domenica 18 agosto 2013

EGITTO: Il giorno del massacro

EGITTO: Il giorno del massacro

 GIUSEPPE ACCONCIA 
14.08.2013 
http://www.ilmanifesto.it/ 



L’esercito reprime la protesta dei Fratelli musulmani. El Baradei si dimette: «C’erano opzioni pacifiche per risolvere la crisi». Dopo le centinaia o migliaia di morti di mercoledì, anche oggi le vittime si contano a decine. Il «giorno della collera» si trasforma in un nuovo massacro. Le proteste internazionali non fermano la repressione Stato di emergenza per un mese. 

 Corpi di decine di ragazzi e uomini adulti, volti straziati di donne e giovani, il rosso vivo del loro sangue, sono le immagini della carneficina egiziana compiuta ieri. 

Persone indifese sono state attaccate alle prime luci dell’alba da poliziotti, altrettanto poveri, ma armati fino ai denti, sono state colpite dai cecchini posizionati sui tetti delle case, sono state massacrate da criminali in borghese sguinzagliati alla rinfusa. 

Il corpo dilaniato di un ragazzo viene portato verso la moschea Alaa Ina, sotto il ponte 6 Ottobre, prima dell’inizio di via Nassr a qualche centinaio di metri dal sit-in di Rabaa al Asaweya. 
All’interno i cadaveri sono decine, non ci sono mezzi per curare i feriti, il sangue scorre intenso sulle pale improvvisate dove sono sistemati alcuni corpi. Un giovane muore sotto i nostri occhi. 
Tentano ripetutamente di fargli un massaggio cardiaco, ma inizia a diventare cianotico a perdere conoscenza. 
Una donna si abbassa sul suo capo e gli parla, ma non ci sono speranze di rivederlo in vita mentre degli infermieri improvvisati gli applicano un lavaggio. Un ragazzo prende la sua gola tra le mani: è morto. 

Continuano ad arrivare uomini dai volti sfregiati, con gli occhi completamente usciti dalle orbite, un ragazzo ha l’addome tranciato, mentre due signori, stesi con lo sguardo nel vuoto, e le maglie ricoperte di sangue, hanno fori alla testa e lungo la spina dorsale. 

Parte del lunghissimo ponte di 6 Ottobre, teatro degli scontri del 26 luglio scorso, è completamente occupato da una folla in fuga dalla strage di Rabaa, mentre alcuni giovani incitano un corteo a ritornare verso l’accampamento. 

Si intravedono da lontano le colonne di fumo che si alzano dal sit-in e gruppi di ragazzi impauriti dai nuovi lanci di lacrimogeni correre a testa bassa dall’altro lato del ponte. 

Passano vetture, motociclette e camioncini pieni di feriti, un uomo è stato trapassato da parte a parte. 
La barella funebre di un giovane, il cui corpo è stato coperto all’ultimo momento da una serie di asciugamani colorate, fa il suo ingresso solenne nella moschea. 

Un nugolo di donne piange e urla per strada, degli uomini tentano di assaltare i camion della polizia per approvvigionarsi di poveri mater iali, utili alla difesa personale, una folla continua a picchiare pietre sulle sbarre di ferro del ponte. Sono decine le macchine incendiate e i copertoni andati in fumo, si diffonde un odore acre, molti spruzzano sugli occhi dell’acqua che lenisca l’effetto dei lacrimogeni. 

Tutti scappano via da Rabaa. 

Centinaia sono gli arresti, tra cui il segretario del partito Libertà e giustizia, Mohammed Beltagi, impegnato in prima linea nel difendere la legittimità elettorale dell’ex presidente. Ieri ha perso anche sua figlia Ammar nello sgombero della polizia. Altri sette leader della Fratellanza, tra cui Essam El-Erian e Safwat Higazy, finiscono in carcere. 

 Comitati popolari a sostegno della polizia sono stati creati in alcuni quartieri presi di mira dai sostenitori dei Fratelli musulmani. Intorno alla moschea Mohammed Mahmoud è una scena di guerra. 

Le inferriate dei negozi sono divelte. «Sono venuti in migliaia da ogni lato, si sono concentrati intorno alla moschea. Qui la polizia ha iniziato a lanciare cariche. Alcuni islamisti sono entrati negli uffici del quotidiano Youm el Saba», ci racconta un giovane. 

I comitati popolari fermano più volte i passanti per controlli. 
L’annuncio del coprifuoco rende necessario mettere in sicurezza il quartiere. 

Spesso criminali si infiltrano all’interno di questi gruppi spontanei della società civile. L’immensa Gamat al Duwal è attraversata in lungo e in largo da ruspe dell’esercito. «Ho visto salire gruppi di Fratelli musulmani in alcuni palazzi perché avevano paura. 

Ho trascorso con loro la notte, avevano con sé soltanto bottiglie molotov, pietre e fionde», ci spiega Khaled, fotografo di Youm El-Saba. 

Ma le violenze sono scoppiate anche fuori dal Cairo. «Ci hanno detto che i Fratelli hanno iniziato ad attaccare dovunque e hanno tentato di forzare l’ingresso della Biblioteca di Alessandria», ci spiega l’attivista Mahie Masry. Gravissimi scontri hanno avuto luogo anche a Ismailia dove sono morte oltre 15 persone negli attacchi della polizia. 



Mentre nelle violenze a Fayoum e Suez hanno perso la vita rispettivamente 17 e cinque persone: un bilancio ancora da confermare. Non solo: sono state date alle fiamme le chiese di Sohag nell’Alto Egitto e Suez. 
Era la notte tra martedì e mercoledì, quando fonti dei Fratelli musulmani parlavano di poliziotti in borghese che si avvicinavano agli accampamenti di Nahda, a Giza. 

Poco lontano erano scoppiati scontri alla metro Faysal dove ha perso la vita un islamista e altri 10 sono rimasti feriti. A quel punto sono partiti almeno otto cortei dalla moschea Salam di Medinat Nassr, Quds di Ein Shams, el Aziz Belah di Zeitun, Soheib di Sharabeya. 

Le comunicazioni che abbiamo ricevuto dalla Fratellanza sono diventate concitate, «confidiamo in dio», «impediscono alle ambulanze di raggiungere Rabaa», «donne e bambini feriti non possono uscire dal sit-in», «le forze di sicurezza hanno attaccato l’ospedale da campo e trasportano fuori i cadaveri». 

E poi le terribili notizie di Habiba, la giovane attivista del movimento che ci ha spesso accolto nelle nostre visite a Rabaa e del cameramen inglese di Skynews Michael Dean, uccisi nello sgombero forzoso. 
A questo punto le comunicazioni si interrompono, i Fratelli parlano di quasi duemila morti, mentre il ministero della Salute conta 150 caduti e oltre mille feriti. 

Il violento sgombero di Rabaa el-Adaweya ha riportato il terrore e la violenza nelle strade egiziane. Un bagno di sangue che l’esercito avrebbe dovuto fermamente evitare. 

Invece ha imposto il coprifuoco dalle 7 di sera alle 6 di mattina per almeno un mese. 
E così, assicurati dai cordoni della polizia, le centinaia di migliaia di persone che per oltre 40 giorni hanno occupato piazza Rabaa al Adaweya defluiscono lentamente. 

A sera piazza Rabaa è sotto totale controllo della polizia.



 LA SOLIDARIETA' SI E' SUBITO ATTIVATA IN BOLIVIA 

Le parole del Presidente Evo Morales mostrano il sincero dolore per i fatti accaduti dopo il golpe dei militari in Egitto

www.facebook.com/

-Il Presidente boliviano condanna il 'genocidio' in Egitto-

Il Presidente boliviano Evo Morales, ha descritto come "genocidio" la violenza in Egitto, che ha lasciato a terra centinaia di morti venerdì negli scontri tra le forze di sicurezza e i sostenitori del presidente deposto, Mohamad Mursi.

"Sono personalmente sorpreso, come è possibile che si possa una tale  strage, un vero massacro di uomini e donne(...) "è un genocidio e in questi giorni, non si può accettare il genocidio (...) condanniamo, respingiamo questa crudeltà e lo condanniamo a titolo definitivo", ha detto il Presidente.

"Non è possibile che in alcun paesi gli imperi  incoraggino questo tipo di genocidio", ha detto Morales, insinuando che negli Stati Uniti sono i promotori della crisi politica in Egitto.

In precedenza, il Ministero degli esteri Boliviano aveva espresso preoccupazione circa la violenza in Egitto, criticando "quei paesi che non hanno fatto altro che aggravare la crisi politica, sostenendo un governo de facto, che non hanno rispettato il voto democratico del popolo egiziano, e  hannp optato per il massacro nelle strade".

"Prima degli eventi sfortunati che sono stati sviluppati nella Repubblica araba d'Egitto, il governo boliviano e la gente, sono scesi in difesa della vita, dei diritti umani e della pace, esprimendo la loro profonda preoccupazione per l'aggravarsi della crisi in quel paese fraterno e tornare a votare al più presto per il bene l'Egitto, affinché si continui una convivenza pacifica" ha detto in un comunicato del Ministero degli esteri boliviano.

"Lo Stato plurinazionale della Bolivia rifiuta qualsiasi azione interventista (...) e pubblicamente sostiene  e intensifica tutti gli sforzi volti al ripristino della democrazia e allo stato di diritto, " secondo il comunicato pubblicato  venerdì.


La situazione peggiora sempre più in Egitto; gli scontri tra le forze di sicurezza e i sostenitori del deposto presidente, Mohamad Mursi,  nel giorno della "Rabbia di venerdì", ha lasciato 173 morti e 1330 feriti in tutto il paese, come  ha riportato sabato il ministero egiziano della salute.

MICHELA MURGIA VA ALLA GUERRA....


... nell'articolo , Michela Murgia parla a tutto campo, espone la sua maestria nel dare risposte chiare e consone al dibattito sulle elezioni prossime venture in Sardinya, da risposte da persona che ha le giuste competenze e conoscenze, sia sul territorio che sulla politica che ivi è svolta, ha idee chiare anche sui vari puscher italioti traditori delle istanze del popolo sardo; 

è consapevole della situazione politica dei vari movimenti indipendentisti, e sulla fatica che  hanno nel far collimare idee su un progetto comune, difficoltà spesso dettate da visioni ideologiche o economiche e sociali, diverse espressioni di eredità insite in ogni movimento, gruppo o soggettività, indipendentista sarda; 

questa differenza nei metodi e nelle idee si esprimono come un ribolloio simile ad  una pentola a pressione che sbuffa in continuazione finchè non è pronta all'eruzione, così è l'indipendentismo sardo... 

una moltitudine di soggetti ed un turbinare di idee che si incontrano e scontrano a tal punto che hanno difficoltà nell'associarsi assieme,  proprio perché spesso troppo lontani nelle loro visioni dall'altra da riflettere quasi posizioni  manichee , che dimostrano la nullità di certe affermazioni superficiali che non possono essere è l'idea che ci rappresenta , perciò  l'espressione non consona della supremazia di un unico leader di partito: quello fascista, non può assolutamente rappresentarci... 

Michela per questo, motivo suddetto, deve stare attenta all'uso delle parole poiché esse pesano come macigni, e, proprio per non inciampare sulla via di Damasco, suggeriamo di essere più flessibile,  empatica, e attenta all'uso della "spada" linguistica,  nei confronti dei fratelli indipendentisti.

Sa Defenza






Michela Murgia va alla guerra: «Pd e Pdl sono nemici dei sardi»


di GIORGIO PISANO
www.unionesarda.it/

Un merito bisogna riconoscerglielo: ha dato del vecchio bavoso a Bruno Vespa in diretta televisiva. Non bastasse, ha depenalizzato l'età anagrafica dividendo gli uomini in smaterassabili e non, indipendentemente dall'età. Si è presa, insomma, molte soddisfazioni utilizzando al meglio il suo ruolo pubblico: scrittrice di successo. Grande successo, visto che figura tra le prime dieci firme italiane. Adesso punta a diventare presidente della Regione. Quarantun anni, cabrarese, figlia di un bigliettaio dell'Arst, Michela Murgia riesce a pronunciare giudizi al vetriolo senza salire mai di tono e incorniciandoli sempre da un bellissimo sorriso. Qualche cattiveria sul suo conto circola ma ha la capacità di neutralizzarla con la forza di chi non ha scheletri da nascondere. Matricola della politica, è la novità delle elezioni regionali 2014.
L'ha capita la differenza tra sovranisti e indipendentisti?«Non ho capito cosa voglia dire sovranismo: è un oggetto politico non identificato, è la sigaretta elettronica del sardismo, un paravento di parole».
Perché l'ha fatto?«Perché appartengo ad una generazione cresciuta nel mito della sistemazione, del raggiungimento di piccoli obiettivi e quando credi d'esserti sistemato ti accorgi che in realtà non c'è nulla a posto».
Controindicazioni?«Sono abituata ad essere esposta all'esame dell'opinione pubblica. Ho messo in conto di poter risultare anche antipatica».
Che lista è la sua: destra, sinistra o cosa?«È una lista di sardi radunati intorno a un progetto: abbiamo intenzione di dare vita a cose che non ha fatto la destra e nemmeno la sinistra. Pd e Pdl sono stati avversari degli interessi dei sardi. Sul caso-Quirra hanno addirittura presentato ordini del giorno che parevano in fotocopia».
Quindi voi giocate nel ruolo di libero.«Sì, ma un libero aperto. Sono loro che hanno problemi di vincoli. Pd e Pdl hanno fatto emergere un elettorato che è stanco dei loro sistemi. Un elettorato di stanchezza e di rabbia».
I Cinque Stelle.«Di questo parlavo. L'importante è che stanchezza e rabbia diano poi vita ad un progetto concreto. Nei confronti dei 5 Stelle siamo aperti a ipotesi comuni».
Correrete da soli?«Avremo una coalizione di più liste. Le stiamo costruendo».
Nel centrosinistra gravitano già Psd'Az e Partito dei sardi.«Il Psd'Az non mi stupisce: abbiamo fatto l'abitudine al salto della quaglia dei sardisti. Tant'è che non sono del tutto sicura che resteranno nel centrosinistra. Per quanto riguarda il Partito dei sardi, resto invece interdetta: l'autodeterminazione non può passare attraverso le decisioni delle segreterie romane».
Ha scelto di candidarsi perché, qui e subito, bisogna sporcarsi le mani?«Ci si sporca di più a stare a guardare. C'è maggiore responsabilità in chi si limita a lamentarsi, a dire che fanno tutti schifo, eccetera eccetera».
Franciscu Sedda, padre fondatore di Progres, vi ha mollato.«Ha fatto altre scelte. Franciscu è un uomo che ho stimato...»
...passato prossimo.«Difatti ho detto che ho stimato. Non riesco a capire il calcolo che ci sia dietro questa scelta. Cioè non capisco perché il Partito dei sardi. Eppoi, anche la compagnia mi sembra scelta male. Paolo Maninchedda è un indeciso a tempo pieno: ieri democristiano, poi con Soru, poi sardista e ora con Sedda».
Veleni: Murgia è entrata in politica per assicurarsi un futuro che i romanzi non danno.«Se c'è qualcuno che in Sardegna ha questo dubbio, nella mia casa editrice pensano, al contrario, che io sia scema perché ho deciso di fare politica anziché sfornare un libro l'anno».
Luoghi comuni: lei crede sul serio che i sardi non siano imprenditori per colpa di un infame destino?«Credo, più semplicemente, che non siamo peggiori di altri. Basta metterci alla prova. Bisogna apparire sull'Economist per essere considerati buoni imprenditori?»
Un imprenditore sardo di qualità?«Daniela Ducato. Straordinaria: ha messo insieme 250 aziende che producono materiali particolari per l'edilizia. Ha immaginato un'economia che partisse da qui, utilizzato risorse che sempre qui erano considerate di scarto».
Arcipelago indipendentista: dodici sigle.«Considero un po' fascista questa ossessione dell'unità degli indipendentisti, del partito unico. L'autodeterminazione della Sardegna merita una molteplicità di sguardi e di approcci. Le differenze sono una ricchezza. Non capisco dunque perché agli indipendentisti si chieda fronte comune, magari come quello che a livello nazionale hanno fatto Pd e Pdl».
Veleni bis: dietro i vari movimenti indipendentisti ci sono vanità private di aspiranti leader.«Non sono d'accordo. In Progres abbiamo avuto una scissione durissima tre anni fa proprio per democratizzare il partito, per liberarci dai verticismi personali».
All'indipendenza come volete arrivare, con una delibera regionale?«L'indipendenza è un percorso lungo. Tanto per cominciare, iniziamo a porre le pietre miliari. È importante che uno di noi diventi presidente perché chi crede nell'indipendenza si muoverebbe su questa rotta anche nelle scelte quotidiane, quelle di ordinaria amministrazione».
Dev'esserci una rivoluzione culturale insomma?«Certo. All'indipendenza i sardi arriveranno quando crederanno sia il momento giusto. Nel frattempo però è giusto che assaggino un po' di libertà, quella che non gli hanno dato Pd e Pdl».
Dicono abbia già una giunta in tasca.«L'avrò a breve. A metà autunno faremo i nomi degli assessori e allora si scoprirà che non puntiamo ad un uomo solo al comando per attraversare il mar Rosso. Sarà una squadra a guidare questo cammino».
La Sardegna vive di Stato e voi volete staccarla dall'Italia.«Vive di Stato è un'espressione opinabile, mi pare che le pensioni siano pagate con i contributi versati dai lavoratori sardi. Quest'idea che la Sardegna prenda la paghetta dallo Stato è falsa: non ci vengono restituite neppure le entrate che ci spettano per Statuto. La Sardegna non è povera ma impoverita».
Il complottismo è una malattia infantile della politica sarda?«In realtà appartiene alla manìa da retroscenismo che ha solo la stampa italiana».
Invidia il dono dell'ubiquità dell'onorevole Mauro Pili?«Politicamente non ho stima di Pili. Ma se l'accusa è quella di esserci dove c'è un bisogno, avercene di Mauro Pili».
Cosa salva, cosa boccia della Sardegna d'oggi?«Possiamo riscrivere la nostra storia puntando su istruzione, agri-cultura e nuove tecnologie. Questa non è una terra dove non si può fare industria pesante: andare e tornare dalla penisola ci costa troppo. Ammiro la tenacia di tanti, detesto il senso di resa di altri».
La giunta regionale: valutazione.«Dobbiamo andarne fieri, sarà un esempio di come non si deve amministrare. È una sintesi di interessi privati all'ennesima potenza, incapacità e cedimenti a decisioni eterodirette. Burattinismo».
Opposizione?«Sarà studiata anche l'opposizione. Quando Cappellacci dice che non s'è accorto d'averla in Aula, ha ragione. Fatta esclusione di alcune voci libere, come quella di Claudia Zuncheddu, tutti allineati e coperti».
A proposito di Cappellacci: dice che la Regione ha bisogno di competenza, non di scrittori.«Mi sento più utile a fare in modo che lui, o altri come lui, non governino più la nostra terra. In questo momento è più importante occuparsi del futuro della Sardegna che scrivere l'ennesimo romanzo. C'è tanta gente che scrive, serve altro adesso».
pisano@unionesarda.it

segue dibattito:


A PROPOSITO DELL'INTERVISTA DI MICHELA MURGIA SULL'UNIONE SARDA

Anghelu Marras

Alla domanda del giornalista sulle 12 sigle dell'arcipelago indipendentista, la Murgia risponde:

"Considero un po fascista questa ossessione dell'unità degli indipendentisti, del partito unico. L'autodeterminazione della Sardegna merita una molteplicità di sguardi e di approcci. Le differenze sono una ricchezza. Non capisco perché dunque agli indipendentisti si chieda fronte comune, magari come quello che a livello nazionale hanno fatto Pd e Pdl": (Intervista a Michela Murgia, Unione Sarda, 17 Agosto 2013).

Michè, l'essere considerata una "buona penna" non ti autorizza a strafare con la tua nota padronanza del linguaggio, ne a giocare con le parole. Non siamo mica dentro un romanzo. No? Infatti, nell'intervista, finisci con l'essere ambigua e a non riesci a dire concretamente quello che probabilmente, pensi nel tuo intimo e nella tua strategia politica. Questo pensiero (aldilà e aldisopra dell' intervista) appare come "un colpo al cerchio e un colpo alla botte" verso gli indipendentisti e verso i tuoi "avversari" naturali. Da un lato verso il Pd e Pdl, che auspicano il confronto per grandi coalizioni e dall'altro verso coloro (mi annovero anch'io in questa seconda schiera) che auspica l'unità del Movimento indipendentista. INSOMMA QUANDO PARLI DI INDIPENDENTISTI NON SEI AUTORIZZATA AD ABUSARE DI UN TERMINE COSI' PESANTE COME "FASCISTA"-

Poi, "fascista" che cosa significa nel tuo immaginario e che cosa "ci azzecca" con gli indipendentisti? Intendevi dire, forse, che il processo di aggregazione dei partiti nella "riforma" del bipolarismo lo consideri un processo autoritario, anzi fascista? Cioè che gli ignobili figuri che hanno dato vita alla seconda repubblica sono dei fascisti? IN QUESTO CASO SAREI D'ACCORDO CON TE. Ma che cosa c'entrano gli indipendentisti che pure vanno strenuamente cercando una convergenza su tot punti di un programma di trasformazione delle relazioni politiche ed economiche nella e della Sardegna?

Credo che questo aspetto tu lo debba chiarire ulteriormente e pubblicamente.

sabato 17 agosto 2013

PRONTO UN DRONE PER QUALSIASI OPPOSIZIONE IN ATTESA DELLA "LIBERAZIONE"

PRONTO UN DRONE PER QUALSIASI OPPOSIZIONE IN ATTESA DELLA "LIBERAZIONE"


Per i prossimi due anni pare che ci sia un copione già scritto. Nel 2015, alle settantenarie della liberazione dell'Europa dal nazismo, gli USA arriveranno nuovamente a "liberare" l'Europa dall'attuale oppressione tedesca, grazie all'instaurazione del TTIP, il mercato transatlantico o "NATO economica", che comporterà probabilmente un aggancio delle valute europee al dollaro. 

In un certo senso è vero che la Storia si ripete, poiché, dopo la caduta del Muro di Berlino, la Germania del cancelliere Helmut Kohl effettivamente riprese il sogno hitleriano - illustrato nel "Mein Kampf" - di un sub-imperialismo tedesco in Europa dell'Est all'ombra del super-imperialismo anglosassone. Ma è destino dei sub-imperialismi subire cicliche umiliazioni da parte della razza superiore. 
In attesa della nuova "Liberazione" di marca USA, la politica interna ai Paesi europei può incaricarsi di gestire l'agonia dell'euro. 


Ciò, ovviamente con il concorso delle cosiddette "opposizioni". Il totalitarismo occidentale si basa da sempre sul controllo delle "opposizioni", opportunamente addomesticate ed etero-dirette per diventare altrettante riconferme del sistema e della propaganda vigente. Del resto sarebbe strano che uno Stato che ti organizza Guantanamo, Abu Ghraib, le "rendition", la "Kill List", i droni assassini e lo spionaggio a tappeto sui propri cittadini, poi permettesse ai suoi Paesi sudditi di regolarsi diversamente. Non c'è da stupirsi allora che nella sua recente intervista rilasciata a "Bloomberg Businessweek" il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, ci informi che il problema principale non è l'euro, ma "il problema è il debito". 

Si tratta dell'identico slogan che ci venne propinato dai media alla fine del 2011 per giustificare l'emergenza finanziaria da far gestire al governo Monti. La stessa frase fu ripetuta con molto sussiego da Vittorio Feltri in una trasmissione televisiva del novembre 2011, per tacitare le tesi dei soliti "complottisti". 
Il feeling di Grillo con la stampa estera è già di per sé sospetto, poiché difficilmente gli si darebbe spazio per dire cose imbarazzanti per il dominio coloniale. 


A riconferma del ruolo dell'oppositore che non si oppone, Grillo infatti non ha avuto niente da obiettare neppure ad una considerazione del suo intervistatore, secondo il quale il debito pubblico italiano sarebbe stato contratto per pagare le pensioni. Anzi, Grillo ribadisce il concetto, rilanciando la fiaba dell'emergenza pensionistica causata da una popolazione che invecchia a fronte di giovani generazioni che non trovano lavoro. 

La costante di tutte le "fintopposizioni" sta in questo declinare all'infinito lo slogan del Fondo Monetario Internazionale del "Paese che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi" per l'avidità dei poveri, talmente insaziabili da farsi la guerra anche fra loro. Meno male che ci sono i ricchi per rimettere i poveri in riga, ovviamente per il loro bene. Già negli insospettabili anni '70, alcune riviste "teoriche" della estrema sinistra ci raccontavano che la crisi del capitalismo era dovuta agli aumenti salariali ed all'espansione dello Stato sociale. 


Mentre la fiaba ufficiale narra che lo Stato si è svenato per accontentare i pensionati, la cronaca dice invece che lo Stato ha sempre considerato la previdenza come una riserva fiscale. Tra l'altro come datore di lavoro lo Stato è ilmaggiore evasore contributivo; e se questo non è reato, è perchè il reato è stato depenalizzato da un'apposita legge. 



Da quando ha assorbito l'INPDAP, l'INPS è diventato uno dei maggiori proprietari immobiliari in Italia, e la dismissione di questo patrimonio costituisce un business per agenzie private come la Romeo Gestioni. Ma nulla garantisce che il margine di guadagno che dovrebbe rimanere all'INPS non venga assorbito dal bilancio dello Stato. 



Sebbene ci abbiano sempre detto che il problema era il debito e che non bisognava fare più debiti, pochi giorni fa il debito pubblico ha toccato un nuovo record. In questa crescita del debito c'è da valutare non il presunto costo delle pensioni, ma il sempre maggiore costo-Europa. L'Italia ha versato sinora quasi sessanta miliardi alle varie istituzioni europee, tra le quali il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), una cupola finanziaria che ha preteso di garantirsi anche una completa immunità giudiziaria, segno che di reati ne vuole commettere parecchi. L'Italia contribuisce all'ESM per una quota di quasi il 18%, che corrisponde ad un capitale di oltre centoventicinque miliardi di euro. L'ultima tranche di pagamento della tangente all'ESM è stata di quasi tre miliardi. 



Insomma, i pensionati non c'entrano. C'entra forse l'assistenzialismo per banchieri? Sì, eccome. Nel giugno scorso si è deciso che l'ESM contribuirà alla ricapitalizzazione delle banche europee con sessanta miliardi di euro. Si pagano sempre più tasse per versare sempre più elemosina ai ricchi. 
La banca europea che presenta le maggiori perdite non è il Monte dei Paschi di Siena, ma Deutsche Bank, con un buco quantificato (per ora!) a dodici miliardi. Si è detto che Deutsche Bank avesse nascosto la perdita per evitare un salvataggio da parte del governo (la "virtù" tedesca!), ma ora il salvataggio appare inevitabile, e l'ESM esiste per questo. 


Cifre del genere rendono marginali questioni come i rimborsi elettorali e fanno risultare futili i "Restitution Day". Ma ad una "opposizione di Sua Maestà" di un Paese colonizzato non è concesso di andare oltre l'evocazione di quel fantasma reazionario ed autorazzistico che è la "onestocrazia". Nel 1976 anche Enrico Berlinguer abbandonò il socialismo in nome dello slogan del "governo degli onesti". E, per quanto oggi possa sembrare assurdo, persino il Buffone di Arcore nel 1994 cavalcò un'ondata "moralizzatrice" che auspicava l'avvento al potere di un uomo ricco, che quindi non avesse bisogno di rubare. Ciò a riconferma del pregiudizio secondo cui la minaccia proviene sempre dai poveri, che quelle poche volte che non sono avidi poi si dimostrano pericolosi fanatici. 



In un altro punto dell'intervista Grillo si spinge sino ad ammettere che se l'Italia avesse una sovranità monetaria potrebbe gestire meglio la questione del debito, ma poi rimanda ogni decisione sull'euro ad un referendum, rispetto al quale non darebbe indicazioni di voto, poiché, secondo lui non è compito di un politico dare indicazioni. E di chi allora? 
Grillo è fatto spesso oggetto di attacchi pretestuosi per la mancanza di "democrazia" interna al suo movimento. Le critiche provengono magari dagli stessi commentatori che non avevano nulla da eccepire sulle autocrazie della Lega e del PdL; però, nonostante la sua inconsistenza, questo tipo di critiche costituisce per Grillo una sorta di ombrello protettivo contro le obiezioni più pertinenti al suo comportamento, che vengono oscurate dalla confusione mediatica. Quindi ci vorrà ancora parecchio tempo prima che si cominci ad ammettere che Beppe Grillo non è più quello che conoscevamo dieci anni fa, ma un uomo intimidito, ricattato e minacciato.



Che queste minacce esistano vi è qualche indizio. In un'intervista del marzo scorso al quotidiano "Live Sicilia", il governatore Rosario Crocetta dichiarava che attorno all'impianto MUOS di Sigonella si muovevano gli stessi interessi che avevano portato all'eliminazione di Enrico Mattei. In pratica Crocetta faceva sapere di temere per la propria vita. 



Forse Crocetta si illudeva di riscuotere un moto di solidarietà attorno alla sua persona minacciata per la difesa del suolo siciliano dall'invasione USA. Invece niente. Crocetta riscosse soltanto le irrisioni della stampa di destra, mentre dalla "opposizione" nessuno rilanciò la notizia dei timori del governatore per la propria vita. Come sorprendersi allora che Crocetta sia diventato un sostenitore entusiasta del MUOS, e che in un'intervista ai media statunitensi ci abbia ricordato che sono stati gli Americani a "liberarci"?



Nel suo nuovo entusiasmo filoamericano, Crocetta non si è ricordato della strage di prigionieri italiani avvenuta nel 1943 in Sicilia, a Biscari, da parte delle truppe statunitensi del generale Patton. Oppure se n'è ricordato sin troppo, visto il suo comportamento attuale? 


Ora Crocetta dice che il MUOS serve alla pace, e accusa persino il movimento No-MUOS di essere infiltrato dalla mafia. Insomma, il MUOS non inquina (anzi, fa bene alla salute), non è affatto un'arma ambientale ad onde elettromagnetiche (lo HAARP italiano), ma serve solo per difenderci dalla "invasione islamica". Il fisico Antonino Zichichi ha dichiarato che il MUOS servirà persino a difenderci da impatti di asteroidi, e magari pure dalle astronavi aliene. Però non è servito a difendere Crocetta dalla prospettiva di ricevere la visita di un drone di Obama. 

Certo, oggi è facile dare del traditore e del buffone a Crocetta, però a marzo si sarebbe anche potuto dare più risonanza ai suoi timori di essere eliminato dagli USA. Allora ci si sarebbe presi l'epiteto di "complottista", ma sarebbe stato comunque meglio che prendersi l'etichetta di mafioso adesso.

venerdì 16 agosto 2013

L’individuo e lo Stato, ajnas pro sa debata tra indipendentistas

AJNAS PRO SA DEBATA INTRA IS INDIPENDENTISTAS 

Emus a si domandare a ita serbit su statu e cali est su valore chi si depit biri e aplicai in issu.. po gherrare e tenni beni a menti ta est su printzipiu chi si movit a fai rivolutzioni ....

custu est unu estratu de su filosufu Hegel , abbisongiat chi nosus ndi faedhaus e si poneus a fai unu isfortzu mannu pro allargai sa noshta menti et nci ponit innantis su pentzieru chi nosus totus patriotas si depeus ponner, po sa debata in su movimentu indipendentista totu , de is partidus a is sogetus assolus a totu s'area chi circula a tundu aintru, cun sa prospetiva de fai sa costitutzioni de su statu sardu.

nci funt fintzas ateras ideas de sa etica de su statu.. cument scireis, chi poteus fai sa chirca e ddu ponni a dispositzioni, fadeidhu sempri po cresci e tenni contu de totus.

sa defenza

L’individuo e lo Stato
Georg Wilhelm Friedrich Hegel

lezionifilosofia-files/Wilhelm-Hegel


Secondo Hegel, lo Stato è il momento più elevato dell’«eticità», la suprema determinazione dello spirito oggettivo. 

Egli pensa allo Stato moderno, da lui inteso come un organismo, una «totalità etica», nel quale libertà individuale e senso di appartenenza al tutto trovano una sintesi: da una parte, lo Stato garantisce il diritto alla proprietà e alla libertà individuale, dall’altro esprime, tramite le leggi, la volontà universale, nella quale i cittadini si devono riconoscere. 

Nel sentirsi attivamente componente dello Stato, infatti, nel comprendere che il bene della totalità è la condizione per la realizzazione del proprio bene gli individui realizzano, contemporaneamente, il loro dovere e la loro vera libertà. 

Proprio perché incarna la suprema istanza etica, che tutela, ma al tempo stesso, trascende l’interesse dei singoli, lo Stato non può nascere da un contratto tra individui che, esercitando il loro arbitrio, si accordano per tutelare la vita e la proprietà. 

Per questo Hegel critica i contrattualisti, che, a parer suo, confondono lo Stato con la società civile: scopo della società civile è garantire l’ordinato perseguimento degli interessi particolari, scopo dello Stato è realizzare la superiore unità etica tra i cittadini. 

Dunque, secondo Hegel, la «libertà sostanziale» o «concreta», che l’individuo realizza nel sentire lo Stato come il suo fine, non ha nulla a che vedere con la libertà intesa come indipendenza, arbitrio, autonomia d’azione: l’individuo è libero quando sente di appartenere a un’«entità superiore» per la quale, se è il caso (come avviene in guerra), deve essere pronto a sacrificare la vita e tutto ciò che possiede. 

Per agevolare la comprensione di questo aspetto del pensiero hegeliano proponiamo due scelte di testi di epoca differente. 

La prima scelta è tratta dagli appunti redatti da Hegel per un corso di «propedeutica filosofica» tenuto al Ginnasio di Norimberga nel 1810, rivolto alla classe inferiore e dedicato alla «Dottrina del diritto, dei doveri e della religione»: dalla seconda sezione di questo corso proponiamo i paragrafi relativi ai «doveri verso lo Stato», nei quali, con linguaggio semplice e chiaro, Hegel presenta alcune delle sue idee fondamentali sul rapporto tra individui e Stato. 

Queste idee trovano uno sviluppo definitivo nell’opera maggiore del 1821, i Lineamenti di filosofia del diritto, un manuale scritto da Hegel per i corsi all’Università di Berlino: da quest’ultima opera proponiamo tre paragrafi, in cui troviamo riformulati, in un linguaggio più complesso, i temi del 1810.

I doveri verso lo Stato (dalla Propedeutica filosofica)

Lo Stato impone doveri, ma ha bisogno che essi  siano riconosciuti dai cittadini  

§ 53. L’intero naturale, che costituisce la famiglia, si allarga ad intero di un popolo e di uno Stato, in cui gli individui per sé hanno una volontà autonoma. Spiegazione. 

Lo Stato, per un verso, mira a poter fare a meno del modo di sentire dei cittadini, in quanto appunto deve rendersi indipendente dalla volontà dei singoli. 

Ai singoli esso quindi prescrive minuziosamente i loro obblighi, cioè la parte di prestazione che devono compiere per l’intero. Non può fare affidamento sul mero modo di sentire, poiché questo può benissimo essere egoistico e contrapporsi all’interesse dello Stato. 

Lo Stato, su questa strada, diventa una macchina, un sistema di dipendenze esterne. 

Ma per un altro verso esso del modo di sentire dei cittadini non può fare a meno. La prescrizione del governo può contenere solo l’universale. 

L’azione effettiva, l’adempimento dei fini dello Stato, contiene invece i modi particolari dell’agire efficace. 

Quest’ultimo può scaturire solamente dall’intelletto individuale, dal modo di sentire dell’uomo. 


Lo Stato rappresenta il modo di sentire e di pensare universale 

§ 54. Lo Stato non soltanto comprende la società sotto rapporti giuridici, ma, come un corpo comune morale veramente superiore, media l’unità nei costumi, nella cultura e nell’universale modo di pensare e di agire (in quanto ognuno spiritualmente intuisce e riconosce, nell’altro, la sua propria universalità). 


La conservazione del’intero precede la conservazione del singolo 

§ 55. Nello spirito di un popolo ogni singolo cittadino ha la propria sostanza spirituale. 

La conservazione dei singoli non è fondata soltanto sulla conservazione di questo vivente intero, ma è esso a costituire l’universale natura spirituale o l’essenza di ognuno, di fronte alla singolarità di costui. 

La conservazione dell’intero ha quindi la precedenza sulla conservazione del singolo, e tutti devono avere un tale modo di sentire. 


Il patriottismo non si fonda su un calcolo di opportunità, ma sulla considerazione dello Stato come fine assoluto 

§ 56. Sotto il semplice profilo giuridico, in quanto lo Stato protegge i diritti privati dei singoli, e il singolo guarda in primo luogo a ciò che è suo, è ben possibile, nei confronti dello Stato, che si sacrifichi una parte della proprietà per conservare la parte che resta. 

Il patriottismo però non si fonda su questo calcolo, bensì sulla coscienza dell’assolutezza dello Stato. 

Questo modo di sentire, per cui per l’intero si sacrifica proprietà e vita, è tanto più grande, in un popolo, quanto più i singoli possono operare per l’intero con volontà propria e autonoma attività, e quanto maggiore è la fiducia che hanno in esso1 . […] 


Le virtù del cittadino 

§ 57. Il sentimento dell’obbedienza verso i comandi del governo, dell’attaccamento alla persona del principe e all’ordinamento politico, e il senso dell’onore nazionale sono le virtù del cittadino di ogni Stato ordinato. 


Lo Stato non si fonda su un contratto 

§ 58. Lo Stato non si fonda su un esplicito contratto di uno con tutti e di tutti con uno, o del singolo e del governo tra loro, e la volontà generale dell’intero non è l’esprimentesi volontà dei singoli, bensì è la volontà assolutamente universale, in sé e per sé vincolante per i singoli. 

Lo Stato e la libertà sostanziale (dai Lineamenti di filosofia del diritto) 


Tramite l’adesione al costume l’individuo riconosce consapevolmente 
la propria adesione allo Stato, la volontà sostanziale

§ 257. Lo Stato è la realtà dell’Idea etica

Esso è lo Spirito etico in quanto volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, volontà che si pensa e si sa, e che porta a compimento ciò che sa e nella misura in cui lo sa. Nell’ethos, lo Stato ha la propria esistenza immediata. 

Nell’autocoscienza del singolo, nel sapere e nell’attività del singolo, lo Stato ha invece la propria esistenza mediata. 

Da parte sua, mediante la predisposizione spirituale, l’autocoscienza ha la propria 

Libertà sostanziale nello Stato come nella propria Essenza, come nel fine e nel prodotto della propria attività. […] 


Lo Stato è il razionale in sé e per sé e il dovere degli individui è sentirsi un loro 
membro

§ 258. Lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, ha questa realtà nell’autocoscienza particolare che si è elevata fino alla propria universalità. In tal senso, lo Stato è il Razionale in sé e per sé. 

Ora, questa unità sostanziale è autofinalità assoluta e immobile nella quale la Libertà perviene al suo diritto supremo; analogamente, questo fine ultimo ha il supremo diritto nei confronti dei singoli. 

I singoli, a loro volta, hanno il dovere supremo di essere membri dello Stato. 


Se si confonde lo Stato con la società civile si crede che esso nasca da un contratto arbitrario

Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale. 


L’individuo deve riconoscere la comunità statale come suo fine ultimo, la sua vera sostanza

Lo Stato ha invece un rapporto completamente diverso con l’individuo. Lo Stato, infatti, è Spirito oggettivo, e l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità solo in quanto è un membro dello Stato. 

L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido 2 . […] 


La libertà concreta consiste nel considerare i propri interessi in armonia con
l’interesse dell’«universale», lo Stato

§ 260. Lo Stato è la realtà della Libertà concreta. 

Ora, la Libertà concreta consiste nel fatto che la singolarità personale e i suoi interessi particolari, per un verso, hanno il loro sviluppo completo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile); per altro verso, invece, essi in parte passano da se stessi nell’interesse dell’universale, e in parte, con il loro sapere e volere, riconoscono l’universale stesso: precisamente, lo riconoscono come loro proprio Spirito sostanziale, e sono attivi in vista di esso come in vista del loro fine ultimo. 

In questo senso, l’universale non vale e non viene compiuto senza l’interesse, il sapere e il volere particolari, né gli individui vivono come mere persone private in vista di questo interesse particolare: essi, piuttosto, vogliono a un tempo nel e in vista dell’universale, e hanno un’attività consapevolmente rivolta a questo fine. 


Negli Stati moderni si attua la sintesi tra libertà e senso di appartenenza 
allo Stato 

Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità: esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e, ad un tempo, lo riconduce nell’unità sostanziale, conservando così quest’ultima in quel principio stesso. 


note

1. Al tema del «patriottismo» e della «fiducia» nello Stato come fondamentale «disposizione d’animo» del cittadino Hegel dedica il § 268 dei Lineamenti di filosofia del diritto. 

2. A questo riguardo è di particolare rilievo un’annotazione di Hegel, contenuta nel successivo § 324, in cui egli critica il punto di vista di Cesare Beccaria sulla pena di morte [ Vol. B, Lezione 4]. Secondo Beccaria, sottoscrivendo il contratto sociale un individuo non cede allo Stato il diritto di togliergli la vita. Ecco cosa gli risponde Hegel: «Beccaria, com’è noto, non ha riconosciuto allo Stato il diritto alla pena di morte, e lo ha fatto su questo fondamento: non si può presumere che nel contratto sociale sia contenuto il consenso degli individui a farsi uccidere, anzi, bisogna presumere piuttosto il contrario. Ora, però, lo Stato non è in generale un contratto […], né la sua essenza sostanziale consiste nel proteggere e assicurare in modo così incondizionato la vita e la proprietà dei singoli individui. Lo Stato è piuttosto la cosa più alta, la quale rivendica a sé anche questa stessa vita e proprietà e ne esige il sacrificio».

giovedì 15 agosto 2013

LE RAGIONI DELL'INDIPENDENTISMO, AJNAS PRO SA DEBATA...

AJNAS PRO SA DEBATA INTRA IS INDIPENDENTISTAS 
Sa Defenza


LE RAGIONI DELL'INDIPENDENTISMO

IL DISEGNO DI SNAZIONALIZZAZIONE DEL POPOLO SARDO 

Antonio Simon-Mossa 
emigratisardi.com

 Se un popolo non conquista la sua indipendenza politica non può essere soggetto della sua storia, ma resterà ai margini della storia di quella nazione che lo avrà vinto e dominato. 

E se un popolo dovrà risorgere dal limbo nel quale si trova dovrà avere il suo «Stato». 

 Con la conquista dell’indipendenza il popolo sardo po­trà costituire il suo Stato che avrà i poteri per promuo­vere il processo di riscatto e di evoluzione economico-­sociale oggi impossibile, in quanto soggetto ad altra potenza che non mostra alcun interesse né alcuna buona volontà per dare alla Sardegna il posto che le compete per ragioni storiche, geografiche, etniche nel consorzio dei popoli liberi. 

 Nei duecentocinquanta anni di dominio piemon­tese e italiano la volontà di trarre la Sardegna dalle sue condizioni di arretratezza e di miseria non si è mai manifestata. 

Al contrario il processo di assimilazione, di snazionalizzazione, di spersonalizzazione del popolo sar­do si é gradatamente accentuato. 

 La concessione di una autonomia formale, che in realtà non è che un debole decentramento amministrativo, ha creato nell’ultimo ventennio in Sardegna una condizione di disagio gene­rale e uno stato di confusione tale che il risultato è stato quello di una caduta economica inarrestabile, con il fe­nomeno dell’abbandono sempre crescente delle campa­gne, la diminuzione dei posti di lavoro (nonostante i notevoli insedíamentí industriali), il fenomeno di una emigrazione crescente delle giovani forze di lavoro, lo stentato e inadeguato accrescimento dei redditi (con un divario sempre più marcato in confronto con quelli delle regioni continentali), la creazione nell’isola di zone in forte espansione economica contro altre zone in via di costante degradazione e impoverimento, l’acuirsi dei conflitti sociali, il peso sempre più forte del neo-capi­talismo colonialista. 

 Una crisi questa che, soltanto a guardare le stati­stiche e i programmi del governo italiano, non potrà essere arginata, anche perché il potere del governo locale è del tutto limitato e condizionato allo strapotere dei partiti politici italiani e degli organi della burocrazia centrale, tuttora operanti con pieni poteri e nell’ambito della corruzione più disgustosa. 

 Del popolo sardo, ridotto alle condizioni di pro­vincia coloniale lontana dai centri decisionali, quasi non vi è traccia: Il disegno di snazionalizzazione del popolo sardo, traguardo dei primi oppressori piemontesi, si svolge secondo una logica assoluta, senza che il popolo sardo possa difendersi né reagire: soprattutto perché il dettato costituzionale nei riguardi dell’autonomia spe­ciale e delle caratteristiche geografiche, storiche, etniche, linguistiche, sociali del popolo sardo non è stato mai rispettato. 

 Se il popolo sardo, nell’ebbrezza della con­quistata autonomia, dopo il disastroso conflitto mon­diale, aveva creduto e sperato nella Carta Costituzionale e nello Statuto di Autonomia Speciale, si è presto di­silluso. 

 LO STATUTO SPECIALE E LA COMUNITA ETNICA SARDA 

Le condizioni di asservimento coloniale instaurate dai piemontesi agli albori del 18° Secolo si sono fatte sempre più dure. L’azione dello Stato italiano è stata quella di un sottile e ben dosato genocidio. 

 Come già durante la dittatura fascista in Sardegna l’azione disgregatrice dell’unità del popolo sardo era stata portata a limiti intollerabili (erano state proibite le manifestazioni folkloristiche e i canti popolari in lin­gua sarda), con l’avvento della Repubblica l’azione sna­zionalizzatrice ha superato questi limiti. 

 Infatti nella cornice formale di una cosiddetta «libertà di opinione e di espressione» si sono inaspriti i divieti (come quello del «bilinguismo» negli uffici pubblici e nelle scuole) e si è instaurata una persecuzione velata ma tenace con­tro qualunque manifestazione pubblica o privata che tendesse in qualche modo a rendere evidente da perso­nalità distinta del popolo sardo nei confronti di quello italiano. 

 Ma soprattutto non si è applicato Part. 6 della Costituzione nei riguardi delle minoranze linguistiche. 

Indubbiamente la lingua non è tutto, ma è uno degli elementi fondamentali che consentono il cemen­tamento e la socialità di una comunità etnica, quale quella sarda. Orbene il popolo sardo, che conta un mi­lione e mezzo di persone, parla per circa l’ottantacinque per cento la lingua sarda. 

Una lingua ben differente da quella italiana, lingua che non è riconosciuta dallo Stato italiano, ciò nonostante l’art. 6 della Costituzione, e che è proibito parlare e insegnare nelle scuole pubbliche, alla radio, nei seminari cattolici. 

 Sulla tradizione pie­montese lo Stato italiano vuole distruggere questo ele­mento di coesione e di comprensione tra i sardi. 

E come per la lingua l’azione sottile dello Stato italiano si esten­de agli antichi istituti giuridici, alle tradizioni, all’orga­nízzazione sociale. 

 I VALORI FONDAMENTALI DELL’ETNÌA 

La concessione di un’autonomia speciale per la Sardegna, consacrata dalla Carta Costituzionale, signifi­cava nella sostanza un tardivo riconoscimento da parte del rinnovato Stato italiano, della comunità etnica sarda e dei suoi diritfi a risorgere pur nell’ambito della Re­pubblica. 

 Diremmo di più: si trattava di uno «status» prefederale che, con uno statuto idoneo, avrebbe con­ sentito al popolo sardo non soltanto la conquista del­l’autogoverno, ma la possibilità di darsi una struttura giuridica, economica e sociale nuova, conseguendo rapi­damente gli obiettivi di rinascita mediante una pianifi­cazione moderna e veramente autonoma. 

 Al contrario lo statuto concesso alla Sardegna si è rivelato uno stru­menta di semplice «decentramento» amministrativo, non solo, ma tutta l’impalcatura burocratica e di potere dello Stato è stata mantenuta nell’isola, rendendo così inane lo sfarzo del parlamento e del governo regionale per un riscatto effettivo e una evoluzione positiva. 

 I valori fondamentali che giustificano la lotta per l’indipendenza sono stati compressi e combattuti dura­mente. 

Innanzi tutto, ripetiamo, l’uso e l’insegnamento della lingua nelle scuole pubbliche, la programmazione economica, la pianificazione, il controllo dei trasporti, una politica finanziaria, creditizia e fiscale, l’espansione economica, la legislazione sul lavoro, la riforma agraria, l’industrializzazione. 

 È proprio invece su i valori etnici che, opportuna­mente posti in luce, si sarebbe potuto e dovuto trovare la strada per il risorgimento del popolo sardo e per il suo adeguamento alla realtà europea. 

Invece quella ita­liana è stata una politica negativa, basata sul principia che «se non esiste un popolo non esistono problemi», tendente a emarginare sempre più la nostra isola e la nostra gente dal processo di sviluppo, a fare della Sar­degna un’area di servizio, a mantenere in eterno il re­gime coloniale. 

 VALORI ETNICI E LORO FUNZIONE POSITIVA 

Noi crediamo nei valori fondamentali dell’etnia e nella loro funzione positiva nel processo di evoluzione. 
Vi sono valori come quelli morali, religiosi e sociali, come le tradizioni e le consuetudini che non possono essere cancellati con una semplice norma legislativa. 

 Il passaggio da uno stato di arretratezza secolare, le cui cause sono complesse, non può avvenire verso condizio­ni moderne e socialmente accettabili se non rivalutando quei valori sostanziali propri della comunità, allo scopo di suscitare forze da-tempo sopite nei lembí della tradi­zione, troppo spesso considerate anacronistiche. 

 Tutto ciò costituisce un substrato culturale che è lo strumento più valido per intraprendere la lotta per il riscatto. 
Certo una nazione, come quella italiana, che ha una storia differente dalla nostra, una cultura dif­ferente, una economia e una struttura sociale diversis­sime, non può pretendere, in nome di un «nazíonalismo unitario e accentratore», di cancellare il nostro bagaglio storico e culturale per sostituirlo, con i moderni mezzi di penetrazione e colonizzazione, con quella che è un’al­tra «civiltà». 

 È questo un principio tipico di dominazione; è la sorte che i vincitori riservano ai vinti. Ma tutto ciò è ben contrario ai princìpi e ai diritti umani, a quella de­ finizione di libertà che presiede alle stesse costituzioni di stati moderni. 

E’ un principio in contrasto con la stessa Carta delle Nazioni’ Unite e con il «diritto di autodeterminazione». 

 Noi possiamo risorgere soltanto se alla nostra cul­tura, alle nostre caratteristiche etniche, alla nostra po­sizione geografica, alla nostra tradizione e - soprattutto - alla nostra ansia di rinnovamento e di reden­zione sociale, si lascia lo spazio necessario. 

Tale spazio, come abbiamo dimostrato, non può esistere sino a che la Sardegna sarà sottoposta alla dominazione coloniale. 

 Tale spazio potremo averlo soltanto can la conquista dell’indipendenza, quando saremo veramente padroni e arbitri di quei valori fondamentali che caratterizzano la nostra etnìa e che, se rivalutati in una atmosfera nuova, potranno consentire al popolo sardo quel balzo in avanti sulla strada del progresso in un consorzio di eguali. 

 LA NOSTRA LOTTA È COMUNE A QUELLA DI ALTRI PO­POLI OPPRESSI

 La nostra lotta però dovrà svolgersi nel quadro più vasto della lotta che combattono gli altri popoli oppressi per la conquista della loro libertà. 

Se dovessimo agire da soli saremmo destinati al fallimento più clamoroso. Il nostro principio, quello di una «Europa delle Etnìe», supera il vecchio concetto di una «Europa degli Stati». 

È questo l’unico modo che ci consente di superare il punto morto degli egoismi nazionalistici, nel pieno rispetto dei princìpi dei diritti umani e dell’autodetermi­nazione. 
 Il popolo sardo, come quello basco e quello breto­ne, fonda la sua sopravvivenza sulle tradizioni ancestrali, sul suo profondo spirito religioso, sulla sua lingua, su i legami tribali, sulla struttura sociale comunitaria. 

Tanti secoli di dominazione e di politica snazionalizzatrice non hanno distrutto né intaccato questa sostanziale unità. 
E facendo appello a questi valori tradizionali sarà pos­sibíle restituire ai sardi quella fiducia in sé stessi, quella coscienza comunitaria, necessarie per una lotta che ab­bia come obiettivo l’indipendenza e la redenzione sociale. 

 Saremmo ciechi se trascurassimo questa condizione essenziale per la lotta. Quei valori etnici sono serviti in passato agli irlandesi, ai maltesi, agli algerini, ai tunisini per la conquista della loro indipendenza politica ed eco­nomica. 

Quegli stessi valori consentono oggi la lotta ai bretoni, ai baschi, ai catalani, ai gallesi, agli scozzesi, ai cattolici dell’Irlanda del Nord, ai Curdi, ai Biafrani, e a tutte le comunità e minoranze che non hanno con­quistato intera la loro libertà.  

L’Italía ha dimostrato la sua incapacità e la sua impotenza nel risolvere i nostri problemi. 

Troppe volte e per troppo tempo abbiamo concesso una dilazione allo Stato italiano perché facesse ammenda dei passati errori. 
Ma 10 Stato italiano ha dimostrato e dimostra oggi di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi. 

 Fare a meno dell’Italia diviene oggi per noi una necessità, in assoluto. Non vi sono altre strade da percorrere. 
Noi vogliamo conquistare l’indipendenza per inte­grarci, non per separarci, nel mondo moderno. 
E la scelta non può essere che nostra, autonoma, cosciente, decisiva. 

 Noi siamo nella stessa posizione di quei paesi del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, han­no già compiuto i primi passi verso l’indipendenza. Ma noi siamo rimasti indietro. Abbiamo dato cre­dito alla Stato italiano. 

Abbiamo perso venti e più anni nutrendoci di speranze e promesse mai mantenute. 

 NON VI SONO ALTRE VIE NÉ ALTRE SPERANZE 

Non vi sono per noi altri tipi di libertà se non quella che otterremo con la conquista della piena indi­pendenza. La strada è aperta, ma è dura e cosparsa di osta­coli. Noi siamo certi che la «Questione Sarda» che si trascina senza speranza da centoventi anni, da quando cioè il Piemonte con un colpo di mano procedette all’an­nessione della nostra isola, potrà avere una soluzione soddisfacente soltanto quando avremo il nostro «Stato». E su questa strada ci incamminiamo con la certezza che i sardi acquisiranno quella coscienza che tanti secoli di dominazioni, di oppressione e di persecuzione hanno in parte sopito. E così costruiremo la nostra storia, la nostra eco­nomia, la nostra redenzione sociale: in un mondo di popoli liberi e uguali. 

San Leonardo de Siete Fuentes, 22 giugno 1969 da: http://www.emigratisardi.com/old/A-Simon-Mossa-Le-ragioni-del.html

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