giovedì 2 dicembre 2010

Sì a «Black Shark», ordigno da 87,5 milioni


ilmanifesto.it/
di Manlio Dinucci
Chi ha detto che le fabbriche sono in crisi e che il governo non fa niente? La Wass di Livorno va a gonfie vele: negli ultimi tre anni ha assunto cento persone, tutte altamente specializzate, portando il totale a 500, più 1000-1200 nell'indotto. La Wass (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei del Gruppo Finmeccanica) ha stabilimenti anche a Genova e Pozzuoli e unità di lavoro a La Spezia e Taranto. I suoi prodotti sono molto richiesti anche all'estero: l'azienda ha clienti in 38 paesi. Il fiore all'occhiello della Wass è il Black Shark (Squalo Nero): un sofisticato siluro pesante di ultima generazione. La crisi non ha colpito la Wass - spiega la nota di bilancio - perché «operando con enti governativi non abbiamo risentito della congiuntura negativa». In altre parole, perché il governo italiano, come quelli di altri paesi, mentre taglia le spese in tutti i settori civili, continua ad aumentare la spesa militare, acquistando (col denaro pubblico) nuovi armamenti e creando nuove infrastrutture militari. La Commissione difesa della Camera ha appena approvato, dopo quella del Senato, l'acquisizione del nuovo siluro pesante per sommergibili U-212A. Si tratta di una evoluzione dello Squalo Nero, prodotta dalla Wass a un costo stimato di 87,5 milioni di euro (che, come di solito avviene, alla fine risulterà maggiore).Grazie a questa maxi-commessa la Wass potrà potenziare la ricerca e sviluppo. A tal fine ha stipulato un accordo con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, il cui Centro di ricerca sulla robotica marina si è insediato allo Scoglio della Regina a Livorno, grazie ai finanziamenti europei dei Piuss (Piani integrati di sviluppo urbano sostenibile) ottenuti dal Comune. La convenzione - stipulata nel dicembre 2009 tra il Comune di Livorno, la Scuola Sant'Anna e la Wass - stabilisce che la Scuola mette a disposizione della Wass le proprie conoscenze e attrezzature scientifiche, mentre la Wass mette a disposizione della Scuola i propri laboratori e impianti di sperimentazione. In tal modo, avvalendosi della ricerca universitaria, la Wass può produrre armamenti ancora più sofisticati. E, fornendo un contributo finanziario alla Scuola Sant'Anna, dà impulso ad altre ricerche utilizzabili per applicazioni militari, mentre in generale si stanno riducendo i finanziamenti pubblici all'università e alla ricerca. Grazie a questa convenzione, ha dichiarato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi (Pd), i saperi si intrecciano finalmente con l'industria, facendo fare alla nostra città un nuovo salto di qualità che la proietta nel futuro. Sarà quindi ora orgoglioso che l'industria bellica Wass, forte dei saperi della Scuola Sant'Anna, fabbricherà a Livorno nuovi e ancora più micidiali siluri pesanti. Essi sono solo una parte della lista della spesa approvata dalle Commissioni difesa di Camera e Senato. Essa comprende, oltre ai siluri pesanti, una unità navale di supporto subacqueo per incursori (125 milioni di euro), un sistema di acquisizione obiettivi controcarro (200 milioni), mortai di nuova generazione (22 milioni), dieci elicotteri (200 milioni), una nuova rete di comunicazioni Nato (236 milioni) e l'Hub militare di Pisa (63 milioni). In totale, circa 934 milioni di euro, che sicuramente lieviteranno. Fondi che saranno ricavati attraverso nuovi tagli alle spese sociali, compresi i contributi pubblici all'editoria, la cui drastica riduzione rischia di far tacere anche la nostra voce. Lo Squalo Nero è già stato lanciato per affondarci.

LE INDUSTRIE DI MORTE SONO SEMPRE MOLTO ATTIVE ECONOMICAMENTE E MAI IN DEFICIT, LA CRUDELTA' UMANA NON HA FINE, E I GOVERNI CHE USANO TALI ARMI SONO INDECENTI E ANTIETICI, QUESTO SONO LA MAGGIORANZA DEGLI STATI MONDIALI E PER QUESTO MERITANO DI ESSERE DISTRUTTI, ELIMINATI PER SEMPRE!!
Immagine: MU90/Impact ALWT

Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (WASS) è azienda leader a livello mondiale nel settore dei Sistemi Subacquei, riconosciuta per la sua eccellenza nell'Ingegneria dei Sistemi Integrati.

Prendendo il nome dall'inventore del siluro Robert Whitehead, la Società è entrata a far parte di Finmeccanica dall'inizio dell'anno 1995.
WASS, con stabilimenti a Livorno, Genova e Napoli, impiega ingegneri altamente qualificati che sono responsabili della progettazione, sviluppo, produzione e marketing dei propri prodotti:

  • Siluri Pesanti : BLACK-SHARK e A184 Mod.3
  • Siluri Leggeri : MU90 e A244/S Mod.3, tramite la propria partecipazione (50%) nel consorzio EuroTorp assieme a DCNS (26&) e Thales (24&)
  • Sistemi di Contromisure Anti Siluro per Sommergibili e Navi di Superficie
  • Sistemi di Sorveglianza Subacquea e Sonar


I prodotti WASS sono stati selezionati e messi in servizio da svariate Marine di tutto il mondo.
In particolare, il Siluro Pesante di ultima generazione, il BLACK-SHARK, vero e proprio fiore all'occhiello della Ditta, è già stato integrato con pieno successo a bordo di una vasta gamma di sommergibili equipaggiati con diversi tipi di Combat Systems.

Più di 100 siluri sono in fase di produzione e di consegna per varir importanti Marine distribuite in tre diversi continenti.

Inoltre, grazie ad un Dipartimento di Supporto Logistico dedicato, WASS fornisce, a costi competitivi, un efficace e completo supporto tecnico post-vendita in grado di soddisfare i bisogni specifici di ogni singolo cliente per tutta la durata operativa dei Sistemi.

lunedì 29 novembre 2010

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO

“Agisci come se già fossi libero”
- P.L.Wilson -



Paola Alcioni SA CANTADORA

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO



Valentina.....

Si amici miei, il futuro ha marciato al mio fianco nella Prima Giornata Per l’Indipendenza della Sardegna.
Sotto la pioggia, accanto a me.
Il suo nome è Valentina, il suo nome è Giovanni.

Si dice che la poesia o la letteratura in genere, nascano da un ripiegamento doloroso, e che non si abbia invece tempo per la scrittura, quando ci si gode una gioia.
La si gode e basta.
Vero, ma... svanita l’adrenalina, il dopo si nutre di nuovo di parole, perché la gioia non è gioia fino in fondo se non la raccontiamo a noi e agli altri, verbalizzando, riprendendoci trionfalmente in mano il diritto di nominazione.
La mia gioia, sabato, potevo chiamarla col nome dei molti amici che ho abbracciato, alcuni venuti da lontano, altri da molto lontano, pro sa Die de s’Indipendentzia.
Altri ancora da lontanissimo.
O con il nome di coloro che fisicamente si sono affaccendati intorno all’organizzazione della Marcia qui, o che lo hanno fatto collaborando da lontano, ma efficacemente.
Cari, carissimi amici tutti: niente unisce più di una condivisione di questo segno. Niente affratella più di un ricordo come questo. Nessuna semina può fare a meno di due mani che si stringono.
Perché l’unità è il lievito che la nostra gente aspetta per poter impastare il “Pane di via”, che serbato “in bértula” accompagnerà la nostra transumanza definitiva verso la libertà.

Grazie, grazie a tutti, mi viene da dire ora.
Ma in realtà è la mia terra che ringrazia...

Est sa terra mia Sardìnnia chi torrat gràtzias, pesendi artus is burtzus suus incadenaus e a pustis torrendi a s’abetu e a su dolu, fintzas chi s’at a imberiai su tzérriu: “Sardìnnia...” “Lìbera!!!” chi at acumpangiau dònnia passu de sa Màrcia e chi tambeni s’arretumbat in s’ànima e in su sànguni.

E a lungo, a lungo risuonerà quel grido e quell’emozione, dentro tanti di noi.

Potevo chiamarla con mille nomi, la mia gioia, sabato.
Ma oggi a voi la racconto con il nome di Valentina e Giovanni, perché devo a loro un’emozione grande che mi ha spalancato l’anima.

Quando sono arrivata al piazzale della Fiera, Giovanni l’ho trovato intento ad allestire il camion, che inalberava quattro grandi bandiere della nostra Natzione.
Riservato come sempre, mi è venuto incontro per un abbraccio, ma si vedeva che era concentrato, che stava prendendo tutto molto sul serio, ma che se lo stava anche godendo, come un momento importante.

Quando Valentina, la mia giovanissima patriota, ci ha raggiunto, non era attesa.
Ma nella gioia dell’abbraccio che ci ha unito, era contenuto un lunghissimo discorso di speranza.
A tutti, in misura più o meno grande, la decisione di venire a questa marcia è costata.
Ciascuno di noi ha dovuto vincere resistenze, difficoltà oggettive, ostilità e circostanze non facili.
Per alcuni è stata una decisione veramente sofferta.
Per altri un luminoso momento di presa salda sulle redini del proprio destino.

Valentina e Giovanni sabato, per me, erano il simbolo di tutti noi che eravamo alla marcia, ed era anche la dimostrazione che i nostri limiti e le difficoltà possono essere superati se ci rendiamo conto di possedere in noi stessi una risorsa grande che si chiama libertà.

Così come - in fondo - chi mancava senza giustificato motivo, era simbolo di quella parte di popolo che aspetta gli ordini, di quella che non rinuncia alle comodità, di quella che non si mette in gioco e che pensa al suo orticello; di quella dallo sguardo corto e dalla supina convinzione che delegare è bello, senza sapere che il meccanismo della delega è assolutamente apocrifo all’idea di democrazia assoluta; di quella dell’ossequio ad un vertice, del capo chino, dello sguardo fisso al solco segnato dall’aratro altrui.

Ma noi abbiamo marciato anche per quella parte della nostra gente; mai contro quella ma – ahimé – nonostante quella.

In quel momento Giovanni, Valentina ed io non ce ne rendevamo conto, ubriachi per la gioia di esserci. Ma in realtà un testimone, in quell’attimo, è passato di mano.
Perché io ho portato alla Marcia lo striscione nel quale era contenuta l’affermazione di principio che ha guidato tutto il mio agire fin’ora.
Ma loro la stavano mettendo in pratica.
Perché Valentina, marciando al mio fianco, stava già agendo come se fosse libera; stava decidendo per sé stessa; stava usando del diritto di autodeterminarsi, e lo stava portando con sé come una bandiera.
Perché Giovanni, decidendo di esserci e dare una mano, ha agito come se la cosa lo riguardasse, lo riguardasse direttamente.

Sono orgogliosa d’aver lavorato per questa Marcia.
In un prossimo articolo, parlerò di ciascuna delle meravigliose persone che ho conosciuto in questa meravigliosa esperienza di condivisione.

Sono orgogliosa d’aver avuto intorno gente che ha agito come se già fosse libera.
Ma ancor più, lo sono per avere avuto al fianco due giovani che non si fermeranno là dove i miei passi dovranno purtroppo fermarsi, perché le foglie devono cadere, in autunno, per divenire humus e senso di nuove fioriture.

Ma non si fermeranno, po bona sorti, Valentina e Giovanni. E insieme a giovani come loro, porteranno le speranze nostre per questa terra e per la mia gente oltre, verso il futuro.

“SARDINNIA...”
“LIBERAAA!!!!”
Sa Cantadora


Giovanni


Vaturu

La fucilazione di Efisio Tola che leggeva «libri sediziosi»

Manlio Brigaglia

ilcorriere

La primavera del 1833. Il re savoiardo ordinò la repressione: in pochi mesi 67 arresti e 12 esecuzioni

Il luogotenente «alto e bello di statura» che sfidò la morte

La primavera del 1833. Il re ordinò la repressione: in pochi mesi 67 arresti e 12 esecuzioni

La fucilazione di Efisio Tola che leggeva
«libri sediziosi»

Il luogotenente «alto e bello di statura» che sfidò la morte

Chambéry, capoluogo della provincia della «Savoia propria», 12 giugno 1833. Alle ore cinque del pomeriggio viene fucilato il luogotenente del reggimento di fanteria di Pinerolo, Efisio Tola. Sassarese, «bello e alto di statura », 30 anni compiuti da meno di un mese, è stato condannato a «morte ignominiosa » per «aver avuto tra le mani — dice la sentenza—libri sediziosi, avuto conoscenza di complotti sediziosi e non averli rivelati ai superiori, aver comunicato i detti scritti sediziosi ad altri militari e cercato di procurare partigiani ai suddetti complotti». In realtà, quei complotti sono i progetti «rivoluzionari » intorno ai quali si sono raccolti, nelle principali città degli Stati di Terraferma del Regno di Sardegna (Torino, Genova, Alessandria, Chambéry), piccoli gruppi di giovani patrioti. Tutti toccati dalla propaganda che Mazzini fa, spedendo d’oltre confine stampati, volantini, opuscoli, copie della rivista La Giovine Italia che ha cominciato a stampare a Marsiglia. «Quanti potevano leggerli s’affratellavano», scriverà con orgoglio l’Apostolo nei suoi Ricordi. Quali di questi testi abbia letto e fatto circolare l’ufficiale sardo non si sa; gli atti del processo, celebrato davanti a un tribunale militare, sono fortemente sintetici: i giudici tagliano dritto, non lasciano parlare l’avvocato difensore, ascoltano solo i testimoni d’accusa.

L’accusato, a dire la verità (almeno per come appare negli atti) si era difeso piuttosto blandamente. Alla sentenza, rivolto ai giudici, aveva affermato: «Voi versate un sangue innocente, ma io insegnerovvi come si debba e si sappia morire». E prima della fucilazione: «Né reo son io, né complici ebbi giammai: e se pur ne avessi né il nome sardo né il nome mio farei prezzo di tanta infamia e di tanta viltà». E davanti al plotone d’esecuzione — dice la leggenda della sua vita, più volte raccontata nei tanti libri ottocenteschi sui «martiri della libertà»—si era aperta la camicia per offrire il petto alla scarica.

I «Primi martiri della Giovine Italia». Il primo a sinistra, dal basso, è Efisio Tola
In effetti, Efisio Tola è vittima di un’azione repressiva, durissima e dunque anche cieca, espressamente ordinata dal re in persona. Voci sulla presenza di mazziniani nel regno già erano cominciate a circolare, ma la scoperta che erano quasi tutti militari è stato uno choc: per questo le inquisizioni e i processi hanno per teatro le città dove ci sono caserme e guarnigioni militari. In pochi giorni di quella primavera ci saranno 67 arresti, 12 condanne a morte eseguite, 14 in contumacia (compresa quella di Mazzini), centinaia di anni di carcere. Dei sospettati un paio di centinaia sono riusciti a rifugiarsi all’estero, ma due dei patrioti, i genovesi Jacopo Ruffini e Antonio Boggiano, si sono suicidati per non parlare. Questi uomini non sono solo il primo consistente nucleo di mazziniani italiani, sono anche i primissimi caduti della lunga lotta per l’Italia unita e indipendente dallo straniero (e possibilmente repubblicana).

Efisio Tola appartiene a una famiglia di non grande, ma antica nobiltà: un lontanissimo antenato si era coperto di gloria, quando la Sardegna era spagnola, combattendo sotto le mura di Granada. Una sua discendente avrebbe sposato il medico Francesco («Zizzu») Maria Cossiga, nonno del futuro presidente della Repubblica.

Mazziniani: il secondo seduto da sinistra, Filippo Garavetti, più volte deputato (foto della Biblioteca del Comune di Sassari)
Che ci teneva a sottolineare questa parentela, superando un po’ dell’imbarazzo che gli veniva dal dovere ricordare Efisio insieme all’altro suo fratello, Pasquale, alto magistrato, storico insigne, rettore dell’Università di Sassari, più volte deputato: ma deputato della parte più reazionaria e retriva della città. Il 1848 fu anno dei portenti anche a Sassari: gli studenti cacciarono i Gesuiti dall’Università e partirono per la guerra. Su 86 volontari della provincia, che era allora metà Sardegna, 61 erano sassaresi, ha ricordato Sandro Ruju, cui dobbiamo una serie di saggi sui «padri» della tradizione repubblicana cittadina. Sino a quell’anno Pasquale Tola aveva cercato di far dimenticare che era fratello di Efisio: da quell’anno se ne fece una bandiera, scrivendo anche — sotto pseudonimo — un commosso elogio di lui. Col risultato che sul suo nome accadde spesso ai giovani sassaresi di dividersi e scontrarsi: quando il Circolo (repubblicano) «La Gioventù» decise nel 1880 di porre una lapide in ricordo di Efisio sulla facciata della casa dei Tola si stava dipanando stancamente l’iniziativa di erigere un monumento a Pasquale: ci si sarebbe riusciti solo nel 1903.

Enrico Berlinguer, nonno del segretario del Pci
Ma mazziniano non era stato solo Efisio. «A Sassari l’avvocato Soro Pirino, influentissimo, è nostro—scriveva Mazzini nell’agosto del 1860—: gli si parli amio nome». Gavino Soro Pirino, classe 1830, fu lungo tutto l’Ottocento il Grande Vecchio del repubblicanesimo sassarese. Il più coerente e anche il più intransigente, fino a farlo entrare in rotta di collisione politica con i più importanti avvocati della città, tutti allevati al diritto e alla politica nel suo studio: non solo Filippo Garavetti, poi più volte deputato di Sassari, Pietro Satta Branca, a lungo sindaco nell’età giolittiana, fondatore nel 1891 del quotidiano La Nuova Sardegna, Enrico Berlinguer (senior, c’è bisogno di dirlo?), più volte consigliere e assessore comunale, ma anche i conservatori Giuseppe Castiglia, professore universitario, e Michelino Abozzi, per quindici anni deputato della città.

Soro Pirino non era solo influentissimo. Era soprattutto circondato da un’aura quasi sacrale di stima. Mazzini era suo amico personale: scrivendo ai figli dell’avvocato, Ausonio ed Elvira, li invitava ad amare l’Italia ma anche «la povera, buona e leale Sardegna, che i re hanno sempre tradita e non risorgerà se non sotto bandiera di popolo» (nel 1861, quando si era sparsa la voce, non del tutto inconsistente, di un progetto di cessione dell’isola alla Francia, aveva scritto una serie di articoli molto polemici).

Gavino Soro Pirino
Ci sono due episodi, nella vita di Soro Pirino, che bastano da soli a disegnare un personaggio «d’una volta», come ora difficilmente se ne trovano. Primo episodio: nel 1880 viene eletto alla Camera dei deputati: non ci andrà mai, per non prestare il prescritto giuramento al re. Secondo episodio: nel 1883: ricorda su un giornale repubblicano di Tempio, «La Gallura», il caso Oberdan — l’irredentista triestino impiccato l’anno prima sotto l’accusa di voler attentare all’imperatore d’Austria —. In una frase il prefetto di Sassari legge l’«offesa verso la sacra persona del re d’Italia e reale famiglia» e lo denuncia: al processo tutti indistintamente i 59 avvocati del foro di Sassari si costituiscono a collegio di difesa. Sarà assolto, anche se il prefetto continua a bombardare il ministero degli Interni con notizie allarmanti sui «più epilettici discorsi in senso sovversivo» che si fanno intorno a lui.

Nel 1891 i suoi ex allievi vincono le elezioni comunali: Soro Pirino e Manca Leoni, uniti in una lista d’opposizione, sono strabattuti. Eletti, si dimetteranno dal consiglio dopo qualche settimana.

Ormai gli avversari (in Sardegna il «grande nemico» è il cagliaritano Francesco Cocco Ortu, amico di Zanardelli e ministro, più tardi, con Giolitti, colpevole di sacrificare gli interessi della Sardegna a quelli della sua città, poderosamente en marche, come dicono) parlano di Sassari come della «Repubblica sassarese». Quando nel 1899 si dà vita all’Unione popolare, una piccola maison du peuple, che è uno straordinario strumento non solo di alfabetizzazionema anche di indottrinamento politico, gli iscritti arrivano sino a mille.

Ma al referendum del 2 giugno 1946 Sassari sarà la città più monarchica della Sardegna, col 71,7 per cento di voti per il re e 28,3 per cento per la repubblica. Dopo vent’anni di fascismo la «repubblica sassarese» è finita. Meno male che da quel giorno c’è la Repubblica italiana.

sabato 27 novembre 2010

L’impennata indipendentista della Sardegna


SERGIO RIZZO E GIAN ANTONIO STELLA
corriere


La crisi della pastorizia si sta saldando con la scommessa industriale persa. E nella terra del primo martire prendersela con Roma diventa moda intellettuale


L’impennata indipendentista della Sardegna

La crisi della pastorizia si sta saldando con la scommessa industriale persa. E nella terra del primo martire prendersela con Roma diventa moda intellettuale

«Guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza». Chissà cosa direbbe Francesco Cossiga a leggere la mozione del consigliere regionale Paolo Maninchedda. Passava ore, l’ex presidente da poco scomparso, a parlare del suo orgoglio sardo: «Siamo una nazione incompiuta. Abbiamo tutto (lingua, leggi, costumi, cultura, identità territoriale) per essere una nazione. Non lo siamo perché abbiamo rinunziato all’autonomia per amore dell’Italia C’è chi ha detto che la Svizzera è una "nazione di volontà": ecco, si può dire che la Sardegna è italiana per volontà».

Una nazione. Divisa in paesi. E i paesi in clan: «In sardo non esiste manco la frase: «come fai di cognome». Uno dice: «come ti narri»? Io rispondo: Franziscu. Nome proprio. Poi: «di che ratza sese?». Di che razza sei? Gruppo famigliare e paese. Rispondo: deo so de sos Còssiga de Zaramonte. Sono un Cossiga di Chiaramonti ». E così, vezzosamente, voleva essere chiamato: Ceccio da Chiaramonti.

Ma mai avrebbe potuto sottoscrivere quella mozione di Maninchedda. Dove si dice proprio così. Che «del territorio della Sardegna decidono i sardi e non lo Stato italiano». E che la giunta deve impegnarsi «a guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza, avviando con lo Stato italiano una procedura di disimpegno istituzionale che preveda un quadro articolato di indennizzi per la Nazione sarda, in ragione di tutte le omissioni, i danni e le sperequazioni che la Sardegna ha subito prima dal Regno d’Italia e poi dalla Repubblica italiana». Non autonomia: «indipendenza». Brutalmente: secessione.

Cos’è: una testa calda? Macché: un docente di buone letture. Che col Partito Sardo d’Azione appoggia la giunta di Ugo Cappellacci. Le altre otto o nove mozioni presentate per modificare lo statuto regionale, del resto, non sono meno combattive. C’è chi chiede, come la sinistra e l’Udc, di riscrivere il patto fra la Regione e lo Stato. Chi, come il Pdl, vuole una proposta di legge costituzionale da inviare alle Camere per «affermare il diritto del Popolo sardo al suo pieno autogoverno».

Per non dire di quella di un gruppo con in testa Renato Soru che riafferma «la sovranità del Popolo sardo sulla Sardegna, sulle sue isole minori, sul suo mare territoriale, sovranità frettolosamente abbandonata nelle mani della Monarchia sabauda in cambio della "fusione perfetta con gli Stati della terraferma"» e «denuncia la concessione della perfetta fusione deliberata dal Re di Sardegna Carlo Alberto» considerando «politicamente conclusa la vicenda storica conseguente alla rinuncia alle proprie sovranità istituzionali, avvenuta il 29 novembre 1847».

Parole durissime. Tanto più perché pronunciate alla vigilia dei 150 anni dell’Unità in una terra che ha dato all’Italia non solo il primo contenitore istituzionale, cioè il Regno di Sardegna, ma il primo martire (quell’Efisio Tola di cui parla Manlio Brigaglia a pagina 17) e una lunga serie di protagonisti della nostra storia. In particolare in quell’incredibile quadrilatero intorno alla parrocchia di San Giuseppe di Sassari che ha visto crescere nei dintorni—anche se non tutti, ovviamente, andavano in chiesa —, due capi dello Stato (Francesco Cossiga e prima di lui Antonio Segni), due segretari del Pci (Palmiro Togliatti che fece il liceo a duecento metri ed Enrico Berlinguer che abitava a due passi), un leader referendario che per qualche tempo sembrò avere in pugno l’Italia (Mario Segni) e una sfilza di ministri, da Giuseppe Pisanu a Sergio Berlinguer, da Luigi Berlinguer ad Arturo Parisi.

Certo, Palmiro Togliatti sorrideva della retorica del Risorgimento: «È per il piccolo borghese italiano come la fanfara per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe». Ma certo sarebbe rimasto sbalordito da un’impennata indipendentista come quella che, senza che a Roma se ne siano ancora accorti, è partita dalla Gallura a capo Teulada. Come sarebbe rimasto stupito Indro Montanelli, che nel 1963 percorse per il Corriere l’isola (dove aveva frequentato il liceo al seguito del padre preside a Nuoro) e scrisse che «nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati» dei siciliani.

«Quello che sta accadendo», spiega Mario Segni, «è una follia totale. La conseguenza di una situazione di profonda crisi nell’economia e nella società. Il fatto preoccupante è che comincia a essere un argomento di moda, fra gli intellettuali come nel sindacato. La classe politica, inetta, trova comodo scaricare le proprie responsabilità su Roma. E non è solo una questione limitata a pochi matti sardisti, se consideriamo che perfino 14 consiglieri del Pd hanno firmato una mozione nella quale si rivendica il concetto di sovranità. Insomma, è una situazione pericolosissima».

Tanto più in un momento come questo. Con la giunta Cappellacci nel caos. Il governatore che un anno e mezzo fa, trainato dai comizi del Cavaliere, sconfisse Soru innescando una reazione a catena culminata con le dimissioni di Walter Veltroni, è sotto assedio. A sinistra, come a destra, gli imputano di essersi fatto coinvolgere nella vicenda del business eolico dal faccendiere Flavio Carboni. Né gli sono risparmiate critiche per i silenzi sulla gestione del G8 della Maddalena. Prodi aveva promesso a Soru, insieme a un pacchetto da 400 milioni per sistemare pendenze in ballo da decenni, il rifacimento della statale fra Olbia e Sassari. Si sa com’è finita. L’appuntamento è stato spostato a L’Aquila. La strada e tante altre cose non si sono più fatte e ai sardi è rimasta la rabbia per il fiume di denaro sprecato, gli scandali della «cricca» e tutto il resto.

La miccia indipendentista pareva a lenta combustione. Ma rischia di bruciare più rapidamente in una regione dove l’economia è a pezzi e la politica non riesce a dare risposte. O peggio si arrocca nella difesa di realtà indifendibili, come le province regionali passate da quattro a otto sotto la precedente giunta destrorsa (ma senza troppe lagne della sinistra...) e rimaste nonostante Soru le avesse bollate come «una pazzia» tentando di abolirne quattro con un referendum. Otto giunte, otto consigli, otto sedi, otto amministrazioni. Anche dove c’è una manciata di abitanti, come nella Provincia dell’Ogliastra che ha come capoluogo Lanusei: 5.665 anime. Un ventesimo scarso degli abitanti di Giugliano.

Pascolano i consiglieri provinciali, pascolano i consiglieri regionali (uno ogni 19.266 abitanti: in Lombardia uno ogni 113.858), pascolano meno bene le greggi dei pastori cantati da Tonino Ledda: «Terra brujada est custa/ e d’est bocchende/ semen in sinu e brios in sas venas... » Terra bruciata è questa, e sta uccidendo semi nel seno e brio nelle vene...

La pastorizia attraversa la crisi più grave del dopoguerra. Nei magazzini giacciono 60 mila quintali di pecorino. Era l’oro della Sardegna. Non lo è più. Il prezzo del latte ovino è precipitato. «Me lo pagano mediamente 60 centesimi al litro, trenta o quaranta in meno di quanto mi costa produrlo», si sfoga Agostino Maddau, che ha trecento pecore dalle parti di Stintino, «È impossibile tirar avanti. Impossibile».

La crisi economica pesa, ma non spiega tutto. Negli ultimi due anni le esportazioni sono crollate. Colpa soprattutto degli Stati Uniti. Ma non perché gli americani, travolti dal crac delle banche, abbiano tagliato i consumi di pecorino. Gli è che non lo acquistano più tutto dalla Sardegna, ma anche dalla Spagna, della Grecia, dalla Romania. Direte: che c’entra la Romania? La risposta la trovate, per fare un esempio, aprendo il sito www.lactitalia.ro della rumena Lactitalia. Dove si spiega che il caseificio di Izvin tratta circa centomila litri di latte al giorno e produce Ricotta salata pressata, Toscanella, Mascarpone, Mozzarella, ricotta Pecorino. Tutti squisiti formaggi italiani dal nome italiano e tradizione italiana. Fatti vicino a Timisoara. Con effetti, secondo la Coldiretti, devastanti se è vero che anche a causa della concorrenza dei formaggi «italiani» fatti all’estero avrebbero chiuso dal 2004 ad oggi in Sardegna un migliaio di allevamenti.

Il punto è che in Lactitalia non solo l’azionista di maggioranza è la sarda Roinvest che fa capo alla famiglia Pinna, ma tra i soci c’è lo Stato italiano: il 29,5% è infatti della Simest, una società al 76% del ministero dello Sviluppo economico costituita per sostenere l’espansione all’estero delle nostre imprese. «Con l’ombrello della internazionalizzazione», accusa il direttore della Coldiretti sarda, Michele Errico, «un’azienda pubblica, magari in buona fede, sta finanziando la concorrenza sleale». Andrea e Paolo Pinna respingono le accuse sdegnati: «Per un breve periodo dell’anno è presente in loco latte di pecora con cui viene prodotto un pecorino da grattugia dello stesso tipo di quello che da anni si produce in Francia, in Bulgaria, in Siria, negli stessi Usa e in tanti altri Paesi, venduto poi sul mercato internazionale delle commodity industriali a basso costo. È un formaggio assolutamente diverso dal Pecorino Romano Dop per gusto, per forma, per marchiatura sulla crosta».

Che c’entra il pecorino romano? Vi sembrerà impossibile, ma questo è uno dei tanti «furti» dei quali i sardi si lamentano: il 90% del pecorino romano è sardo. Uno spreco assurdo di marchio, di cultura casearia, di identità. Vissuto in modo più doloroso oggi, con i pastori che occupano aeroporti e piazze per gridare la loro disperazione. Le 12.750 aziende per un totale di 30 mila pastori sono al collasso: se saltano loro salta il 35% dell’agricoltura sarda. Che già soffre per altri motivi. Non escluse, insiste Mario Segni, le responsabilità politiche: «Da un anno Bruxelles ha versato alla Sardegna più di 100 milioni per il miglioramento fondiario. Denari che la Regione doveva distribuire agli agricoltori. Che non hanno visto ancora un euro».

«Macché cento milioni: molto di più!», accusa Felice Floris, che per i pastori rappresenta un po’ quel che è Bové per i contadini francesi. «Per il periodo dal 2008 al 2013, l’Ue ha varato un piano di sviluppo rurale da un miliardo e 180 milioni. Ma ancora non è arrivato niente. E abbiamo una paura: che il grosso di questi soldi finisca per alimentare il parassitismo. La macchina burocratica attaccata alla politica».

Nel 2009, dice la Banca d’Italia, i raccolti si son ridotti del 13,7%: quattro volte la media nazionale. Ancora Floris: «Annate di siccità paurose. Autunni bruttissimi. Concimi passati da 20 a 110 euro. E poi i ricatti del mercato. A noi sta bene il mercato, ma mettano delle regole!». Per i cereali è stato un annus horribilis: -46,1%. Baingio Maddau, il padre di Agostino, ci trascina a vedere un enorme mucchio di grano. Ne prende un pugno, se lo fa scorrere fra le dita: «Sa quanto mi danno? 12 euro al quintale! Dodici euro! Vergogna! Piuttosto lo dò alle galline! ».

Ce l’ha con i grossisti, ce l’ha con l’Europa, ce l’ha con Luca Zaia che «ha pensato alle quote latte dei suoi elettori e non a noi». Dice che ha 120 vacche da carne e «un tempo erano una ricchezza», ma oggi per vacche di 6 quintali «sono arrivati a offrirmi 600 euro: un euro al chilo!» Felice Floris conferma: «Zaia ha condonato un miliardo e 600 milioni di multe alle aziende dei suoi elettori, ma poi quei soldi li pagheremo noi perché Bruxelles distribuirà i tagli a tutti».

Certo, la Sardegna è cambiata. Non ci sono più contadini come Ciccio Azzara così ignari del mondo da vendere per 160 mila lire a ettaro (si comprò una Fiat 600 e «un po’ di terra buona ad Arzachena») la favolosa insenatura di Liscia di Vacca dove, raccontò Mino Monicelli, le mucche andavano «al pascolo a nuoto, le corna alte sull’onda, dalla spiaggia di Pevero agli scogli Limbani, verdi e gialli nel mare verde e viola».

Tanti problemi, però, sono rimasti intatti. L’isola, per usare le parole di Montanelli (e sono passati 47 anni!) non è ancora riuscita a «liberarsi dal monopolio strangolatore della Tirrenia ». E mentre perfino il turismo pare in risacca (nel 2009 il calo delle presenze in Gallura, che pesa per il 40%, è stato del 4%.) alla drammatica crisi della pastorizia si salda la crisi del sogno industriale.

I dati sono da brivido. Nel primo trimestre 2010 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 16,1%: il più alto fra tutte le regioni. «In due anni abbiamo perso 24mila posti nella sola industria. Ma se aggiungiamo i 100mila sardi che beneficiano di qualche ammortizzatore sociale, si arriva al 26 o 30%», stima il segretario della Cisl sarda Mario Medde. Centomila: un lavoratore su sei è in cassa integrazione o riceve un sussidio. Per non dire dei giovani: «Quelli senza lavoro sono il 44%. L’emigrazione intellettuale è devastante. Il 21,4% delle famiglie versa in condizioni di povertà ».

Nel 2009, stando sempre alla Banca d’Italia, le esportazioni sono precipitate del 43,9%, il doppio abbondante rispetto al resto del Paese. Un crollo che si aggiunge a quello del 2008 quando l’export della provincia di Sassari era smottato del 23%, scendendo a un decimo di quelle di Alessandria o Ravenna. Confronti da spavento: provincia di Sassari vuol dire Porto Torres. E Porto Torres era il nodo del grande sogno industriale che dopo aver vinto la scommessa di strappare la Sardegna alla malaria (sulla spalliera di un ponte sul Cedrino si leggeva: «Vincerà l’uomo o la zanzara?») pensava di strappare i sardi alla miseria e alla emigrazione.

Hanno fatto soldi in tanti, a Porto Torres. Su Porto Torres. Come Nino Rovelli, il brianzolo patron della Sir che chiuse la sua spericolata avventura lasciando un buco pari a 14 miliardi di euro attuali. Poi, uno alla volta, come avevano immaginato Indro Montanelli e Guido Piovene, hanno spento gli impianti. In crisi l’alluminio, in crisi il polo tessile, in crisi il polo chimico. Con l’Eni decisa a chiudere e andarsene a dispetto di quanto accanitamente sostengono gli operai e cioè che «un grande Paese non può rinunciare alla chimica e la chimica come spiega Legambiente possiamo farla solo noi, che abbiamo imparato a nostre spese come occorrano grande professionalità e grande attenzione alla natura».

E non è un caso che questa doppia crisi della Sardegna pastorale e della Sardegna industriale trovi il suo punto simbolico all’Asinara. L’aspra, stupenda, struggente isola in faccia a Stintino che ha ospitato secoli di uomini ammaccati dalla fatica e dal dolore. Prima i pastori chiusi in una «isolitudine» disperata. Poi i reduci deportati qui in quarantena dopo viaggi di emigranti verso la Meriche interrotti da spaventose epidemie di colera. Poi i galeotti trascinati nei penitenziari. E infine Piero Marogiu e gli altri operai lasciati a spasso dalla Vinyls che da 212 giorni si sono «auto-carcerati» in un edificio dell’isola-galera inventandosi «l’isola dei cassintegrati». Grande idea mediatica. Che ha consentito loro di trascinare lì un sacco di gente. E ottenere ieri un incontro con Berlusconi. Ce la faranno i nostri eroi a vincere? Mah... In uno stanzone hanno steso uno striscione: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso ». Ogni giorno, sul loro blog, tengono un diario. Quando cala la sera la solitudine li prende alla gola. Da dietro le sbarre, con il pensiero alle famiglie in terraferma, il mondo pare quello cantato da Lucio Dalla: «Dalla finestra lui vedeva solo il mare/ed una casa bianca in mezzo a blu...».

venerdì 26 novembre 2010

NOI, MANIPOLO DI EROI....

Sa Cantadora


Manca oramai una manciata di ore alla PRIMA GRANDE MARCIA INDIPENDENTISTA.
Siamo partiti in un certo numero, via via che intorno all’idea di Filippo si aggregavano intelligenze.
In quanti stiamo arrivando e conciati come?
La strada dell’eroismo è dura. E anche se gli eroi potenziali all’inizio son tutti giovani e belli (non è obbligatorio, ma fa curriculum), per strada si perdono pezzi, cambiano le cose e... cribbio, come fan presto amore, ad appassir le rose!
Alla conta finale, quagliando, rimangono gli Eroi.
Eroi molto tra virgolette. Però maiuscoli. Mi piace ugualmente chiamarli così, esercitando quel diritto di licenza poetica che trasforma ogni limite in una risorsa.
Ed ogni porzione di coraggio, appunto, in eroismo.
Perché abbiamo bisogno di porzioni, di frammenti, di tappe.
Sopratutto di quelli, abbiamo bisogno. Altrimenti, ogni specie di aspirazione faustiana alla ricerca del Fiore Azzurro, ci terrà lontani dal raggiungimento di qualcosa di solido da addentare.
Sto parlando del pericolo insito nello statuto segnico di ogni ideologia.
Ci tiene certo lontani anche dal rischio di metterci in gioco, ma ci lascia perennemente a bocca asciutta, perché avere il segno di qualcosa è al contempo la tragica ammissione dell’assenza di quella cosa stessa dal reale.
Mai - per chi avesse la stoffa dell’Eroe Tra Virgolette - scegliere una meta straordinariamente elevata che costringa alla stupefazione e all’attesa. Talmente lontana, che ti consente di limarti con calma le unghie e di fare una montagna di parole crociate prima di pensare ad impostare – sempre con moooolta calma - il navigatore satellitare.
Il nostro Eroe non ci tiene ad assomigliare all’eterno viaggiatore descritto da Adler, che per prudenza preferisce non arrivare mai.

No: gli Eroi Tra Virgolette hanno bisogno di piccole mete, di tappe intermedie. Di feste e di marce.
Anche perché l’una cosa non esclude l’altra. Anzi.
Quei sorridenti guerrieri della quotidianità, che agiscono come se già fossero liberi.
Quelli che quando cominciano una cosa, la finiscono, che quando credono in un’idea, lottano per realizzarla qui ed ora, senza aspettare che lo facciano altri; che si spendono in proprio e si assumono responsabilità. Anche quando il contesto non è esattamente... incoraggiante.
Quelli che si sforzano di incidere nella dura realtà un segno, perché in quel solco tanto a fatica inciso, la loro speranza si trasformi in seme orgoglioso della meravigliosa pianta del possibile, che là getti radici implacabili.

Noi, manipolo di eroi...
E’ stata dura. Ma siamo sopravissuti ai nostri Scilla e Cariddi, alle sirene e a Polifemo.
E’ stata dura. Qualcuno di noi non lo ammetterà mai, ma il poeta può dirlo e raccontarlo.
Può raccontare, e lo farà, una terribile fiaba dove nulla è ciò che appare e dove la terra è in catene e ci resta se non si capisce una buona volta, che in gioco si deve mettere ciascuno di noi, senza più delegare.
Il poeta lo farà, perché non conosce ragioni di opportunità linguistica, nè di linguistico pudore. Ed ha un’idea particolare di giustizia, che gli è data in cambio della croce cosmica che si assume.
Forse è per questo che viene fucilato per primo dal tiranno, come monito, o impiccato dai rivoluzionari vittoriosi, subito dopo, per precauzione.

E’ stata dura, ma noi, manipolo di eroi, abbiamo già vinto.

Comunque vada, nulla sarà più come prima.
Anzitutto abbiamo vinto una sfida grande con noi stessi, agendo come se fossimo già liberi, perché sentivamo d’aver diritto di sognare d’essere senza padroni, di decidere per noi stessi (prove tecniche di autodeterminazione, insomma), e di essere disposti per questo a metterci in gioco.
Di non aver delegato, nè di aver ricevuto delega alcuna e di agire in nome e per conto di noi stessi, insieme agli altri del manipolo orizzontale di Eroi Tra Virgolette.
Augurandoci che questo servisse a che la nostra gente tutta potesse un giorno assaporare ciò che noi gustavamo.

Ci saranno al nostro fianco solo tre persone a fare festa? Ce ne saranno tremila?
Chi lo sa... le previsioni lasciamole a chi si augura un flop, e buon pro gli facciano.
Per noi sarà comunque la Festa Grande della seminagione, come si faceva un tempo nelle nostre comunità, quando massajus e massajas condividevano aspettative e speranze, per il futuro e l’aratro non faceva guerra al seme, ma gli preparava con amore il solco.

Buona Marcia a tutti!

Sa Cantadora

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