sabato 5 marzo 2011

La ricchezza dei tiranni


Moises Saman for The New York Times
The Economist,

Le rivolte in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto salire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile. Tutto il mondo teme una crisi petrolifera. Dopo la Libia, tocca all’Arabia Saudita? I commenti della stampa internazionale

Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile e Hosni Mubarak governava l’Egitto. Ora se n’è andato, il suo governo è stato rovesciato dalle manifestazioni popolari che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medio Oriente. E il prezzo del petrolio ha raggiunto i 114 dollari. Non c’è da stupirsi: la regione produce il 35 per cento del petrolio mondiale. Dalla Libia arrivano 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno in tutto il mondo.

A far impennare il prezzo del petrolio non è stata l’interruzione degli approvvigionamenti: il rincaro da record è arrivato prima che alcune società petrolifere annunciassero tagli alla produzione e che i porti del paese fossero chiusi. I prezzi del petrolio, fa notare Adam Sieminski della Deutsche Bank, sono inluenzati anche dalle aspettative. Ai mercati petroliferi inoltre
non piacciono le sorprese.

La caduta di Mubarak e le rivolte in Libia, Bahrein, Yemen, Iran e Algeria (che insieme forniscono un decimo del petrolio mondiale) hanno fatto aumentare il prezzo del greggio di almeno il 20 per cento. La preoccupazione è che il difondersi delle rivolte possa tradursi in uno shock paragonabile a quello dell’embargo petrolifero del 1973, della rivoluzione iraniana o dell’invasione irachena del Kuwait.

Oggi la produzione del petrolio è più globalizzata di quanto non fosse durante quelle crisi. Negli anni settanta si concentrava soprattutto nel golfo Persico e da allora i mercati sono stati invasi da un mare di petrolio proveniente dall’America Latina, dall’Africa occidentale e da altre regioni.
Principali produttori di petrolio: dato in barili al giorno
con indicazione (in rosso) dei paesi attualmente in rivolta

Un paio d'interessanti grafici sul PETROLIO (release 2.0)

Nel 2009 la Russia ha superato l’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio mondiale e la quota di petrolio prodotta dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) è passata dal 51 per cento della metà degli anni settanta a poco più del 40 per cento.

La globalizzazione della produzione petrolifera non ha diminuito l’importanza dell’Opec. Al momento i mercati sono cauti. Con la ripresa dei paesi ricchi e il boom asiatico, le riserve accumulate durante la crisi economica stanno diminuendo di nuovo. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel 2010 la domanda è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, e secondo i calcoli della Deutsche Bank nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. Molti produttori stanno vendendo a pieno regime e l’Opec possiede l’unico petrolio di scorta.

Se il petrolio della Libia smettesse di scorrere, gli importatori dovrebbero rivolgersi all’Arabia Saudita, che sarebbe in grado di soddisfare le esigenze dell’Europa, il mercato della Libia, nel giro di poche settimane. L’Opec sostiene di poter estrarre sei milioni di barili al giorno ma forse esagera. Gli analisti ritengono che la quantità reale sia più vicina ai 4-5 milioni, in gran parte nelle mani dei sauditi. Questo sarebbe più che suiciente per colmare il vuoto lasciato dalla Libia ma farebbe avvicinare il giorno in cui la crescente domanda mondiale esaurirà tutte le riserve. Gli analisti della banca Nomura sostengono che basterebbe una battuta d’arresto delle esportazioni algerine per portare il prezzo del petrolio a 220 dollari al barile.

Lo scenario peggiore sarebbe un’interruzione degli approvvigionamenti da parte dell’Arabia Saudita. Questa preoccupazione è diventata più forte dopo le rivolte in Bahrein, che produce poco petrolio ma è di grande importanza strategica per il golfo Persico, dove transita il 18 per cento del petrolio mondiale. I sauditi temono che le proteste della popolazione sciita del Bahrein possano estendersi al loro paese. Le province orientali dell’Arabia Saudita ospitano sia le industrie petrolifere sia la maggior parte degli sciiti, che potrebbero ribellarsi al regime sunnita. Intanto il re ha annunciato che distribuirà al popolo 35 miliardi di dollari.

Scorte strategiche

Quali potrebbero essere gli efetti di una crisi degli approvvigionamenti in Medio Oriente e in Nordafrica? Le crisi petrolifere degli anni settanta spinsero il mondo ad accumulare scorte, come i 727 milioni di barili che formano la riserva strategica di petrolio statunitense, a cui attingere in caso di sconvolgimenti in Medio Oriente o altrove.

Anche la Cina sta costruendo una riserva strategica. Secondo l’Energy information administration statunitense, le scorte nelle mani dei governi e delle industrie di tutto il mondo ammontano a 4,3 miliardi di barili, equivalenti a quasi cinquanta giorni di consumo globale al ritmo corrente.

L’impatto di un’eventuale crisi quindi dipenderà dalla quantità di petrolio che si perderà e per quanto a lungo. Ma l’esempio dell’Iran dimostra che cosa può andare storto. Leo Drollas del Centre for global energy studies sottolinea che l’Iran prerivoluzionario estraeva sei milioni di barili al giorno. Allontanati gli esperti e i capitali occidentali, il nuovo regime non ha più raggiunto quel livello di produzione. Oggi estrae 3,7 milioni di barili al giorno. Il petrolio mediorientale è in gran parte controllato dagli stati ma gli investimenti esteri sono vitali solo per l’industria petrolifera del Nordafrica. Se emergessero regimi più ostili agli stranieri, potrebbero esserci efetti duraturi sulla produzione.

Il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa. Per quanto riguarda la possibilità di ridurre il peso del Medio Oriente come fornitore di petrolio a livello mondiale, non vale neanche la pena di parlarne. Probabilmente la forte domanda asiatica farà di nuovo aumentare la quota Opec della produzione di petrolio. E questa regione travagliata avrà ancora il potere di causare problemi.

venerdì 4 marzo 2011

Elezioni a Cagliari......Capitale


Sergio Gabriele Cossu


Essere indipendentisti significa, prima di ogni altra cosa al mondo, accettare di fare parte di un progetto "globale" che preveda la rottura del legame che ci vincola a poteri esterni, siano essi politici economici o culturali, nella piena consapevolezza di raggiungere l'autodeterminazione.
Il compito di ogni indipendentista è adoperarsi interamente nel perseguire tale obiettivo, sfruttando ogni singola occasione perché le componenti della nazione siano sensibilizzate fino al coinvolgimento totale, la sola condizione, in un contesto democratico, che possa favorire il raggiungimento dell'indipendenza. Nel frattempo ognuno ha il dovere di occuparsi di fatti che riguardino la società in cui vive, secondo la propria sensibilità e formazione sociale, oltre che culturale, ma essi, però, non dovranno mai e poi mai avere la priorità su tutto ciò che serva a questo popolo per unirsi, coalizzarsi, compattarsi intorno al suo obiettivo primario.
La soggettività di ogni movimento va esperita nella piena e legittima funzione, propria del formatore che lavora sulle inclinazioni ideologiche di ogni aderente, con il quale possa condividere la forma socio - istituzionale desiderata per il futuro stato indipendente, e contemporaneamente, nella fase intermedia, dovrà responsabilmente dare il proprio contributo perché l'unione delle componenti indipendentista sia realizzata.
Qualsiasi altro espediente metterebbe in una posizione contraddittoria coloro che si definiscono indipendentisti, dato che agirebbero, sebbene in buona fede, in ragione di interessi contingenti e avulsi dal progetto globale: esempio, fare indipendentismo sostenendo i partiti italiani, cioè gli stessi soggetti politici che rappresentano tutto ciò che di italiano si vuole combattere, essendo notorio che il potere colonizzante si sostanzia, soprattutto, attraverso il loro operato senza distinzione di sigle e di etichette.
E' un dovere di tutti fare in modo che i sardi vedano in noi l'esempio della "coesione" su questioni che potrebbero avere risvolti epocali per loro, e che fino adesso, in Sardegna, abbiamo visto essere prerogativa solo dei partiti italiani.
Sardigna Natzione Indipendentzia ha fatto suo, sin dalla nascita, questo principio: siamo quelli che hanno sempre sostenuto l'unità di tale forze come condizione necessaria per influire nel panorama politico sardo, il quale, voglio ricordare, oggi è monopolizzato dalle forze italianiste proprio a causa della nostra frammentazione.
Oggi i partiti italiani sono in grado di raccogliere solo il 40% dei consensi dei sardi - il resto è rappresentato dall'astensionismo e dai soggetti politici che non si riconoscono con Roma - rendendoli di fatto una minoranza, tra l'altro, in sensibile calo. Ciò significa che le potenzialità di metterli "all'angolo" dipenderà dalla nostra esclusiva capacità di coalizzarci, ma anche dai nuovi consensi che deriverebbero a seguito della nuova immagine vincente che ci daremo tra i soggetti non ancora schierati, i quali, come già detto, sono la vera maggioranza relativa.
Le prossime elezioni di Cagliari rappresentano un banco di prova importante.
Per la sua importanza, la capitale della Sardegna sarà soggetta, ancora una volta, a sperimentare le forme consuete della contrapposizione politica tipica dei melodrammi romani, in una prevedibile sequela di giochi che avranno come fine quello di assicurarsi che gli equilibri di potere rimangano immutati.
Immancabilmente tutte le sigle che rispecchiano i partiti italiani saranno presenti, e con loro gli schieramenti i quali esprimeranno i soliti programmi.
Vuole l'indipendentismo inserirsi autorevolmente all'interno di questa lotta con un programma di rottura rispetto al passato?
Ma soprattutto vuole farlo dando un segnale ai sardi che l'indipendentismo è deciso a fare fronte comune a partire da Cagliari?
Il buon senso di chi è fedele all'idea di vedere il popolo sardo finalmente unito suggerirebbe di si!
Voglio evitare di invadere il campo dei Cagliaritani i quali sono i soli aventi diritto di entrare nel merito delle loro questioni cittadine, per ribadire che dalla nostra capitale può, realmente, partire quel segnale che, senza nessuna ombra di retorica, potrebbe rappresentare una svolta verso il cammino per l'indipendenza di tutta la Sardegna. Nelle prossime settimane verranno avanzate delle proposte a questo riguardo. Il mio suggerimento è quello di considerare le varie proposte alla luce di quanto qui è stato detto, che corrisponde a brevi linee a ciò che la stragrande maggioranza dei sardi desidera. Sta solo a noi diventare i sud tirolesi della situazione, mostrando come fanno loro, che la "nostra" è vera volontà di agire da popolo, e che la disunione è stata solamente un capitolo triste della nostra storia, a cui abbiamo saputo porre rimedio per il bene della nostra terra.


Fintzas a s'indipendentzia!


mercoledì 2 marzo 2011

Parliamo di linguaggio

Christian Raimo
ilmanifesto
Nella Metafisica Aristotele dice: inchiodali al loro linguaggio. Parla dei sofisti di basso livello, dei Megariti, di quella gente che non argomenta in modo preciso, che cerca di buttare tutto in caciara, il cui unico scopo è la delegittimazione dell'avversario. Negli ultimi tempi la battaglia delle truppe cammellate berlusconiane vede in campo i riservisti: dopo la fanteria d'assalto degli yes-man, i Bondi e i Quagliarello, c'è stato il tempo dei cecchini, i Feltri, i Lavitola, i Sallusti,
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Sallusti e Feltri

VALTER LAVITOLA


quelli che sparavano ad altezza uomo ripetutamente, qualunque fosse il Boffo di turno da affondare. Ora la strategia sembra più raffinata: sono tornati da qualche settimana a questa parte a aver voce gli intellettuali sedicenti. Un Giuliano Ferrara che prende per il culo Umberto Eco su Kant, un Antonio Ricci che si riscopre debordiano e fa il verso alle femministe sul Corpo delle donne, detournando il documentario di Lorella Zanardo con un filmatino mandato in onda a Matrix, la cui tesi era: anche Repubblica usa le tette per vendere. Se è questo il livello, il conflitto viene da dire è finalmente culturale. Dopo che l'opposizione parlamentare (il Pd in primis) ha fallito nell'arginare la sua deriva populista, dopo che quella istituzionale (la nuova destra di Fini, la morale comune) è stata miseramente azzoppata, ora tocca a noi, a chi crede che il berlusconismo sia soprattutto una malattia del capitalismo avanzato, un virus che avremmo inoculato comunque anche se Berlusconi ipse non fosse ancora al governo con una maggioranza di 320 parlamentari.


Del resto è anche lui stesso, in prima persona, che in questi giorni è tornato a pugnare, tutto preso in una lunga sessione di tecniche di rovesciamento. Va ovunque ci sia da ribaltare, in una specie di tour da guitto per le piazze di paese. Uomini, donne, correte: è arrivato l'attorino! Ha fatto il numero d'"er reuccio de' Testaccio" alla Fondazione Zeffirelli (altro intellettuale redivivo) - ente neonato grazie a cinque milioni e mezzo di fondi sganciati dalla Regione Lazio che serviranno a costruire un mausoleo mentre ancora il Maestro Zeffirelli è in vita, mentre tutto il cinema della capitale (Centro sperimentale, Casa del Cinema, Metropolitan...) annaspa per la mancanza di finanziamenti. Con un Gianni qualunque (Letta, in questo caso) a fargli da spalla, Pinotto Berlusconi butta là facezie per tutti i palati. Dice: «Oggi sono entrato in Parlamento e anche la sinistra voleva venire al bunga bunga. Che poi sa cosa vuol dire? Andiamo a divertirci andiamo a ballare, andiamo a bere qualcosa...». Ride in faccia al giornalista di Sky che l'ha invitato a un confronto tv, paragonandosi al generale Franco, che se ne fregava delle richieste democratiche.
Poi va nel teatrino dei cristiano riformisti, e rispolvera il repertorio contro i comunisti, spara a zero contro la scuola «che inculca valori diversi da quelli della famiglia» e «contro le adozioni ai single», racconta quando Mamma Rosa lo investì della missione di salvare l'Italia e quando un fantomatico sacerdote russo a dodici anni lo illuminò sul Male rappresentato dal comunismo. Cosa ottiene? Il solito. Le reazioni pavloviane che si aspetta. Da una parte, applausi da stadio: dei claquer i cui bassi istinti di risentimento va a vellicare. Dall'altra, l'indignazione (il giorno dopo): da parte di chi costretto a ribadire l'ovvio, da Bersani a Bocchino, dai blogger degli insegnanti agli editorialisti di Repubblica. Tutti a tenere il punto sul minimo comun denominatore di una società democratica, sul valore fondante della scuola pubblica.
Sembrano i colpi di coda di un dittatore assediato nel bunker, si diceva in questi giorni. Sarà anche la sindrome dell'assediato, ma queste mosse berlusconiane sono lucidi deliri. Anzi, sembra che abbia una strategia chiara nell'affondare il coltello nella piaga proprio nelle contraddizioni della sinistra. Per dire: può permettersi di urlare contro la scuola pubblica e trovare chi lo osanna, proprio perché nell'opinione pubblica di sinistra ci sono state almeno un paio di settimane nelle quali si è dato un incredibile spazio (interviste a tutto campo, ospitate da Fabio Fazio...) al libro catastrofista di Paola Mastrocola sulla scuola. Scusate, ma la paginata di Cesare Segre sul Corriere contro Don Milani e Rodari, contro la scuola dell'uguaglianza, l'ho vista solo io? Scusate, ma l'endorsement del nichilista della domenica Pietro Citati su Repubblica in cui dice che l'Occidente è il luogo del vuoto e del niente, e che nessuno sa più leggere e scrivere, l'ho letto solo io? Se qualcun altro semina, Berlusconi raccoglie. E se delira, almeno non è il solo.
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Non è solo nemmeno quando si scaglia contro le adozioni ai single. Su coppie di fatto, tutela dei diritti dei single e degli omosessuali, la sinistra dell'ultimo governo è inciampata ripetutamente, e anche mettiamo che vincesse le elezioni alla prossima tornata, saprebbe proporre un progetto sociale diverso da quello razzista dei machisti oggi al governo?
Ma la tecnica di rovesciamento berlusconiana è studiata fino in fondo. E il giorno dopo, come volevasi dimostrare, arrivano le dichiarazioni stampa in cui si lamenta che è stato travisato: «Non ho mai attaccato la scuola pubblica», «L'insegnamento libero ripudia l'indottrinamento», «Ho solo denunciato l'influenza deleteria dell'ideologia», «Il mio Governo ha avviato una profonda e storica riforma della scuola e dell'Università, proprio per restituire valore alla scuola pubblica e dignità a tutti gli insegnanti che svolgono un ruolo fondamentale nell'educazione dei nostri figli in cambio di stipendi ancora oggi assolutamente inadeguati». Da folle arringapopolo, da puttaniere con il culo flaccido, da millantatore di fidanzate mai apparse, a pacato thatcheriano: eccolo quel fregolismo à la Zelig che conosciamo, quello che ti fa dire che da piccolo volevi fare il carabiniere quando vai alla festa dell'Arma. Mentre il giorno dopo le dichiarazioni della sinistra sono ancora aggrappate al Berlusconi della maschera prima.
Il linguaggio di Berlusconi è performativo, attoriale, ha bisogno di pubblico, di una scenografia: il senso è ancora una volta solo l'effetto, non le intenzioni. Ergo, il suo messaggio per essere contrastato va preso nell'interezza dell'atto performativo. Ritrattazione compresa. E allora, che strategia contrapporre? Inchiodali al loro linguaggio, diceva Aristotele. Quando dicono tutto e il contrario di tutto, quando smentiscono quello che hanno appena detto, fagli riconoscere che esiste il principio di non-contraddizione. Ma se non ammettono nemmeno il principio di non-contraddizione? Beh, in questo caso è Platone che ci viene in soccorso. Anche lui si era trovato molto spesso davanti al problema di chi non gioca su un piano logico del discorso. Capita, perché la nostra anima è tripartita, dice l'inventore della dialettica occidentale: c'è un'anima concupiscibile (l'istinto) che risiede nel ventre, c'è un anima irascibile (la volontà) che risiede nel petto, e c'è un'anima razionale (la ragione) che risiede nella testa. I cattivi politici fanno leva sull'anima concupiscibile per aizzare l'anima irascibile. La politica che dobbiamo praticare può fare il percorso opposto: usare l'anima razionale per generare passione. Ma usare l'anima razionale vuol dire essere capaci ogni giorno di essere autocritici oltre che critici, avere il coraggio di elaborare le contraddizioni (sul ruolo della scuola, sulla laicità, sull'uso della donna nei media, etc...) qui, dalla nostra parte, altrimenti possono cadere mille Berlusconi, ma a essere sconfitti saremo sempre noi.

lunedì 28 febbraio 2011

Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo

Un articolo del 1995 che conserva tutta la sua attualità
Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo



Hicham Ben Abdallah Al Alaoui

Tradotto da Il Manifesto

Non un solo regime democratico, non un solo stato di diritto in tutto il mondo arabo. Questa situazione scandalosa, mentre la democrazia avanza dappertutto nel resto del mondo, in Europa orientale, in America latina, in Africa e in Asia, esaspera l'opinione pubblica dei paesi arabi. Sempre più urbanizzata, meglio istruita, la popolazione chiede a gran voce autentici diritti di cittadinanza, per contrastare con successo il neo-autoritarismo dei poteri e l'offensiva dell'oscurantismo islamista.

In Europa la modernizzazione politica dello stato-nazione ha seguito un'evoluzione parallela alla trasformazione del concetto di cittadinanza. Tra il XVII e il XIX secolo, al termine di una lunga lotta contro il dispotismo, soggetti, la cui funzione individuale era sostanzialmente quella di obbedire a un potere che incarnava un'autorità trascendentale, si trasformarono in veri e propri cittadini, parti a pieno titolo di un contratto sociale basato su un'autorità nazionale sovrana.
Tale contratto si fondava su un complesso di regole, le leggi, cui tutti dovevano sottostare in egual misura, la cui legittimità poggiava sull'assenso dei cittadini stessi.
In virtù di questo contratto che viene onorato da tutte le democrazie moderne, il dovere di osservare le leggi dello stato è subordinato all'obbligo da parte dello stato di garantire ai suoi cittadini un certo numero di diritti fondamentali.
Ciononostante, anche nei paesi più democratici, l'applicazione generalizzata di questi diritti politici è avvenuta in seguito ad una lunga serie di conflitti. In Francia, ad esempio, il diritto di voto alle donne è stato riconosciuto solo nel 1945. E negli Stati uniti, il suffragio universale esiste solo da poco più di un quarto di secolo, da quando vennero adottate leggi che garantivano, in particolare ai Neri degli Stati del Sud, l'esercizio dei loro diritti civici. A volte tali conquiste democratiche hanno comportato dei compromessi con delle forme di autorità politica tradizionali: il Regno Unito, ad esempio, rimane una monarchia senza una Costituzione scritta.
Le ultime tappe di questo processo di avanzata dei diritti di cittadinanza nei paesi dell'Europa occidentale e dell'America del Nord sono state compiute abbastanza recentemente, in concomitanza con le grandi crisi economiche, quando i "cittadini" hanno ottenuto che il contratto sociale comprendesse una serie di diritti economici e sociali nel contesto più generale di uno stato previdenziale. E' questo ampliamento ad aver garantito in Europa occidentale il mantenimento dell'ordine liberale e borghese.
Stranamente, altrove, nelle nazioni di nuova indipendenza del mondo arabo, una versione dello stato sociale sostenuta da una mobilitazione di massa ha costituito lo strumento privilegiato dell'integrazione civica, precedendo e spesso anche ostacolando lo sviluppo di una serie di autentici diritti politici. Molti regimi arabi, sia monarchici che repubblicani, hanno fatto dell'istruzione gratuita, della garanzia sociale, dell'assistenza medica e della tutela del posto di lavoro, dei veri e propri simboli d'appartenenza alla comunità nazionale.
Nello stesso tempo, però, invece di creare dei cittadini nel senso moderno del termine, questi regimi hanno prodotto dei soggetti politici per i quali godere dei propri diritti civili e sociali dipende dalla buona volontà dei loro dirigenti.

La funzione del nucleo familiare

Peraltro, con il pretesto di dare una risposta alle richieste del popolo in materia di liberazione nazionale e di giustizia sociale, i nazionalismi arabi, conservatori o progressisti, hanno spesso ignorato i diritti civili e politici dei cittadini.
In questo senso, il termine "cittadino", ripreso con orgoglio nel testo della maggior parte delle costituzioni degli Stati arabi, è usato in modo improprio. Il termine "muwatin" (traduzione corrente della parola "cittadino") sottende in realtà una connotazione del tutto diversa, in quanto designa dei soggetti politici la cui subordinazione allo stato è un dato acquisito, ma la cui fedeltà resta sempre sospetta, e per i quali la libertà è una concessione sempre provvisoria.
In tale contesto, i cittadini del mondo arabo lottano incessantemente per dar vita a forme democratiche di governo, e la loro lotta appare inevitabilmente contraddistinta dalle specificità storiche e dai dati culturali di ogni nazione.
Per anni, storici, antropologi e politologi hanno discusso dell'incapacità (o dell'assenza di volontà) da parte degli Stati arabi di creare un ambito di cittadinanza politica dotato di diritti e doveri chiaramente definiti. L'influenza dominante dei legami familiari e tribali, prevalente nell'assetto delle società e delle culture arabe, viene considerata come un fattore decisivo per spiegare tale fenomeno.
La famiglia resta di fatto il centro dell'organizzazione sociale, dell'attività economica, e della riproduzione culturale. La sovrapposizione dei modelli patriarcali tradizionali alle relazioni di autorità che esulano dall'ambito familiare, ha un'influenza evidente sulla formazione dei soggetti politici.
Certo, la crescita economica, l'industrializzazione, l'urbanizzazione e l'istruzione pubblica generalizzata, da una quarantina d'anni hanno sconvolto il ruolo del nucleo familiare in moltissime società del mondo arabo.
Nella misura in cui tali cambiamenti sono rimasti limitati, squilibrati e non pienamente realizzati, la famiglia continua a svolgere una duplice funzione fondamentale: da un lato resta un elemento essenziale di sostegno e di sicurezza, limitando i danni causati dalle difficoltà economiche, e garantendo la perennità dei valori culturali. Al tempo stesso, tuttavia, consolida le forme di autorità patriarcale e contribuisce a ostacolare l'emergere di un rapporto indipendente e adulto tra lo stato e il cittadino.
Il rapporto che esiste tra il capo famiglia, figura autoritaria e generosa al tempo stesso, e il figlio protetto, dipendente e docile, somiglia a quello che intercorre tra dirigenti e dipendenti.
Nel mondo arabo, il capo dello stato spesso è il "padre della nazione". Le prestazioni sociali legittime spesso vengono presentate come "atti di generosità personale" concessi da un capo, e non come i vantaggi collettivi accordati da un potere esecutivo.
Paradossalmente è nei paesi più progressisti che si coglie meglio questo stato di cose.
Perfino nell'Egitto di Nasser (1954-1970), modello di pianificazione socialista in un paese arabo, la distribuzione delle terre, gli aiuti alimentari e i servizi sociali vennero presentati e recepiti come doni personali concessi dal capo della famiglia nazionale a parenti bisognosi.
Con questo non si vuol dire che una forte struttura familiare sia sufficiente ad impedire lo sviluppo del concetto di cittadinanza democratica, tuttavia appare doveroso per lo meno chiedersi in quale misura una particolare struttura di dipendenza, soprattutto in un sistema politico che si deve confrontare contemporaneamente con una crisi dello sviluppo, dell'urbanizzazione, dell'istruzione, coll'eredità della dipendenza coloniale, con le attuali percezioni di una debolezza geopolitica e con una serie di culti della personalità a livello nazionale, possa rappresentare un modello per altri rapporti di autorità, contribuendo così a ritardare la crescita politica del mondo arabo.
I tenaci vincoli della solidarietà tribale, etnica e religiosa costituiscono un secondo tipo di ostacolo che si trova costretto ad affrontare chi vuole affermare una concezione moderna della nazione e della cittadinanza.
Rivaleggiando tra loro per conquistarsi la fedeltà delle popolazioni, le tribù e gli Stati-nazione producono un forte antagonismo collettivo. Storicamente la formazione dello Stato-nazione moderno, che esercita il monopolio dell'autorità coercitiva, ha gradatamente portato alla scomparsa di precedenti forme di autorità e di lealtà. Tuttavia nel mondo arabo, le grandi tribù del Nord Africa, della penisola arabica, del Nilo superiore e del deserto siriano, sono riuscite a conservare fino a molto tempo dopo l'inizio del XIX secolo vari gradi di autonomia rispetto all'autorità centrale.
Gli Stati-nazione nati dopo la partenza delle amministrazioni coloniali, hanno affrontato questo problema in due modi, entrambi certamente incompatibili con la moderna nozione di diritti di cittadinanza.
Nella maggior parte dei casi, i dirigenti arabi hanno fatto fronte alla sfida tribale con un misto di repressione e di cooptazione (matrimoni, alleanze, favori personali, istigazione alla rivalità, etc.). Dove il modello definito da Ibn Khaldoun (1) ha prevalso, lo Stato ha preso forma dalla fusione della solidarietà tribale coll'autorità centralizzata, il tutto imbevuto di una certa benevolenza paternalista e religiosa. I movimenti politico-religiosi della penisola arabica e del Nord Africa rappresentano gli esempi più chiari di tale evoluzione.
Ciononostante, in questi casi l'estendersi dell'autorità centrale si è poggiata sulla coercizione piuttosto che sul consenso del cittadino, unico criterio fondante della legittimità del contratto sociale moderno.
Il ruolo politico dell'islam costituisce un ulteriore fattore, più recente, cui ci si riferisce per spiegare la formazione dell'idea di cittadinanza nel mondo arabo. Con una frettolosa semplificazione di un processo storico particolarmente complesso, i commentatori occidentali spesso fanno osservare che in Europa la nascita dello Stato-nazione e della cittadinanza politica democratica è andata di pari passo con una secolarizzazione della politica e con una separazione di natura costituzionale tra Chiesa e Stato, evoluzione questa che non ha visto alcun corrispettivo nel mondo arabo.
I movimenti politici detti islamisti, da un lato, ma anche molti regimi conservatori, hanno viceversa preteso di fondare la loro legittimità sulla piena integrazione della religione e della politica. E i paesi che hanno cercato di incoraggiare la secolarizzazione si ritrovano su una linea difensiva, in balia dei loro insuccessi e dei risultati degli errori che hanno commesso sottovalutando l'attaccamento delle società arabe ai valori dell'islam.
I richiami di ordine religioso a un'autorità trascendentale, spesso hanno finito con il rafforzare le strutture di dipendenza contribuendo a un ulteriore ritardo nel processo di creazione di una cittadinanza politica moderna.
Nella sua veste radicale o conservatrice il richiamo all'islam può, in nome della lealtà dovuta alle tradizioni, trasformarsi in legittimazione di un ordine non democratico che serve così a ostacolare qualunque rinnovamento.



La Rivoluzione tunisina, di Mahjoob, gennaio 2011

Del buon uso dell'islam

Ciononostante, il pensiero e la pratica islamici vanno al di là dell'islamismo autoritario di oggi, e i difetti di quest'ultimo non implicano affatto che l'islam di per sé sia incompatibile con l'esistenza di diritti politici e sociali. Di fatto si può sostenere l'ipotesi che l'islamismo, oltre a interdire i vantaggi derivanti dallo sviluppo di un concetto moderno di cittadinanza, mette sotto silenzio i principi progressisti dell'islam in materia di uguaglianza e di giustizia.
Dall'islam e dai suoi valori può derivare la costituzione di uno spazio politico democratico. E nessun modello di società laica, o che prevede la separazione tra Chiesa e Stato, postula che esso ne venga escluso.
Il Corano e la Sunna enunciano d'altronde principi pienamente compatibili con l'idea moderna della cittadinanza. La shura raccomanda il dibattito e la consultazione della comunità. Nella tradizione islamica le particolari forme di questo dialogo sociale sono sempre state oggetto di dibattiti animati. La scuola più autorevole dei giuristi e dei pensatori musulmani moderni, il movimento salafia, sostiene che la shura significa oggi elezioni e parlamenti. Tale pensiero islamico raccomanda una razionale elaborazione delle nuove regole che consentiranno, ogni volta che le scritture non saranno sufficienti a determinare una certa linea di condotta, di rispondere al cambiamento economico, politico e sociale.
Infine, l'islam incoraggia la comunità a decidere, seguendo la via del consenso, quale sia il miglior modo di far progredire il bene comune. Per decenni, la maggior parte dei paesi musulmani ha definito le sue scelte politiche sulla base di queste tradizioni islamiche.
Del resto, riaffermare l'antagonismo tra religione e politica costituisce un fenomeno che non si limita al solo mondo arabo e musulmano. Lo si ritrova in paesi molto diversi, come Israele, l'India o gli Stati Uniti. L'avanzata della secolarizzazione non significa la scomparsa della religione dalla vita pubblica.
Perfino nelle democrazie occidentali avanzate, spesso essa ha costituito una forma di compromesso tra religione e politica: il Regno Unito ha conservato una religione di stato e la Germania sovvenziona i culti. Nessun modello di evoluzione sociopolitica (i sistemi dittatoriali stessi non ci sono riusciti) ha condotto alla messa al bando della religione.
Per ritornare all'islam, i suoi valori di giustizia, di eguaglianza e di comunità costituiscono delle carte vincenti per lo sviluppo di una autentica "cittadinanza". Nulla di tale religione vieta la costituzione di uno spazio politico democratico. Ed è alla costruzione di tale spazio che dovrebbero accingersi senza indugi i dirigenti arabi per cogliere le sfide di questo scorcio di secolo.

(1) Ndr: Ibn Khaldoun (1332-1406) massimo storico e filosofo del Nord Africa, nato a Tunisi, viene considerato un sociologo ante litteram delle società araba, berbera, e persiana. La sua opera principale, “Il libro delle considerazioni sulla storia degli Arabi, dei Persiani e dei Berberi”, ne fa un precursore della sociologia e un filosofo della storia.

venerdì 25 febbraio 2011

Illusioni progressiste

Rossana Rossanda
il manifesto


Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto d...i sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.

Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.

Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".

Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.

In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o, peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.

E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.

In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.

Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.

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