venerdì 20 gennaio 2017

Guerre con le armi italiane. Ottavi su dieci nell'export

Guerre con le armi italiane. Ottavi su dieci nell'export

Angela Caporale
 vociglobali.it

C’è un settore dell’economia italiana dove la crisi non sembra arrivare e che, al contrario, è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni. Non si tratta di un settore come tutti gli altri, ma della produzione e vendita di armamenti. Secondo la relazione annuale del Governo sull’export militare del 2015, presentata la scorsa primavera, c’è stato un aumento del 200% delle autorizzazioni all’esportazione di armamenti rispetto al 2014. Il volume d’affari ha raggiunto i 7,9 miliardi di euro a fronte del 2,6 miliardi dell’anno precedente. Il trend continua a crescere.

Un recente report dell’Istat, inoltre, segnala tra giugno e settembre 2016 un forte aumento dell’export di armi e munizioni in partenza dalla Sardegna verso l’Arabia Saudita per un totale di 20,6 milioni di euro. L’anno precedente, nello stesso periodo, l’export si era fermato a 3,8 milioni di euro: un aumento di 16,8 milioni di euro e del 400% in termini percentuali, secondo quanto riportato da Sardinia Post.

Nonostante molte organizzazioni internazionali siano impegnate da anni per contrastare il commercio internazionale degli armamenti, il fenomeno non sembra incontrare battute d’arresto, soprattutto in Italia. Nel Belpaese non solo cresce il volume d’affari, ma migliora anche il proprio posizionamento nel ranking globale. Oggi occupa, infatti, l’ottavo posto tra i dieci paesi che esportano più armi secondo i dati raccolti dal SIPRI, lo Stockholm International Peace Reseach Institute.
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Sempre grazie all’attività di ricerca del SIPRI emerge che i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati Arabi Uniti, seguiti da India e Turchia. Tuttavia ciò che desta particolare preoccupazione è il flusso di vendita di armamenti verso Paesi in guerra o coinvolti in conflitti di vario genere. Non si tratta di un dettaglio: l’esportazione e il commercio di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato e in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite è esplicitamente vietato dalla legge 185 del 1990. Il divieto si può aggirare, come di fatto accade, soltanto nel caso in cui i due Governi abbiano stipulato un accordo intergovernativo nel campo della difesa con menzione specifica della regolamentazione dell’import-export dei sistemi d’arma.Armi italiane in Yemen fotografate da Human Rights Watch. Fonte. Reported.ly

Questo è ciò che accade, nel caso più grave sia dal punto di vista politico che dal punto di vista umanitario, con l’Arabia Saudita. L’ipotesi sollevata da giornalisti e attivisti è che parte di queste armi e componenti venduti a Riyadh contribuiscano all’aggravarsi della guerra nel vicino Yemen, un conflitto che ha provocato almeno seimila vittime e che ha affamato la gran parte del Paese.

Ole Solvang, ricercatore di Human Rights Watch, ha fotografato uno specifico modello di bomba, la MK83, in Yemen, con il marchio di RWM Italia. Questo dato emerge da un’importante inchiesta di Reported.ly tradotta in Italia dal Post. I giornalisti hanno provato a ricostruire tutti i passaggi che legano l’Italia, la Germania, l’Arabia Saudita e lo Yemen, riportando che “nel 2013 e nel 2014 l’Italia ha concesso licenze per l’esportazione di grandi quantità di componenti per bombe MK83, alcune delle quali sono state poi trovate da Human Rights Watch sul terreno in Yemen. Tra le licenze c’è anche un contratto di 62 milioni di euro per 3.650 bombe. Nelle licenze del 2013 e del 2014 la destinazione non è specificata.”

Sono in molti ad aver sollevato alcuni dubbi in merito: Patrick Wilcken di Amnesty International ha sottolineato come l’Italia, adempiendo ai suoi obblighi internazionali, dovrebbe valutare caso per caso il rischio di trasferire armamenti in un qualsiasi Paese, valutando se chi riceve le armi le può utilizzare per compiere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. La questione è arrivata anche in Parlamento, dove il deputato Mauro Pili, Gruppo Misto, ha posto un interrogazione: come riportato da ValigiaBlu, l’obiettivo è fare luce sul commercio di armi con l’Arabia Saudita e, in particolare, sull’esponenziale crescita dell’export dalla sola Sardegna.

Un gruppo di bambini in Yemen tra le macerie dei bombardamenti. Fonte: Amnesty International

L’Arabia Saudita non è il solo cliente “scomodo” dell’Italia che commercia armamenti. Enrico Piovesana ricostruisce su Il Fatto Quotidiano i principali porti d’approdo delle armi made in Italy, menzionando gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, tutti Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra yemenita. Nel 2015 l’Italia ha inoltre esportato armi leggere e munizioni per 14 milioni in Iraq; blindati Lince di produzione Fiat-Iveco alla Russia, elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica alla Turchia. Completano il quadro le esportazioni verso Pakistan, India ed Egitto. Proprio all’Egitto di Al Sisi, prima del caso Regeni, sono state recapitate armi leggere e lacrimogeni usati, sempre secondo quanto riportato da Piovesana, per reprimere le manifestazioni di piazza.

Cresce anche l’export verso l’Africa: per la prima volta nel 2015, la regione subsahariana ha superato il Nordafrica. Si parla di 152,9 milioni di euro, arricchiti dall’ingresso dello Zambia il cui valore è passato da 0 a 98,3 milioni tra il 2014 e il 2015. Il resto della torta è spartito principalmente da Kenya, Algeria e Marocco.

La produzione di componenti per la fabbricazione di armi, l’esportazione delle stesse non possono essere considerate attività produttive come le altre. Troppi sono gli interessi in gioco e troppo alto è l‘impatto che le stesse hanno sulle vite umane. Ma senza addentrarsi nelle questioni etiche e morali, il proprio Paese che vende armi a Paesi coinvolti in un conflitto, violando di fatto la legge a tre livelli distinti, nazionale, europeo ed internazionale, non può che lasciare attoniti.

ANALISI "COMPLOTTISTA" DELLA POLITICA DI OBAMA

ANALISI "COMPLOTTISTA" DELLA POLITICA DI OBAMA

Giuseppina Concesa 
20 gennaio 2017




Propongo, sulla base delle vicende di questi ultimi anni, una lettura della politica estera in medio oriente di Barak Obama. 

L'amministrazione di Obama ha occultamente sostenuto e armato l'ISIS incoraggiandone le manifestazioni di efferata violenza, diffuse dai mezzi di informazione tramite video di qualità professionale. 

I cristiani erano le vittime privilegiate della violenza dei mercenari dell'ISIS. 

Questo insulto ai valori che costituiscono le radici della civiltà europea avrebbe dovuto, secondo piani occulti, portare l'opinione pubblica dell'Europa a premere perchè gli eserciti delle nazioni europee intervenissero in Siria a difendere i valori umanitari così platealmente calpestati. 

I "false flag", a presunta matrice islamica, dovevano contribuire a raggiungere tale obiettivo. 

Per un complesso di buoni motivi l'opinione pubblica dell'Europa non ha reagito secondo le aspettative mentre la Russia, comprendendo di essere in realtà al centro dei progetti di aggressione dell'amministrazione Obama, ha scelto di iniziare a difendere i suoi interessi strategici proprio in Siria contro l'ISIS, rispettando i trattati che regolano i rapporti tra stati sovrani già esistenti.

La sconfitta dell'ISIS in Siria, ottenuta con il sostegno della Russia, ha reso evidente che ormai l'opinione pubblica occidentale, oltre a respigere con orrore l'operato dell'ISIS, si orientava apertamente a favore di chi stava combattendo l'ISIS con coraggio e mezzi efficaci. 

Pertanto, insieme all'ISIS, risultavano sconfitti tutti coloro che avevano progettato e attuato gli interventi adatti a portare deliberatamente il caos in varie nazioni, tra le quali la Libia e poi la Siria. 

Anche l'opinione pubblica in USA non poteva più essere ingannata ulteriormente e Hillary Clinton non avrebbe mai vinto le elezioni presidenziali onestamente. 

Il seguito si vedrà in futuro. 


ALEXANDER DUGIN: SE VOGLIAMO SOPRAVVIVERE COME POPOLO INDOEUROPEO, È IL MOMENTO DI SVEGLIARCI

ALEXANDER DUGIN: SE VOGLIAMO SOPRAVVIVERE COME POPOLO INDOEUROPEO, È IL MOMENTO DI SVEGLIARCI



Alexander Dugin la modernità e la fine della civiltà indoeuropea

Gli indoeuropei, oggi. Questo è importante, perché nell'ultimo millennio i popoli indoeuropei in Occidente, in Europa e in Oriente - in Iran e India - sono stati al centro di tutti gli eventi e i processi più importanti su scala globale, ha detto Dugin. Non sempre, questi eventi erano belli e gentili, ma le opere , gli alti e bassi degli ultimi migliaia di anni - sono l'opera degli indoeuropei.



Il Filosofo oggi si chiede, del destino dei popoli e delle culture indoeuropee , ogni giorno che passa diventa più problematico, quando c'è una crisi di identità, una catastrofe demografica e, in generale un offuscamento della coscienza, è il momento di porre la domanda: chi sono i indoeuropei? Che cosa hanno in comune, se non altro cosa li unisce? Quello che avviene alla fine di un momento cruciale della sua storia, qual'è il suo destino?

E' importante perché gli Slavi, sono parte della civiltà indoeuropea, sottolinea Dugin.
Indo-europea è la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra storia. E c'è di più: la stragrande maggioranza degli storici e linguisti ritengono che le prime tribù indo-europee - gli antenati dei popoli d'Europa, d'India, e Iran, e anche degli Ittiti malesi sono usciti dal paese, che nel secolo scorso sono stati parte dei territori del nostro paese - la Grande Russia.



Dugin parla, dell'identità degli indoeuropei.  Secondo lui, si tratta di persone che adorano antichi dei paterni di luce celeste. Nella cultura  indo-europea prevalse il politeismo, ma dopo la nascita di Cristo, esattamente 2017 anni fa, gli indoeuropei, a cominciare dai greci e romani, si sono convertiti al cristianesimo. Finché, quasi tutta l'Europa, non è divenuta cristiana.

Ma in questo caso, il Dio della Trinità è stato concepito come luce increata, Re Celeste.
Fedele alla luce e al cielo - una caratteristica essenziale della religione indo-europea, afferma il filosofo.

Popoli indoeuropei -  famiglia patriarcale, continua Dugin. Hanno umiliato le donne, che hanno considerate oggetti o schiave, anche loro daranno. al patriarcato indo-europea che procedeva di fatto dal cielo - padre e dalla terra - madre. Essa non degradava la terra, né le donne, perché fonte di un unico vertice.

Dugin ha detto che lo storico francese Georges Dumézil ha giustificato e  dimostrato che tutte le società indoeuropee sono state costruite sul modello della triade, sulla base di tre caste o classi.

La prima casta è quella dei sacerdoti dei re sacri e sacerdoti. Ma il sacerdozio è strettamente e indissolubilmente connesso con il regno.Il consiglio, il tiranno usurpatore o un idiota erano considerati un'anomalia.

Georges Dumézil

La  seconda casta - i soldati professionisti. Gli Indoeuropei non avevano uguali. Sapevano come combattere, e hanno sempre combattuto. Gli Indoeuropei hanno domato il cavallo e iniziato l'uso del carro, e naturalmente, l'abbiamo usato per attaccare, lottare, vincere.

Con questa mentalità indo-europea hanno creato tutti gli stati d'Europa e molti paesi asiatici. In un certo senso, grazie alla seconda casta Indo gradualmente hanno raggiunto il dominio del mondo. Bene o male - è un'altra questione. Il fatto che abbiamo raggiunto, i guerrieri creano governi.
E che gli indoeuropei affrontato perfettamente.

La terza casta Indo era costituita dai lavoratori, contadini, popoli nomadi - gli Sciti, Sarmati, carrettieri, Kushan, il Saka, i Parti, gli Ariani vedici - da allevatori.
Materiale per produzione, della ricchezza, il cibo, e le donne sono per lo più nella terza casta, che è ai piedi della gerarchia indo-europea.

Sacerdoti e re abbinati al cielo. Guerrieri - all'aria. Agricoltori - al suolo. 

E l'intero sistema di valori è stato basato su di esso. Questo è andato avanti per millenni. Tutti i tipi indoeuropee di religioni, società, culture, miti, fiabe, cronache storiche e sistemi economici sono basati su questo modello patriarcale trino funzionale. Essere indoeuropei significa : appartenere a una società di sacerdoti, guerrieri e lavoratori.

E cosa c'entra questo con i mercanti, i cambiavalute, gli usurai? No,  ha sottolineato  Dugin. Quelli   sono disprezzati  nelle società indoeuropee . Il capitalismo è apparso solo quando i valori indo-europei si sono rapidamente  affievoliti , dimenticati, degradati, degenerati.

Inoltre non è nota la società di eguali . E questo è un segno di degenerazione. Non conoscevano  il femminismo e sodomia: differivano dai culti matriarcali della terra indoevropeyskie (nella carta sotto), come ad esempio il culto di Cibele.



Nei tempi moderni gli europei, che hanno abolito la religione, la fede nel Re e Padre celeste, la classe, la comprensione sacrale del mondo (in effetti, il patriarcato), ha dato inizio al declino della civiltà indo-europea. Il capitalismo, il materialismo, l'egualitarismo, l'economicismo - tutta questa vendetta della società con le quali la guerra, la soppressione e il recupero, che sono l'essenza della storia di tutti i popoli indoeuropei. La modernità è stata la fine della civiltà indo-europea.

La naturalità   e rara è opportuna.

Questa non è un'astrazione: consideriamo che è anche il modo più diretto, ha attirato l'attenzione del filosofo.

Nessun compromesso, non ci aiuterà, ha detto Dugin. O si scompare per dissolversi, o dobbiamo ripristinare la nostra civiltà indo-europea nella sua interezza, con tutti i suoi valori e stili di vita e della metafisica. Se vogliamo sopravvivere come popolo, come un popolo indoeuropeo, abbiamo bisogno di svegliarci e rinascere. Contrariamente a ciò che è stato a lungo di per sé evidente nel mondo della modernità.


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