martedì 1 maggio 2012

SOBERANIA EST INDIPENDENTZIA

 Gesuino Muledda 
Segretario natzionale RossoMori


Per molte delle cose che dirò posso essere chiamato in causa almeno come corresponsabile. E’ giusto che così sia.
Non è però giusto che qualcuno usi atteggiamenti censori per quanto uno pensa. Vale per tutti l’etica della convinzione e per tutti l’etica della responsabilità.
Concordo con Marcello Fois quando pone al mondo indipendentista la necessità di superare lo schema per cui tutti, o gran parte dei mali, derivano dall’esterno.
Perché è pur necessario, per l’etica della responsabilità, che si dia un giudizio sulle responsabilità dei governanti della Regione, in primo luogo, della lunga stagione della Autonomia; in secondo luogo, del ceto dirigente della società sarda, del quale, in fin dei conti, il ceto politico è espressione. Sto chiamando in causa l’intellettualità sarda, gli imprenditori, i formatori delle giovani generazioni, il sindacato e le rappresentanze di impresa. Fatta salva la principale responsabilità dei dirigenti politici e degli amministratori regionali.
Responsabilità per lo stato attuale della Sardegna.
La quale si è trovata ad affrontare la stagione della globalizzazione senza la pur possibile attrezzatura.
In primo luogo senza una intellettualità impegnata nella elaborazione di un progetto di modernità che avesse, contemporaneamente, una forte elaborazione identitaria, una consapevolezza degli strumenti necessari per la sua affermazione, una visione istituzionale capace di piena rappresentanza per la affermazione degli interessi del popolo sardo.
E una attività di governo che avesse orizzonti larghi e visioni lunghe. Le due cose si intrecciano, evidentemente.
Non si è realizzata in Sardegna la necessaria e possibile accumulazione di forza democratica per deficit nella accumulazione dei saperi, dei poteri, delle produzioni, delle innovazioni e di giustizia sociale
Sinteticamente, c’è stato un deficit di sardismo.
Intendo il sardismo come soggettività politica di un popolo che pretende di affermare contemporaneamente giustizia e libertà. Questo era l’azionismo originario dei padri fondatori del P.S. d’Az., coniugato con la forte determinazione a conquistare i poteri necessari per l’autogoverno del popolo sardo.
E collocavano, i padri fondatori, la Sardegna in un orizzonte europeo, proponendo, già allora, l’unità dell’Europa dei popoli, federale, solidale, e specialmente per Lussu, socialista.
Intorno all’obiettivo della conquista dello statuto di Autonomia si è realizzata una forte mobilitazione di consapevolezze e di popolo.
Come pure, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto si è realizzata una battaglia rivendicativa della rinascita che, pur con limiti, ha conquistato impegno di risorse e ha consentito una importante implementazione dei poteri, per qualche parte normativa, per altre parti di esercizio di fatti di altri poteri.
Valga per tutti la limitazione dei poteri della Cassa per il Mezzogiorno, allora onnipotente.
Ma è stato scelto un modello di sviluppo incentrato sulla industria di base, poi fallita, che non ha portato all’accumulazione della produzione, nè alla nascita e affermazione di un sistema di imprese sarde del settore industriale. E in quel frangente storico non si è realizzata la necessaria e possibile apertura verso le innovazioni che nel mondo si andavano realizzando.
La carica identitaria si è indirizzata prevalentemente verso un rivendicazionismo e una vertenzialità economica e istituzionale durante la quale però, alla fin fine, lo stato italiano, i suoi governi si sono sottratti all’impegno per la Rinascita, progressivamente riducendo la presenza delle partecipazioni statali, introducendo la pratica tutta assistenzialistica della cassa integrazione a vita per la giovane classe operaia.
In gran parte della Sardegna non si è conosciuta la seconda generazione operaia. Responsabilità, certo, dello stato italiano e dei suoi governi. Ma responsabilità, anche dei governi regionali e del ceto dirigente tutto. Ciascuno per quanto gli compete.
E nel frattempo è nata la società dell’informazione. E la quantità della nostra scolarizzazione e la qualità della nostra formazione, non sono state adeguate. Non perché non si siano spese risorse: è mancata la finalizzazione a un progetto di sviluppo adeguato ai tempi. Che anzi i fatti innovativi che si sono proposti sono stati osteggiati perché mettevano in discussione gli equilibri di potere. Lo stesso fenomeno del turismo è nato come corpo sostanzialmente esterno e la nascita e la crescita delle imprese turistiche sarde hanno tardato e non hanno costituito ancora oggi sistema. E le tematiche ambientali sono state vissute come ostacolo all’imprenditoria e le questioni dell’acqua e dell’energia sono state vissute come fatti non combinabili come occasione per organizzare un nuovo modello di sviluppo.
E la riforma agropastorale estesa fin in tutte le zone irrigue ha dato importanti risultati nel settore primario, abbandonato però alla logica predatoria degli industriali del latte; ma di fatto ha orientato gli investimenti e le attenzioni quasi esclusivamente verso la pecora e non per le colture ortofrutticole per le quali siamo rimasti completamente dipendenti.
La Regione Autonoma aveva i poteri per fare questo o altro. Non è stato fatto l’altro necessario e possibile. E’ stato creato un sistema regionale centralistico e ministerializzato. Ma la Regione, di norma, avrebbe dovuto operare attraverso gli Enti locali. E’ stato creato un sistema di bilancio finalizzato alla gestione centralistica che non ha consentito agli amministratori locali di esercitare la propria autonomia, riducendo in questo modo la possibilità di ricambio del ceto politico regionale. Si potrebbe continuare.
L’etica della responsabilità vuole che chi ha avuto ruolo politico, per la parte che gli compete, se ne assuma le responsabilità. Anche senza assolvere lo stato italiano, l’Europa, e i relativi governi.
Nel 1975 il Consiglio Regione ha nominato una commissione speciale per riscrivere lo statuto di Autonomia. Non è stato riscritto. E’ stato solo delegittimato lo statuto esistente non è stato elaborato e adottato il nuovo. Siamo a questo punto.
Una visione sovranista, indipendentista, autonomista, oggi non può sostanziarsi di passato.
Ne si può lontanamente pensare che non si debba prendere atto di quanto di nuovo è sopravvenuto.
Esiste l’Unione Europea che decide sulla gran parte dei nostri interessi. Gli stati nazione di stampo ottocentesco sono finiti e le ultime feroci resistenze messe in campo per tenerli in vita in quella forma stanno solo facendo danno all’idea di Europa e ai cittadini tutti.
I migranti che cercano condizioni di vita migliore, mantenendo la propria identità culturale e religiosa, sono una realtà della quale bisogna prendere atto positivamente.
La finanziarizzazione dell’economia, e la impossibilità e incapacità degli stati nazione a contrastarla rende necessaria altre culture rispetto a quelle che abbiamo ereditato e conosciute.
Le relazioni con questa nuova realtà pretendono che la consapevolezza di essere popolo e nazione (nobile eredità sardista) si trasformi in scelte e atti che consentano a questo popolo e a questa nazione di essere riconosciuti dagli altri popoli e dalle altre nazioni.
E ben per questo serve oggi affermare che l’identità del popolo sardo, oltre le radici e la cultura ereditata è costituita e sostanziata per quello che siamo.
E per quanto, materialmente, è necessario fare va detto che la sovranità si conquista, per intanto, esercitandola.
Servono partiti di Sardegna, sovrani. Servono governi e parlamentari sardi non subalterni a chicchessia.
Serve uno statuto di sovranità, costituzionalmente riconosciuto in Europa e in Italia.
Serve una costituzione Europea per l’esercizio della sovranità del popolo europeo, federalista.
Serve una costituzione italiana federalista.
Serve che la costituzione federalista europea e italiana prevedano il principio di allargamento interno che possa consentire la politica pacifica della autodeterminazione.
E serve dire con chiarezza che la Sardegna ha come orizzonte politico e istituzionale permanente l’Europa.
Serve anche che nella congiuntura non breve della battaglia per la sovranità i ceti dirigenti di questo popolo sardo sappiano coniugare la pratica dello statuto come fatto costituito e la innovazione di una consapevole fase costituente.
Democratica, partecipata, generosa.

domenica 29 aprile 2012

Il tesoro della Sardinya si chiama campagna

Parla il presidente del Fai (Fondo Ambiente) regionale Maria Grazia Piras 

 Caterina Pinna

unionesarda.it

Il tesoro dell'Isola
si chiama campagna

«Ritorno all'attività agricola contro la crisi» 

 

C'è un tesoro in Sardegna e si chiama campagna. Un azzardo in tempi così duri? Una formula poco praticabile in una regione dove la terra si sposa con abbandono? Tutt'altro. «Un ritorno all'attività agricola non è solo una moda - spiega Maria Grazia Piras, presidente regionale del Fai (Fondo Ambiente italiano) - ma un programma serio e necessario per dare una concreta risposta al bisogno di lavoro nella nostra isola e assolvere contemporaneamente alla funzione di presidio del nostro paesaggio. Il paesaggio non è solo valore astratto ma una risorsa preziosa tanto da spingere la comunità Europea a destinare cospicui fondi a questo obiettivo. Si spera che la proposta contenuta nella PAC 2014- 2020 che vincola il 30 per cento del pagamento unico aziendale al mantenimento di almeno il 7 per cento della superficie agricola ad aree naturali possa essere confermata. In Sardegna l'agricoltura deve essere riconsiderata attività primaria dalla quale partire per avviare la spinta al secondario e terziario e persino alla ricerca scientifica».

Il concetto “il futuro è il nostro passato” è più che mai vero? «Sì, oggi più di ieri il paesaggio è un bene vitale, fruibile, sul quale far rivivere la nostra storia ma anche la nostra economia. Non un paesaggio museo. Pensiamo al nostro patrimonio nuragico e pensiamo a una qualsiasi strada di campagna, magari dopo una pioggia. Oppure con le ombre di giugno tra mille sfumature di verde. In quel paesaggio all'improvviso spunta un nuraghe. Ecco, non pensiamo mai che il nuraghe è legato a quella campagna ed è lì perché è legato proprio a quel specifico paesaggio. Intendo dire che in ogni altro posto quel nuraghe non avrebbe senso. Perciò il luogo da tutelare non è più il bene archeologico circoscritto, ma tutto l'ambiente nel quale esso ha la sua ubicazione, la sua storia e il suo significato. Quanti percorsi potremmo disegnare nella nostra isola coniugando archeologia e paesaggio? Quello che serve è tracciare un forte legame tra mondo culturale ed economico con la nascita di piccole iniziative».

Il 24 e il 25 marzo il Fondo ha rinnovato l'iniziativa della Giornata FAI di Primavera e Cagliari, dove si poteva visitare la necropoli punica, ha registrato il record di visitatori. «L'attenzione su Tuvixeddu è in parte figlia del lungo dibattito, polemiche e contrasti che in questi anni si è sviluppato intorno all'aerea e al suo destino. Questo ha indubbiamente creato una mobilitazione, non solo a Cagliari ma in tutta la Sardegna. Oltre questa spinta credo davvero si stia facendo strada, soprattutto nei giovani, una coscienza nuova, una maggiore consapevolezza del valore di un bene archeologico e ambientale».

Da un record positivo a uno negativo. Negli ultimi 60 anni in Sardegna c'è stato un incremento del suolo urbanizzato del 1154 per cento. È come se avessimo mangiato tre ettari di terra al giorno. Sassari, per esempio, ha visto ridursi la corona di oliveti spagnoli che la circondava. «Purtroppo è così. La Sardegna è la regione che ha consumato più suolo con una variazione pro capite 10 volte più alta rispetto agli anni Cinquanta. Questo dato in Sardegna è naturalmente molto legato alle attività turistiche. Il fenomeno delle seconde case che ha dominato sino a oggi sta cambiando e richiede un nuovo modello anche per chi crede come me nella forza propulsiva dell'attività turistica ma, ormai, soprattutto i giovani vogliono anche altro. Solo un ripensamento complessivo può impedire che nel frattempo continui a crescere la percentuale di terra non coltivata e la moria di aziende agricole . Qualcosa inizia a muoversi e i dipartimenti di agraria a Sassari guardano con interesse un paese come Ittiri che si è mobilitato per il recupero e la fruizione dei suoi uliveti».

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha confidato a Giulia Maria Crespi, infaticabile anima del Fai, che la Sardegna è un giacimento culturale di valore universale. Ma perché lo sanno gli altri e noi no? Perché nel resto del mondo sanno calamitare turisti intorno a beni infinitamente meno belli e suggestivi dei nostri. L'ultimo esempio viene dal bacino della Ruhr, diventato capitale della Cultura europea? «Abbiamo avuto nel passato poca consapevolezza dell'importanza della nostra storia e della nostra cultura. Questo per fortuna sta cambiando. I giganti di Monte Prama sono la scoperta che più ci ha costretto a riflettere sulla nostra storia e che ci dice che i Sardi hanno avuto momenti di grande splendore non solo culturale ma anche economico. Una grande lezione di autostima. Sempre per rimanere su ciò che abbiamo di bello dobbiamo ricordarci dei nostri parchi che rappresentano un altro aspetto della tutela paesaggistica. Purtroppo se ne parla sempre meno. La maggior parte dei parchi non sono decollati, non sono appieno godibili dai visitatori. Il salto culturale da fare è trovare il giusto punto di equilibrio tra uso della risorsa e della sua tutela senza cadere nell'eccesso opposto, cioè imbalsamarla. È il rischio che corrono anche alcuni centri storici dove tutto è perfetto e dove però non c'è più vita».

Buoni segnali per il futuro? «Fortunatamente sì, ci sono stati soprattutto con il piano paesaggistico. Perciò bisogna evitare che venga stravolto mantenendolo ancorato al codice dei beni culturali. Non bisogna abbassare la guardia. Questo è possibile perché si fa strada una nuova coscienza che è la garanzia affinché alcuni errori commessi nel passato non possano più ripetersi».

sabato 28 aprile 2012

Sos Sardos e sa Die in su 2012


Antoni Murone


Ite cheret nàrrere ammentare sa Die a meda annos dae tando, cando sos Sardos aiant chircadu de si ribellare a sos dominadores colonialistas? A tempos de oe, cando s'Itàlia paret chi nos chèrzat iscatzare a foras dae sa Repùblica, traighende sos patos frimmados subra su dinari e sas tassas, cantu nos semus abizzende chi s'istòria est movinde finas issa paris cun nois, in fatu nostru?
Sa zente est comintzende a cumprèndere chi s'Itàlia e sas àteras Natziones si sunt morende non tantu e non solu pro sa chistione de su dinari e de su traballu chi mancat, ma fintzas pro ite mancat un'ispinta a s'azzudu comune.


A die de oe, cando s'Itàlia e sos printzipales de ogni zenia paret nos chèrzant leare su diritu a colare a fora de s'Isula paghende su chi est giustu pro su biàzzu, serrant sas fàbricas e nos lassant s'arga in terra nostra, est arrivende forzis s'ora de lis torrare una risposta forte.
Sas Dies de sa Sardigna sunt cussas chi sunt intrende. Si su pòpulu sardu cumprendet chi solu sende unidu podet bìnchere sa partida, potet arrivare s'ora de estirpare sos abusos e pònnere a fora sos malos usos.

mercoledì 25 aprile 2012

Base Usa, Regione beffata: a quasi vent'anni dalla chiusura della base Usa, il Ministero della Difesa (Aeronautica militare) è fuori dai giochi.

Grazie ad un accordo bluff, la Difesa ha scaricato tutto su Cagliari

Base Usa, Regione beffata

Lo Stato non è più responsabile delle bonifiche



www.unionesarda.it Andrea Busia
TEMPIO Missione compiuta: adesso si può dire con assoluta certezza che i grattacapi e i problemi della ex base Usa sul Limbara, sono tutti sul groppone della Regione. Lo Stato (con grande abilità, bisogna dirlo) è riuscito a scaricare la patata bollente e lo ha fatto senza garantire un centesimo di euro per la riqualificazione della stazione radar della Us Air Force. Le carte parlano chiaro: nel 2008 (un altro regalo del G8) i quattro ettari della base dismessa sono stati incamerati dalla Regione, l'area faceva parte del patrimonio del Demanio. Formalmente si tratta di un passaggio di consegne provvisorio. Alla luce di quello che è successo sino a oggi, si può dire invece che lo scaricabarile consegna definitivamente all'amministrazione regionale un sito da bonificare.

LA BEFFA I costi della riqualificazione sono lievitati (si parla di almeno due milioni di euro) e una lunga serie di ostacoli burocratici, rende l'intervento estremamente complicato. Insomma, a quasi vent'anni dalla chiusura della base Usa, il Ministero della Difesa (Aeronautica militare) è fuori dai giochi e altri (Regione e Comune di Tempio) devono trovare la soluzione di un problema che nasce dall'attuazione di trattati internazionali spesso top secret. Il quadro è questo e non ci sono buone notizie.

SCARICABARILE Nel 2010 il Consiglio comunale di Tempio aveva respinto all'unanimità la proposta (una vera furbata della Regione) del passaggio della ex base al patrimonio municipale. Le parole di Gianni Monteduro (allora consigliere di minoranza) chiariscono le reali intenzioni del fallito blitz: «Il debito di guerra imposto alla Sardegna e ai tempiesi, adesso diventa un onere per noi che dovremmo accollarci la pulizia di spazzatura militare e tecnologica». Il Comune disse no e il materiale (sei parabole, due cisterne, prefabbricati in amianto, una centrale elettrica, la sala delle teletrasmissioni e rifiuti speciali come alluminio, piombo, acidi e lana di vetro) è rimasto al suo posto.

L'INCHIESTA La Procura di Tempio, dopo una denuncia presentata dagli indipendendisti di Irs, aprì un'inchiesta che venna affidata al personale della sezione di polizia giudiziaria del Corpo Forestale. Un fascicolo dalla vita breve, perché ai magistrati venne spiegato che la situazione di abbandono (con gravi rischi di inquinamento) stava per essere risolta grazie ad un accordo Stato-Regione. Anche i pm sono stati beffati: dopo l'archiviazione delle indagini, sul Limbara non è successo niente. Conclude il capogruppo di minoranza in Consiglio comunale, Francesco Quargenti: «Una novità c'è, la Giunta Frediani rischia di perdere gli unici finanziamenti stanziati, quelli per la realizzazione di un piccolo acquedotto nella zona della base».

martedì 24 aprile 2012

L'arcivescovo Arrigo Miglio: «Ho tanto da imparare»

Giulio Zasso 

unionesarda.it 

Cagliari l'arcivescovo Arrigo Miglio è arrivato in città



Si affaccia all'uscita secondaria degli arrivi a Elmas. Un cenno di saluto e poi il passo deciso verso un vecchio amico. Il sorriso è caldo, come l'abbraccio. Arrigo Miglio non nasconde l'emozione quando incontra don Luigi De Magistris, l'arcivescovo cagliaritano ottantaseienne (che ha chiuso la carriera da pro-penitenziere maggiore), arrivato sino all'aeroporto per salutarlo. «È una grande emozione per me essere qui, in questa terra ricca», sussurra dietro un sorriso il nuovo capo della chiesa cagliaritana (che controlla anche le diocesi di Iglesias, Nuoro e Lanusei).
 
C'è un comitato d'accoglienza ristretto a ricevere l'arcivescovo piemontese, tra cui il vicario Giovanni Ligas (di Pio X), il cerimoniere Alberto Pala (parroco della Cattedrale), Albino Lilliu, in rappresentanza dell'Ufficio liturgico, e la laica Lucia Baire, direttrice del museo diocesano. Con loro la rappresentanza arrivata da Ivrea: l'arcipreste Luca Meinardi e Davide Smiderle, capo della pastorale giovanile. 
Miglio saluta tutti: «Sono qua per imparare, sono convinto che non arrivi mai il tempo per fermarsi». È un ritorno nell'Isola dopo gli anni da vescovo a Iglesias. Ha guidato la diocesi sulcitana dal 1992 al 1999. «Ma è stato tempo fa», si schermisce, «non posso affermare di conoscere così bene la Sardegna». I pensieri girano a mille, perché in questi giorni di cambiamenti «c'è anche il distacco» da Ivrea, dove è stato vescovo per tredici anni. Praticamente a casa sua: è nato pochi chilometri più in là, a San Giorgio Canavese.
 
Il passaggio all'aeroporto è rapido, poi Arrigo Miglio s'infila nella Polo Volkswagen di padre Alberto Pala e corre veloce verso la sua prima base cagliaritana. Notte al santuario di Bonaria per un breve ritiro spirituale in vista dell'uscita ufficiale di questa sera. L'arcivescovo incontrerà alle 20 i giovani nella cappella del seminario arcivescovile di via Cadello. Proprio accanto a Monte Claro il prelato potrebbe scegliere la sua residenza definitiva, anche se c'è l'alternativa del seminario regionale, che è a pochissima distanza. Il suo predecessore Giuseppe Mani aveva scelto, invece, di vivere sul colle di via dei Falconi, dalle suore Figlie della carità.
 
Domani l'arcivescovo Miglio farà la sua prima uscita ufficiale in città. Alle 16 presiederà in Cattedrale i vespri solenni e subito dopo - alle 16 e 30 - guiderà il pellegrinaggio a piedi verso Bonaria. Alle 17 e 30, proprio davanti alla basilica, ci sarà il benvenuto del sindaco Massimo Zedda, che lo saluterà a nome della città. Alle 18 comincerà la messa solenne nel santuario dei frati mercedari.

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