o la selezione sulle aree di provenienza».

Insomma, siete la differenza.«Non abbiamo questa pretesa. Più semplicemente usciamo da una logica che ci sembra superata. La sovranità che rivendichiamo non è diversa da quella scozzese che a settembre del 2014 vota un referendum per presentarsi in Europa come Stato membro».


E questo ha un senso?«Eccome. Vorrei che i sardi si rendessero conto delle condizioni in cui ci fanno vivere: penso a mia figlia e mi chiedo quale sarà il livello delle scuole che l'aspettano, quale sanità, perfino su quali strade dovrà camminare. Noi vogliamo costruire uno Stato, non vogliamo continuare a subire l'arbitrio della centralità romana su questioni per noi fondamentali. Eppoi, credo d'aver già vinto».

Già vinto?«Beh, molte tematiche di quindici anni fa oggi sono all'ordine del giorno. Quello che allora non avevamo capito è il rapporto con gli altri: non basta la qualità delle proposte, bisogna conquistare il consenso e, col consenso, il diritto a governare. Finora siamo rimasti trincerati su posizioni che avevano invece bisogno di una verifica popolare».

Per questo ha rinnegato i sacri padri, cioè Bellieni e Lussu?«Ci hanno fatto credere che l'autonomia fosse il massimo dei risultati possibili. Ed è sbagliato. Aveva ragione chi, come Antonio Gramsci, diceva che non si deve dissertare di politica ma viverla pragmaticamente. Uscire allo scoperto, insomma».

È questo che vi separa dagli altri?«Ci dividiamo su fatti concreti. La situazione muterebbe radicalmente se avessimo un'Agenzia che incassa i tributi pagati dai sardi e, una volta detratta la parte che spetta alla regione, versa il resto allo Stato. Oppure, visto che i soldi in cassa li abbiamo noi, riapre qualche contenzioso rimasto impiccato. Ci ritroveremmo il coltello dalla parte del manico. E questa è già una rivoluzione».
pisano@unionesarda.it

martedì 16 luglio 2013

PRO DARE SA PARAULA A SA NATZIONE E DARE IDENTIDADE A SA CULTURA POLITICA NATZIONALE

PRO DARE SA PARAULA A SA NATZIONE E DARE IDENTIDADE A SA
CULTURA POLITICA NATZIONALE


Bustianu Cumpostu

COORDINADORI NATZIONALE
 DE SARDIGNA NATZIONE INDIPENDENTZIA

ANDALAS  PRO ASSENDERE A SOS STATI GENERALI DELLA NAZIONE SARDA
PRENDERE ATTO DEL DISASTRO
  • Il disastro, economico, politico, culturale, ambientale, energetico, di rappresentatività, psicologico, di autostima e di auto-fiducia, causato alla Sardegna ed ai Sardi è evidente e ormai difficilmente riparabile.
  • Le cause di tale disastro sono altrettanto evidenti e ricadono sul sistema che ha imposto, modelli, e tempi, che  ha elevato ad obiettivi il fallimento ed il disastro, ha perpetuato la dipendenza e impedito iniziative economiche o politiche fuori sistema.  
  • Un sistema complesso quello del disastro sardo, nel quale vere e proprie agenzie della dipendenza, create dal sistema politico e sindacale italiano hanno imposto la loro cultura politica, la hanno resa totalizzante ed hanno ridotto a suoi sottoinsiemi gran parte delle espressioni politiche di genesi e motivazione organiche alla nazione sarda.

INSUFFICIENZA DELLE ESPRESSIONI POLITICHE SARDE
  • Bisogna prendere atto che le espressioni politiche che la nazione sarda ha generato perché fungessero da anticorpi contro il sistema del disastro, non solo non sono state all’altezza di contrastare l’avanzamento del male ma in parte si sono trovate, non volendolo, coinvolte ed integrate nel sistema linfatico che lo alimenta.
  • Non serve a niente distribuire quote di responsabilità tra le espressioni politiche sarde, dobbiamo solo prendere atto della loro insufficienza   e della necessità di restituire le deleghe alla natzione sarda, aprire le gabbie e chiamare, insieme, la gente sarda a dare corpo collettivo e cervello collettivo alla nazione per avere un ruolo nel decidere e contrastare il sistema del disastro con una propria cultura politica, intesa in senso lato, anche in compartecipazione con la cultura politica italianista ma da essa disgiunta e con essa in concorrenza.

STATI GENERALI DELLA NATZIONE SARDA
  • Quando si è in emergenza si chiama a raccolta tutta la famiglia ed ogni componente ha la sua quota di responsabilità ed ha il dovere di contribuire al superamento dell’emergenza, ma più di tutti hanno responsabilità le espressioni politiche e culturali che la famiglia ha generato in base ai propri bisogni, interessi ed aspettative. Spetta a loro, sintesi organizzate della nazione, leggere l’emergenza, valutarne la gravità e proporre occasioni e modi per collettivizzare responsabilità e soluzioni.
  • Le sintesi organizzate della nazione, devono chiamare a consulto gli STATI GENERALI DELLA NAZIONE SARDA, formare un gruppo di serietà nazionale e creare le condizioni perché LA CULTURA POLITICA SARDA entri nello scenario, batta i propri tempi, determini azioni e proposte proprie, viva, pur in compartecipazione, di vita propria e non di supporto o contrasto alla cultura politica italiana.
  • Le sintesi “sardiste” hanno il dovere di creare spazio vitale alla cultura politica sarda e di creare spazio e motivazione politici di esistenza anche per se stesse, che altrimenti non avranno capitale politico autonomo ma solo all’interno del contesto “italianista”.
  • NON DEVE ESSERE UN EVENTO INTERNO ALLA CONTINGENZA ELETTORALE E FINALIZZATO AD ESSA, ma deve entrare dentro il contesto ricettivo indotto da tale evento, polarizzare l’attenzione aprendo un sipario più serio e in alternativa a quello presentato dalle comparse sarde negli scontri di potere che vanno in scena nel teatro italiano.
  • Ogni sintesi “sardista” deve essere lasciata libera di continuare le sue trattative elettorali, tale argomento non deve essere motivo di scontro ma  non può neanche essere usato per nascondere, alla nazione, i propri intenti, omettere proposte e rifiutare condivisioni.
  • Se le condivisioni si riscontreranno nelle parole, si creeranno le condizioni perché si concretizzino nei fatti,  chi non sarà coerente verrà valutato dalla gente sarda, dagli stati generali della natzione sarda.
  • Non ci dovranno essere schemi o pregiudiziali, ne graduatorie di sardismo o di indipendentismo e l’ambito di riferimento sarà quello del nazionalismo, di coloro, sardi, che pensano che la famiglia di riferimento sia la nazione e non lo stato e che credono che le libertà collettive nascano dal rispetto e dalla tutela delle particolarità nazionali e non dagli interessi degli stati.


No isco si so resessidu in sa punda, ma ispero de aere abertu un’andala.

Cun istima manna
Bustianu Cumpostu


domenica 14 luglio 2013

SU SARDU EST LIMBA. IN SU 2001 A SU PROTZESSU CONTRAS S'ENEL IS INDIPENDETISTAS CHISTIONANT IN LIMBA

SU SARDU EST LIMBA. IN SU 2001 A SU PROTZESSU CONTRAS S'ENEL IS INDIPENDETISTAS CHISTIONANT IN LIMBA


Juanne Zoseppe Bandinu


In limba contro l’Enel davanti al giudice. Primo processo col traduttore per gli indipendentisti sardi che occuparono la sala comandi della centrale: «per denunciare le maxibollette applicate nell’Isola».


L'Unione Sarda | 11 dicembre 2001

Sassari. “Porte aperte alla centrale”, era un vecchio slogan dell’Enel. E loro, indipendentisti doc, lo hanno preso alla lettera e sono entrati dritti dritti prima nella sala comando della termocentrale di Fiumesanto e poi nell’aula di un tribunale che ha battezzato il primo processo in limba.

Accusati di minacce, resistenza a pubblico ufficiale eccetera eccetera, gli otto del commando Amsicora, col dovuto rispetto per il giudice “straniero”, la loro battaglia l’hanno già vinta: portare a conoscenza di tutti il grande salasso energetico inflitto ai sardi. Una bolletta che nell’Isola pesa oltre il quaranta per cento in più rispetto agli utenti del resto d’Italia. Cavallo di razza cavalcato, dopo l’incursione,un po’ da tutti i partiti politici.


Ieri finalmente si è aperto il processo, con tanto di traduttore ufficiale per la prima volta nella storia. Il professor Michele Pinna, docente universitario di Lingua e letteratura sarda alla facoltà di lettere e filosofia, ha accompagnato con la versione in italiano le dichiarazioni spontanee di Giovanni Pietro Marras, meglio noto come “Zampa” e Gavino Sale, leader di Sardigna Natzione (attualmente coordinatore di IRS, ndr) all’epoca responsabile della Commissione politiche energetiche del partito.


Il giudice Guido Vecchione ha fatto capire subito che aria tirava, allontanando l’ex interprete, arrivata in aula con bavaglio alla bocca e cartelloni appesi al collo, a denunciare l’ennesima ingiustizia. L’avevano esclusa perché la sua domanda di iscrizione all’albo dei traduttori ufficiali era stata redatta soltanto in lingua sarda, senza traduzione in italiano. «Niente sceneggiate, prego», e dopo la decisione del giudice l’interprete si lascia accompagnare fuori.


Poi l’aula si riempie, “Zampa” Marras, sotto l’inseparabile berritta, prova a raccontare i suoi natali. «Si attenga ai fatti». Quello che accade il diciannove ottobre di quattro anni fa non è casuale, dice Zampa. È stato pensato due mesi prima, vista l’inutilità di convegni e volantini e la scarsa incisività di sporadiche apparizioni sul giornale. Stavolta sulla carta stampata vogliono apparire ben bene, caratteri in neretto, per un’azione clamorosa quanto pacifica.


A “Porte aperte” loro ci sono, otto patrioti del commando: «due donne coraggiose e sei uomini arditi». Ma, sottolineano al giudice, sempre nel pieno rispetto della legalità: «decisi a denunciare l’Enel, che dal 1962 ha estorto alle famiglie e alle industrie sarde all’incirca ottomila miliardi di lire».


Mai nessun accenno alle armi? chiede il giudice Vecchione. «Mai, per me tutte le armi del mondo depen esser fattas a chijina», devono essere ridotte in cenere, chiarisce l’interprete. Per Gavino Sale non ci sono dubbi. Ma quali armi, l’unica arma era il suo Tritolo, compagno di commando così chiamato per le sue esplosioni di allegria, così contagiose. Soltanto un equivoco. «Non ci siamo mai qualificati come gruppo armato, mai abbiamo avuto l’intenzione di abbassare quella leva e spegnere la centrale elettrica, privando della luce i fratelli sardi. Questo era piuttosto l’intendimento dell’ingegner Signoriello, il metodo più veloce per far intervenire i carabinieri. Noi lo abbiamo dissuaso». Le domande dell’avvocato Teresa Pes sono filtrate senza traduttore, per risparmiare sui tempi altrimenti infiniti del processo. Che si concluderà soltanto il sette febbraio ma per un problema tutto avvocatizio.


Tutto a posto quindi, il traduttore c’era, il processo si è tenuto regolarmente, il sardo è entrato ufficialmente in un’aula giudiziaria, accompagnato da telecamere e macchine fotografiche.

Articolo di Patrizia Canu.

sabato 13 luglio 2013

SHA'AR HA BA'AL!

SHA'AR HA BA'AL!

Vàturu Erriu Onnis Sayli 

sa defenza

A San Giovanni in Sinis si è consumato un lauto pasto culturale, il Prof Gigi Sanna esperto studioso di lingue antiche ha esposto agli astanti le sue teorie sulle scritte scoperte  presso: "SHA'AR HA BA'AL" era la "LA PORTA DEL SOLE" conosciuta oggi come la sala da ballo, antica cava nuragica bagnata  dal mare nella penisola del Sinis nel comune di Cabras (OR)  -Sardinya- .

I partecipanti , una cinquantina di persone appassionate di studi su "la nuraxia  e sa limba de is etzus" guidati dal Prof Gigi Sanna , hanno approfondito e sviscerato il significato delle antiche iscrizioni presenti  presso SHA'AR HA BA'AL , vedi immagine sottostante.


riproduzione pittografica dei segni e scritte nuragiche presso SHA'AR HA BA'AL effettuate dal Prof Gigi Sanna
La giornata è stata, a dir poco, radiosa ; le intelligenze degli astanti che pressavano il prof Sanna di domande prima: circa  la veridicità e la non falsità dei pittogrammi ha impegnato il Prof in lunghe e profuse disquisizioni scientifiche,  esposizioni suffragate anche da tecnici presenti in loco,oltre a intellettuali e studiosi di arkeo come la Dott. Aba Losi, inoltre tecnici e studiosi di posizioni  mappali; hanno spiegato come le  coordinate geografiche costruite con precisione dettata agli scultori dagli antichi scribi nuragici era importante per la precisione usata e con dovizia affinché la caduta precisa del del solstizio estivo sull'immagine del viso nello spigolo della roccia fosse delineata pienamente al sopraggiungere del crepuscolo del solstizio estivo, ove si tenevano riti religiosi in onore di NU-Ra porta di LUCE che  si può osservare nell'immagine sottostante .


pittogrammi nuragici indicanti la porta della luce


Il prof Sanna, spiega i pittogrammi , la tanit una specie di pupattola , segno protocananaico simile allo schema dentro il brassard; il segno a T e quello simile a C sembrano segni romani ma non lo sono , sono segni antichissimi; il resch , il pittogramma è un disegno e sembra ciò che non è conosciuto. Sui segni che si ripetono , continua il Prof.,   sono segni da noi conosciuti, come ad esempio il serpente che è l'attuale N, o la testa del toro è una Aleph .. l'occhio la consideriamo che sia un'inclusione della roccia , ma, questo ispira un occhio di RA,  poi c'è un NUR luce , in pratica i pittogrammi possiamo ipotizzare essere una frase del tipo: Lui è luce dell'occhio di RA. il pittogramma è Resh è la testa, l'aleph del toro. Se va bene questa lettura la lettera T può rappresentare he e yod. Valori fonetici sulle conoscenze degli oltre 150 simboli nuragici conosciuti,così interpretiamo: testa di colui che da la vita.



La dr.sa Aba Losi mostra l'immagine, un viso a forma di goccia,  che ha ritratto poche ore prima sulla riva rocciosa sotto la città nuragica di Tharros,  spiega,  sia  di sicura fattura  nuragica.

Sotto il Prof Sanna  spiega le iscrizioni, trovate casualmente da un appassionato ricercatore di segni antichi qual è Stefano Sanna; che apparentemente a prima vista sembrano lettere latine , mentre nella decriptata realtà sono segni e pittogrammi nuragici che il prof. ci spiega ampiamente  con la dovuta sapienza e conoscenza delle lettere antiche scritte sulla roccia, con  vista a mare,  dagli antichi sacerdoti amanunensi nuragici.


venerdì 12 luglio 2013

LO SCANDALO DELLE INTERCETTAZIONI E LE PROSPETTIVE DI UNA NATO "ECONOMICA"

LO SCANDALO DELLE INTERCETTAZIONI E LE PROSPETTIVE DI UNA NATO "ECONOMICA"



DI VALENTIN KATASONOV
















http://www.strategic-culture.org

La zona di libero commercio Stati Uniti/Europa, destinata a promuovere l’integrazione economica, è ora al centro dell’attenzione mediatica mondiale. Per descrivere il progetto viene utilizzato un termine molto accattivante: “NATO Economica”. La questione risale al 2011 e negli ultimi sei mesi ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Lo scorso Febbraio, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e Josè Manuel Durão Barroso, attuale Presidente della Commissione Europea, hanno espresso la loro disponibilità a dare il via al dibattito sul progetto. Durante il G8 di giugno scorso in Irlanda è stata fissata la data d’inizio dei dibattiti: l’8 Luglio del 2013.

Liberarsi dei dazi doganali ed altre limitazioni può seriamente dare un notevole impulso allo sviluppo economico dell’America del Nord e dell’Europa. E’ vero, già ora i dazi sono molto contenuti, non superano il 5/7% in media. Ma il volume d’affari annuale del cargo marittimo raggiunge quasi il mezzo trilione di euro; quindi il gettito doganale sugli scambi va misurato in milioni e milioni di euro. Esempio: nel 2010 le società chimiche europee hanno versato agli Stati Uniti dazi doganali per circa 700 milioni di euro. Lo stesso vale per le società chimiche statunitensi: hanno pagato all’Europa quasi un miliardo di euro di dazi. 

L’integrazione transatlantica ha delle implicazioni economiche. Le previsioni americane ed europee di PIL, crescita delle esportazioni e dell’occupazione e riduzione del deficit commerciale, sono molto differenti tra loro. 

Spesso si fa riferimento alle cifre fornite dal Primo Ministro Inglese Cameron, che recentemente ha detto che nel giro di pochi anni l’accordo sul libero scambio farà aumentare il PIL europeo di 100 miliardi di sterline (circa 157 miliardi di dollari americani), quello statunitense di 80 miliardi di sterline e il PIL del resto del mondo di 85 miliardi di sterline. 

Secondo la Camera di Commercio statunitense, liberarsi una volta per tutte dei dazi transatlantici avrà come effetto un incremento del volume d’affari degli scambi commerciali di oltre 120 miliardi di dollari entro cinque anni. Il capo della Commissione Europea, Barroso, ha affermato che l’accordo darà un grosso impulso al PIL dell’Unione Europea di mezzo punto percentuale. Secondo lui il reddito sarà misurato in miliardi di euro e verranno creati molti nuovi posti di lavoro: decine e decine di migliaia di cittadini europei troveranno nuove occupazioni. 

Ovviamente, non si tratta solo di economia. L’accordo sul libero scambio, più in generale, allevierà la piaga della civiltà occidentale “pressata” dai paesi al di fuori della zona del “miliardo d’oro”, primo fra tutti la Cina, poi i BRICS (1) ed altri paesi in via di sviluppo. Agli europei questo importa poco, ma per gli USA si tratta di una questione di importanza vitale. Più di una volta Barack Obama ha ribadito che l’accordo tra Stati Uniti e l’Europa non solo assicurerà alle società americane accesso illimitato al mercato europeo, incrementerà le esportazioni e l’occupazione e avrà effetti positivi sul deficit di bilancio, ma cambierà anche i rapporti strategici tra gli Stati Uniti e l’Asia. Ed è proprio su questo ultimo punto che Washington tenta di celare il vero scopo dell’integrazione commerciale transatlantica. 

Zona di libero scambio USA/Europa: pro e contro 

Ecco qui riassunte le opinioni espresse al riguardo da politici, uomini d’affari ed esperti in materia. 

Primo: ci sono scettici da entrambi i versanti dell’Atlantico. Non dicono che non ci saranno effetti positivi per le economie americane ed europee, ma insistono nel dire che le previsioni di aumento degli scambi commerciali, PIL e occupazione sono esagerate. Anche se tali previsioni si rivelassero esatte e oltre ogni dubbio, la crescita attesa non sarebbe comunque sufficiente a tirar fuori l’economia del “miliardo d’oro” dalla crisi in cui ristagna. 

Secondo: ci sono degli europei che temono che con l’avvento dell’accordo di libero scambio transatlantico il “Grande Fratello” si rafforzerà ulteriormente. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Washington ha usato gli strumenti della NATO per assumere il controllo delle politiche militari e delle forze armate dell’Europa occidentale. L’accordo di libero scambio transatlantico è visto come una versione “economica” della NATO, che finirà con il destituire l’Europa di ogni sua sovranità. Molti politici europei pensano che questo sia il momento sbagliato per avviare i colloqui con gli Stati Uniti sull’argomento. L’Unione Europea sta attraversando una profonda crisi (2) (di debito, di bilancio e dell’economia), cosa che dà maggior peso contrattuale agli Stati Uniti al tavolo di discussione. 

Altri canali d’informazione minimizzano, sostenendo che le parti dovranno soltanto trovare un accordo sull’eliminazione di tutti i dazi doganali e consentendo la libera circolazione di beni e servizi nello spazio economico transatlantico. Ma ci sono anche altri strumenti oltre ai dazi che proteggono i mercati e gli esportatori, ad esempio gli standard ambientali, le sovvenzioni, le tasse (agevolazioni e esenzioni dal pagamento dei dazi), le condizioni di accesso ai prestiti, ecc.
Le posizioni di alcuni attori del mercato mondiale sono determinate dalle loro prerogative di emissione di denaro, con le banche centrali che agiscono come centri di emissione. Nel caso della NATO Economica, Washington prenderà subito il controllo, grazie ai vantaggi che gli derivano dal sistema della Federal Reserve. Per quanto deboli siano alcuni suoi punti, sarà sempre più forte della BCE. I mezzi d’informazione del vecchio mondo spesso presagiscono che un giorno, nel futuro, l’industria cinematografica europea sarà completamente fagocitata da Hollywood. Anche i difensori dei diritti dei consumatori e gli ecologisti sono alquanto scettici. Yannick Jadot, un europarlamentare, Gruppo dei Verdi / Alleanza Europea Libera, presagisce l’invasione dei prodotti statunitensi in Europa e inorridisce al pensiero di cibi geneticamene modificati, carni agli ormoni e al cloro sui banchi dei supermercati. C’è un grosso divario tra gli standard di sicurezza dei prodotti americani e quelli europei, basati su criteri molto differenti. 

Terzo: i paesi che verranno tagliati fuori della zona di libero scambio transatlantico esprimono forti preoccupazioni. Nel caso in cui tale progetto venisse portato a compimento, l’area interessata coprirà quasi il 50% del PIL mondiale (Messico e Canada ne faranno parte, essendo membri del NAFTA - North American Free Trade Agreement). Esiste una forte possibilità che l’Australia e la Nuova Zelanda entreranno a far parte di questa alleanza integrata. A quel punto il “miliardo d’oro” consoliderà commerci ed economie al suo interno, danneggiando inevitabilmente il progresso economico dei paesi esterni, come la Cina, i BRICS ed il Giappone. 

La bagarre delle intercettazioni 

Non appena è stata fissata all’8 luglio 2013 la data di inizio dei colloqui tra USA ed Europa sulla zona di libero scambio, è scoppiato lo scandalo causato dalle rivelazioni di Edward Snowden su alcuni servizi speciali dedicati ad attività di spionaggio. E l’Europa era proprio il bersaglio principale di queste attività. Sul primo, Washington ha affermato che le attività di intercettazione e di controllo dei messaggi internet erano limitate a personaggi stranieri ad alto profilo, e il solo scopo era quello di prevenire azioni terroristiche. Poi si è venuto a sapere che anche personaggi dell’Unione Europea e di Paesi Membri dell’Unione fossero oggetto di intercettazione “a scopo di prevenzione anti-terroristica”. 

Sotto osservazione 38 tra ambasciate e missioni, considerate dagli USA come bersagli, compreso il quartier generale dell’Unione Europea a Bruxelles; Francia e Germania (3) gli obbiettivi principali: ogni giorni venivano monitorate due milioni di telefonate di persone francesi e quindici milioni di persone tedesche. Berlino e Parigi hanno già preteso spiegazioni da Washington. Il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz ha affermato che, nel caso tali sospetti saranno confermati, i rapporti bilaterali USA/Europa ne usciranno seriamente danneggiati. Il Commissario dell’Unione Europea per la Giustizia, Viviane Reding, ha detto che l’accordo di libero scambio è a rischio. E ha detto: “dei buoni partner non si spiano l’uno con l’altro”.

Spiare gli alleati… è routine 

Niente di nuovo sotto il sole. Lo scandalo delle intercettazioni in corso è solo un’illustrazione di quello che da tempo era già routine nel mondo “civile”. Basta ricordare ECHELON, la raccolta di segnali intelligenti (SIGINT) e il sistema analisi della rete. Fu sviluppato in seguito ad un accordo segreto concluso tra le intelligence degli USA, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda. ECHELON era in grado di intercettare e controllare il contenuto di telefonate, fax, email ed altri traffici di dati, “spiando” gli strumenti di comunicazione quali trasmissioni satellitari, reti telefoniche pubbliche (che prima trasportavano la gran parte del traffico internet) e collegamenti a micro-onde. 

Era in grado di intercettare fino a 100 milioni di messaggi ogni mese. L’idea di raggiungere un accordo con altri stati e lo sviluppo del sistema, furono iniziati dalla NSA, Agenzia statunitense per la sicurezza nazionale. Gli elementi della rete sono sparsi in tutto il mondo – tra basi militari statunitensi in Germania, le installazioni in Gran Bretagna, nel Pacifico e ad Hong Kong. L’elaborazione dei dati si basa su parole chiave. Vengono utilizzati programmi avanzati di riconoscimento vocale e ottico (OCR) per individuare parole o frasi chiave (chiamate “Dizionario Echelon”) che avrebbero allertato i computer nel segnalare i messaggi per la registrazione o la trascrizione, per le analisi successive. Se s’ inserisce la parola “microprocessore”, ad esempio, il sistema inizia a cercare il termine in tutte le telefonate, messaggi, fax e messaggi elettronici intercettati. L’unica cosa che restava da fare era di capire chi e perchè aveva utilizzato quel termine e chi era il suo interlocutore. 

Secondo esperti occidentali indipendenti, più dell’80% delle intercettazioni sono utilizzate per spionaggio industriale. Echelon è un sistema di spionaggio mondiale. Non favorisce tanto gli interessi del “miliardo d’oro”, ma piuttosto quelli della comunità anglo-sassone, che considera tutti gli europei, tranne i britannici, come rivali da tenere sotto osservazione. Faccio solo un esempio: nel 1995 trapelò la notizia che la National Security Agency utilizzasse ECHELON per intercettare tutti i fax e le telefonate tra il Consorzio AIRBUS e la compagnia aerea nazionale saudita. Si seppe così che AIRBUS pagava laute mazzette ai sauditi per convincerli a concludere l’affare da 6 miliardi di dollari. La National Security Agency passò queste informazioni al governo degli Stati Uniti, il quale riuscì invece a convincere i sauditi a concludere il contratto con Boeing e McDonnell Douglas. Kai Hirschmann, un tedesco esperto di intelligence, nel suo libro “Geheimdienste» (Servizi Segreti) del 2004, spiegava: Primo: dopo la Guerra Fredda l’intelligence economica divenne importantissima, superando e oscurando di gran lunga quella sul terrorismo. Nel 1990, infatti, lo stesso ex direttore della CIA Robert Gates disse che le questioni legate all’economia erano predominanti nella lista delle missioni dell’agenzia. Metà e più degli incarichi della CIA erano di natura economica. 

Secondo: in occidente l’intelligence economica si sommava allo spionaggio industriale delle società private. C’era una specie di “spartizione dei compiti” tra le agenzie d’intelligence private e pubbliche. Quelle pubbliche controllavano ministeri, agenzie di stato, organizzazioni internazionali, ambasciate e missioni commerciali per ottenere informazioni sensibili sulle politiche economiche, finanziarie, commerciali ed industriali dei vari paesi, oltre ad anticipare le posizioni che i vari paesi avrebbero preso in sede di colloqui internazionali, quali fossero gli accordi che stavano per concludere, compresi quelli nascosti, ecc. 

E’ chiaro che gli stati sono sempre coinvolti nello spionaggio industriale, anche se, di solito, limitatamente alle tecnologie militari. L’intelligence di stato svolge missioni che gli vengono assegnate da grandi aziende, soprattutto quando queste partecipano a grosse gare o sono in lizza per accaparrarsi ingenti commesse in paesi esteri. 

Terzo: molti servizi speciali occidentali spiano gli alleati. In altre parole, i paesi del “miliardo d’oro” si spiano a vicenda. E’ un fatto inevitabile in un quadro di competizione. 

Quarto: al giorno d’oggi, la gran parte dei dati viene acquisita con strumenti tecnologici, senza il contributo di intelligence “umana”. I metodi usati sono le intercettazioni, cimici installate negli uffici, nelle macchine, nei fax, sui cavi telefonici, rubando informazioni direttamente dai computer e dai server, elaborando flussi giganteschi di dati trasmessi via internet, accedendo ai messaggi di posta elettronica attraverso le connessioni Skype, ecc. 

Kai Hirschmann ci dice che è da lungo tempo ormai che gli stati fanno ricorso allo spionaggio industriale per avere dei vantaggi economici. L’occidente non è poi così diverso dai suoi “vecchi” amici di “oltre cortina”. Secondo le stime fatte, 23 paesi (compresi i grandi paesi dell’Est), spiano regolarmente gi Stati Uniti. In questo, va detto, gli USA sono impareggiabili. Nel 1994, parlando al Centro di Studi Strategici ed Internazionali, l’ex direttore della CIA James Woolsey disse che gli veniva sempre da sorridere quando le società gli dicevano che non avevano alcun bisogno dell’intelligence. La CIA li aveva già aiutati ad assicurarsi grossi contratti. E sembra alquanto verosimile, se si conosce bene questa materia. Quando i governi assegnano incarichi “economici” alle agenzie d’intelligence, viene naturale pensare che loro stesse sono oggetto di spionaggio sul proprio territorio, da parte di servizi speciali di paesi amici e non amici. 

Prospettive di libero scambio sullo sfondo dello scandalo delle intercettazioni 

Lo scandalo sollevato dalle recenti rivelazioni conferma che il fatto che i servizi speciali degli USA stessero spiando gli alleati Europei non è per niente una novità. La novità è che tutte le controversie di questo tipo in passato si svolgevano a porte chiuse. Ora è venuto tutto a galla. Nonostante tutte le velenose affermazioni rese pubblicamente da funzionari dell’Unione Europea e altri politici europei, non bisogna affatto aspettarsi alcun drastico cambiamento di rotta nei rapporti USA/EU. C’è una piccola possibilità che i colloqui sulla zona di libero scambio possano per ora essere annullati. Nella migliore delle ipotesi potranno essere rimandati di qualche settimana per far sbollire gli animi in Europa. E’ quello che alti funzionari francesi hanno proposto (i francesi hanno preso una posizione piuttosto dura sulla questione). Soprattutto la Germania si sente particolarmente umiliata dagli Anglo-Sassoni, sembra infatti essere il bersaglio primario degli sforzi di spionaggio della NSA. D’altro canto, la Germania è considerata la maggiore minaccia economica. Ciò è anche dimostrato dal fatto che la Germania è vista dagli Stati Uniti non come un paese alleato, ma come una nazione satellite. Angela Merkel, comunque, non sembra particolarmente infastidita: ha fatto sapere di non aver alcuna intenzione di abbandonare i colloqui e neanche di posporli. Alcuni media hanno insinuato che le rivelazioni di Snowden sullo spionaggio Americano sono parte di un deliberato tentativo da parte degli oppositori della “NATO Economica” di evitare la realizzazione della zona di libero scambio, o, perlomeno, di rallentarne la nascita. 

Bisogna dire che la vicenda ha fatto guadagnare agli Europei delle ottime carte, utili per guadagnare tempo e rafforzare le posizioni più deboli, in vista dei colloqui. C’è un’ampia varietà di argomenti all’ordine del giorno. Nessuno si aspetta di vedere l’accordo concluso entro un anno. Ci vorranno almeno due anni. E accadranno tante altre cose in questo tempo. Esempio: la seconda ondata della crisi economica e finanziaria che cambierà i rapporti di forza tra le parti. Secondo me, non possiamo fare alcuna previsione su come questi eventi influenzeranno l’esito dei colloqui USA/EU. 


Valentin Katasonov
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2013/07/07/spying-scandal-and-prospects-for-economic-nato.html
7.07.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63 

1) http://www.strategic-culture.org/news/2013/03/30/brics-new-geopolitical-model-and-russia-foreign-policy-priority.html
2) http://www.strategic-culture.org/news/2013/06/23/discord-mounting-in-the-european-union-i.html 
3) http://www.strategic-culture.org/news/2013/07/01/the-way-anglo-saxons-spy-on-germans.html




mercoledì 10 luglio 2013

L'Agenzia sarda nel dimenticatoio

A parole le forze politiche sono d'accordo, ma la legge rischia di restare nel cassetto 

L'Agenzia sarda nel dimenticatoio 

Sedda (Fiocco verde): «Basta meline, si porti la proposta in Aula»

A parole non c'è forza politica che non l'apprezzi. In concreto, l'Agenzia sarda delle Entrate è caduta nel dimenticatoio prima ancora di approdare in Consiglio. 


Lorenzo Piras




Franciscu Sedda




 SILENZIO
Il ribaltamento dei poteri di riscossione e gestione delle risorse dallo Stato alla Regione affascina per il messaggio sovranista che si porta appresso ma, nel contempo, incute timore. «Non siamo più disposti ad aspettare: si porti la proposta in Aula, altrimenti sarà la dimostrazione che questo Consiglio non crede proprio nella sovranità dei sardi», dice Franciscu Sedda, docente di Semiotica all'Università di Roma-Tor Vergata e presidente del Fiocco Verde, l'associazione che raccolse 31 mila firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare che avrebbe dovuto garantire un passaggio di competenze rivoluzionario. «Si propone la riscossione diretta di tutti i tributi da parte della Regione». In sostanza - spiega Sedda - «diciamo allo Stato: noi ci occupiamo di raccogliere tutte le tasse prodotte in Sardegna. Poi sarà sempre la Regione a restituire allo Stato i tre decimi di Irpef, un decimo di Iva e di accise, circa 1,5 miliardi all'anno». Ancora più chiaro: «Intanto incameriamo i soldi, superiamo la fase delle Finanziarie varate in base a cifre presunte e gestiamo noi, subito, direttamente, gli 8 miliardi che derivano dai sette decimi di Irpef, dai nove decimi dell'Iva e delle accise». Tra gli interventi prospettati anche il superamento di Equitalia, e una riscossione «con aggi massimi del 3%, e non del 9% come oggi, con l'eliminazione degli interessi sugli interessi» e, inoltre, «la verifica e la dilazione dei 4 miliardi di debito delle imprese nei confronti dello Stato per evitare il crollo del sistema economico». Non potevano mancare «meccanismi di vantaggio in parti di territorio circoscritte e per periodi limitati così da attuare una forma embrionale di sovranità fiscale».

L'ACCUSA 
Fin qui la proposta di legge che nel giugno del 2012 è stata presentata, corredata da 26 mila firme, in Consiglio regionale. Tra ottobre e novembre c'è stato pure un passaggio in commissione Bilancio. Stop: «Forse per la Regione è più facile maneggiare e manipolare un tema come quello della Zona Franca in cui c'è un margine di discrezionalità ampio piuttosto che discutere una legge come quella del Fiocco verde che produrrebbe subito risultati concreti. Si parla di riduzione dell'Irpef senza la certezza dei sette decimi, sbandierati ma che lo Stato ci rende quando vuole. Con la proposta di legge siamo noi, nel caso, che rendiamo allo Stato. Fare propaganda è semplice: senza l'Agenzia è inutile discutere del resto».

LA SCOMMESSA 
Critica cui si associa Paolo Maninchedda, consigliere regionale sardista che ha sostenuto la proposta fin dal principio: «Perché è l'inversione da fare, il ribaltamento dei poteri che serve». Ancora Maninchedda: «Il problema del fisco in Sardegna è caratterizzato dall'imprecisione. Mi sono sempre pronunciato a favore della proposta perché è un tassello importante: il fatto che i sardi devono saper esigere e governare le proprie risorse non è un aspetto di politica fiscale ma è un progetto politico».

LA COMMISSIONE
 Per Pietrino Fois (Riformatori), presidente della commissione Bilancio, non esisterebbero freni da parte dei partiti: «Due mesi fa, dopo la ridefinizione dei lavori delle commissioni, era tra le prime tre proposte da discutere. Abbiamo dovuto soprassedere per via della Finanziaria e dei ritardi accumulati sulla legge elettorale».

PDL E PD 
Concetto ribadito da Pietro Pittalis, capogruppo del Pdl: «La Giunta aveva inserito la disposizione in Finanziaria, ma poi è stata stralciata come norma intrusa perché interveniva sull'organizzazione delle strutture regionali», osserva. «Siamo assolutamente d'accordo: è attuabile nella misura in cui si crei un ufficio che non erediti i vizi di Equitalia ma si ponga in un rapporto di dialogo e collaborazione con i cittadini». Giampaolo Diana, capogruppo del Pd, ricorda: «Abbiamo dato la disponibilità anche nei giorni scorsi ad andare in commissione per esitare la proposta e portarla in Consiglio quanto prima. Chiarisco però che dipende dalla maggioranza di centrodestra, anche in questo caso inconcludente e negligente, e non da noi, l'agenda del Consiglio e quella delle commissioni. Senz'altro la proposta entra nel merito della qualità del sistema di riscossione e valorizza il ruolo e la funzione della Regione anche in un tema così delicato».

LE PROSPETTIVE 
A remare contro l'Agenzia è però il tempo. Nonostante le dichiarazioni di circostanza, da qui a dopo l'estate il Consiglio avrà da lavorare su più fronti: la legge sugli enti locali, le norme urgenti sugli ammortizzatori sociali, la legge sulla Zona franca e poi la Finanziaria, che la Giunta si è ripromessa di presentare all'Aula a settembre. Poi sarà campagna elettorale. «Se c'è una volontà unanime siamo disposti a lavorare anche ad agosto», annuncia Pittalis. Quanti saranno d'accordo?

Lo spettro della democrazia


Lo spettro della democrazia

MARCO BASCETTA
Una analisi del paradosso egiziano tra militari, islamici e laici.
Intanto Mansour cerca di formare un nuovo governo: a guidarlo non sarà più El Baradei (nominato vicepresidente, quindi con un ruolo essenziale nella fase di transizione) ma l'ex-ministro delle finanze Hazem El Beblawi. Fra sei mesi le nuove elezioni. La Fratellanza Musulmana ancora in piazza per chiedere la liberazione di Morsi


L'Egitto è in pieno caos. Innumerevoli incognite incombono sull'immediato futuro del paese. Le nubi della guerra civile volano basse e minacciose. Bande armate scorazzano nel Sinai. I soldati sparano sulla folla e uccidono, le carceri si riempiono, l'esercito è l'arbitro e il centravanti della partita. Una infinità di incredibili paradossi si dispiegano sotto gli occhi del mondo. E tutti i nodi delle cosiddette primavere arabe sembrano venire al pettine nella forma più aspra e sanguinosa. Esattamente venti anni prima di questi eventi Bahgat Elnadi e Adel Rifaat , due sociologi di origine egiziana trapiantati in Francia dove pubblicano con lo pseudonimo comune di Mahmoud Hussein, scrivevano: "Nelle grandi capitali dell'emisfero sud, da qualche anno a questa parte la parola d'ordine della libertà mobilita folle numerose come quelle che, nel passato, solo la parola d'ordine dell'indipendenza aveva potuto radunare. E'in atto un cambio di priorità". Per aggiungere subito dopo: "E nondimeno, la democrazia resta, il più delle volte, tanto desiderata quanto irraggiungibile; tanto necessaria quanto fuori portata"( Versante sud della libertà, manifestolibri 1994).
Non vi è dubbio che da Tunisi al Cairo (ma anche in Libia e Siria dove tuttavia il dispositivo della guerra civile è stato attivo fin dall'origine) la domanda di libertà, (che non è sovrapponibile a quella di democrazia), sfociata poi nell'esercizio di un potere destituente, è stata il carburante della rivolta che ha portato alla cacciata di Ben Ali e di Mubarak. Libertà dall' arbitrio di uno stato-nazione che, persa da un pezzo la legittimità derivata dalla stagione delle indipendenze, soprattutto di fronte a una sterminata popolazione giovanile che non ne è stata partecipe e se ne sente infinitamente distante, si risolveva in un sistema di intollerabili privilegi e soprusi tanto ramificati da insidiare ogni aspetto della vita quotidiana di tutti e di ciascuno. Questo scontro frontale e per molti versi viscerale contro l'apparato disciplinare dello stato schierato in difesa dei privilegiati e sistematicamente dedito alla corruzione, presenta, a partire dalle sue forme spontanee, caotiche, perfino improvvisate, molti tratti di quello che potremmo definire un movimento antiautoritario, tanto più vigoroso, quanto più spessa e duratura era stata la cappa che soffocava la libertà dei singoli e soprattutto delle singole. E' la stessa caratteristica che ha segnato, in forma ancora più pura e accentuata, la ribellione turca contro lo "stato etico" in via di edificazione per mano di Erdogan, a colpi di leggi liberticide e precetti morali, seppure in un contesto di soddisfacente crescita economica.
Era inevitabile che questa specifica domanda di libertà entrasse rapidamente in rotta di collisione con la componente islamista delle ribellioni arabe la cui idea di libertà consisteva invece esclusivamente nella possibilità di organizzarsi politicamente alla luce del sole e nel rifiuto degli schemi politici e culturali di derivazione occidentale a cui contrapporre una morale pubblica e privata di stampo tradizionalista e comunitario. Ecco, dunque, il primo paradosso: sull'onda di un movimento antiautoritario viaggiano correnti e formazioni politiche ispirate da una visione autoritaria della politica e della società. E, democraticamente, vincono facendo leva sul disorientamento e su quel tessuto di solidarietà comunitarie e di consuetudini tradizionali che, se non lasciano spazio alcuno alle libertà individuali, consentono tuttavia alla massa degli esclusi dai circuiti economici e culturali della modernità di tirare a campare. Vincono, ma governare con l'ideologia e per l'ideologia non intacca i privilegi e non migliora le condizioni di vita. Gli islamisti non riescono a fare i conti con una società che si è fatta complessa anche negli strati più bassi, né a incarnare una presunta "anima proletaria" contro la presunta "anima borghese" della laicità. Il Corano non prevede la lotta di classe e la passione antimperialista è in evidente declino dopo aver fatto lungamente da alibi a governi corrotti e dittatoriali. Il trucco c'era e tutti lo hanno visto. Il fatto è che il contrasto tra il legame con la tradizione e l'aspirazione a un rinnovamento radicale non attraversa solo la società ma anche gli stessi individui che la compongono. E l'islam politico, anche il più accorto e moderato, non riesce a rinunciare a quel manicheismo che è nei suoi geni, accecato da una pretesa di coerenza fuori dalla storia e dalla vita reale degli individui. Così Erdogan e Morsi si ritrovano in piazza milioni di persone inferocite contro quella che considerano una "dittatura della maggioranza" uscita dalle urne. Impossibile imputare un simile movimento alla manipolazione eterodiretta o alla borghesia occidentalizzata. Lo schema dello scontro di civiltà frana rovinosamente.
E qui, almeno in Egitto, entra in scena il secondo paradosso. Il "movimento antiautoritario", la diffusa domanda di libertà, ricevono la protezione e l'appoggio della più autoritaria delle istituzioni: l'esercito, il quale la mette in atto nel modo che gli è più consono: sparando. Sulla natura dell'istituzione militare nei paesi postcoloniali, sui fattori che ne hanno determinato la superfetazione e l'invadenza nella vita politica ed economica e nelle relazioni internazionali si possono produrre diverse spiegazioni storiche. Certamente in alcuni paesi ha svolto una sua parte nel processo di modernizzazione accentuandone però i tratti tecnocratici e autoritari. Quel che è certo è che la domanda di libertà, nonché quella di una più equa distribuzione della ricchezza non possono che scontrarsi presto o tardi con il principio d'ordine, la struttura gerarchica e le strategie geopolitiche proprie dell'istituzione militare. Essendone schiacciate o spaccando l'unità dell'esercito con il rischio di scatenare la guerra civile. Vent'anni fa Elnadi e Rifaat la mettevano così: di fronte al fallimento dello stato-nazione postcoloniale, tra promesse disattese e politiche di "sviluppo" fallimentari e conservatrici, i movimenti "giungono a una alternativa fondamentale, a una scelta tra due possibili principi di coerenza: o il ritorno indietro o il salto in avanti, o il ristabilimento di un ordine fondato sui valori prenazionali della religione e del costume comunitario, o la ricerca di una modernità più radicale, di una democrazia più laica". Ma è esattamente su questa alternativa che si innestano tutti i paradossi, le contraddizioni, i vicoli ciechi, che gli eventi in corso mettono in luce. La domanda di libertà non riuscirà ad imporsi se non combinata con un elemento di classe, decisamente rivolto contro il potere e la ricchezza dei ceti dominanti nonché contro i diktat del Fondo monetario internazionale e degli altri creditori, e dunque capace di includere la vasta area della povertà. Altrimenti saranno la reazione sanfedista e il potere paternalista e autocratico che la governa ad avere la meglio, con la benedizione delle cancellerie e delle banche di tutto il mondo. E' una lezione antica, quella impartitaci da Vincenzo Cuoco nel suo amaro ma lucidissimo Saggio storico sulla rivoluzione partenopea del 1799.
La laicità può essere garantita da un esercito, perfino da un esercito straniero, la libertà, fatta eccezione per quella dei capitali, non può esserlo. Non è una differenza da poco. Ed è una partita che non si gioca necessariamente nel campo della democrazia parlamentare. I democratici (governi occidentali compresi) che festeggiano un golpe e i comunitaristi che agitano il feticcio della democrazia e del risultato elettorale sono l'esempio evidente della natura spettrale in cui lo schema democratico si dissolve e dell'attrito tra le sue regole formali e la realtà sociale cui pretende di applicarsi. Lo scontro di civiltà è stato inventato, alimentato e agito contro la lotta di classe. Sarebbe ora che quest'ultima, o le forme di conflitto sociale che ne raccolgono l'eredità, si prendessero la loro rivincita.

martedì 9 luglio 2013

Erdogan non cede alla piazza e allontana la Turchia dall'Europa

Erdogan non cede alla piazza e allontana la Turchia dall'Europa 
Il braccio di ferro con gli antigovernativi tiene in scacco il Paese 

di PAOLA PEDUZZI
www.unionesarda.it

L'uomo che sta fermo, in silenzio, in piedi, con le mani in tasca è diventato il nuovo simbolo della piazza turca. Attorno a lui si radunano altre persone, ferme anche loro, finché non diventano troppe e arriva la polizia a disperderle: neppure il silenzio è tollerato in questa Turchia spaccata a metà da una rivolta che non si placa. Ogni giorno ci sono decine di arresti e una prova di forza permanente da quando, alla fine di maggio, sono iniziate le proteste al parco Gezi, in piazza Taksim, che le autorità di Istanbul vogliono sostituire con un rifacimento della caserma Taksim, antico simbolo della cultura ottomana costruita all'inizio dell'Ottocento dal sultano Salimm III (la caserma in realtà era stata trasformata in uno stadio nel Novecento e poi rasa al suolo nel 1940: nel progetto odierno l'edificio ospiterà un centro commerciale). 
La riprogettazione in chiave ottomana della città più cosmopolita della Turchia è una delle ambizioni del premier, Recep Tayyip Erdogan, che di Istanbul è stato il sindaco prima di entrare nella politica nazionale (la città è tuttora guidata da un esponente del partito di governo, l'Akp, islamico moderato). 


IL PROBIZIONISMO

 L'assalto all'urbanistica di Istanbul è andata di pari passo con un'ingerenza del premier nella vita privata dei turchi: non si può fumare, non si può bere, non ci si può baciare in pubblico, si devono fare almeno tre figli e via dicendo. L'islamizzazione della Turchia che va avanti, strisciante ma decisa, da dieci anni, cioè da quando Erdogan è arrivato al potere nel 2003 (l'Akp ha poi vinto le legislative altre due volte alle elezioni), è uscita dalle università, dai centri di potere, dalle epurazioni nell'esercito e una volta che ha toccato la vita quotidiana dei turchi è diventata intollerabile. La piazza raccoglie questa insofferenza, che è più culturale che politica, e affonda le sue radici in una società gelosa delle sue istituzioni e del suo laicismo, in una regione sfinita dagli scontri religiosi. Erdogan è duro con questa protesta: ha iniziato definendo i manifestanti “çapulcu”, sciacalli, e quella parola la si sente ripetere - spesso inglesizzata - in tutti i ritornelli e gli slogan, come la deliziosa canzonetta “Ogni giorno I'm chapulling”. 

I RAID E GLI ARRESTI 

La polizia antiterrorismo da giorni fa raid nelle principali città del paese, soltanto ad Ankara ci sono stati quasi un migliaio di arresti, dopo che le autorità hanno annunciato che avrebbero trattato come terroristi chi continuava ad andare in piazza. «La caccia alle streghe è iniziata», dicono molti commentatori, ricordando che spesso i metodi di Erdogan nei confronti delle opposizioni - a cominciare da quella storica e importante, incarnata nell'esercito e nel kemalismo laico di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna - è stato così: una piccola ma costante vendetta contro chi dissente. In questo modo, già ora l'opposizione all'Akp è diventata quasi un fantasma dal punto di vista politico, e nell'esercito i kemalisti sono stati decimati.
La piazza - che s'è radunata sotto l'organizzazione Taksim Solidarity che rifiuta connotazioni politiche se non la natura anti Erdogan - ha chiesto il rilascio di tutti i cittadini arrestati, ma il governo come unica concessione ha proposto un referendum sulla sorte del parco Gezi. È evidente che Erdogan vuole ridurre la rivolta a una dimostrazione ambientalista in difesa di quattro alberi, usando poi i suoi metodi repressivi per mettere a tacere la voce, ben più articolata, della piazza. La violenza è equiparata: Erdogan ha aperto un'inchiesta sulla polizia (che sappiamo già come andrà a finire) ma ha anche detto che investigherà «uno per uno chi ha fatto provocazioni sui social media e chi ha fornito ogni genere di sostegno logistico alla piazza». 


LA VIOLENZA 

La violenza è però in gran parte usata dalle forze dell'ordine, con quei cannoni che sparano acqua sulla folla mista non si sa a che cosa, ma è una sostanza che toglie il respiro e brucia la pelle. 
La gestione della crisi ha mostrato la frattura all'interno del partito di governo che passa attraverso l'opposizione tra Erdogan e il presidente, Abdullah Gül. Il primo è per le maniere forti, il secondo per un dialogo con la piazza, ma non certo per ragioni umanitarie o illuminate: Gül non vuole ingaggiare uno scontro culturale così forte con metà del paese, soprattutto perché l'anno prossimo ci saranno le elezioni. Erdogan è invece elettoralmente aggressivo: dice che per tre volte ha vinto nelle urne e che se qualcuno non lo vuole lo buttasse fuori con il voto, perché sa di contare su una base di consenso forte per quanto invisibile in questi contesti di rivolta più urbani. Il premier vuole farsi eleggere presidente ed è popolare in molte parti del paese, soprattutto in Anatolia. Gül invece vuole annichilire le ambizioni presidenziali di Erdogan e per farlo usa la piazza, lasciando aperta la soluzione del dialogo e dell'ascolto di quel che i manifestanti dicono. Il suo portavoce è il vicepremier Bulent Arinc. È stato Arinc a costringere Erdogan a un incontro con i rappresentanti della piazza (finito ovviamente nel nulla) ed è stato sempre lui a dover puntualizzare le sue parole quando le agenzie di stampa hanno iniziato ad attribuirgli frasi sull'utilizzo dell'esercito imminente per disperdere le proteste. Non che Arinc non sia a favore dell'utilizzo dell'esercito - di una dittatura stiamo pur sempre parlando - ma lui, cioè Gül, gioca la parte del poliziotto buono. 


IL DIALOGO 

A sostenere la linea del dialogo è anche Fetullah Gülen, multimiliardario con residenza negli Stati Uniti che ha fondato la confraternita islamica Hizmet che controlla decine di moschee in Turchia e fuori ed è proprietario di un grande impero mediatico nel paese. L'Akp deve molta della sua fortuna ai buoni auspici di Gülen, soprattutto Erdogan, ma oggi pare che questo signore chiacchieratissimo e misterioso si sia schierato con Gül, dopo che ha dichiarato: «Questi manifestanti hanno alcune richieste intelligenti».
Nessuno sa dire al momento come si uscirà da questa crisi, e se Erdogan ne verrà fuori più forte (e autoritario) o irrimediabilmente indebolito. Le due anime della Turchia che si combattono in questo momento sono socialmente strutturate in modo identico, sono come due colossi che si scontrano senza faglie sui livelli di reddito o sui livelli culturali: per questo è difficile dire se vince l'intolleranza dei laici (che hanno il grave difetto di non riuscirsi a unire in modo forte: è il difetto di tutte le opposizioni laiche della regione medio orientale e la prima ragione del loro insuccesso) o l'autoritarismo di Erdogan. 
Quel che è certo è che i paesi stranieri non sanno come intervenire né - e questo è peggio - che esito augurarsi. Le Nazioni Unite sono preoccupate, l'Unione europea è preoccupata, gli Stati Uniti sono preoccupati: tutti si augurano che il premier rispetti quel patto simildemocratico che ha siglato con l'occidente con il suo islamismo moderato, ma non sanno che fare se Erdogan dovesse invece decidere di affidarsi più all'islamismo che alla moderazione. L'Unione europea ha grandi responsabilità sulla questione turca: da anni corteggia e scaccia Ankara dal suo consesso, alza le richieste cui la Turchia deve rispondere per poter accedere all'Ue (cosa in sé giusta) salvo poi spaccarsi ogni volta che c'è bisogno di un maggior impegno da parte dei paesi europei nel coinvolgimento della Turchia. L'Europa è molto divisa perché l'ingresso di un paese a maggioranza musulmana creerebbe non pochi problemi all'identità europea (per non parlare dei suoi elementi costituitivi sulle radici giudaico-cristiane), e come spesso accade nel nostro continente ha pensato non di trovare una road map accettabile ma di ignorare il problema.

 
VIA DALL'EUROPA 

Il risultato è che la Turchia si è gradualmente staccata dal suo sogno europeo, e oggi Erdogan è il primo a dire che dell'Europa non gli interessa più granché. Preferisce le sue avventure asiatiche, come quando Ankara si fece mediatrice unica della questione nucleare iraniana, con esiti catastrofici che ancora oggi Erdogan paga nei confronti della leadership di Teheran. Preferisce quel rapporto di timore e insolenza che la lega alla Russia, nonostante adesso la bilancia sembri sempre più pendere per i diktat di Mosca a tutto svantaggio della Turchia (ironia vuole che Erdogan sia spesso paragonato al presidente russo Vladimir Putin: stessa dittatura, stessi metodi, stesse ambizioni da leadership eterna).
La Turchia non guarda più l'Europa, ma questo non sarebbe nemmeno un grande problema (per molti anzi è un sollievo). Il problema ora è tutto per gli americani. Nonostante i tanti sberleffi, Ankara è un alleato della Nato posizionato in modo strategico sia per le risorse energetiche sia come punto d'appoggio (e ben oltre) nella gestione dei conflitti medio orientali. La Turchia è talmente importante che il presidente americano Barack Obama è riuscito a convincere il premier israeliano Benjamin Netanyahu a chiedere scusa a Erdogan per il blitz delle forze speciali di Gerusalemme contro una nave battente bandiera turca che faceva parte di una flottiglia diretta a Gaza (fine maggio del 2010, nove morti). Le relazioni israeliano-turche si erano congelate dopo quell'episodio, e anzi la retorica antisemita di Erdogan era diventata sfacciata, ma Obama ha dovuto chiedere a Netanyahu di chiudere un occhio: perdere la Turchia è troppo rischioso.
La guerra in Siria è il contesto più pericoloso in cui la strategicità della Turchia risulta palese: Erdogan chiede la fine del regime di Bashar el Assad da tanto tempo, ospita i rifugiati siriani e buona parte dell'opposizione alla quale garantisce armi e protezione (compresi i fondamentalisti di al Qaida e questo non sarà a costo zero per la stabilità del paese). Sempre in Turchia sono stati posizionati i Patriot contro Damasco, a dimostrazione dell'imprescindibilità di questo avamposto occidentale nel mezzo di quella regione. Come può ora l'America, che ancora non ha una strategia in Siria e anzi tenta in tutti i modi di trovare una soluzione negoziata (sarebbe meglio dire raffazzonata), perdere la Turchia? Non può.


GLI STATI UNITI 

E da Washington arriva molta preoccupazione ma anche la speranza che Erdogan non sia troppo duro e violento, o almeno che non lo faccia vedere: così si potrà continuare a stare alleati, e a delegare alla Turchia quello che l'America non sa e non vuole più fare in Siria. Almeno fino a quando non interverrà Putin.



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