mercoledì 9 marzo 2011

«Quirra? Come una centrale nucleare»

PAOLO CARTA

www.unionesarda.it

Il docente dell'Università La Sapienza promuove la relazione del veterinari Asl


Il professor Cristaldi: stessi danni riscontrati a Garigliano

Mauro Cristaldi è impegnato nel comitato “Scienziati contro la guerra” e studia da anni i poligoni sardi e l'alta incidenza dei tumori.

Salto di Quirra



Le guerre simulate possono aver creato nel tempo danni alla salute di chi abita e lavora a Quirra?
«Le cosiddette guerre simulate sono esercitazioni militari vere e proprie in cui vengono testate le armi da usare nelle missioni Nato».

Allora sono guerre dove mancano soltanto i morti?
«No, ci sono anche i morti. Arrivano dopo qualche anno, tumori e leucemie, per l'inquinamento causato dai test».
Mauro Cristaldi, docente di Anatomia comparata nell'Università La Sapienza di Roma, segue da anni il caso dei poligoni sardi, dell'alta incidenza dei tumori denunciata dai pacifisti e confermata di recente da due veterinari delle Asl. Per interesse professionale, certo, ma soprattutto perché da anni ha aderito al movimento internazionale “Scienziate e scienziati contro la guerra”.

Nei giorni scorsi Cristaldi ha potuto esaminare la relazione dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari che, dopo un controllo ovile per ovile, ha certificato la presenza di dieci allevatori malati di tumore sui 18 che lavorano entro un raggio di 2,7 chilometri dalla base e di agnelli nati con sei zampe, senza naso e bocca, sventrati. «Ottimo lavoro, con un solo neo: non è stato indicato il tipo di tumore». E arriva a fornire un parere inquietante: «Avevo riscontrato le stesse malformazioni genetiche negli animali attorno a Garigliano, nella zona della centrale nucleare poi dismessa, qualche tempo dopo alcuni guasti agli impianti».

Quale spiegazione scientifica si è dato?
«La stessa che convince la comunità scientifica internazionale da sempre. Cioè che queste malformazioni si verificano nelle zone contaminate dal punto di vista ambientale».

Da cosa?
«Da sostanze radioattive oppure dai mutageni chimici presenti per attività industriali, compresi i metalli polverizzati da esplosioni o combustioni».

Solo teorie?
«No, prove scientifiche. Dal 1979 il mio gruppo di studio dell'Università La Sapienza è in grado, attraverso l'analisi del midollo osseo degli animali, di vedere le mutazioni genetiche prodotte da radioattività o miscele di contaminanti ambientali e di indicare precocemente la probabilità dell'insorgenza di certe patologie comprese quelle tumorali».

Nell'uomo?
«Non abbiamo mai esteso questi test sull'uomo, ma riguardo a Quirra si sarebbe comunque in ritardo: certe analisi andavano fatte negli anni 2000 per prevenire i tumori che sono rimasti latenti e si manifestano solo adesso».

È possibile scoprire se in una località è stato utilizzato uranio impoverito?
«Sì, per esempio attraverso lo studio dei rapporti tra i diversi isotopi dell'uranio, quello presente in natura e quelli modificati da combustione nucleare o da arricchimento. Oppure studiando gli animali come le pecore destinate alla macellazione o piccoli mammiferi come di topi di campagna presenti in grandi quantità in quella zona e in possesso di organi recettori di quelle sostanze».

I Governi italiani hanno sempre negato l'utilizzo dell'uranio impoverito.
«Noi scienziati lo diamo invece per scontato o perlomeno molto probabile. Partendo dalle ammissioni degli Usa, che hanno detto di averlo utilizzato in Somalia e nel Kosovo: da qualche parte devono averlo testato di sicuro. Adesso vedremo cosa utilizzerà la Nato in Libia».

In Libia?
«Sì, certo, anche lì si arriverà alla guerra. Stanno già demonizzando Gheddafi come avevano fatto per Saddam. Vogliono giustificare l'intervento militare. L'Occidente dipende dal Medio Oriente per l'approvvigionamento energetico e il petrolio della Libia è il migliore al mondo».

lunedì 7 marzo 2011

Nel rio Tinto i rifiuti industriali di Pioltello

nerva_discarica_rifiuti_tossici


Andrea Palladino
ilmanifesto

NAVI DEI VELENI Rifiuti pericolosi dall'Italia alla Spagna, con l'avallo del ministero dell'Ambiente. Provengono dalla bonifica di un'area ex industriale nel milanese, per la quale l'Italia rischiava una sanzione europea. Destinazione: la discarica di Nerva, in un territorio protetto. La protesta degli ambientalisti spagnoli, di Izquierda unida e di Greenpeace


I veleni provenienti dalla dismissione di una fabbrica chimica, la Sisal, in una discarica e un fiume andalusi

Chi si aspetta una terra di Andalusia secca ed inospitale dalle parti di Nerva rimarrà sorpreso. La terra al nord di Siviglia è bagnata dal Rio Tinto, che nella vallata di Nerva sembra voler inglobare tutto. È un luogo dimenticato, fuori dai normali itinerari turistici, interrotto dai resti delle miniere, con i colori grigi del ferro che costellano il paesaggio. E il nero dei fumi di Pioltello, intriso di mercurio e idrocarburi, che oggi cola verso il fiume dal deposito di rifiuti della società Befesa, ultima tappa del tour italiano di un pericoloso carico di scorie industriali. Come negli anni '80 e '90 - quando dai porti di Marina di Carrara e di La Spezia partivano le navi dei veleni dirette in Africa - dai docks nostrani continuano a salpare in queste ore i cargo carichi di rifiuti pericolosi, sotto la diretta egida del ministero dell'Ambiente. Una storia già anticipata dal manifesto lo scorso 18 febbraio e che oggi si arricchisce di nuovi e gravi dettagli.

«Quello che avviene è semplicemente un deposito, senza nessun trattamento, e in più la gestione è nulla o pessima - racconta al telefono Juan Romero, di Ecologistas en Accion dell'Andalusia - Questa discarica di Nerva ha un'alta quantità di acqua e stanno mescolando direttamente i rifiuti pericolosi che arrivano dall'Italia con i liquidi che ristagnano». Il risultato è devastante: «Si crea una reazione chimica e l'acqua che filtra insieme alla pioggia finisce nel Rio Tinto. Una fine paradossale, visto che questo fiume è stato dichiarato dalla stessa Unione europea come luogo di interesse comunitario». Quella stessa commissione che ha imposto all'Italia di bonificare il sito industriale dell'ex Sisas da dove vengono i rifiuti finiti in fondo al Rio Tinto, in piena Andalusia. E sarà forse un caso, ma l'ispezione che doveva avvenire la scorsa settimana a Pioltello da parte della Direzione Ambiente della Commissione Europea è saltata, senza un apparente motivo. I commissari dovevano verificare che la bonifica fosse stata realizzata secondo i criteri di legge, ma nessuno si presentato. Il viaggio veleni può dunque continuare indisturbato.

Per capire la gravità di quanto sta accadendo occorre partire dalla periferia industriale di Milano, dove sorgeva l'area della Sisas, polo chimico dismesso, destinato oggi ad ospitare metri cubi di cemento. Le terre qui erano intrise di veleni. Da anni si parlava della bonifica, fino a quando - pena pesanti sanzioni comunitarie - il commissario straordinario Luigi Pelaggi, braccio destro del ministro Prestigiacomo, ha affidato l'intervento alla Daneco dei fratelli Colucci, grandi finanziatori del Pdl fin dai primi anni 2000. La destinazione della discarica di Nerva era già prevista, nero su bianco, nella relazione tecnica del luglio dello scorso anno, firmata dallo studio di Claudio Tedesi. Un nome noto alle cronache giudiziarie lombarde, dopo che la Procura di Milano lo ha indagato lo scorso anno per la bonifica di Santa Giulia, affidata al gruppo Green Holding di Giuseppe Grossi, arrestato nel 2009. Ero lo stesso Grossi ad avere in carico la bonifica dell'ex Sisas, progetto che abbandonò nel corso del 2010. Un incrocio tra interessi, tecnici e gruppi lombardi che da anni gestiscono bonifiche e rifiuti industriali, sfiorando il sistema milanese dei poteri forti, come quello di Comunione e Liberazione, area di riferimento per Claudio Tedesi.

Cosa sta uscendo dalla bonifica dell'area Sisas di Pioltello? Secondo alcune analisi che il manifesto ha potuto consultare si tratta di rifiuti pericolosi che, secondo la normativa europea, non possono finire in discarica senza passare per un trattamento specifico. La conferma della presenza di scorie pericolose (classificate secondo il codice europeo 191301) è contenuta all'interno della stessa relazione firmata dallo studio di consulenza di Claudio Tedesi. Le analisi di laboratorio realizzate anche successivamente mostrano un superamento dei limiti di legge per almeno tre elementi pericolosi: il mercurio, il carbonio organico totale (Toc) e alcuni idrocarburi aromatici. Le direttive comunitarie - adottate sia dall'Italia che dalla Spagna - sono chiare in questo senso: questo tipo di rifiuto, ritenuto pericoloso, deve essere trattato e non gettato nelle discariche, come sta avvenendo in queste ore a Nerva, secondo quanto riferisce l'associazione Ecologistas en Accion. Una denuncia supportata da un'ampia documentazione fotografica, realizzata nei giorni scorsi mentre i rifiuti lombardi entravano nell'invaso di Nerva.

La destinazione finale delle scorie pericolose di Pioltello - la discarica di Nerva che appare nelle foto - è la peggior soluzione. Da anni gli ambientalisti spagnoli si battono per chiusura e messa in sicurezza del sito, che sta contaminando il Rio Tinto. Dalle fotografie realizzate appare evidente la mancanza delle strutture minime che dovrebbero garantire il corretto trattamento delle scorie pericolose di Pioltello: manca, ad esempio, la gestione dei biogas nella zona dove sono svuotati i big bags, oltre alle attrezzature necessarie per il trattamento dei rifiuti pericolosi.
La partenza delle navi con le terre contaminate di Pioltello non si ferma, dunque. La denuncia fatta da Izquierda Unida in Spagna - che nei giorni scorsi ha presentato una petizione al Parlamento europeo - non ha per ora attivato le autorità spagnole o italiane. Se, come denunciano le associazioni ambientaliste spagnole, i residui della bonifica di Pioltello non potevano finire nella discarica nel cuore dell'Andalusia, si tratterebbe di una gigantesca operazione illegale, con l'aggravante di vedere coinvolto direttamente il ministero dell'Ambiente e la Regione Lombardia. Una situazione che ricorda quello che per anni è avvenuto in luoghi come Pitelli, la collina dei veleni sul golfo di La Spezia, il cui processo di primo grado terminerà il 10 marzo prossimo, dopo dieci anni di udienze. Una impunità che è la madre di tutti i traffici di rifiuti, che ancora oggi solcano il Mar mediterraneo

sabato 5 marzo 2011

La ricchezza dei tiranni


Moises Saman for The New York Times
The Economist,

Le rivolte in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto salire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile. Tutto il mondo teme una crisi petrolifera. Dopo la Libia, tocca all’Arabia Saudita? I commenti della stampa internazionale

Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile e Hosni Mubarak governava l’Egitto. Ora se n’è andato, il suo governo è stato rovesciato dalle manifestazioni popolari che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medio Oriente. E il prezzo del petrolio ha raggiunto i 114 dollari. Non c’è da stupirsi: la regione produce il 35 per cento del petrolio mondiale. Dalla Libia arrivano 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno in tutto il mondo.

A far impennare il prezzo del petrolio non è stata l’interruzione degli approvvigionamenti: il rincaro da record è arrivato prima che alcune società petrolifere annunciassero tagli alla produzione e che i porti del paese fossero chiusi. I prezzi del petrolio, fa notare Adam Sieminski della Deutsche Bank, sono inluenzati anche dalle aspettative. Ai mercati petroliferi inoltre
non piacciono le sorprese.

La caduta di Mubarak e le rivolte in Libia, Bahrein, Yemen, Iran e Algeria (che insieme forniscono un decimo del petrolio mondiale) hanno fatto aumentare il prezzo del greggio di almeno il 20 per cento. La preoccupazione è che il difondersi delle rivolte possa tradursi in uno shock paragonabile a quello dell’embargo petrolifero del 1973, della rivoluzione iraniana o dell’invasione irachena del Kuwait.

Oggi la produzione del petrolio è più globalizzata di quanto non fosse durante quelle crisi. Negli anni settanta si concentrava soprattutto nel golfo Persico e da allora i mercati sono stati invasi da un mare di petrolio proveniente dall’America Latina, dall’Africa occidentale e da altre regioni.
Principali produttori di petrolio: dato in barili al giorno
con indicazione (in rosso) dei paesi attualmente in rivolta

Un paio d'interessanti grafici sul PETROLIO (release 2.0)

Nel 2009 la Russia ha superato l’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio mondiale e la quota di petrolio prodotta dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) è passata dal 51 per cento della metà degli anni settanta a poco più del 40 per cento.

La globalizzazione della produzione petrolifera non ha diminuito l’importanza dell’Opec. Al momento i mercati sono cauti. Con la ripresa dei paesi ricchi e il boom asiatico, le riserve accumulate durante la crisi economica stanno diminuendo di nuovo. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel 2010 la domanda è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, e secondo i calcoli della Deutsche Bank nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. Molti produttori stanno vendendo a pieno regime e l’Opec possiede l’unico petrolio di scorta.

Se il petrolio della Libia smettesse di scorrere, gli importatori dovrebbero rivolgersi all’Arabia Saudita, che sarebbe in grado di soddisfare le esigenze dell’Europa, il mercato della Libia, nel giro di poche settimane. L’Opec sostiene di poter estrarre sei milioni di barili al giorno ma forse esagera. Gli analisti ritengono che la quantità reale sia più vicina ai 4-5 milioni, in gran parte nelle mani dei sauditi. Questo sarebbe più che suiciente per colmare il vuoto lasciato dalla Libia ma farebbe avvicinare il giorno in cui la crescente domanda mondiale esaurirà tutte le riserve. Gli analisti della banca Nomura sostengono che basterebbe una battuta d’arresto delle esportazioni algerine per portare il prezzo del petrolio a 220 dollari al barile.

Lo scenario peggiore sarebbe un’interruzione degli approvvigionamenti da parte dell’Arabia Saudita. Questa preoccupazione è diventata più forte dopo le rivolte in Bahrein, che produce poco petrolio ma è di grande importanza strategica per il golfo Persico, dove transita il 18 per cento del petrolio mondiale. I sauditi temono che le proteste della popolazione sciita del Bahrein possano estendersi al loro paese. Le province orientali dell’Arabia Saudita ospitano sia le industrie petrolifere sia la maggior parte degli sciiti, che potrebbero ribellarsi al regime sunnita. Intanto il re ha annunciato che distribuirà al popolo 35 miliardi di dollari.

Scorte strategiche

Quali potrebbero essere gli efetti di una crisi degli approvvigionamenti in Medio Oriente e in Nordafrica? Le crisi petrolifere degli anni settanta spinsero il mondo ad accumulare scorte, come i 727 milioni di barili che formano la riserva strategica di petrolio statunitense, a cui attingere in caso di sconvolgimenti in Medio Oriente o altrove.

Anche la Cina sta costruendo una riserva strategica. Secondo l’Energy information administration statunitense, le scorte nelle mani dei governi e delle industrie di tutto il mondo ammontano a 4,3 miliardi di barili, equivalenti a quasi cinquanta giorni di consumo globale al ritmo corrente.

L’impatto di un’eventuale crisi quindi dipenderà dalla quantità di petrolio che si perderà e per quanto a lungo. Ma l’esempio dell’Iran dimostra che cosa può andare storto. Leo Drollas del Centre for global energy studies sottolinea che l’Iran prerivoluzionario estraeva sei milioni di barili al giorno. Allontanati gli esperti e i capitali occidentali, il nuovo regime non ha più raggiunto quel livello di produzione. Oggi estrae 3,7 milioni di barili al giorno. Il petrolio mediorientale è in gran parte controllato dagli stati ma gli investimenti esteri sono vitali solo per l’industria petrolifera del Nordafrica. Se emergessero regimi più ostili agli stranieri, potrebbero esserci efetti duraturi sulla produzione.

Il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa. Per quanto riguarda la possibilità di ridurre il peso del Medio Oriente come fornitore di petrolio a livello mondiale, non vale neanche la pena di parlarne. Probabilmente la forte domanda asiatica farà di nuovo aumentare la quota Opec della produzione di petrolio. E questa regione travagliata avrà ancora il potere di causare problemi.

venerdì 4 marzo 2011

Elezioni a Cagliari......Capitale


Sergio Gabriele Cossu


Essere indipendentisti significa, prima di ogni altra cosa al mondo, accettare di fare parte di un progetto "globale" che preveda la rottura del legame che ci vincola a poteri esterni, siano essi politici economici o culturali, nella piena consapevolezza di raggiungere l'autodeterminazione.
Il compito di ogni indipendentista è adoperarsi interamente nel perseguire tale obiettivo, sfruttando ogni singola occasione perché le componenti della nazione siano sensibilizzate fino al coinvolgimento totale, la sola condizione, in un contesto democratico, che possa favorire il raggiungimento dell'indipendenza. Nel frattempo ognuno ha il dovere di occuparsi di fatti che riguardino la società in cui vive, secondo la propria sensibilità e formazione sociale, oltre che culturale, ma essi, però, non dovranno mai e poi mai avere la priorità su tutto ciò che serva a questo popolo per unirsi, coalizzarsi, compattarsi intorno al suo obiettivo primario.
La soggettività di ogni movimento va esperita nella piena e legittima funzione, propria del formatore che lavora sulle inclinazioni ideologiche di ogni aderente, con il quale possa condividere la forma socio - istituzionale desiderata per il futuro stato indipendente, e contemporaneamente, nella fase intermedia, dovrà responsabilmente dare il proprio contributo perché l'unione delle componenti indipendentista sia realizzata.
Qualsiasi altro espediente metterebbe in una posizione contraddittoria coloro che si definiscono indipendentisti, dato che agirebbero, sebbene in buona fede, in ragione di interessi contingenti e avulsi dal progetto globale: esempio, fare indipendentismo sostenendo i partiti italiani, cioè gli stessi soggetti politici che rappresentano tutto ciò che di italiano si vuole combattere, essendo notorio che il potere colonizzante si sostanzia, soprattutto, attraverso il loro operato senza distinzione di sigle e di etichette.
E' un dovere di tutti fare in modo che i sardi vedano in noi l'esempio della "coesione" su questioni che potrebbero avere risvolti epocali per loro, e che fino adesso, in Sardegna, abbiamo visto essere prerogativa solo dei partiti italiani.
Sardigna Natzione Indipendentzia ha fatto suo, sin dalla nascita, questo principio: siamo quelli che hanno sempre sostenuto l'unità di tale forze come condizione necessaria per influire nel panorama politico sardo, il quale, voglio ricordare, oggi è monopolizzato dalle forze italianiste proprio a causa della nostra frammentazione.
Oggi i partiti italiani sono in grado di raccogliere solo il 40% dei consensi dei sardi - il resto è rappresentato dall'astensionismo e dai soggetti politici che non si riconoscono con Roma - rendendoli di fatto una minoranza, tra l'altro, in sensibile calo. Ciò significa che le potenzialità di metterli "all'angolo" dipenderà dalla nostra esclusiva capacità di coalizzarci, ma anche dai nuovi consensi che deriverebbero a seguito della nuova immagine vincente che ci daremo tra i soggetti non ancora schierati, i quali, come già detto, sono la vera maggioranza relativa.
Le prossime elezioni di Cagliari rappresentano un banco di prova importante.
Per la sua importanza, la capitale della Sardegna sarà soggetta, ancora una volta, a sperimentare le forme consuete della contrapposizione politica tipica dei melodrammi romani, in una prevedibile sequela di giochi che avranno come fine quello di assicurarsi che gli equilibri di potere rimangano immutati.
Immancabilmente tutte le sigle che rispecchiano i partiti italiani saranno presenti, e con loro gli schieramenti i quali esprimeranno i soliti programmi.
Vuole l'indipendentismo inserirsi autorevolmente all'interno di questa lotta con un programma di rottura rispetto al passato?
Ma soprattutto vuole farlo dando un segnale ai sardi che l'indipendentismo è deciso a fare fronte comune a partire da Cagliari?
Il buon senso di chi è fedele all'idea di vedere il popolo sardo finalmente unito suggerirebbe di si!
Voglio evitare di invadere il campo dei Cagliaritani i quali sono i soli aventi diritto di entrare nel merito delle loro questioni cittadine, per ribadire che dalla nostra capitale può, realmente, partire quel segnale che, senza nessuna ombra di retorica, potrebbe rappresentare una svolta verso il cammino per l'indipendenza di tutta la Sardegna. Nelle prossime settimane verranno avanzate delle proposte a questo riguardo. Il mio suggerimento è quello di considerare le varie proposte alla luce di quanto qui è stato detto, che corrisponde a brevi linee a ciò che la stragrande maggioranza dei sardi desidera. Sta solo a noi diventare i sud tirolesi della situazione, mostrando come fanno loro, che la "nostra" è vera volontà di agire da popolo, e che la disunione è stata solamente un capitolo triste della nostra storia, a cui abbiamo saputo porre rimedio per il bene della nostra terra.


Fintzas a s'indipendentzia!


mercoledì 2 marzo 2011

Parliamo di linguaggio

Christian Raimo
ilmanifesto
Nella Metafisica Aristotele dice: inchiodali al loro linguaggio. Parla dei sofisti di basso livello, dei Megariti, di quella gente che non argomenta in modo preciso, che cerca di buttare tutto in caciara, il cui unico scopo è la delegittimazione dell'avversario. Negli ultimi tempi la battaglia delle truppe cammellate berlusconiane vede in campo i riservisti: dopo la fanteria d'assalto degli yes-man, i Bondi e i Quagliarello, c'è stato il tempo dei cecchini, i Feltri, i Lavitola, i Sallusti,
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Sallusti e Feltri

VALTER LAVITOLA


quelli che sparavano ad altezza uomo ripetutamente, qualunque fosse il Boffo di turno da affondare. Ora la strategia sembra più raffinata: sono tornati da qualche settimana a questa parte a aver voce gli intellettuali sedicenti. Un Giuliano Ferrara che prende per il culo Umberto Eco su Kant, un Antonio Ricci che si riscopre debordiano e fa il verso alle femministe sul Corpo delle donne, detournando il documentario di Lorella Zanardo con un filmatino mandato in onda a Matrix, la cui tesi era: anche Repubblica usa le tette per vendere. Se è questo il livello, il conflitto viene da dire è finalmente culturale. Dopo che l'opposizione parlamentare (il Pd in primis) ha fallito nell'arginare la sua deriva populista, dopo che quella istituzionale (la nuova destra di Fini, la morale comune) è stata miseramente azzoppata, ora tocca a noi, a chi crede che il berlusconismo sia soprattutto una malattia del capitalismo avanzato, un virus che avremmo inoculato comunque anche se Berlusconi ipse non fosse ancora al governo con una maggioranza di 320 parlamentari.


Del resto è anche lui stesso, in prima persona, che in questi giorni è tornato a pugnare, tutto preso in una lunga sessione di tecniche di rovesciamento. Va ovunque ci sia da ribaltare, in una specie di tour da guitto per le piazze di paese. Uomini, donne, correte: è arrivato l'attorino! Ha fatto il numero d'"er reuccio de' Testaccio" alla Fondazione Zeffirelli (altro intellettuale redivivo) - ente neonato grazie a cinque milioni e mezzo di fondi sganciati dalla Regione Lazio che serviranno a costruire un mausoleo mentre ancora il Maestro Zeffirelli è in vita, mentre tutto il cinema della capitale (Centro sperimentale, Casa del Cinema, Metropolitan...) annaspa per la mancanza di finanziamenti. Con un Gianni qualunque (Letta, in questo caso) a fargli da spalla, Pinotto Berlusconi butta là facezie per tutti i palati. Dice: «Oggi sono entrato in Parlamento e anche la sinistra voleva venire al bunga bunga. Che poi sa cosa vuol dire? Andiamo a divertirci andiamo a ballare, andiamo a bere qualcosa...». Ride in faccia al giornalista di Sky che l'ha invitato a un confronto tv, paragonandosi al generale Franco, che se ne fregava delle richieste democratiche.
Poi va nel teatrino dei cristiano riformisti, e rispolvera il repertorio contro i comunisti, spara a zero contro la scuola «che inculca valori diversi da quelli della famiglia» e «contro le adozioni ai single», racconta quando Mamma Rosa lo investì della missione di salvare l'Italia e quando un fantomatico sacerdote russo a dodici anni lo illuminò sul Male rappresentato dal comunismo. Cosa ottiene? Il solito. Le reazioni pavloviane che si aspetta. Da una parte, applausi da stadio: dei claquer i cui bassi istinti di risentimento va a vellicare. Dall'altra, l'indignazione (il giorno dopo): da parte di chi costretto a ribadire l'ovvio, da Bersani a Bocchino, dai blogger degli insegnanti agli editorialisti di Repubblica. Tutti a tenere il punto sul minimo comun denominatore di una società democratica, sul valore fondante della scuola pubblica.
Sembrano i colpi di coda di un dittatore assediato nel bunker, si diceva in questi giorni. Sarà anche la sindrome dell'assediato, ma queste mosse berlusconiane sono lucidi deliri. Anzi, sembra che abbia una strategia chiara nell'affondare il coltello nella piaga proprio nelle contraddizioni della sinistra. Per dire: può permettersi di urlare contro la scuola pubblica e trovare chi lo osanna, proprio perché nell'opinione pubblica di sinistra ci sono state almeno un paio di settimane nelle quali si è dato un incredibile spazio (interviste a tutto campo, ospitate da Fabio Fazio...) al libro catastrofista di Paola Mastrocola sulla scuola. Scusate, ma la paginata di Cesare Segre sul Corriere contro Don Milani e Rodari, contro la scuola dell'uguaglianza, l'ho vista solo io? Scusate, ma l'endorsement del nichilista della domenica Pietro Citati su Repubblica in cui dice che l'Occidente è il luogo del vuoto e del niente, e che nessuno sa più leggere e scrivere, l'ho letto solo io? Se qualcun altro semina, Berlusconi raccoglie. E se delira, almeno non è il solo.
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Non è solo nemmeno quando si scaglia contro le adozioni ai single. Su coppie di fatto, tutela dei diritti dei single e degli omosessuali, la sinistra dell'ultimo governo è inciampata ripetutamente, e anche mettiamo che vincesse le elezioni alla prossima tornata, saprebbe proporre un progetto sociale diverso da quello razzista dei machisti oggi al governo?
Ma la tecnica di rovesciamento berlusconiana è studiata fino in fondo. E il giorno dopo, come volevasi dimostrare, arrivano le dichiarazioni stampa in cui si lamenta che è stato travisato: «Non ho mai attaccato la scuola pubblica», «L'insegnamento libero ripudia l'indottrinamento», «Ho solo denunciato l'influenza deleteria dell'ideologia», «Il mio Governo ha avviato una profonda e storica riforma della scuola e dell'Università, proprio per restituire valore alla scuola pubblica e dignità a tutti gli insegnanti che svolgono un ruolo fondamentale nell'educazione dei nostri figli in cambio di stipendi ancora oggi assolutamente inadeguati». Da folle arringapopolo, da puttaniere con il culo flaccido, da millantatore di fidanzate mai apparse, a pacato thatcheriano: eccolo quel fregolismo à la Zelig che conosciamo, quello che ti fa dire che da piccolo volevi fare il carabiniere quando vai alla festa dell'Arma. Mentre il giorno dopo le dichiarazioni della sinistra sono ancora aggrappate al Berlusconi della maschera prima.
Il linguaggio di Berlusconi è performativo, attoriale, ha bisogno di pubblico, di una scenografia: il senso è ancora una volta solo l'effetto, non le intenzioni. Ergo, il suo messaggio per essere contrastato va preso nell'interezza dell'atto performativo. Ritrattazione compresa. E allora, che strategia contrapporre? Inchiodali al loro linguaggio, diceva Aristotele. Quando dicono tutto e il contrario di tutto, quando smentiscono quello che hanno appena detto, fagli riconoscere che esiste il principio di non-contraddizione. Ma se non ammettono nemmeno il principio di non-contraddizione? Beh, in questo caso è Platone che ci viene in soccorso. Anche lui si era trovato molto spesso davanti al problema di chi non gioca su un piano logico del discorso. Capita, perché la nostra anima è tripartita, dice l'inventore della dialettica occidentale: c'è un'anima concupiscibile (l'istinto) che risiede nel ventre, c'è un anima irascibile (la volontà) che risiede nel petto, e c'è un'anima razionale (la ragione) che risiede nella testa. I cattivi politici fanno leva sull'anima concupiscibile per aizzare l'anima irascibile. La politica che dobbiamo praticare può fare il percorso opposto: usare l'anima razionale per generare passione. Ma usare l'anima razionale vuol dire essere capaci ogni giorno di essere autocritici oltre che critici, avere il coraggio di elaborare le contraddizioni (sul ruolo della scuola, sulla laicità, sull'uso della donna nei media, etc...) qui, dalla nostra parte, altrimenti possono cadere mille Berlusconi, ma a essere sconfitti saremo sempre noi.

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