venerdì 10 dicembre 2010

Gli studenti bloccano il paese

Migliaia di persone hanno manifestato il 30 novembre contro la riforma dell’università. Il testo è passato alla camera, ma il governo sembra sempre più in difficoltà


Mariangela Paone e Lucia Magi,

El País, Spagna

Prima è stata la volta della Francia, poi della Gran Bretagna e adesso dell’Italia. Come è già successo a Parigi e a Londra, il malessere sociale che attraversa l’Europa a causa delle riforme e dei tagli promossi dai governi dei paesi colpiti dalla crisi economica è sfociato il 30 novembre a Roma nella più grande protesta studentesca degli ultimi anni. Migliaia di studenti sono scesi in piazza nelle principali città italiane contro la riforma del sistema universitario voluta dal ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini e per ribellarsi alle politiche del governo Berlusconi.


Nelle settimane precedenti la protesta ha raggiunto i monumenti che simboleggiano la cultura italiana: gli studenti hanno occupato pacificamente il Colosseo e la Torre di Pisa. Il 30 novembre, invece, hanno bloccato il traffico sulle strade e occupato i binari di diverse stazioni ferroviarie.

Secondo l’Unione degli universitari, alle proteste hanno partecipato 400mila persone. Da Torino a Palermo, da Venezia a Napoli, le manifestazioni hanno mandato in tilt molte città italiane. A Bologna ci sono stati degli scontri tra la polizia e gli studenti all’ingresso della stazione. A Milano tre stazioni della metropolitana sono rimaste chiuse per alcune ore.


“Blocchiamo il paese”, era lo slogan urlato dagli studenti mentre in parlamento si discuteva della riforma. Il disegno di legge è anche un nuovo banco di prova per la stabilità del governo, che non gode più dell’ampia maggioranza ottenuta alle politiche del 2008. La decisione del presidente della camera Gianfranco Fini di uscire dal Popolo della libertà – che aveva fondato insieme a Silvio Berlusconi – per formare il gruppo autonomo Futuro e libertà (Fli), ha messo in difficoltà il governo alla camera, dove il 14 dicembre sarà votata la siducia contro il premier. Lo stesso giorno in senato si voterà una mozione di fiducia.


Roma militarizzata

La riforma, che prevede tagli alle borse di studio e alla ricerca nelle università pubbliche, è stata approvata nella tarda serata del 30 novembre con 307 voti a favore e 252 contro. Ora deve essere approvata dal senato. I sostenitori di Fini avevano annunciato che avrebbero sostenuto il disegno di legge, ma la debolezza della maggioranza è sembrata evidente quando il governo è stato battuto su due emendamenti, approvati con i voti di Fli.


E mentre la riforma universitaria si trasformava in una prova generale per misurare le forze dei diversi gruppi parlamentari, fuori gli studenti si scontravano con la polizia, che aveva creato un cordone di sicurezza intorno a piazza Montecitorio. In via del Corso, una delle strade centrali della capitale, la polizia ha caricato gli studenti che lanciavano pietre e bottiglie. L’intervento delle forze dell’ordine è stato duramente criticato dall’opposizione. “La stragrande maggioranza degli studenti e dei ricercatori si è mossa in modo pacifico”, ha detto Pier Luigi Bersani, leader del Partito democratico. “Non ho mai visto Roma così. Se si è arrivati a livelli così alti di tensione è per l’irresponsabilità del governo”.


Il governatore della Puglia e presidente di Sinistra ecologia libertà, Nichi Vendola, si è spinto oltre e ha parlato di clima “cileno”. Il ministro dell’interno, Roberto Maroni, ha giustificato le misure di sicurezza (bisognava “garantire l’ordine pubblico”) e ha accusato l’opposizione di strumentalizzare la protesta. Berlusconi, dal canto suo, ha risposto così ai giovani che stavano protestando contro la riforma: “Gli studenti veri sono a casa a studiare, quelli che protestano sono dei centri sociali o fuori corso”. Gli studenti si sono dati appuntamento attraverso Facebook e Twitter, usati per organizzare le proteste in tutte le città. “Paralizziamo il paese per paralizzare questo progetto che toglie soldi all’istruzione pubblica”, era lo slogan che rimbalzava in dalla mattina presto dal Duomo di Milano alle piazze di Napoli, ancora sporche per l’ennesima emergenza riiuti. u sb

mercoledì 8 dicembre 2010

La fine dell’unione

L’Europa ha smesso di essere un progetto vivo e proiettato nel futuro. Ormai è dominata dalle regole dell’economia

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Thomas Steinfeld,

Süddeutsche Zeitung, Germania

L’opinione Il carattere complesso dell’Unione europea, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza della sua contraddizione di fondo

Alla base dell’Unione europea c’è una contraddizione: ognuno dei suoi stati membri, anche la Germania, è troppo piccolo per poter essere competitivo nel mondo globalizzato. Per riuscirci, i paesi europei si sono dovuti unire e hanno dovuto creare un mercato comune per le loro aziende. È una regola che vale per tutti gli stati dell’Ue.

Ogni paese ha rinunciato a una parte della sua sovranità, e lo ha fatto per il suo interesse. In questo modo è nata una comunità in cui i diversi membri sono alleati e allo stesso tempo concorrenti tra loro. Il carattere complesso dell’Unione, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza di questa contraddizione, che per cinquant’anni è sembrata a tutti tollerabile. Questa gigantesca costruzione, però, sembra arrivata alla fine del suo percorso: due stati membri, la Grecia e l’Irlanda, hanno già smesso di essere tali perché ormai sono troppo deboli per restare in piedi da soli. Altri due, il Portogallo e la Spagna, rischiano di fare la stessa fine. È probabile che l’Unione europea non si sfalderà, ma di certo non sarà più quella che conosciamo da cinquant’anni.

Finora l’Europa è sempre stata un’idea: il progetto di una coesistenza costruita accordo dopo accordo, ma che non ha mai perso il suo carattere utopico. Anzi, al di là dei calcoli utilitaristici, sono stati proprio il sogno, i continui riferimenti al futuro, a tenere insieme l’impalcatura europea. Così la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nata nel 1950 per iniziativa di sei paesi, con gli anni si è allargata, attraverso il Trattato di Roma e quello di Maastricht, fino all’integrazione di Romania e Bulgaria nel 2007.

Tuttavia, il progetto più importante – e l’espressione più evidente della contraddizione europea – è stato l’euro: una moneta unica senza un’economia unica. Se oggi si vuole davvero salvarlo, bisogna risolvere la contraddizione di cui abbiamo detto. A questo punto è possibile che l’Europa faccia un passo importante, e fino a poco tempo fa non pianificato, verso l’unione economica. Nella storia ci sono diversi esempi di imprese simili, costate tutte tempo e violenza.

Forse oggi l’Unione europea, sempre più dominata da vincoli e regole, si trova di fronte a uno scenario del genere. Cultura e rivolta Il progetto dell’Europa unita è sempre stato caratterizzato da una certa dose di idealismo. Per questo gli europei hanno sviluppato un rapporto molto stretto con la cultura. Oltre la politica simbolica delle strette di mano tra capi di stato, dei gemellaggi tra le città e della valorizzazione delle radici storiche, anche la produzione culturale ha permesso all’Europa di alimentare una visione unitaria di sé.

Ma quando è stato che questo impulso ha smesso di avere effetti concreti? E perché? È fondamentale notare che oggi questo tipo di politica non basta più a superare la contraddizione di base dell’Unione, che si potrebbe risolvere con la creazione di uno spazio economico comune nel rispetto delle sovranità nazionali. Se la Grecia e l’Irlanda vengono messe sotto tutela, se interi paesi s’impoveriscono perché non riescono a pagare i debiti, allora la vera protagonista dei rapporti tra gli stati europei non è più la cultura comune ma l’economia con le sue regole. Queste regole, che non sono rappresentabili con gli strumenti dell’arte, pongono le basi dell’autoritarismo e delle rivolte individuali.

Il romanzo di Soi Oksanen Purgatorio (2008), il ritorno al leninismo nei testi di Slavoj Žižek e il libro francese L’insurrezione che viene sono già espressioni di una coscienza della rivolta che non fa distinzione tra destra e sinistra perché parla di differenze esistenziali e non politiche, di un “dentro” e di un “fuori”. Le manifestazioni in Grecia e in Gran Bretagna dimostrano che questa rivolta non rimarrà sul piano puramente estetico. Mentre peggiorano le condizioni di vita nei paesi più deboli dell’Unione, ed è sempre più evidente che in futuro si affermerà come soggetto politico sovrano solo chi è in grado di creare ricchezza (cioè pochissimi paesi, tra cui la Germania), le critiche si trasformano in proteste che nessuno ascolta.

Certo, per tanto tempo l’unità europea è stata un progetto civilizzatore e, fatta eccezione per la ex Jugoslavia, da 65 anni in Europa non ci sono più guerre. Ma ormai anche questo progetto sembra in crisi. I greci, che ino a poco tempo fa provavano simpatia per i turisti tedeschi, oggi non nascondono l’astio verso chi gli ha venduto frigoriferi e automobili. I tedeschi, invece, vedono nei greci soprattutto quelli che dilapidano i loro soldi. E gli irlandesi temono che la Germania possa “acquistare” il loro paese. Tutto questo dimostra non solo che l’intero progetto europeo alla fine riguarda soprattutto il denaro, ma che tutti i discorsi sulla cultura comune sono una sovrastruttura ideologica nel senso marxista del termine.

Del resto, non era stato proprio il marxismo ad affermare che l’economia è l’unico potere reale? Oggi molti condividono quest’idea, anche se nel loro pensiero non c’è traccia di marxismo. E i pochi da cui ci si aspetterebbe un giudizio su una situazione molto intricata, come Jürgen Habermas, con le loro critiche sull’“apatia delle élite politiche” forniscono interpretazioni di ordine psicologico. Oggi, però, non possiamo accontentarci di questo. Come un tempo si proponeva di fare la filosoia, dobbiamo formulare un giudizio nuovo sulla nostra epoca. ◆

lunedì 6 dicembre 2010

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori.. Trionfo annunciato

El Pais Spagna

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori..

Zoom Foto

I nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) sono tornati al governo della Catalogna. Visti i risultati, Artur Mas potrà governare da solo o ricorrere ad accordi a geometria variabile, come quelli fatti dal premier José Luis Rodríguez Zapatero al parlamento di Madrid. Il leader di CiU, però, dovrà afrontare una situazione complicata. La crisi, che ha finito per mettere in difficoltà i socialisti, lo obbligherà a fare dei tagli impopolari, e la recessione frenerà parte delle sue iniziative. Tanto per cominciare, prima di prendere decisioni difficili, Mas aspetterà il risultato delle politiche del 2012. In questo modo rimanderà fino al 2013 la proposta di un nuovo accordo economico con il governo centrale.


Per adesso sia i socialisti sia i popolari hanno respinto il patto fiscale proposto da CiU, ma dopo il 2012 le cose potrebbero cambiare. Le posizioni dei nazionalisti catalani rispecchiano la domanda di sovranità che arriva dalla società. Mas ha deciso di non promuovere un referendum per l’indipendenza, ma cercherà comunque di raggiungere degli obiettivi graduali. I catalanisti hanno ricevuto un grande slancio politico anche dalle manifestazioni autonomiste del 10 luglio, organizzate per protestare contro la bocciatura del nuovo statuto catalano da parte della corte costituzionale. Sconfitti ed estromessi dal governo, i socialisti del Psc dovranno invece affrontare un percorso molto diicile. Il leader José Montilla potrebbe abbandonare il parlamento catalano per guidare la transizione del partito dall’interno, anche se ha dichiarato che al prossimo congresso non si ricandiderà alla guida del Psc.


Resta da vedere se i catalanisti daranno battaglia e se la corrente più vicina a Zapatero li seguirà. Secondo i sondaggi, inoltre, il Psc va incontro a una nuova batosta alle comunali di Barcellona. Il rischio è che il partito perda il suo ruolo di cerniera tra la Catalogna e Madrid. La debolezza dei socialisti fa il paio con l’insuccesso di Esquerra republicana (Erc), che ha perso la metà dei deputati. L’avventata proposta di tenere un referendum sull’indipendenza nella prossima legislatura non ha convinto gli elettori, che si sono spostati verso CiU. Gli altri voti persi da Erc sono andati al partito indipendentista di Joan Laporta, Solidaritat: i suoi quattro deputati andranno a formare il gruppo misto con i tre eletti di Ciutadans. Le urne, ifnine, hanno dissipato le preoccupazioni sull’ingresso in parlamento del partito xenofobo Plataforma per Catalunya, che non ha ottenuto neanche un seggio.

El País, Spagna

http://www.sanatzione.eu/wp-content/archivio_media/uploads/2010/11/Manifestada-in-Barcellona-URN-Sardinnya.jpg

Trionfo annunciato

José Antich,

La Vanguardia, Spagna


I risultati delle elezioni regionali del 28 novembre stravolgono la mappa politica della Catalogna e confermano quello che i sondaggi avevano già indicato: il ritorno dei nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) al governo della Generalitat e il crollo del Partito socialista catalano (Psc). Dopo sette anni di governo tripartito – guidato dal Psc e nato per allontanare dal potere CiU, che aveva governato la regione dal 1980 al 2003 – il leader nazionalista Artur Mas può tirare un sospiro di sollievo: la traversata nel deserto è finita.

La capacità di resistenza del nazionalismo conservatore, anche nei momenti più difficili della storia della democrazia spagnola, è stata straordinaria. La vittoria di CiU è rappresentata dai 62 seggi conquistati, sei in meno della maggioranza assoluta, mentre il vero sconfitto è il governatore uscente José Montilla.


L’esito del voto segna una svolta nella storia del socialismo catalano, che ha ottenuto il peggior risultato di sempre: 28 seggi e il 18 per cento dei voti. In vista delle comunali di maggio a Barcellona e a Girona, entrambe città governate dal Psc, le prospettive del partito di Montilla non sono confortanti. Gli altri sconfitti sono i due partner del Psc nel governo tripartito, Esquerra republicana e Iniciativa per Catalunya Verds. I popolari, invece, che non hanno mai avuto troppo successo tra i catalani, hanno due motivi per essere soddisfatti: sono di nuovo la terza forza della regione e con 18 seggi hanno ottenuto il miglior risultato di sempre in Catalogna.



El País Numero di seggi

del nuovo parlamento autonomo della Catalogna

CiU (nazionalisti catalani) 62

Partito socialista catalano (Psc) 28

Partito popolare catalano (Ppc)18

Iniciativa per Catalunya Verds 10

Esquerra republicana 10

Solidaritat 4

Ciutadans 3

domenica 5 dicembre 2010

Sardegna, l'isola che affonda

Carlo Lania
ilmanifesto




Qualcuno già la chiama l'isola ciambella, ma il paragone non ha proprio niente di dolce. Ciambella perché la crisi economica sta svuotando da tempo il centro della Sardegna spingendo i suoi abitanti prima verso le coste e poi, se proprio va male, a emigrare oltre il mare, in «continente» o all'estero. Da qui l'idea di una regione che, proprio come il celebre dolce, ha la polpa - il lavoro, la gente, la possibilità di un futuro - tutto intorno e il vuoto al centro. Una situazione resa sempre più pesante dalla crisi che da anni investe le industrie dell'isola e alla quale oggi si è aggiunta anche quella dell'agricoltura con i pastori sardi, soffocati dal prezzo troppo basso a cui sono costretti a vendere il latte, che per la prima volta si organizzano e scendono per le strade scontrandosi con la polizia. Senza parlare del turismo, ricchezza stagionale che però non incide sul Pil sardo per più del 7%. «La rivolta dei pastori è solo l'ultimo segnale, il classico campanello d'allarme. Se continua così il futuro rischia di essere molto ma molto pesante per la sopravvivenza stessa della Sardegna», dice visibilmente preoccupato Ignazio Ganga, segretario della Cisl di Nuoro, una delle province maggiormente colpite dalla crisi. Gli operai dell'Alcoa e quelli della Vynils di Porto Torres, divenuti ormai famosi per per aver trasformato l'Asinara nell'isola dei cassintegrati, sono infatti solo la classica punta di un iceberg sotto il quale disoccupazione, abbandono scolastico ed emigrazione sono all'ordine del giorno. Una situazione che preoccupa fortemente anche gli industriali ma di fronte alla quale la Regione Sardegna guidata da Ugo Cappellacci sembra incapace di reagire.

Ex fabbriche oggi centri commerciali
A girarla d'estate, con le spiagge affollate e i traghetti che sfornano ogni giorno decine di migliaia di turisti, la Sardegna sembra tutto tranne che una regione sull'orlo del collasso. Basta però lasciarsi alle spalle i villaggi turistici e addentrarsi un po' nell'entroterra oppure nelle aree storicamente a tradizione industriale come il Sulcis, perché il paesaggio cambi brutalmente. Al posto degli stabilimenti balneari ci sono altri stabilimenti, ex capannoni industriali ormai da tempo abbandonati alle erbacce in mezzo a strade scarsamente illuminate e piene di buche, oppure trasformati in centri commerciali. Sono il quadro di una disfatta rappresentata dalla fuga delle imprese straniere che pure in passato avevano scelto di investire sull'isola. Non a caso, quando devono dare i numeri dell'attuale crisi, i sindacati non esitano a parlare di un vero bollettino di guerra. «A livello regionale oggi contiamo 214.000 disoccupati, oltre a 90 mila precari, il che fa segnare un tasso di disoccupazione regionale sempre in salita e che oggi si attesta al 16,1% - prosegue Ganga -. Si tratta di cifre terribili, che evidenziano come in Sardegna una famiglia su cinque, pari al 18%, ha avuto almeno un componente che ha perso il posto di lavoro».

Eppure non è stato sempre così. In passato l'isola ha rappresentato un punto di interesse notevole per chi, anche dall'estero, era interessato a fare investimenti. A favore dei sardi giocavano alcuni fattori determinati come, ad esempio, l'assenza sull'isola di una malavita organizzata tipica di altre regioni del sud. «Ma anche grandi spazi a disposizione per la costruzione degli impianti, una collocazione strategica nel Mediterraneo e per di più con la possibilità di poter contare a Cagliari di un porto merci secondo solo a quello di Gioia Tauro. Per non parlare di una manodopera molto spesso altamente specializzata e di una superstrada, la Carlo Felice, non sottoposta ad alcun pedaggio», spiega Ganga. Tutti elementi che facevano pendere la bilancia a favore di futuri investimenti ma che col tempo nulla hanno potuto contro due fattori decisamente negativi come il costo dei trasporti gomma-nave e i costi dell'energia. Due croci per le imprese, che hanno cominciato a disinvestire. Un processo che sembra inarrestabile. Qualche esempio? La Unilever è una multinazionale agroalimentare olandese specializzata nella produzione di gelati (compresi marchi famosi come Algida). Un anno e mezzo fa ha chiuso lo stabilimento di Cagliari e trasferito la produzione prima nel napoletano e in seguito, pare, in Turchia. L'impianto, moderno ed efficiente, è stato smontato e portato via dall'isola. Dove invece sono rimasti e finiti in mobilità 120 operai più altri 250 con contratto a tempo determinato. La stessa cosa l'hanno fatta i danesi del gruppo Rokwool che a Iglesias producevano isolanti termici (lana di vetro). Anche in questo caso si trattava di un impianto all'avanguardia che negli anni non ha mai avuto né dato problemi. Nonostante questo nell'estate di un anno fa il gruppo decide di interrompere la produzione, smantellare l'impianto e trasferirlo in Serbia. Risultato: 120 operai diretti più altri 80 dell'indotto finiscono in mobilità. Ancora: l'Euroallumina, del gruppo russo Rusal, il secondo al livello mondiale per la raffinazione dell'alluminio. Stavano a Portoscuso, nel Sulcis, quando nel marzo del 2009 decidono di chiudere. Il motivo: i costi troppo alti. Lo stabilimento chiude ufficialmente il 19 marzo del 2009 mettendo in cassa integrazione in deroga i suoi 400 operai più altri 300 metalmeccanici impiegati nell'indotto. E si potrebbe continuare.

Se però si vuole capire cosa rappresentano davvero le dismissioni industriali per la Sardegna bisogna andare nella piana di Ottana, nel nuorese. Le due torri di quello che una volta era il petrolchimico dell'Enichem svettano nel cielo come un monumento alla crisi. Se non fosse per il nucleo di industrie che eroicamente resiste proprio nell'ex area del petrolchimico le due ciminiere sarebbero come una gigantesca porta sul vuoto. Negli anni '80, periodo di massimo sviluppo dell'area, al petrolchimico lavoravano 2.756 operai, più un altro migliaio impiegato nell'indotto tra lavori di manutenzione e appalti (oggi in tutto sono appena 352), tutti residenti nei paesi che si affacciano nella pianura. Il primo colpo serio all'occupazione lo assesta la crisi petrolifera, poi è tutta una discesa fino ai primi anni '90 quando l'Enichem comincia le prime dismissioni e vende pezzi dello stabilimento a privati. Nel tentativo di mettere un argine alla crisi nel 1998, con il governo Prodi, si dà avvio ai contratti d'area che grazie soprattutto a un finanziamento pubblico di 300 miliardi di vecchie lire porta nella zona 29 nuove imprese. «Un'esperienza durata pochi anni e che oggi ha strascichi giudiziari, con molte aziende sotto inchiesta», racconta Salvatore Ghisu, presidente del consorzio industriale di Ottana e sindaco di Borore, uno dei paesi della piana. Delle 29 imprese arrivate attratte dai finanziamenti, solo due o tre sono ancora attive, e non a caso si tratta di ditte locali. Per il resto i finanziamenti hanno fatto gola soprattutto ad alcuni gruppi del nord Italia che, chi in perfetta buona fede e chi no, hanno deciso di approfittare della situazione. «Chi è venuto n Sardegna lo ha fatto soprattuto per tre motivi», spiega Ignazio Ganga. «C'è chi è venuto, ha costruito l'impianto e poi ha smontato tutto e portato i macchinari al Nord. Oppure c'è chi ha tentato il passaggio da artigiano a piccola impresa industriale. Infine c'è chi ha tentato un vero investimento che, salvo rare eccezioni, si è rivelato un fallimento. Il risultato è che la maggior parte di queste aziende non ha retto la sfida industriale».

Oggi, a pochi anni di distanza dalla fine di quell'esperienza, la piana di Ottana è dominata da una sfilza di capannoni abbandonati al loro destino, al punto da rappresentare un vero cimitero industriale.
Non tutto però è negativo. A resistere come un fortino assediato in mezzo ai 1.700 ettari dell'area industriale di Ottana c'è infatti un piccolo nucleo di aziende decise a combattere la crisi.

Un ex bocconiano a Ottana
Una parte del petrolchimico è stato infatti venduta dall'Enichem a Paolo Clivati, un giovane imprenditore lombardo che oggi, in società con la thailandese Indorama ha dato vita alla Ottana Polimeri, azienda addetta alla lavorazione del Pet. Qui si producono le bottiglie di plastica usate, per fare un esempio, dalla Coca Cola, ma anche i vasetti per gli yogurt della Danone. Da poco Clivati, un ex bocconiano trasferitosi in Sardegna, ha ricominciato ad assumere, anche se, spiegano i sindacati, in realtà si limita a riassumere i figli degli operai che vanno in pensione. Sempre Clivati è proprietario dell'ex centrale elettrica dell'Enichem e in società con la municipalizzata energetica di Bolzano e Merano lo scorso 16 marzo ha firmato un accordo con la regione Sardegna per la realizzazione a Ottana del polo delle energie rinnovabili, che prevede tra l'altro anche la realizzazione di due parchi a energia solare, uno fotovoltaico classico e uno con la tecnologia solare termodinamica, la stessa sperimentata proprio in Sardegna dal premio Nobel Carlo Rubbia che poi l'ha però realizzata in Spagna. Infine ci sono gli americani di Lorica, una multinazionale specializzata nella lavorazione di pelli sintetiche. Sono loro, sempre per fare un esempio, a produrre il tessuto per la tuta di Valentino Rossi, mentre recentemente hanno incassato una commissione per la produzione di 11 sellerie destinate alla Ferrari. Imprese di prestigio, che da sole non bastano però a cambiare la situazione. «Se non ci fossero loro il tentativo di risalire la china sarebbe disperato», ammette Ghisu che come consorzio industriale sta lavorando con la confindustria nuorese a un progetto (non a caso chiamato «Fenice») che prevede incentivi alle imprese che decideranno di tornare a investire nella piana di Ottana. «Un progetto serio - ci tiene a precisare Ghisu - destinato agli imprenditori intenzionati a entrare nei vecchi stabilimenti creati e abbandonati negli anni scorsi». Anche in questo caso sono previsti dei finanziamenti ma minimi, proprio per evitare il ripetersi di quanto accaduto con i contratti d'area. «Si valorizzeranno alcuni aspetti - assicura Ghisu - per rendere l'area di Ottana più competitiva attraverso una politica di agevolazioni che abbatta i costi di energia e trasporti».
E nel frattempo? Nel frattempo si tira la cinghia sperando che la crisi attenui i suoi colpi. Perché gli effetti sociali provocati fino a oggi sono devastanti. Su una popolazione di 1.600.000 abitanti, circa 400.000 vivono sotto la soglia di povertà, che equivalgono a circa 100.000 famiglie (dato Istat 2009). Per quanto riguarda il ricorso alla cassa integrazione, solo nel nuorese tra il 2007 e il 2008 c'è stato un aumento del 38% delle richieste che sono così passate da 960.000 ore a 2.600.000. La stessa cosa è avvenuta tra il 2009 e il 2010. Questa volta l'aumento è stato del 32% e le ore di Cig sono passate da 2.600.000 a 3.432.000, il 40% dell'intero plafond di ammortizzatori sociali destinati alla Sardegna. Ma l'aspetto più drammatico è rappresentato forse dai dati sull'emigrazione. A fuggire dalla Sardegna non sono infatti solo le imprese straniere, ma gli stessi sardi, specie i più giovani. 15.000 persone in meno fra il 2001 e il 2008, pari al 9% dell'intera popolazione secondo l'Istat, che attribuisce la scelta di andare via a un mix di fattori come la paralisi di ogni attività economica, il tasso di natalità ridotto quasi a zero, l'assenza di lavoro, la chiusura e il ridimensionamento dei presidi pubblici, l'esodo verso altre zone dell'isola. «In pratica è come se in questi ultimi anni fossero scomparsi tre piccoli comuni», commenta amaro Ganga. Nella provincia di Nuoro gli abitanti in meno sono 5.148, di cui 3.150 sono emigrati negli ultimi quattro anni.
Interi paesi, che spesso non hanno più di 1.000-2.000 abitanti. hanno visto andare via i propri giovani senza possibilità di fermarli: in otto anni Macomer ha perso 363 abitanti, Orune 352, Bolotana 337, Bitti 332, Desulo 331. E nelle altre province, sempre secondo i dati Istat, non va meglio, con il Sassarese che ha perso 3.406 residenti, la provincia di Oristano 3.083, quella di Cagliari 1.093, l'Ogliastra 997, il Medio Campidano 749, Olbia/Tempio 345, il Sulcis -Iglesiante 215.
«Siamo un sistema ingessato dal collasso del sistema produttivo», dice sconsolato Giovanni Matta, segretario regionale della Cisl. «Nell'industria e non solo. L'agricoltura è indebitata per il 50% della sua capacità produttiva, il turismo nonostante i proclami non va oltre il 7% del Pil regionale e il grosso dell'occupazione è determinato dai servizi, pubblica amministrazione in testa».

«La Regione? Incapace a reagire»
Di fronte a tutto questo la Regione Sardegna sta a guardare, apparentemente incapace di reagire alla crisi. Eppure non sarebbero certo i soldi per gli investimenti che mancherebbero. Il 3 agosto del 2009 è stato firmato il piano attuativo regionale che avrebbe permesso di utilizzare 2,350 miliardi di euro da investire in infrastrutture. Tremonti però non ha mai messo i soldi e adesso il ministro Fitto chiede che il piano venga rimodulato. Allo stesso modo restano fermi 2,3 miliardi di euro di fondi europei e 1,2 miliardi di euro del Piano per lo sviluppo rurale (Prs). Soldi che potrebbero essere utilizzati per rilanciare l'economia dell'isola e che invece rischiano di andare persi. Il futuro è affidato alla costruzione del gasdotto che dovrebbe portare il gas dall'Algeria alla Toscana attraversando tutta la Sardegna. Un progetto importante, che potrebbe ridurre notevolmente i costi energetici ridando ossigeno e nuove speranze di sviluppo all'industria nazionale e straniera. Peccato che i tempi di realizzazione, previsti inizialmente per il 2012, siano già slittati al 2015. «La regione è in liquidazione», denuncia Matta. «Siamo in mano a una classe dirigente che non riesce a esprimere un obiettivo verso cui guardare. Negli anni 50 e 60 l'obiettivo era trasformare una società agricola in industrializzata, e in parte è stato centrato. Oggi invece si fa difficoltà a concordare una visione unitaria per la Sardegna che ha bisogno impellente di integrarsi con il modello nazionale. Il pegno, altrimenti, è di essere condannati alla marginalità».

MILA disoccupati, ai quali vanno aggiunti altri 90 mila precari. Su una popolazione di 1.600.000 persone. E un tasso di disoccupazione che tocca il 16%

giovedì 2 dicembre 2010

Sì a «Black Shark», ordigno da 87,5 milioni


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di Manlio Dinucci
Chi ha detto che le fabbriche sono in crisi e che il governo non fa niente? La Wass di Livorno va a gonfie vele: negli ultimi tre anni ha assunto cento persone, tutte altamente specializzate, portando il totale a 500, più 1000-1200 nell'indotto. La Wass (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei del Gruppo Finmeccanica) ha stabilimenti anche a Genova e Pozzuoli e unità di lavoro a La Spezia e Taranto. I suoi prodotti sono molto richiesti anche all'estero: l'azienda ha clienti in 38 paesi. Il fiore all'occhiello della Wass è il Black Shark (Squalo Nero): un sofisticato siluro pesante di ultima generazione. La crisi non ha colpito la Wass - spiega la nota di bilancio - perché «operando con enti governativi non abbiamo risentito della congiuntura negativa». In altre parole, perché il governo italiano, come quelli di altri paesi, mentre taglia le spese in tutti i settori civili, continua ad aumentare la spesa militare, acquistando (col denaro pubblico) nuovi armamenti e creando nuove infrastrutture militari. La Commissione difesa della Camera ha appena approvato, dopo quella del Senato, l'acquisizione del nuovo siluro pesante per sommergibili U-212A. Si tratta di una evoluzione dello Squalo Nero, prodotta dalla Wass a un costo stimato di 87,5 milioni di euro (che, come di solito avviene, alla fine risulterà maggiore).Grazie a questa maxi-commessa la Wass potrà potenziare la ricerca e sviluppo. A tal fine ha stipulato un accordo con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, il cui Centro di ricerca sulla robotica marina si è insediato allo Scoglio della Regina a Livorno, grazie ai finanziamenti europei dei Piuss (Piani integrati di sviluppo urbano sostenibile) ottenuti dal Comune. La convenzione - stipulata nel dicembre 2009 tra il Comune di Livorno, la Scuola Sant'Anna e la Wass - stabilisce che la Scuola mette a disposizione della Wass le proprie conoscenze e attrezzature scientifiche, mentre la Wass mette a disposizione della Scuola i propri laboratori e impianti di sperimentazione. In tal modo, avvalendosi della ricerca universitaria, la Wass può produrre armamenti ancora più sofisticati. E, fornendo un contributo finanziario alla Scuola Sant'Anna, dà impulso ad altre ricerche utilizzabili per applicazioni militari, mentre in generale si stanno riducendo i finanziamenti pubblici all'università e alla ricerca. Grazie a questa convenzione, ha dichiarato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi (Pd), i saperi si intrecciano finalmente con l'industria, facendo fare alla nostra città un nuovo salto di qualità che la proietta nel futuro. Sarà quindi ora orgoglioso che l'industria bellica Wass, forte dei saperi della Scuola Sant'Anna, fabbricherà a Livorno nuovi e ancora più micidiali siluri pesanti. Essi sono solo una parte della lista della spesa approvata dalle Commissioni difesa di Camera e Senato. Essa comprende, oltre ai siluri pesanti, una unità navale di supporto subacqueo per incursori (125 milioni di euro), un sistema di acquisizione obiettivi controcarro (200 milioni), mortai di nuova generazione (22 milioni), dieci elicotteri (200 milioni), una nuova rete di comunicazioni Nato (236 milioni) e l'Hub militare di Pisa (63 milioni). In totale, circa 934 milioni di euro, che sicuramente lieviteranno. Fondi che saranno ricavati attraverso nuovi tagli alle spese sociali, compresi i contributi pubblici all'editoria, la cui drastica riduzione rischia di far tacere anche la nostra voce. Lo Squalo Nero è già stato lanciato per affondarci.

LE INDUSTRIE DI MORTE SONO SEMPRE MOLTO ATTIVE ECONOMICAMENTE E MAI IN DEFICIT, LA CRUDELTA' UMANA NON HA FINE, E I GOVERNI CHE USANO TALI ARMI SONO INDECENTI E ANTIETICI, QUESTO SONO LA MAGGIORANZA DEGLI STATI MONDIALI E PER QUESTO MERITANO DI ESSERE DISTRUTTI, ELIMINATI PER SEMPRE!!
Immagine: MU90/Impact ALWT

Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (WASS) è azienda leader a livello mondiale nel settore dei Sistemi Subacquei, riconosciuta per la sua eccellenza nell'Ingegneria dei Sistemi Integrati.

Prendendo il nome dall'inventore del siluro Robert Whitehead, la Società è entrata a far parte di Finmeccanica dall'inizio dell'anno 1995.
WASS, con stabilimenti a Livorno, Genova e Napoli, impiega ingegneri altamente qualificati che sono responsabili della progettazione, sviluppo, produzione e marketing dei propri prodotti:

  • Siluri Pesanti : BLACK-SHARK e A184 Mod.3
  • Siluri Leggeri : MU90 e A244/S Mod.3, tramite la propria partecipazione (50%) nel consorzio EuroTorp assieme a DCNS (26&) e Thales (24&)
  • Sistemi di Contromisure Anti Siluro per Sommergibili e Navi di Superficie
  • Sistemi di Sorveglianza Subacquea e Sonar


I prodotti WASS sono stati selezionati e messi in servizio da svariate Marine di tutto il mondo.
In particolare, il Siluro Pesante di ultima generazione, il BLACK-SHARK, vero e proprio fiore all'occhiello della Ditta, è già stato integrato con pieno successo a bordo di una vasta gamma di sommergibili equipaggiati con diversi tipi di Combat Systems.

Più di 100 siluri sono in fase di produzione e di consegna per varir importanti Marine distribuite in tre diversi continenti.

Inoltre, grazie ad un Dipartimento di Supporto Logistico dedicato, WASS fornisce, a costi competitivi, un efficace e completo supporto tecnico post-vendita in grado di soddisfare i bisogni specifici di ogni singolo cliente per tutta la durata operativa dei Sistemi.

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