mercoledì 3 novembre 2010

Un giornale troppo libero

pro sa libertade de sa printera de is giorronalis e iscriri is prentas chentza censuras e controllus de is cantadoris

semus de sa parti de totus is perseguitaus idealistas e pulitucus!
sa defenza

Ala al Aswani


Negli anni ottanta, quando feci richiesta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver superato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, afollatissima di giovani medici e ingegneri che, come me, avevano richiesto una borsa per studiare all’estero. Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la risposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese.

Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a occidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualiica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna grazie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere grazie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: prima di tutto perché il sistema sofoca chi ha talento, secondo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno.

In Egitto le persone capaci hanno tre possibilità. Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo fino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talento a disposizione del regime, accettando di esserne servi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subiranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa. Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggiosi giornalisti egiziani.

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Ibrahim Eissa

Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter facendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al sistema. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Dustour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quotidiani.

Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al silenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha cercato di comprarlo, commissionandogli programmi televisivi che gli avrebbero fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha continuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva. A mano a mano che in Egitto aumentavano le pressioni sia popolari sia internazionali per un cambiamento democratico, il regime si è trovato in difficoltà e il suo nervosismo è cresciuto.

Ibrahim Eissa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano diabolico. Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco proprietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vicino ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della finta opposizione nella farsa delle prossime elezioni egiziane truccate.

Poi ha comprato Al Dustour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata. Dopodiché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata ufficialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Perché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista onesto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egiziani? Al Dustour è finito, ma è passato alla storia dell’Egitto come un grande esperimento giornalistico e culturale.

Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la verità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica soluzione è la democrazia.

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ALA AL ASWANI è uno scrittore egiziano. In Italia ha pubblicato Palazzo Yacoubian (2006), che è stato tradotto in venti lingue, Chicago (2008) e Se non fossi egiziano (2009), tutti editi da Feltrinelli.




Ibrahim Eissa è uno dei più dotati giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata nel mondo arabo

martedì 2 novembre 2010

E LO CHIAMANO futuro TENTATIVI DI INNOVAZIONE ANCORATI A GRIGLIE DI ANALISI VECCHIE E ARIDE



Al documento culturale promosso dalle associazioni di area finiana hanno aderito anche molti intellettuali di sinistra, convinti della necessità di «un nuovo patto fondativo». Oltre le regole della convivenza, c'è, però, la politica vera, che nella sua forma democratica richiede scelte divergenti e divisive ALBERTO SAVINIO, ARIEL

Giuliano Battiston
ilmanifesto.it

Appellandosi ad alcuni numi tutelari della teoria politica come Machiavelli e Hannah Arendt, e a uno dei padri della Costituzione repubblicana, Piero Calamandrei, il «Manifesto di ottobre» aspira a «riaccendere l'immaginazione progettuale della società» e a ristabilire un fertile legame tra cultura e politica, in opposizione alle «logiche privatistiche, antipolitiche, anticulturali che in questi anni hanno monopolizzato la sfera istituzionale». Il punto di partenza, spiega Fiorello Cortiana, uno degli estensori del testo, tra i fondatori dei Verdi, è stato da un lato «lo sconcerto di fronte alla deriva dell'antipolitica, frutto della crisi delle forme e dei contenuti dei partiti popolari, che ha prodotto un'esperienza come il berlusconismo, che a sua volta ha confermato e plasmato questa antipolitica», dall'altro l'«esplicita e lucida consapevolezza che siamo in un periodo che deve essere di nuovo costituente».

Ermafroditismo ideologico
L'obiettivo è promuovere una politica che torni a rispondere «a interessi generali», e ridia senso alle parole e all'alfabeto di cui si compongono. Perché, dice Monica Centanni, filologa e storica del teatro all'Università Iuav di Venezia, direttrice della rivista online Engramma, «si è corroso non solo il discorso sulle parole, la loro consistenza, il loro significato, ma la stessa grammatica del pensiero, la sintassi del ragionamento». Da qui deriva la «totale disaffezione rispetto al presente, considerato non più come risorsa ma come controcanto negativo di un passato mitizzato o di un futuro dilazionato». Occorre invece alimentare la passione del presente, quella «dimensione di ulteriorità che è la politica, come ci insegnano Aristotele e Hannah Arendt, intesa non come necessità, ma come passione e desiderio, come attivazione di un campo energetico, per dirla con Warburg». E ad Hannah Arendt fa riferimento anche un altro promotore del Manifesto, Peppe Nanni, figura di riferimento della destra milanese, che indica nella «riqualificazione della politica come attività che connota l'essere umano e non come male necessario, e nella libertà politica come partecipazione alle procedure del governo» gli obiettivi di questa operazione politico-culturale, che aspira a sganciarsi dal Novecento, a superare «le vecchie e inaridite appartenenze, congedando le ossessioni e i ricatti delle memorie ferite», come recita il testo presentato il 26 ottobre. Un'operazione dolorosa, sostiene Nanni, «perché occorre strapparsi alle proprie appartenenze, aggredire il passato alle spalle, per dirla con Giorgio Galli», ma che è vitale, perché la politica è «slegamento, rottura, innovazione, cominciamento».
E di «rigenerazione della politica» parla il filosofo Giacomo Marramao, che respinge le obiezioni di ecumenismo scolorito mosse al Manifesto (tra gli altri da Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera»), individuando invece «nella validità del patriottismo costituzionale come base del discorso», fatta propria da intellettuali post-missini, «nell'esigenza di una sfera pubblica basata su principi e valori condivisi» una «denuncia durissima degli elementi di corruzione presenti nel modo di gestione politica del governo berlusconiano». E soprattutto un elemento storicamente rilevante, di cui va dato atto a chi, finora, non aveva ancora riconosciuto così esplicitamente «i valori della costituzione repubblicana, nata dalla resistenza e dall'antifascismo».

Per lo storico Franco Cardini le accuse di ermafroditismo ideologico suonano sospette: «è la risposta, un po' sconcertata, di chi trova d'accordo, su questioni essenziali, persone che non dovrebbero neanche salutarsi», persone mosse non da uno sterile eclettismo, ma, «in termini kantiani, da un imperativo morale svincolato da qualsiasi interesse personale». Cardini non manca però di sottolineare quella che per lui è la principale lacuna di questa «piattaforma, aperta e inclusiva», che segnala indirizzi, non dogmi, e lascia spazio al dissenso: la scarsa attenzione «allo sviluppo abnorme e incontrollabile della volontà di alcuni, che ha creato una concentrazione di ricchezza e di potere decisionale nelle mani di pochi». In altri termini, la questione della «giustizia sociale». A quella di Cardini, vengono da aggiungere almeno tre altre osservazioni critiche. La prima: è salutare che, all'osceno della cultura politica berlusconiana, fin qui pigramente subito o favorito, si contrapponga non solo l'indignazione della denuncia, troppo spesso consolatoria, ma un rinnovato esercizio di vitalità politica. Ma si tratta di un esercizio ritardato, che avviene quando, ormai, «i buoi sono usciti dalle stalle», anche a causa dell'acquiescenza di quella destra che ora prova a smarcarsi, con un'operazione culturale in grande stile, dal Capo. Il secondo: la rivendicata apertura «generativa», il «pensiero di rottura delle consuetudini usurate», l'energia produttiva sprigionata dalla crisi della politica rientrano, interamente, in una cornice così circoscritta e prevedibile da depotenziare qualsiasi «azione trasformatrice»: la cornice westfaliana dello Stato-nazione, l'orizzonte della comunità politica ancorata alla demarcazione territoriale sancita dalla sovranità statale.

Chiusi nel «particulare»
Nel Manifesto, infatti, non c'è nessuna allusione, nessuna consapevolezza che i problemi della democrazia rappresentativa, la difficoltà di dare voce «ai clandestini della politica», ai «senza parte» di Rancière - su cui pure tanto si insiste - dipendono ormai anche dalla rottura di quella cornice, e che non possono essere risolti senza interrogarsi sul cosmopolitismo, sulla giustizia globale, sulla limitatezza del nazionale come unica chiave di lettura della società. A dispetto delle sue ambizioni, dunque, si tratta di un Manifesto troppo «introflesso», ripiegato sul particulare nazionale, ancorato a griglie analitiche novecentesche, queste sì spuntate e inaridite. Un difetto che, forse, deriva dal terzo: nonostante i nobili ideali a cui aspira, la genesi dell'appello sembra dipendere, prima ancora che dal «sommovimento geologico delle categorie della politica», dal molto più epidermico riposizionamento tattico del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Un condizionamento troppo evidente per aspettarsi la nascita di un'effettiva, nuova cultura politica. Se è vero, come recita il Manifesto, che «senza cielo politico non c'è cultura, ma soltanto erudizione e retorica», è altrettanto vero che, quando quel cielo è troppo basso, la cultura ne rimane inevitabilmente schiacciata.
read.


Il manifesto di ottobre

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122142/il_manifesto_dottobre_il_dibattito

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122141/il_manifesto_di_ottobre


lunedì 1 novembre 2010

Le armi nucleari statunitensi in Europa presto trasferite in Italia

Manlio Dinucci *

http://www.voltairenet.org

trdt cun google

Come rivelato da Manlio Dinucci, tutte le armi nucleari non strategiche conservate in Europa, USA saranno trasferiti in Italia. Tale Stato è disponibile a farsi usare previa approvazione dell'Alleanza. Se l'Italia ha ufficialmente abbandonato la bomba, diventerà di fatto e in violazione dei trattati internazionali, una grande potenza nucleare.

"Finché ci sono armi nucleari, l'alleanza NATO rimarrà una direttiva una nucleare da Washington che il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Anders Fogh Rasmussen sta cercando di trasmettere e che gli alleati europei hanno approvato nel corso della riunione dei Ministri della difesa tenutasi a Bruxelles il 14 ottobre in preparazione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo del 19 e 20 novembre a Lisbona.

Eppure, nel suo discorso "storico" a Praga 5 aprile 2009 [ 1 ], Obama ha detto che gli Stati Uniti avrebbero fatto passi concreti verso un mondo senza armi nucleari, il rafforzamento della non proliferazione nucleare, che impegna i paesi a eliminare quelle nucleari e non nucleari a non acquisirle loro. Così ha permesso la favorevole circolazione delle armi nucleari USA al di fuori dell'Europa. Su questa base, cinque membri della NATO Belgio, Lussemburgo, Norvegia e Paesi Bassi, avevano espresso l'intenzione di sollevare la questione in occasione del vertice di Lisbona.

Ciò che è veramente al momento emerge dalla relazione Armi nucleare-strategico degli Stati Uniti non in Europa, un dibattito fondamentale per la NATO [ 2 ], presentato in ottobre da una commissione dell'Assemblea parlamentare NATO. Soprattutto si conferma che non sappiamo il numero esatto di armi nucleari non strategiche (nel campo meno di 5500 km) che gli Stati Uniti mantengono in quattro paesi europei della NATO, Italia, Belgio, Germania e Paesi Bassi Inferiore e la Turchia.

Altre stime, almeno due volte. Ce sont des bombes B-61 de différentes versions, dont la puissance va de 45 à 170 kilotonnes (13 fois plus que la bombe d'Hiroshima). Queste sono le B-61 bombe di versioni diverse, tra cui il potere va dal 45-170 kt (13 volte la bomba di Hiroshima). Tra questi, probabilmente il 61-11 B può penetrare la terra per creare, per un'esplosione nucleare, un'onda d'urto capace di distruggere obiettivi sotterranei. . Tutte queste bombe sono depositati in appositi magazzini con caccia-bombardieri F-15, F-16 e Tornado, pronto per l'attacco nucleare.

Il rapporto conferma l'esistenza di "accordi bilaterali in materia nucleare" segreto, in cui alcune di queste armi possono essere utilizzate dalle forze armate dei paesi di accoglienza una volta che gli Stati Uniti ha deciso di utilizzare. Ma, ricordo che nella relazione, i fautori del controllo degli armamenti sostengono che "la NATO ha la responsabilità di porre fine a questa pratica di condivisione nucleare" perché viola la non proliferazione nucleare: una vieta gli Stati che possiedono armi nucleari al loro trasferimento agli altri (art. 1) e Stati non nucleari a riceverle da chiunque (art. 2).

Tra l'opzione di tenere le armi nucleari statunitensi in Europa come sono e che la rimozione del tutto, ci sono intermediari proposte. La più sostenuta, dice il rapporto, è che la US Air Force, "insieme le armi nucleari in meno ubicazioni geografiche." Secondo la maggior parte degli esperti, "i luoghi più probabili per ritrovare le basi sono sotto il controllo USA di Aviano, Italia (Friuli Venezia Giulia) e di Incirlik in Turchia." Significativamente, dice il rapporto, che in occasione della riunione dei ministri degli esteri della NATO in aprile 2010 questione delle armi nucleari statunitensi in Europa è stato sollevato da Germania, Belgio e Paesi Bassi Paesi Bassi, mentre l'Italia e la Turchia sono rimasti in silenzio. Ciò suggerisce che il governo italiano ha già approvato il progetto di spostare le armi nucleari degli Stati Uniti dalla Germania, il Belgio ei Paesi Bassi per accoglierli ad Aviano, che sarebbe anche essere trasferiti a quei Ghedi Torre.



Ad Aviano, è di stanza il 31 Fighter Wing, composta da due squadroni di caccia-bombardieri F-16, la 510a Fighter Squadron e 555a Fighter Squadron. La sua missione è "fornire energia combattere da un polo all'altro del globo alla ricerca di Stati Uniti e della NATO." L'energia nucleare anche, come dimostra la 510i emblema Fighter Squadron, che, accanto a l'aquila imperiale, il simbolo dell'atomo con tre lampi toccano il suolo.



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SA DIE DE S'INDIPENDENTZIA.. INDEPENDENCE DAY 27 NOVEMBER 2010 CAGLIARI

pubblicata da Sayli Vaturu

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.. Si tratta di manifestazione spontanea nata da un'idea lanciata sul web e che al pari di altre iniziative spontanee, lancia l'idea di aggregare persone qualunque e persone già addentro... ideali indipendentisti, per un evento che tocchi le coscienze del popolo o nazione diffusa sarda, cosa spinge a fare cio?

Il fatto di mettere all'ordine del giorno un argomento che sta già entrando a forza nell'immagianrio colletivo del sociale, la diffusione di intento , consapevolezza e coscienza indipendentista, lo scopo dichiarato della marcia è incrementare tale idea latente nel sociale per dare più forza alla possibilità di liberazione della nazione sarda.Il fatto che l'idea della manifestazione per l'indipendenza nasca da un'idea sorta nel web non pregiudica i rapporti tra movimenti indipendentisti o nazionalitari, e, ne questa deve essere vista come sorta di competizione, tale da snobbare chcchessia in quanto non nata all'interno di movimenti indipendentisti, poichè credo, che la manifestazione si pone oltre una visione partitica o settaria per l'egemonia di una fantomatica piazza, ma, vedo nel suo intento il dare nuova luce a idee che devono essere primarie, ( così comè il fattore indipendenza sarda), nella discussione e nell'informazione che deve circolare nei media e nella società sarda.

Così come ne sono nate tante altre iniziative sul web, come ad esempio il VDAY, NOBDAY, MOV. VIOLA ecc, da notare che i politici hanno assecondato e cercato di affianzcarsi ad essi e non hanno contrastato quelle idee nate nella spontaneità.. ecc,Oggi, persone di fede politica patriotica e non abbracciano la Marcia pro s'indipendentzia per dimostrare un intento collettivo, questo intento è volto non a contestare chissa quale gruppo politico indipendentista o nazionalitario, MA a farlo sentire come fosse una sola voce che suoni forte come un TUONO nelle orecchie di chi di questo motivo non vuole sentire parlare.

E quando parlo di urlarlo e farlo tuonare nelle orecchie forte e chiaro ai sordi che non intendono s'indipendentzia e dei motivi che ci muovono per ribadirlo intendo promuoverlo con la forza che merita, per porre innanzi al governo italiota e la regione sarda, la nostra determinazione a voler superare lo stato di cose attuale e prospettare un futuro diverso di quello promulgato finora da tali istituzioni.


Voglio dire a chi è sempre sulle spine o si sente escluso, di non abbattersi perchè anche se la Marcia non è organizzata da uno dei movimenti politici indipendentisti o natzionalitari che potrebbe prendersi i meriti di tale forte proposta, prorio per questo motivo dico si dovrebbe essere più ben disposti a provare di percorrere una strada nuova, senza meriti o demeriti, sicuramente è una starda in salita , ma, se saputa gestire con la trasparenza di cui sta mostrando l'azione colletiva dei ragazzi donne e uominiche la stanno sostenendo eportando avanti nonostante le polemiche che navigano sull'onda di facebook, la gestione è senza contrasti di parte , per questo, darà alla nostra terra la giusta occasione per apparire ed aprirsi al mondo con una forte risonanza per la nostra giusta causa:


S'INDIPENDENTZIA DE SA TERRA NOHSTA

Perciò vorrei incoraggiare tutti, per primo ognuno di noi che già lavoriamo alla buona riuscita della Marcia, ad essere umili e ben disposti a dialogare apertamente senza veti di sorta su una causa che tutti ci accomuna , e dico tutti da AMpI a SNI a iRS A PSdAz a tutti i movimenti indipendentisti o nazionalitari che siano gruppi organizzati o spontanei, ma , che hanno a cuore la libertà della nostra natzione.

Per questo voglio ribadire ed invitare Voi tutti movimenti e non, che avete a cuore il bene natzionale sardo ad essere pronti a collaborare per far riuscire questa impresa che nel suo essere si puo delineare grande o piccola a secondo di come ognuno la vede e intende personalmente, ma è sicuramente iniziativa di interesse comune per il bene di tutti i sardi e dei movimenti indipendentisti e natzionalitari.

Dobbiamo essere responsabili e pragnmatici sopratutto per la nosrtra terra e e la nostra gente, voglio ricordiVi che il suo eventuale fallimento non darà bagliori di gloria o luce a nessuno dei movimenti che si dissociano da essa o che non ne prendano parte, viceversa per tutti coloro che si sono prodigati nel piccolo o nel grande per la sua riuscita vi sarà futura riconoscenza dei nostri pronipoti per il semplice coraggio di avere osato!! ..

MOVIMENTARSI PER NON SUBIRE

AGIRE PER NON MORIRE

sa defenza


riflettere fa bene alla mente e all'azione .. :))

domenica 31 ottobre 2010

L’indipendenza dei sudditi


Noam Chomsky
Mit di Boston

Tra tutte le “minacce” all’ordine mondiale, la più pericolosa per il potere imperiale è la democrazia, a meno che non rimanga sotto stretto controllo. È una minaccia qualsiasi affermazione di indipendenza. Nel corso della storia, le scelte di politica imperiale sono sempre state guidate da queste paure.

In Sudamerica, il tradizionale cortile di casa degli Stati Uniti, i sudditi stanno per esempio diventando sempre più disobbedienti. A febbraio hanno perfino creato la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che comprende tutti i paesi dell’emisfero ma non Stati Uniti e Canada.

Per la prima volta dall’arrivo dei conquistatori spagnoli e portoghesi cinquecento anni fa, il Sudamerica sta andando verso l’integrazione, un prerequisito necessario per l’indipendenza. E si sta anche rendendo conto di quanto sia scandaloso che un continente così ricco di risorse possa essere controllato da poche élite ricche circondate da un mare di povertà. Inoltre, i rapporti tra i paesi del sud del mondo si stanno sviluppando, e al loro interno la Cina sta svolgendo un ruolo importante, sia come consumatore di materie prime sia come investitore. La sua influenza sta rapidamente crescendo e in alcuni paesi ricchi di risorse ha superato quella degli Stati Uniti.

Alcuni cambiamenti significativi sono avvenuti anche in Medio Oriente. Sessant’anni fa il diplomatico Adolf Berle fu uno dei primi a dire che chi avesse controllato le incomparabili risorse energetiche della regione avrebbe avuto “il controllo del mondo”. Negli anni settanta i maggiori produttori di idrocarburi nazionalizzarono le loro riserve, ma l’occidente mantenne una forte inluenza su quei paesi.

Nel 1979 gli Stati Uniti “persero” l’Iran in seguito alla caduta dello scià, salito al potere nel 1953 con un colpo di stato appoggiato da Washington e Londra per garantire che il suo petrolio rimanesse nelle mani giuste. Ma oggi l’America non riesce più a controllare neanche i paesi tradizionalmente suoi amici.

Le maggiori riserve di petrolio sono in Arabia Saudita, che dipende dagli Stati Uniti da quando cacciarono via gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga i maggiori investitori e partner commerciali dei sauditi, che a loro volta sostengono l’economia americana con i loro investimenti. Oggi, però, più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro ormai Riyad guarda a oriente.

La stessa cosa potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio, se riuscirà a risorgere dopo la distruzione causata dalle sanzioni e dall’invasione angloamericana. E la politica degli Stati Uniti sta spingendo anche l’Iran, il terzo produttore mondiale, nella stessa direzione.

Ormai la Cina ha sostituito gli Stati Uniti ed è la maggiore importatrice di petrolio dal Medio Oriente, mentre le sue esportazioni invadono la regione. Le possibili conseguenze di questa situazione per l’ordine mondiale sono importanti, come lo è la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che comprende quasi tutti i paesi asiatici ma esclude gli Stati Uniti e che, come osserva l’economista Stephen King, autore di Losing control: the emerging threats to Western prosperity, potrebbe diventare “un nuovo cartello energetico di cui farebbero parte sia i produttori sia i consumatori”.

Tra i politici occidentali il 2010 viene chiamato “l’anno dell’Iran”. Si ritiene che quel paese sia la più grande minaccia per l’ordine mondiale e per questo sia al centro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Europa, che li segue educatamente come al solito. Il pericolo rappresentato dall’Iran non è di tipo militare, ma deriva dal suo desiderio di indipendenza. Per mantenere la “stabilità”, Washington ha imposto sanzioni severe a Teheran, ma al di fuori dell’Europa ben pochi le rispettano.

Turchia e Pakistan stanno costruendo nuovi oleodotti e intensiicando i rapporti commerciali con gli iraniani. L’opinione pubblica araba è contrariata per la politica occidentale e in gran parte favorevole al programma nucleare di Teheran. Questo conlitto va tutto a vantaggio della Cina. “Gli investitori e le imprese cinesi stanno andando a riempire il vuoto man mano che molti altri paesi, soprattutto europei, si ritirano dall’Iran”, ha scritto Clayton Jones sul Christian Science Monitor.

E Washington reagisce in modo disperato. In agosto il dipartimento di stato ha avvertito Pechino che “se vuole fare afari con il resto del mondo deve prima modiicare la sua immagine. Se hai la fama di essere un paese che sfugge alle sue responsabilità internazionali, questo alla lunga avrà delle conseguenze”. E ovviamente avere “responsabilità internazionale” consiste essenzialmente nell’obbedire agli ordini degli Stati Uniti.

È improbabile che i leader cinesi si lascino impressionare da questi discorsi, dal linguaggio di una potenza imperiale che cerca disperatamente di aggrapparsi a un’autorità che non ha più. Il modo sprezzante in cui la Cina ignora gli ordini degli Stati Uniti è molto più pericoloso per Washington delle minacce dell’Iran.

NOAM CHOMSKY insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale? (Il Saggiatore tascabili 2010). Oggi più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro Riyad guarda a oriente. Lo stesso potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio



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