sabato 31 luglio 2010

La pulizia etnica nel Negev israeliano

tradutzioni de Sayli Vaturu

http://www.guardian.co.uk/world/video/2010/jul/28/palestinian-territories-israel


Neve Gordon
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2010/jul/28/ethnic-cleansing-israeli-negev

La demolizione di un villaggio beduino da parte della polizia israeliana dimostra quanto lo Stato andrà a conseguire l'obiettivo di giudaizzare la regione del Negev

Un convoglio minaccioso dei bulldozer stava tornando a Be'er Sheva mentre guidavo verso l'al-Arakib, un villaggio beduino situato non più di 10 minuti dalla città. Una volta entrato nella strada sterrata che conduce al villaggio ho visto decine di furgoni di poliziotti pesantemente armati preparati a partire. La loro missione, a quanto pare, era stata già compiuta.

I segni di distruzione sono immediatamente evidenti. Ho notato le galline e le oche massacerate di pressi di una casa demolita, e poi ha visto un'altra casa e poi un altra, tutte le macerie.

Alcuni bambini stavano cercando di trovare un posto ombreggiato per nascondersi dal sole cocente del deserto, mentre alle loro spalle un flusso di fumo nero si alza dal fieno in fiamme. Le pecore, le capre e il bestiame erano in una posizione nascosta - forse perché la polizia li aveva confiscati.

Decine di uomini beduini erano in piedi su una collina gialla, condividendo le loro esperienze alle prime ore del mattino, mentre tutto intorno a loro gli alberi di ulivo erano sradicati e giacevano a terra. Un intero villaggio composto tra il 40 e 45 case sono state completamente rase al suolo in meno di tre ore.

All'improvviso ho avuto un déjà vu: una immagine di me stesso in piedi tra le macerie di un villaggio distrutto da qualche parte in una periferia della città libanese di Sidone. E 'accaduto oltre 25 anni fa, durante il mio servizio militare nei paracadutisti israeliani.

In Libano, i residenti erano tutti fuggiti prima che il mio plotone fosse arrivato, e noi semplicemente abbiamo camminato tra le macerie. C'era un qualcosa surreale in quella l'esperienza, e mi ha impedito di comprendere appieno il suo significato per molti anni. Al momento, ripensandoci, mi sembrava di camminare sulla Luna.

Questa volta l'impatto della distruzione ha dimostrato la capacità di distruzione immediata. Forse perché, quando sono arrivato, le 300 persone che risiedevano in al-Arakib, compresi i loro figli, erano seduti sotto le macerie, e la loro angoscia era più che evidente, o forse perché il paese è vicino al mio e si trova a soli 10 minuti da casa mia, a Be'er Sheva .

Io son passato tempo addietro in quei luoghi quando andavo a Tel Aviv o, a Gerusalemme, forse perché i beduini sono cittadini israeliani, ho improvvisamente capito quanto lo Stato d'Israele sia disponibile a raggiungere il suo obiettivo di giudaizzare la regione del Negev;

Quello che ho visto è stato, dopo tutto, un atto di pulizia etnica.

Dicono che l'intifada successivo sarà l'intifada beduino. Ci sono 155 mila beduini nel Negev, e più della metà di loro vive in villaggi non riconosciuti, senza elettricità o acqua corrente. Non so cosa potrebbero fare, ma 300 persone senza tetto, 200 dei quali bambini, Israele è sicuramente il drago che semina per il futuro solo morte e disperazione.





Ornella Demuru: il coraggio dell'indipendenza.

di Gabriella Saba
http://periodici.repubblica.it/d/

È l’unica donna segretario nazionale di un partito: Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna. Un movimento giovane, moderno, indipendentista, non violento. Sicuro di farcela (senza fretta) senza l’Italia.

Che sia sarda, lo capisci prima ancora che parli. Perché ha quella combinazione di caratteristiche (estetico-cromatiche, di atteggiamento), tipicamente sarde. Occhi e capelli scuri, modi decisi, il sorriso luminoso. E lo sguardo gentile, diretto. Ma niente spocchia: Ornella Demuru a 38 anni (adesso ne ha 39) è diventata l’unica donna segretario nazionale di un partito. Di Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna, partito fondato da un gruppo di ventenni sette anni fa, per reclamare l’indipendenza dell’isola. Ornella s’è avvicinata a quel movimento due anni fa, quando ancora lavorava a Tiscali nella comunicazione web. Di formazione, però, è medievalista. E nella recente campagna per le elezioni provinciali e comunali, ha scelto come simbolo i tulipani. Centinaia di tulipani addobbavano i banchetti di Irs e decoravano i manifesti.

Perché i tulipani, che poi non sono nemmeno un fiore sardo?

“Non sono sardi, è vero, ma hanno un valore simbolico universale: nelle culture asiatiche, per esempio, rappresentano la non violenza, uno dei punti cardine del nostro programma. Inoltre, dovrebbero evocare l’idea di una primavera indipendentista. Ma nessuno qui ha capito che quei fiori avevano un significato: pensavano che li usassi per dare un tocco romantico, femminile alla campagna di iRS”.

A proposito, è vero che quando i suoi compagni la presentano come “il nostro segretario donna?”, lei si rivolge alle signore del pubblico dicendo: “Come tutte sapete, noi donne siamo esseri umani come tutti gli altri”?.
“Certo. Trovo sottilmente discriminatorio che si puntualizzi il fatto che sono una donna. Di un segretario maschio nessuno si sognerebbe mai di specificare il sesso”.

Probabilmente perché lo sono tutti. Tranne lei. Si sente un esempio del matriarcato sardo? Ma è poi vera questa storia del matriarcato?
“Ma no, affatto. Dove sarebbero le donne di spicco, in Sardegna? Direi piuttosto che la società sarda è matrocentrica, ruota intorno alle donne. Qui c’è sempre stato rispetto, le donne sarde non sono sottomesse, né dipendenti. Basti pensare che in Sardegna non è mai esistito il delitto d’onore e che la Carta Delogu, la costituzione sarda dei tempi dei Giudicati, ammetteva il divorzio e puniva duramente qualunque forma di violenza contro le donne. Da qui a parlare di matriarcato, però, ce ne corre”.

Torniamo a iRS: vi definite indipendentisti, pragmatici e moderni. In pratica?
“Tanto per cominciare, crediamo che la Sardegna abbia i requisiti per diventare una repubblica indipendente. La nostra storia non si identifi- ca con quella italiana e la nostra cul- tura ha un’altra origine. I sardi hanno un’identità definita, che risale all’età nuragica. Hanno sempre preso le distanze dalle dominazioni e hanno avuto ben quattro secoli di autonomia con la civiltà dei Giudicati. E alla fine del Settecento erano anche sul punto di ottenere l’indipendenza. Perché l’esigenza di affrancarsi si propone periodicamente. Una specie di ruota di corsi e ricorsi”.

Ma la prima condizione per essere indipendenti è l’autosufficienza economica. Cioè mantenersi senza i finanziamenti statali: la Sardegna sarebbe davvero in grado di cavarsela?
“Naturalmente, ma deve prima affrancarsi dalle sue paure. Il resto viene di conseguenza, anche se non è certo facile”.

Vuole dire che i sardi hanno un problema di autostima?
“Esatto. Abbiamo sempre vissuto in attesa del salvatore, si trattasse di Soru, Cappellacci o Berlusconi. Qualcuno a cui delegare, comunque. Ma quell’impostazione va cambiata. Bisogna convincere i sardi che la politica la dobbiamo fare tutti, smettendola finalmente di aspettare una guida che risolva i problemi al posto nostro”.

In ogni caso, non siete rivendicativi, non ce l’avete con l’Italia.
“No, a differenza dai sardisti. Loro dicono: “All’Italia abbiamo dato l’anima, abbiamo sacrificato i nostri soldati per combattere accanto a loro, e adesso l’Italia ci deve dare i soldi, ci deve aiutare, salvare”. È il concetto della nazione abortiva, che porta sul piano economico all’assistenzialismo, e su quello psicologico alla totale mancanza di fiducia in noi stessi”.

Ma lei non si sente nemmeno un po’ italiana?
“No. Mi sento sarda. E vorrei relazionarmi da sarda con gli altri paesi, a cominciare dall’Italia”.

Anche Renato Soru si sente sardo, però ha dichiarato che la sua storia è anche quella della Resistenza, della Costituzione e delle lotte sindacali.
“Per quel che ci riguarda, riteniamo che il nostro debito (mi riferisco alla Resistenza) sia chiuso. Abbiamo fatto un po’ di strada insieme, noi e l’Italia, però è finita. Non vogliamo cancellare parti importanti della nostra storia, che consideriamo un arricchimento, non una rinuncia”.

E della Lega cosa pensa?
“Fa una politica poco pluralista e poco inclusiva che non condividiamo. Detto questo, la loro presenza nell’isola ci lascia indifferenti”.

Torniamo alla Repùbrica de Sardigna. Ammesso che ci si arrivi, come la immagina?
“Una nazione moderna e centrata sull’uomo, solidale, inclusiva”.

Siete anche non violenti. Quindi, niente esercito?
“Niente esercito”.

E la “limba sarda” come lingua nazionale?
“Anche, ma insieme a molte altre, come l’italiano e l’inglese. Siamo a favore del plurilinguismo. Ripeto, vorremmo diventare una nazione moderna”.

E come si manterrebbe questa Repùbrica?
“Dovremmo rimpostare l’economia. Puntare sulle piccole e medie aziende, soprattutto agroalimentari e artigianali. E si dovrebbero creare le condizioni perché siano più sostenibili.
In altre parole, siamo a favore di una defiscalizzazione mirata. Un’altra risorsa importante sarebbe la rivitalizzazione dei centri storici, con una politica che favorisca gli artigiani che ci lavorano e la gente che va ad abitarci”.

E il turismo non potrebbe servire?
“Il vero problema è che attualmente ai sardi, degli introiti del turismo non resta granché: il 70% va ai trasporti, che non sono nostri, e circa l’80% dei prodotti che vengono acquistati dai turisti sono importati. Per esempio il pesce arriva in gran parte da fuori. Ecco, tutto questo bisognerebbe reimpostarlo a favore dei sardi”.

Facile a dirsi, ma…
“Chiaro, ci vogliono pazienza e tempo”.

E poi ci sono alcune caratteristiche sarde che non aiutano: cosa pensa di quell’antica definizione datavi dagli spagnoli: “pocos, locos y mal unidos”?
“è solo un luogo comune”.

Però i sardi sembrano avere grandi difficoltà ad associarsi, non creano cooperative…
“Guardi, la Sardegna è tra le regioni italiane con il maggior numero di associazioni di volontariato. Quindi il problema non è che i sardi non vogliono associarsi. È vero che abbiamo poche cooperative, ma queste nascono quando c’è una politica che le incentiva e dà indicazioni chiare, e una struttura che permette di comunicare e promuovere il proprio lavoro”.

Qual è la dote più evidente della Sardegna di oggi?
“La creatività. Non c’è paesino, anche il più sperduto, che non abbia il suo pittore, il suo cantante, il suo scultore. Peccato però che poi la cultura da noi sia considerata un hobby, e non venga contemplato il suo sviluppo”.

Alle elezioni provinciali del 2010 l’Irs ha ottenuto quasi il 4% dei voti, in totale circa 30mila. Siete un movimento giovane, non fate una politica facile. La domanda è: come ci siete riusciti?
“Con un paziente e capillare lavoro di comunicazione. Abbiamo cercato di convincere i nostri compatrioti che hanno tutti gli strumenti per farcela da soli”.

E adesso?
“Abbiamo “guadagnato” tre consiglieri in altrettante province, quindi cominceremo a lavorare in maniera più capillare, per poter incidere sulle istituzioni. La prima iniziativa sarà quella del “Palazzo Trasparente”".

Ovvero?
“Chiediamo ai nostri consiglieri di raccontare le attività dei rispettivi consigli. Le informazioni saranno poi pubblicate sul nostro portale. Più a breve termine, stiamo preparando la Festa Manna, una tre giorni di workshop e convegni aperta a tutta la società civile”.

Ma alla fine cosa manca davvero ai sardi? La consapevolezza?
“Ci manca una narrazione di noi stessi, la consapevolezza che il nostro sapere è importante. È da lì che si parte. Se manca quella, manca tutto, non si può nemmeno cominciare”.

È per questo che ha fondato una casa editrice dedicata alla produzione sarda?
“Sì, è una cooperativa che ha l’obiettivo di recuperare quella narrazione”.

Legge molti autori sardi?
“Leggo di tutto, dai saggi di Obama alle poesie di Pietro Mura”.

Nella campagna per le amministrative del 2005, il vostro slogan era “Si podi fai”. Traduzione in inglese, “Yes, we can”.
“Esatto. Obama ci ha copiato :)”.


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