sabato 6 novembre 2010

Perché le chiacchiere tra sorelle rendono più felici

Deborah Tannen,

The New York Times

Stati Uniti

Deborah Tannen

Secondo la linguista Deborah Tannen parlare fa bene all’umore, indipendentemente dal contenuto delle conversazioni. E con le sorelle si parla più spesso

Secondo un recente studio, gli adolescenti che hanno una sorella sono meno propensi a sentirsi “infelici, tristi o depressi” e a pensare “nessuno mi vuole bene”. Anche altri studi sono giunti a conclusioni simili.

Ma perché avere una sorella dovrebbe rendere più felici? La risposta classica – che le ragazze e le donne parlano delle emozioni più facilmente dei ragazzi e degli uomini – non è soddisfacente. Gran parte del lavoro che ho svolto nel corso degli anni mi ha portato a pensare che l’amicizia e le chiacchiere femminili non sono di per sé migliori di quelle maschili, ma semplicemente diverse.

Una volta un uomo mi ha raccontato di aver trascorso una giornata con un amico che stava divorziando. Quando è tornato a casa, la moglie gli ha chiesto come stesse l’amico. Lui ha risposto: “Non lo so, non ne abbiamo parlato”. La moglie lo ha rimproverato. Per lei l’amico aveva senz’altro bisogno di parlare di ciò che stava passando. Il marito si è sentito in colpa, perciò ha provato un certo sollievo quando ha letto nel mio libro Ma perché non mi capisci? che anche fare delle cose insieme può essere di conforto e una dimostrazione d’affetto. Parlare del divorzio poteva far stare peggio l’amico ed esprimere preoccupazione poteva suonare paternalistico.

Se parlare dei problemi non è necessario per trovare conforto, avere una sorella invece di un fratello non dovrebbe rendere gli uomini più felici. Eppure lo studio di Laura Padilla-Walker e dei suoi colleghi della Brigham young university è stato confermato anche da altri studi. In una mia recente ricerca, ho intervistato più di cento donne sulle loro sorelle, e se avevano anche fratelli gli ho chiesto di fare un confronto.

La maggior parte ha detto di parlare con le sorelle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali. Non sempre questo voleva dire che si sentivano più vicine alle sorelle. Una donna, per esempio, ha raccontato di parlare per ore al telefono sia con i due fratelli sia con le due sorelle. Gli argomenti delle loro chiacchierate, però, sono diversi. Con le sorelle parla della vita privata, con i fratelli di storia, geografia e libri. Ma parlare a lungo raforza il legame sia con i fratelli sia con le sorelle, a prescindere da quello che si dice.

Il potere della parola

Il punto centrale del perché avere le sorelle rende felici – sia gli uomini sia le donne – potrebbe non dipendere dal tipo di conversazione, ma dal solo fatto di conversare. Se gli uomini, come le donne, parlano più spesso con le sorelle, questo potrebbe spiegare perché le sorelle rendono più felici.

Le interviste che ho condotto hanno confermato questa deduzione. Molte mi hanno detto di non parlare dei loro problemi personali neanche con le sorelle.

Un esempio è Colleen, una vedova ottantenne che era sempre stata molto vicina alla sorella non sposata, ma non aveva mai parlato con lei di problemi personali. A un certo punto la sorella è andata a vivere con lei e il marito. Colleen ha ricordato che ogni mattina, quando lui si alzava per fare il caffè, la sorella si fermava in camera sua per darle il buongiorno. Colleen la invitava a sedersi sul letto. E mentre se ne stavano lì, mano nella mano, “parlavano del più e del meno”. È questo un altro tipo di conversazione a cui si dedicano molte donne e che stupisce molti uomini: parlare dei dettagli della vita quotidiana, come il maglione comprato in saldo. Per alcune donne queste conversazioni sono confortanti come per altre lo sono le conversazioni “sui problemi”.

Quindi forse è vero che parlare è il motivo per cui avere una sorella rende più felici, ma non è necessario che si parli di emozioni. Quando le donne mi hanno detto di parlare con le sorelle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali, sospetto che l’elemento fondamentale sia il primo – “più spesso” – e non l’ultimo.


Parlare fa bene all'umore, alle malattie psicosomatiche.

Deborah Tannen insegna linguistica alla Georgetown university ed è autrice, tra l’altro, di You were always mom’s favorite! (Random House 2009)



Watch the full episode. See more The WETA Book Studio.

venerdì 5 novembre 2010

La grande farsa delle elezioni birmane

Kyaw Zwa Moe,
The Irrawaddy, Thailandia



Per la prima volta dopo vent’anni, il 7 novembre il paese asiatico andrà alle urne. Ma con la legge elettorale voluta dalla giunta militare il risultato è scontato e il voto inutile

Le discusse elezioni birmane, le prime in vent’anni, sono alle porte. Quasi tutti i gruppi democratici del paese le deiniscono “antidemocratiche e inutili”. Per i 37 partiti che hanno presentato le loro liste, sono “l’unica alternativa politica”, mentre molti birmani sono convinti che “non produrranno nessun vero cambiamento”.

La leader democratica Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari, restano in carcere oltre 2.100 prigionieri politici e i partiti che rappresentano alcune etnie sono stati esclusi. Inoltre, la commissione elettorale nominata dalla giunta militare ha stabilito delle regole che limitano la libertà dei partiti democratici e favoriscono il partito che rappresenta la giunta, l’Unione solidarietà e sviluppo (Usdp). Le regole, sostiene la commissione, colpiscono tutti i partiti allo stesso modo. Ma l’Usdp le ignora, sapendo che non ci saranno ripercussioni.

La giunta non vuole la democrazia in Birmania. L’obiettivo di queste elezioni è legittimare l’egemonia militare nel paese dandole una parvenza di governo parlamentare. Il voto è gestito dagli stessi generali che hanno ignorato l’esito delle elezioni del 1990, che attribuiva alla Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi una maggioranza schiacciante.

I partiti di opposizione come la Forza democratica nazionale –nata da una scissione dalla Nld –, il Partito democratico e i partiti etnici non legati al governo militare hanno scelto di partecipare alle elezioni. Perché sperano, con qualche seggio in parlamento, di avviare il processo di democratizzazione. Ma difficilmente la giunta gli darà spazio. A dominare il parlamento saranno i candidati designati dall’esercito e gli ex uiciali, che non scenderanno a patti con l’opposizione.

Inoltre, i candidati democratici credono che la riconciliazione nazionale potrebbe risolvere i problemi del paese e che le elezioni siano l’unica alternativa. È difficile credere che queste elezioni possano contribuire all’ampia riconciliazione nazionale tra militari, organizzazioni democratiche e gruppi etnici necessaria per risolvere lo stallo politico del paese.

Anzi, nel preludio alle elezioni forse sta succedendo il contrario. Negli ultimi mesi le tensioni tra i militari e i gruppi etnici armati sono aumentate. Il conflitto tra truppe governative e milizie etniche, che paralizza lo sviluppo del paese da decenni, potrebbe perino peggiorare. Nonostante questo, le elezioni si terranno il 7 novembre a qualunque costo. E sarà bene osservarle alla ricerca di un segnale che testimoni almeno qualche progresso. Innanzitutto bisognerà vedere se la maggioranza dei partiti democratici otterrà un’alta percentuale di seggi. E poi se Suu Kyi sarà davvero rilasciata il 13 novembre, dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari. Infine, si vedrà se gli oltre 2.100 prigionieri politici saranno liberati.

Perfino qui, però, la storia ci ha insegnato a non sottovalutare l’abilità con cui i generali manipolano gli eventi a loro vantaggio. Anche se i gruppi d’opposizione avranno dei seggi in parlamento e Suu Kyi e gli altri prigionieri politici saranno rilasciati, è molto probabile che il nuovo governo userà tutti i mezzi in suo potere per imbavagliarli e ostacolarli. Di recente, il portavoce del dipartimento di stato americano P.J. Crowley ha detto: “Speriamo che il nuovo governo abbia un atteggiamento diverso rispetto al passato”. L’“atteggiamento diverso” a cui si riferisce Crowley significa permettere alle voci d’opposizione di farsi sentire in parlamento e consentire il rilascio di Suu Kyi e degli altri prigionieri politici. Se la comunità internazionale riconoscerà la legittimità del nuovo governo prima che tutto questo accada, tradirà i 55 milioni di persone che vivono in Birmania.




Maggio 2008 Mentre una parte della popolazione è in ginocchio a causa del ciclone Nargis, viene approvata la nuova costituzione voluta dalla giunta. La carta esclude dalle elezioni gli ex detenuti (quindi buona parte degli oppositori politici) e prevede che un terzo dei seggi vada ai militari.

Marzo 2010 La Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi decide di boicottare il voto. Due mesi dopo, una fazione della Nld forma la Forza democratica nazionale e partecipa alle elezioni. Agosto 2010 Alcuni alti uiciali della giunta lasciano la divisa per candidarsi. Da sapere

giovedì 4 novembre 2010

Guy Deutscher: Il linguaggio altera il nostro modo di pensare

Una conversazione con l’autore di The Unfolding of Language e Through the Language Glass



Robert McCrum

Tradotto da Curzio Bettio

Guy Deutscher è un personaggio raro, un accademico che esprime buon senso quando tratta di linguistica, il suo campo di ricerca. Nel suo nuovo libro "Through the Language Glass [Attraverso la lente del linguaggio] (Heinemann), egli senza esitazione contraddice l’opinione generale che va tanto di moda, sull’esempio fornito da Steven Pinker, che il linguaggio sia un prodotto della costituzione naturale e non assuma carattere e valenza dalla cultura e dalla società. Deutscher argomenta, in modo vivace e provocatorio, che in effetti la nostra lingua madre influenza il nostro modo di pensare e, fattore decisamente importante, il nostro modo di percepire il mondo.



Il linguista Guy Deutscher contesta l’opinione che
la lingua non sia conformata dalla cultura

Fotografia: Sophia Evans per l’Observer


Questo quarantenne linguista, ricercatore onorario all’Università di Manchester, nel suo libro attinge a tutta una serie di fonti per dimostrare come il linguaggio rifletta la società in cui viene parlato. Nel corso di questa sua operazione, egli spiega perché l’acqua in Russia (un “essa”, genere femminile) diventa un “esso”, genere maschile, e perché, in tedesco, una ragazza non ha sesso, genere neutro, mentre una rapa lo ha.

In sintesi, di cosa tratta il suo nuovo libro?

Il testo analizza come il mondo possa apparire differente nei diversi idiomi. Io tento di spiegare, in questa corsa all’attribuzione ai nostri geni di tutti gli aspetti fondamentali del linguaggio e del pensiero, perché l’immenso potere della cultura e dell’educazione sia stato grossolanamente sottovalutato.

Come è avvenuta questa sottovalutazione?

Ad esempio, io ritengo che la lingua madre esercita una considerevole influenza sul modo in cui noi pensiamo e percepiamo il mondo. Comunque esiste il grande problema del retaggio storico connesso a questa questione, e quindi molti psicologi e linguisti degni di nota non vogliono addentrasi in questa materia.

Insomma, è come se uno storico dovesse trattare del carattere nazionale, o no?

Esattamente. Però penso che ora siamo cresciuti abbastanza per esaminare questa questione in modo scientifico.

Può farmi un esempio di ciò che lei intende?

L’esempio più calzante si riferisce a ciò che io definisco il linguaggio dello spazio – come noi descriviamo la disposizione degli oggetti che ci circondano. Consideriamo una frase come: “Il bambino si trova dietro l’albero” – si potrebbe immaginare che tutte le lingue funzionino nella stessa maniera per descrivere qualcosa di così semplice. Risulta quasi inconcepibile che vi possano essere idiomi che non usano affatto tali concetti. Per secoli, filosofi e psicologi ci hanno fatto credere che concetti egocentrici come “davanti a”, “dietro”, “sinistra” o “destra” siano elementi universali per la costruzione del linguaggio e della conoscenza.

Forse che questi non sono universali?

Bene, esiste nel nord Queensland, nella lontana Australia, una lingua aborigena chiamata “guugu yimithirr”. Questi aborigeni hanno un modo di esprimersi rispetto allo spazio incredibilmente originale, nel senso che non usano assolutamente nessuno di questi concetti. Così, loro non direbbero mai: “Il bambino si trova dietro l’albero.” Invece direbbero: “Il bambino è a nord dell’albero.”

Si dà anche il caso che sia questa la lingua che ci ha fornito il termine “kangaroo”, canguro

Sì, è famosa per questo, ma dovrebbe essere doppiamente famosa. Questo popolo usa espressioni come: “Vi è una formica sul nord del tuo piede”, o “Ho lasciato la penna sul bordo meridionale del tavolo ad occidente nella tua stanza a nord della casa.” Si potrebbe pensare che questa loro bizzarra maniera di esprimersi rispetto allo spazio sia unica. Ma la scoperta di questa lingua ha incentivato un grande movimento di ricerca e abbiamo appreso che altri popoli del globo, dal Messico all’Indonesia, si esprimono in modo simile.

Che conseguenze derivano da una lingua come questa sulla percezione dello spazio?

Crescendo nell’ambiente di uso di una lingua come questa, in buona sostanza si sviluppa nella mente una sorta di sistema GPS (sistema di posizionamento mondiale, metodo di orientamento satellitare), un infallibile senso di orientamento, e la ragione è abbastanza semplice: se, dall’età in cui si comincia a parlare, si deve essere consapevoli delle direzioni cardinali ogni qualvolta si deve capire dove si trovano le cose anche più banali che vengono indicate, allora la lingua educa a prestare una costante attenzione all’orientamento in ogni momento. Proprio per questo intenso e costante esercizio, il senso dell’orientamento diventa una seconda natura.
Se viene chiesto ad un Guugu Yimithirr come conosce dove è il nord e dove il sud, vi guarderà con stupore, tanto quanto sareste meravigliati voi, quando io vi chiedessi se sapete dove sta il davanti e dove il dietro di voi.

Il suo interesse dominante è per la neurologia o la linguistica?

La mia attenzione è rivolta agli effetti del linguaggio sul pensiero, ma cerco di concentrarmi sugli effetti che possono essere dimostrati scientificamente. La neurologia può essere una materia appassionante, ma siamo ancora profondamente ignoranti su questi argomenti – sappiamo poco su come funziona il nostro cervello. Allora, per dimostrare una qualche influenza del linguaggio sul pensiero, abbiamo bisogno di trovare degli esempi in cui questa influenza ha conseguenze pratiche e misurabili sul comportamento reale. Se questa conversazione avvenisse fra cinquant’anni, sarebbe molto più facile parlare di una effettiva neurologia, in quanto saremmo in grado di analizzare completamente il cervello e riscontrare esattamente come ogni linguaggio differente influenzi aspetti differenti del pensiero. Le nostre attuali riflessioni su questi argomenti ci sembrerebbero pietosamente primitive. Tuttavia, il progresso può solo derivare da tentativi e fallimenti ed ancora da tentativi e fallimenti.
Through the Language Glass: How Words Colour Your World
Guy Deutscher
William Heineman
London 2010
319 p.
ISBN: 978-0-434-01690-7





Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.guardian.co.uk/technology/2010/jun/13/my-bright-idea-guy-deutscher

mercoledì 3 novembre 2010

Un giornale troppo libero

pro sa libertade de sa printera de is giorronalis e iscriri is prentas chentza censuras e controllus de is cantadoris

semus de sa parti de totus is perseguitaus idealistas e pulitucus!
sa defenza

Ala al Aswani


Negli anni ottanta, quando feci richiesta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver superato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, afollatissima di giovani medici e ingegneri che, come me, avevano richiesto una borsa per studiare all’estero. Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la risposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese.

Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a occidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualiica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna grazie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere grazie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: prima di tutto perché il sistema sofoca chi ha talento, secondo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno.

In Egitto le persone capaci hanno tre possibilità. Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo fino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talento a disposizione del regime, accettando di esserne servi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subiranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa. Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggiosi giornalisti egiziani.

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Ibrahim Eissa

Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter facendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al sistema. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Dustour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quotidiani.

Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al silenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha cercato di comprarlo, commissionandogli programmi televisivi che gli avrebbero fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha continuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva. A mano a mano che in Egitto aumentavano le pressioni sia popolari sia internazionali per un cambiamento democratico, il regime si è trovato in difficoltà e il suo nervosismo è cresciuto.

Ibrahim Eissa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano diabolico. Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco proprietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vicino ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della finta opposizione nella farsa delle prossime elezioni egiziane truccate.

Poi ha comprato Al Dustour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata. Dopodiché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata ufficialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Perché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista onesto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egiziani? Al Dustour è finito, ma è passato alla storia dell’Egitto come un grande esperimento giornalistico e culturale.

Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la verità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica soluzione è la democrazia.

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ALA AL ASWANI è uno scrittore egiziano. In Italia ha pubblicato Palazzo Yacoubian (2006), che è stato tradotto in venti lingue, Chicago (2008) e Se non fossi egiziano (2009), tutti editi da Feltrinelli.




Ibrahim Eissa è uno dei più dotati giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata nel mondo arabo

martedì 2 novembre 2010

E LO CHIAMANO futuro TENTATIVI DI INNOVAZIONE ANCORATI A GRIGLIE DI ANALISI VECCHIE E ARIDE



Al documento culturale promosso dalle associazioni di area finiana hanno aderito anche molti intellettuali di sinistra, convinti della necessità di «un nuovo patto fondativo». Oltre le regole della convivenza, c'è, però, la politica vera, che nella sua forma democratica richiede scelte divergenti e divisive ALBERTO SAVINIO, ARIEL

Giuliano Battiston
ilmanifesto.it

Appellandosi ad alcuni numi tutelari della teoria politica come Machiavelli e Hannah Arendt, e a uno dei padri della Costituzione repubblicana, Piero Calamandrei, il «Manifesto di ottobre» aspira a «riaccendere l'immaginazione progettuale della società» e a ristabilire un fertile legame tra cultura e politica, in opposizione alle «logiche privatistiche, antipolitiche, anticulturali che in questi anni hanno monopolizzato la sfera istituzionale». Il punto di partenza, spiega Fiorello Cortiana, uno degli estensori del testo, tra i fondatori dei Verdi, è stato da un lato «lo sconcerto di fronte alla deriva dell'antipolitica, frutto della crisi delle forme e dei contenuti dei partiti popolari, che ha prodotto un'esperienza come il berlusconismo, che a sua volta ha confermato e plasmato questa antipolitica», dall'altro l'«esplicita e lucida consapevolezza che siamo in un periodo che deve essere di nuovo costituente».

Ermafroditismo ideologico
L'obiettivo è promuovere una politica che torni a rispondere «a interessi generali», e ridia senso alle parole e all'alfabeto di cui si compongono. Perché, dice Monica Centanni, filologa e storica del teatro all'Università Iuav di Venezia, direttrice della rivista online Engramma, «si è corroso non solo il discorso sulle parole, la loro consistenza, il loro significato, ma la stessa grammatica del pensiero, la sintassi del ragionamento». Da qui deriva la «totale disaffezione rispetto al presente, considerato non più come risorsa ma come controcanto negativo di un passato mitizzato o di un futuro dilazionato». Occorre invece alimentare la passione del presente, quella «dimensione di ulteriorità che è la politica, come ci insegnano Aristotele e Hannah Arendt, intesa non come necessità, ma come passione e desiderio, come attivazione di un campo energetico, per dirla con Warburg». E ad Hannah Arendt fa riferimento anche un altro promotore del Manifesto, Peppe Nanni, figura di riferimento della destra milanese, che indica nella «riqualificazione della politica come attività che connota l'essere umano e non come male necessario, e nella libertà politica come partecipazione alle procedure del governo» gli obiettivi di questa operazione politico-culturale, che aspira a sganciarsi dal Novecento, a superare «le vecchie e inaridite appartenenze, congedando le ossessioni e i ricatti delle memorie ferite», come recita il testo presentato il 26 ottobre. Un'operazione dolorosa, sostiene Nanni, «perché occorre strapparsi alle proprie appartenenze, aggredire il passato alle spalle, per dirla con Giorgio Galli», ma che è vitale, perché la politica è «slegamento, rottura, innovazione, cominciamento».
E di «rigenerazione della politica» parla il filosofo Giacomo Marramao, che respinge le obiezioni di ecumenismo scolorito mosse al Manifesto (tra gli altri da Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera»), individuando invece «nella validità del patriottismo costituzionale come base del discorso», fatta propria da intellettuali post-missini, «nell'esigenza di una sfera pubblica basata su principi e valori condivisi» una «denuncia durissima degli elementi di corruzione presenti nel modo di gestione politica del governo berlusconiano». E soprattutto un elemento storicamente rilevante, di cui va dato atto a chi, finora, non aveva ancora riconosciuto così esplicitamente «i valori della costituzione repubblicana, nata dalla resistenza e dall'antifascismo».

Per lo storico Franco Cardini le accuse di ermafroditismo ideologico suonano sospette: «è la risposta, un po' sconcertata, di chi trova d'accordo, su questioni essenziali, persone che non dovrebbero neanche salutarsi», persone mosse non da uno sterile eclettismo, ma, «in termini kantiani, da un imperativo morale svincolato da qualsiasi interesse personale». Cardini non manca però di sottolineare quella che per lui è la principale lacuna di questa «piattaforma, aperta e inclusiva», che segnala indirizzi, non dogmi, e lascia spazio al dissenso: la scarsa attenzione «allo sviluppo abnorme e incontrollabile della volontà di alcuni, che ha creato una concentrazione di ricchezza e di potere decisionale nelle mani di pochi». In altri termini, la questione della «giustizia sociale». A quella di Cardini, vengono da aggiungere almeno tre altre osservazioni critiche. La prima: è salutare che, all'osceno della cultura politica berlusconiana, fin qui pigramente subito o favorito, si contrapponga non solo l'indignazione della denuncia, troppo spesso consolatoria, ma un rinnovato esercizio di vitalità politica. Ma si tratta di un esercizio ritardato, che avviene quando, ormai, «i buoi sono usciti dalle stalle», anche a causa dell'acquiescenza di quella destra che ora prova a smarcarsi, con un'operazione culturale in grande stile, dal Capo. Il secondo: la rivendicata apertura «generativa», il «pensiero di rottura delle consuetudini usurate», l'energia produttiva sprigionata dalla crisi della politica rientrano, interamente, in una cornice così circoscritta e prevedibile da depotenziare qualsiasi «azione trasformatrice»: la cornice westfaliana dello Stato-nazione, l'orizzonte della comunità politica ancorata alla demarcazione territoriale sancita dalla sovranità statale.

Chiusi nel «particulare»
Nel Manifesto, infatti, non c'è nessuna allusione, nessuna consapevolezza che i problemi della democrazia rappresentativa, la difficoltà di dare voce «ai clandestini della politica», ai «senza parte» di Rancière - su cui pure tanto si insiste - dipendono ormai anche dalla rottura di quella cornice, e che non possono essere risolti senza interrogarsi sul cosmopolitismo, sulla giustizia globale, sulla limitatezza del nazionale come unica chiave di lettura della società. A dispetto delle sue ambizioni, dunque, si tratta di un Manifesto troppo «introflesso», ripiegato sul particulare nazionale, ancorato a griglie analitiche novecentesche, queste sì spuntate e inaridite. Un difetto che, forse, deriva dal terzo: nonostante i nobili ideali a cui aspira, la genesi dell'appello sembra dipendere, prima ancora che dal «sommovimento geologico delle categorie della politica», dal molto più epidermico riposizionamento tattico del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Un condizionamento troppo evidente per aspettarsi la nascita di un'effettiva, nuova cultura politica. Se è vero, come recita il Manifesto, che «senza cielo politico non c'è cultura, ma soltanto erudizione e retorica», è altrettanto vero che, quando quel cielo è troppo basso, la cultura ne rimane inevitabilmente schiacciata.
read.


Il manifesto di ottobre

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122142/il_manifesto_dottobre_il_dibattito

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122141/il_manifesto_di_ottobre


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