venerdì 4 settembre 2009

NO NUKE! ALLA GUERRA NUCLEARE SI RISPONDE CON LA NOSTRA RISATA SARDONICA !

.. Voglio ringraziare tutti/e voi che con il cuore vorreste eeserci ma con il corpo non potete .. grazie di cuore per il vostro pensiero.
grazie a chi si sta attivando,per esserci ed a chi forse parteciperà, ma anche un grazie di cuore anche a tutti ...coloro che purtroppo hanno scelto di non esserci..
Mi auguro che gli eventi che si stanno costruendo in ogni dove contro la più grande ingiustizia che si sta per adempiere sul nostro popolo non accada, e che la risposta si forte e chiara , NO ala NUCLEARE
.. non possiamo permettere che venga ipotecata la vita dei futuri popoli della nostra terra , i nostri pro pro nipoti che a motivo di un manipolo di pazzi che ragionano con il cazzo ed il viagra stanno portandoci al baratro...
Forza e determinazione sono le cose più care in questo momento di grave carestia di spirito della nostra amata Gaia..

LOTTARE per non MORIRE
OPPORSI PER NON IPOTECARE LA VITA FUTURA... CREDERE NELLA VITTORIA DELLA NOSTRA LOTTA PER VEDERE IL FUTURO REALIZZATO...


Su facebook ci trovate attivi come sempre e potete visitarci e sostenerci con inizaitiva e partecipazione:
http://www.facebook.com/home.php?ref=home#/event.php?eid=167043420128&ref=mf

La questione nucleare non ha solo ricadute negative di tipo ambientale e salutare ma anche di tipo economico, intorno si coagula una forte lobby dei costruttori edili e politicanti collusi, inoltre il braccio delle mafie dei subappalti, il giro di soldi come sappiamo è vertiginoso, e la speculazione oltre che finanziaria è sopratutto artefattamente ideologica, di convenienza per la società conoscendo i risvolti delle scorie eccetera, in effetti non ce ne sono punti, perciò alla loro ideologia modernistà e ssfruttatrice alla "prendi tutto e scappa" dobbiamo contraporre l'idea della salvaguardia delle generazioni future e di Madre Terra...

Per rimpiazzare la chiusura delle centrali attive, molte delle quali hanno più di 40 anni e vanno smantellate, bisognerebbe mettere in opera 290 centrali nuove da qui al 2025: una ogni mese e mezzo fino al 2015, una ogni 18 giorni negli anni seguenti.
Questo ritmo incredibile fu in realtà tenuto, negli anni '80.
Ma oggi non più.
L'industria specializzata non riuscirebbe a rispondere ad una tale concentrata domanda.
Esiste una sola acciaieria al mondo capace di forgiare un pezzo essenziale del cuore del reattore, e sta in Giappone.

Collo di bottiglia ancora più grave: non esistono abbastanza tecnici e ingegneri del livello necessario non solo per costruire, ma per far funzionare e controllare tante nuove centrali.
Dopo decenni di abbandono di questo settore, le competenze non sono state formate.
Entro il 2015, ben il 40% dei tecnici che operano nelle centrali francesi saranno andati in pensione. Solo l'8% dei dipendenti del settore atomico ha meno di 32 anni.

Ed ecco adesso un altro problema: chi finanzia queste grandi opere?
A causa della liberalizzazione del mercato dell'elettricità, gli investitori-speculatori privati considerano questi investimenti a rischio.
Troppo costosi (un reattore ultimo tipo, EPR, costa 3 miliardi di dollari), un investimento a troppo lungo termine e con sorprese lungo il percorso (certificazioni, permessi di costruzione, referendum anti-nucleari come dopo Chernobyl, che imposero chiusure da panico con perdite rilevanti).

SA DEFENZA SOTZIALI

venerdì 12 giugno 2009

Nei Quaderni la profezia di Gramsci Il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere


de Gianni Fresu
La prima guerra mondiale provocò nella società europea una grave crisi economica, politica e culturale. La guerra era stata invocata come progresso e igiene dell'umanità ma dopo la sbornia di retorica patriottica e militare quel che restava era un quadro sociale profondamente disgregato segnato da alcuni fattori destinati a deflagrare tra loro: l'inefficacia e l'instabilità del sistema liberale, l'impoverimento e il ridimensionamento dei ceti medi, l'irrompere sulla scena delle grandi masse popolari mobilitate durante il conflitto. Gli storici hanno poi parlato di crisi morale e d'identità di una borghesia resa inquieta dalla crescita del movimento operaio e contadino e timorosa per l'esempio della rivoluzione dell'ottobre '17. Un contesto drammatico e insieme esaltante, dove il vecchio mondo sembrava destinato a morire da un momento all'altro, che segnò Gramsci nelle scelte di vita, consacrata alla militanza politica, e nel percorso teorico, sempre problematicamente rivolto all'insieme di queste contraddizioni.
L'Italia costituiva un punto nevralgico della crisi di civiltà europea, non è un caso se qui si formarono le condizioni per la nascita e l'avvento del fascismo, e l'opera dei Quaderni dal carcere ne analizza sistematicamente cause ed effetti. Quando una classe perde consenso e cessa di essere dirigente, limitandosi ad essere dominante attraverso l'uso della forza coattiva, vuol dire che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali e dai vecchi valori. La crisi del dopoguerra è sintetizzata in queste note, contenute nell'ottavo volume in uscita domani, da una celebre frase dell'intellettuale sardo: «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».
A fronte di un decadimento irreversibile del vecchio ordine liberale non era corrisposto il suo superamento da parte di un ordine nuovo, il socialismo, per l'immaturità, il paternalismo e il dilettantismo del suo movimento. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutti quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell'opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l'alta finanza, la chiesa. Dietro alla crisi di egemonia del regime liberale in Italia c'era l'inutile sforzo per la guerra, con il suo carico di promesse millantate non mantenute, e l'irrompere di soggetti sociali prima passivi. Il fascismo era la logica conseguenza di una condizione di stallo dove nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, aveva la forza necessaria per la vittoria definitiva. L'uso della forza, sia quella tradizionale dello Stato, sia quella illegale delle squadre paramilitari di Mussolini divengono allora per Gramsci il mezzo con il quale le vecchie classi dirigenti tentano di sopperire alla morte del vecchio mondo impedendo con ogni mezzo la nascita di quello nuovo.
fonte : unionesarda.ilsole24ore.com/Articoli/Articolo/124888


giovedì 11 giugno 2009

L’astensionismo antidemocratico de Alain de Benoist

L’astensionismo antidemocratico



In Francia, alla vigilia del voto, s’attendeva un’ondata d’astensioni senza precedenti: fino al 50 per cento. Tenuto conto dell’eliminazione delle listarelle che non avranno il 5 per cento dei suffragi, sebbene fra tutte rappresentino circa il 20 per cento dell’elettorato, gli eletti al Parlamento di Strasburgo rappresenterebbero un quarto della popolazione. Brutto segno per la democrazia. Ma per quale democrazia? Democrazia d’opinione, televisiva, di mercato? Studiate nella dimensione della crisi o valutate nella dinamica postmoderna, le patologie delle democrazie contemporanee attraggono vieppiù l’attenzione degli osservatori. È opinione generale che esse non ineriscano alla democrazia come tale, ma derivino dalla corruzione dei suoi principi. Gli osservatori più superficiali l’attribuiscono a fattori e fenomeni esterni (rituali le denunce del fondamentalismo, del populismo, del comunitarismo, della globalizzazione, ecc.), che riguardano solo evoluzione dei costumi e mutamenti sociali. Spesso, insomma, si scambia la causa per l’effetto, mentre gli osservatori più seri vanno oltre le osservazioni immediate e s’interrogano sull’evoluzione della democrazia, parlando allora di distacco più o meno netto fra ciò che la democrazia è e ciò che dovrebbe essere secondo i suoi principi fondatori.
Certuni parlano già di “post-democrazia”, non per dire che la democrazia è al termine, ma per suggerire che ha spontanemente adottato forme post-democratiche, da definire e classificare. Altri suggeriscono che siamo in una situazione paragonabile a quella di pochi anni prima della rivoluzione francese. I toni più comuni sono inquieti e disillusi. Per le democrazie europee la crisi attuale non è la prima. In materia Marcel Gauchet pubblica La révolution moderne e La crise du libéralisme, 1880-1914 (entrambi Gallimard), primi due - di quattro - volumi su L’avènement de la démocratie. La prima crisi della democrazia si profila in Francia dal 1880, s’afferma con lo «choc 1900», ma esplode solo dopo la Grande guerra, culminando negli anni Trenta. A quell’epoca - scrive Gauchet - «il regime parlamentare si rivela tanto ingannatore quanto impotente; minato dalla divisione del lavoro e dall’antagonismo fra classi, la società pare crollare; generalizzandosi, il cambiamento storico accelera, cresce, sfugge ai controlli». Si entra nell’era delle masse e la società è lacerata dalla lotta di classe. Inoltre cadono le solidarietà organiche e si svuotano le campagne. Conseguenza diretta di tale crisi è innanzitutto l’ascesa delle prime ideologie (pianismo, tecnocrazia) che vogliono dare il potere politico a «esperti», poi, e soprattutto, lo scatenarsi dei regimi totalitari, che tenteranno - come hanno dimostrato Louis Dumont e, in misura minore, Claude Lefort - di compensare gli effetti dissolventi dell’individualismo e la destrutturazione culturale della società con un olismo tanto artificioso quanto brutale, legato alla mobilitazione delle masse e all’instaurazione d’un regime da caserma nella società globale, su un fondo d’appelli a concetti prepolitici come la «comunità razziale». In realtà, per Gauchet, «tornano o tentano di tornare, in un linguaggio laico, alla società religiosa, alla sua coerenza e alla convergenza delle sue parti».

Da questo punto di vista, i totalitarismi del XX secolo sono incontestabilmente figli (illegittimi) del liberalismo. La fine della II guerra mondiale segna il grande ritorno della democrazia liberale. In un primo tempo, però, per evitare la ricaduta negli errori prebellici, la democrazia liberale si veste da Stato-Provvidenza. Nel contesto del fordismo trionfante, in realtà si forma un regime misto, che al classico Stato di diritto associa elementi d’essenza più democratica, ma dove la democrazia è vista innanzitutto come «democrazia sociale». Per Gauchet le caratteristiche di questa «sintesi liberal-democratica» sono: rivalutazione del potere esecutivo in seno al sistema rappresentativo, adozione - dove ancora mancavano - di assicurazioni sociali contro la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia e l’indigenza, infine costituzione di un apparato che rimedi all’anarchia derivante dal libero sviluppo degli scambi sui mercati. Più o meno normalmente il sistema funzionò fino a metà degli anni Settanta. Dal 1975-80 nuove tendenze portano a una crisi diversa. Ideata come società d’assicurazioni e come organizzazione benefica, la democrazia sociale comincia ad ansimare e il liberalismo puro torna a prevalere. Privilegiata senza ritegno, la società civile diventa il motore di una nuova fase dell’organizzazione autonoma della vita sociale. È il grande ritorno del liberalismo economico, mentre a poco a poco il capitalismo si libera degli ostacoli, processo culminante nella globalizzazione seguita alla disgregazione del sistema sovietico. A lungo relegata nel ruolo simbolico e decorativo delle venerabili astrazioni d’epoca, l’ideologia dei diritti dell’uomo diventa la religione dei tempi nuovi e, insieme, la cultura dei buoni sentimenti, l’unica capace di realizzare il consenso sulle rovine delle ideologie precedenti.
Nello stesso tempo lo Stato-nazione si rivela sempre più impotente contro le sfide del momento, perdendo progressivamente tutti i «valori di maestà», mentre si assiste, ovunque, al massiccio rilancio del processo d’individualizzazione, che si traduce nella scomparsa, in pratica, dei grandi progetti collettivi fondatori d’un «noi». Mentre in passato «era questione solo di masse e classi, perché l’individuo era considerato per il suo gruppo, la società di massa è stata sovvertita dall’interno dall’individualismo di massa, che sottrae l’individuo al suo appartenere». È anche l’epoca della quasi scomparsa delle società rurali occidentali, rivoluzione silenziosa i cui effetti profondi saranno più o meno inavvertiti, e dalla generalizzazione delle società multietniche, nate dall’immigrazione di massa. Per capire quest’evoluzione va colta la distinzione fra democrazia antica e moderna. La prima, già insita nell’idea di un’autocostituzione delle comunità umane, può definirsi come la formazione politica dei mezzi dell’autonomia grazie alla partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. La democrazia moderna è intrinseca alla modernità, ma solo attraverso un legame col liberalismo che tende a snaturarla. La causa profonda della crisi è l’alliage contronatura della democrazia col liberalismo, che Gauchet ha potuto presentare come «la dottrina stessa del mondo moderno». L’espressione «democrazia liberale» associa come complementari termini contraddittori. Oggi, rivelandosi del tutto, il liberalismo minaccia le basi della democrazia.
Giustamente Chantal Mouffe (The Democratic Paradox, Verso) osserva: «Da una parte c’è la tradizione liberale costituita dal regno della legge, dalla difesa dei diritti dell’uomo e dal rispetto della libertà individuale; dall’altra la tradizione democratica, con idee principali come eguaglianza, identità fra governo e governati, sovranità popolare. Fra queste due diverse tradizioni non c’è una relazione necessaria, ma solo un’articolazione storica contingente». Senza cogliere questa distinzione non si capisce la crisi attuale della democrazia, crisi di sistema di questa «articolazione storica contingente». Democrazia e liberalismo non sono sinonimi. Su punti importanti sono perfino concetti opposti. Ci possono essere democrazie non liberali (democrazie e basta) e liberali non democratici. Per Carl Schmitt, più una democrazia è liberale, meno è democratica.


Traduzione di Maurizio Cabona
www.ariannaeditrice.it
fonte:
Les Amis d’Alain de Benoist







«L'ecologia unisce e vince»

L'altermondialista Bové spiega l'alleanza con l'europeista Cohn-Bendit e il successo della lista
Anna Maria Merlo
ilmanifesto.it
PARIGI
Il successo della lista Europa ecologia alle elezioni europee in Francia, che manda a Strasburgo lo stesso numero di eurodeputati del Ps (14), sta trasformando il panorama politico. A partire dall'analisi del voto e delle ragioni del successo della lista ecologista, guidata da personalità che, a prima vista, sembravano lontane: Daniel Cohn-Bendit, Dany il rosso del lontano '68, da anni impegnato sul fronte europeo ed europeista, nel 2005 grande sostenitore del «sì» al referendum francese sul Trattato costituzionale; José Bové, leader contadino e altermondialista, che nel 2005 si era schierato per il «no» e nel '99 aveva manifestato a Seattle contro la Wto portando una forma di formaggio roquefort; Eva Joly, giudice anti-corruzione, che ha lavorato in Francia, ma anche in altri paesi. E poi tanti altri, provenienti da orizzonti diversi, da Jean-Paul Besset, vicino a Nicolas Hulot, tra i primi ad aver portato la sensibilità ecologica in tv, alla giovane Karima Delli, 28 anni, membro del collettivo Salviamo i ricchi, che organizza happening dal significato politico (l'ultimo è stato un'irruzione al Bristol, uno degli alberghi più chic di Parigi, muniti di pane e salame, per far vedere agli abbienti seduti ai tavoli di un ristorante carissimo che ci si può nutrire anche con pochi soldi).
Abbiamo chiesto a José Bové, neo-deputato a Strasburgo, di analizzare la situazione.
Come avete fatto a mettervi assieme, visto che altrove la divisione ha avuto la meglio e ha portato a risultati drammatici?
La prima idea importante per poter avanzare e trasformare l'avvenire è stato il rassemblement, il raggruppamento. Questa unità, che non era possibile alla sinistra della sinistra, è stata realizzata da noi perché c'era una visione globale sulla questione ecologica. La questione sociale, la sua mutazione in corso da un lato, e la questione ecologica dall'altro hanno la stessa importanza. Ma occuparsi del solo problema sociale, secondo me, non permette di arrivare a una risposta nuova. Invece le problematiche del cambiamento climatico, delle questioni ec
ologiche, della limitazione delle risorse e del loro saccheggio sistematico permettono di dar corpo a una dottrina comune. E dal momento che c'era un accordo complessivo sull'analisi, il fatto che le persone coinvolte provenissero da percorsi differenti non ha rappresentato un problema insormontabile. Ognuno di questi percorsi ha legittimità, ognuno segue il suo binario diverso: Daniel Cohn-Bendit, impegnato a lungo a Bruxelles, Eva Joly coinvolta come giudice nella lotta anti-corruzione, molto importante in Francia e a livello internazionale; io altermondialista che si batte contro gli organismi geneticamente modificati. Ognuno, al proprio livello, porta la sua specificità.
Europa Ecologia ha ottenuto un ottimo risultato, ma in Francia l'astensione ha sfiorato il 60% e a non essere andate a votare sono soprattutto le classi popolari. Come peserà tutto ciò sul futuro della vostra alleanza?
Le classi popolari si sono sentite finora escluse dall'Europa e, per di più, da sempre vengono maggiormente valorizzate le elezioni nazionali. Le istituzioni europee, per come funzionano oggi, non traducono la posta politica che è in gioco per molti. Tanta gente ha difficoltà a
capire se, votando per questo o quel partito, qualcosa cambierà, verrà trasformato. C'è bisogno di fare informazione pedagogica sull'Europa, sul ruolo del parlamento europeo. Uno dei primi compiti sarà, infatti, trasformare la realtà istituzionale europea.
Chi ha votato per voi?
Quello che è chiaro è che abbiamo avuto il voto dei giovani. Siamo stati il primo partito votato da chi ha meno di 40 anni. Per quanto riguarda il voto popolare, l'astensione è stata forte perché riguarda gli esclusi i quali non capiscono che interesse hanno ad andare a votare. Su questo fronte vedremo le dinamiche future, in particolare quella che si manifesterà alle prossime elezioni locali in Francia, sempre tenendo presente che la questione sociale e quella ecologica hanno eguale importanza e sono legate.
Quali saranno le vostre prime mosse?
Intanto, vogliamo subito creare una coalizione anti-Barroso a Strasburgo, per evitare che l'attuale presidente della Commissione venga rieletto. Abbiamo poi un calendario molto fitto, da luglio all'autunno, per costruire un accordo con altre forze.
Daniel Cohn-Bendit, da parte sua, ha precisato di «credere in una forza politica moderna», che «deve declinarsi a livello europeo. La crisi della socialdemocrazia potremo risolverla solo formulando, contro le alternative nazionali, alternative europee. E' qui che ha fallito il Partito socialista». Secondo Cohn-Bendit «in Olanda, in Germania, in Francia sono stati penalizzati tutti coloro che dopo la crisi continuavano a dire le stesse cose che dicevano prima», conservando «lo stesso software. Credo sia questa la grande difficoltà della socialdemocrazia». BNP Con questa percentuale di voti il nazista British National Party è riuscito ad ottenere per la prima volta due seggi all'Europarlamento. Ora è in caccia di alleanze e soldi Ue.


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