lunedì 28 marzo 2011

L'isola cuore segreto delle strategie Nato

lanuovasardegna
di Piero Mannironi


Una foto storica:
tre sommergibili Usa nella base di Santo Stefano

La presa di coscienza è stato un processo lungo e difficile. Deformato spesso dalla visione dei fatti attraverso occhiali ideologici oppure, più semplicemente, sdrammatizzato perché molte realtà scomode, per quasi mezzo secolo, sono state negate e occultate. Si parla del ruolo strategico della Sardegna nel complesso scacchiere della geopolitica e, conseguentemente, della reale consapevolezza dei sardi di essere stati protagonisti inconsapevoli in una storia nascosta, decisa lontano.

La ferita politica e istituzionale, quella cioé della militarizzazione dell'isola mortificando il ruolo del Parlamento, non è ancora sanata. E questo nonostante sia stata chiusa quattro anni fa la base appoggio per sommergibili nucleari della Us Navy nell'arcipelago della Maddalena. Un po' il simbolo di questa politica che ha condannato la Sardegna a un ruolo strategico di primo piano negli anni della Guerra Fredda.

Sarebbe comunque un errore credere che lo smantellamento della base di Santo Stefano sia stato un punto d'arrivo, l'esaurimento di una politica atlantica che vedeva la Sardegna in una prima linea virtuale. Non punto di partenza, dunque, di un processo di normalizzazione, ma molto più semplicemente simbolo di un cambiamento di ruolo. Perché ora la potenziale area di conflitto è il Mediterraneo.

Per arrivare a capire il perché la Sardegna abbia avuto un'importanza strategica di primo piano dopo la Seconda guerra mondiale, è importante andare a rileggere alcuni documenti del Pentagono, desecretati negli ultimi anni. Si ha la prova così che, per quasi mezzo secolo, l'isola è stata un perno strategico nel fronte virtuale di una guerra mai dichiarata. Senza saperlo, infatti, la Sardegna era considerata dal Pentagono, fin dal lontano aprile del 1954, «a pivotal geographic location».

Ovvero il cuore, il punto critico, del sistema politico-militare, creato dall'alleanza atlantica nello scenario europeo. Di più: l'accordo di reciproco impegno, firmato il 26 novembre del 1956, tra il Sifar (l'allora servizio segreto militare italiano) e la Cia era basato «da parte statunitense, sul presupposto che i piani dello Stato maggiore della Difesa italiano prevedessero «l'attuazione di tutti gli sforzi per mantenere l'isola di Sardegna». Il grande interesse di Washington è poi confermato anche da una nota della Cia del 7 ottobre del 1957, nella quale si legge: «La Sardegna è considerata nei piani di guerra degli Usa».

Ecco così che, proprio in quegli anni, nascono i poligoni di Teulada, del Salto di Quirra e di Capo Frasca. Aree militari con scopo addestrativo, ma anche pronte a trasformarsi in prezioso supporto logistico e operativo. E sempre in questa logica rientra la centralità della Sardegna nella struttura supersegreta Gladio. Se la testa di questa organizzazione era nascosta a Forte Braschi il cuore era infatti nella base di Poglina a pochi chilometri da Alghero.

Gli americani tenevano molto a una rapida attuazione dei loro piani. Tanto che, fin dal 1956, inviarono al capo del Sifar (il servizio segreto militare) De Lorenzo una nota con la quale gli "ordinavano" di rispettare il piano Demagnetize (smagnetizzare). Di cosa si trattava? Secondo un documento dello stato maggiore Usa declassificato negli anni '90, il piano consisteva in una serie di «operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, finalizzate a ridurre la presenza del Partito comunista in Italia».

Nel 1972, poi, la creazione della base americana nell'arcipelago della Maddalena come supporto ai sommergibili della Us Navy a propulsione nucleare e capaci di montare sulle loro rampe di lancio anche i famigerati Cruise con testata atomica. Fu quello, forse, il momento in cui la Sardegna svelò il suo ruolo fondamentale nelle strategie degli Usa e della Nato.

Tutto questo è avvenuto in una riduzione di sovranità del nostro Parlamento e di umiliazione dei valori dell'autonomia per la Sardegna.

L'ultimo "segreto" svelato è quello di Capo Frasca. Con la declassificazione di alcuni documenti riservatissimi del Pentagono e della Nato si è infatti scoperto che in Italia esiste un arsenale di armi nucleari americane. Novanta, per l'esattezza. E la Sardegna, pur non ospitando bombe atomiche, fa parte di un triangolo strategico, nel quale gli altri due vertici sono le basi di Aviano e di Ghedi Torre, vicino a Brescia (nome in codice Stone Ax). In questa struttura operativa ultrasegreta, creata negli anni '50 il poligono di Capo Frasca viene utilizzato per l'addestramento di piloti della Nato - anche italiani quindi - alla guerra atomica.

domenica 27 marzo 2011

Castedhu i niaxis sardus cuntra su nucreari calant in pratza


Castedhu i niaxis sardus cuntra su nucreari calant in pratza

Cagliari l'orda dei cinquemila antinuke scendono in piazza a rivendicare la nazione sarda libera dal nucleare.
Il significato di questa manifestazione è di grande risonanza internazionale, in quanto dalla nostra terra la Sardinia , terra colonizzata dagli italioti e resa serva e becera sotto molti aspetti della nostra vita quotidiana, a motivo della logica coloniale: le basi militari che invadono enormi fette della nostra terra dei nostri mari e cieli, lo sfruttamento del suolo e del turismo con la logica italiota del: vieni consuma sporca e fuggi.

Ecco perchè siamo quì oggi a dover lottare, contro tale logica e l'installazione delle cinque centrali nucleari proposte dal governo italiano, nella nostra piccola ma bella nazione, la risposta un referendum consultivo regionale il 15 maggio a cui seguirà quello italiano il 12 giugno 2011.

La Sardinia estesa su per valli monti e pianure , boschi e laghi con un mare stupendo un territorio di soli 24mila kmq, da quì prende corpo , finalmente, la riscossa di un popolo, di una moltitudine desiderosa di libertà, asserragliata nella difesa primaria del diritto fondamentale di ogni uomo: la difesa della propria vita...

Davanti lo striscione del comitato Si.NoNucle che si sta impegnando da mesi in tutta l'isola con continue manifestazioni di città e paesi per spiegare la pericolosità del nucleare, decine di tecnici uomini e donne sono impegnati giornalmente a parlare e spiegare cosa significa avere una centrale nucleare sul nostro territorio.

Sardigna natzione indipendentzia ed il comitato No nuke una risata sardonica vi seppellirà, sono impegnati da due anni per raggiungere il risultato referendario, prima nella raccolta firme poi con la festa antinuke del 8 dicembre 2009 in piazza del Carmine a Cagliari hanno dato il via all'input antinucleare in Sardinia, oggi a distanza di quindici mesi da allora il comitato Si.NONucle ha tenuto centinaia di convegni ed oggi ha portato in piazza migliaia di sardi a sostengno del referendum consultivo del 15 maggio in Sardinia e del 12 giugno in Italia.

I movimenti in piazza oltre al comitato organizzatore SI NOnucle, erano molti tra cui Sardigna Natzione, iRS, CSS, Cagliari Social Forum, Gettiamo le Basi, Federazione della Sinistra, USB, ProgReS, Par.I.S Malu Entu, A Manca Pro S'Indipendentzia, Sinistra Critica, Cobas, A Foras, No Radar, Italia dei Valori, Verdi, molte associazioni di cittadini, e molti uomini e donne liberi/e.







giovedì 24 marzo 2011

L’illusione dell’atomo sicuro

Fritz Vorholz,
Die Zeit,
Germania





Il nucleare senza rischi non esiste. L’ha dimostrato una volta per tutte l’incidente nella centrale giapponese di Fukushima. L’unica soluzione è spegnere i reattori, scrive la Zeit

Rischio residuo. Per molto tempo questa espressione è stata sinonimo di qualcosa di imponderabile. Il termine tedesco, restrisiko, è anche il titolo di un teleilm del filone catastroico trasmesso in Germania due mesi fa. Finora il rischio residuo è stato solo fantascienza, intrattenimento. Ma dalle 15.36 di sabato 12 marzo tutti sanno che cosa signiicano davvero queste parole. Dopo il devastante tsunami che ha travolto il Giappone, si è bloccato il sistema di raffreddamento d’emergenza del primo reattore del complesso nucleare di Fukushima I, facendo temere una catastrofe atomica senza precedenti.

A prescindere dalla direzione in cui il vento spingerà le eventuali nubi radioattive, era ora che si aprisse un dibattito serio sulla sicurezza della produzione energetica. Il punto decisivo è capire quali sofferenze si possono accettare in nome del nucleare. Rispondere a questo interrogativo è inevitabile anche per l’industria dell’atomo.
La catastrofe giapponese segna la fine del sogno atomico, che già da tempo si è trasformato in un incubo. Nel mondo non esistono depositi di stoccaggio sicuri per le scorie radioattive o reattori nucleari che possano resistere a sabotaggi o attentati. E quasi nessuna centrale atomica è in grado di tollerare le conseguenze di un incidente aereo. Una cosa deve essere chiara anche ai sostenitori del nucleare: questa tecnologia è incontrollabile. È disumana. E per questo non dovremmo utilizzarla.

centrale nucleare in fiammeL'esplosione nella centrale di Onagawa


D’ora in poi lobbisti, economisti e politici non potranno più parlare di energia atomica come se non fosse successo niente.
Nessuno potrà più sostenere che esistono reattori del tutto sicuri. Le centrali nucleari non sono mai state sicure e non lo saranno mai. L’umanità deve fare marcia indietro e rinunciare il prima possibile all’energia atomica, anche se la riconversione sarà molto difficile. L’industria nucleare, che gestisce nel mondo 442 centrali quasi tutte concentrate in una decina di paesi ricchi, è sempre stata al centro di critiche e polemiche. Tuttavia il disastro di Cernobyl, nell’aprile del 1986, ha danneggiato questo settore solo in modo supericiale. I manager e i leader politici occidentali hanno sempre sostenuto che la tragedia ucraina è stata il risultato dei ritardi della tecnologia sovietica, e che le centrali europee e statunitensi sono sicure. Più sbiadiva il ricordo di Cernobyl, più rumorosi sono diventati i loro appelli per il rilancio del nucleare.

Fino al 12 marzo 2011 le centrali nucleari giapponesi sono state considerate affidabili come quelle statunitensi, francesi o tedesche. Il Giappone è un paese altamente tecnologico, con una fiorente esportazione di auto ecologiche e una serie di centrali atomiche antisismiche. È la patria di Hitachi e Toshiba. Il primo reattore della centrale Fukushima I era stato costruito dalla società statunitense General Electric. Ma l’incidente ha dimostrato con chiarezza l’inconsistenza del mito della sicurezza nucleare, inventato per sofocare sul nascere ogni domanda scomoda. Anche se in altre zone della Terra il rischio sismico non è elevato come in Giappone, non si può escludere che negli impianti nucleari possano verificarsi eventi catastroici di tipo diverso. La storia dell’energia atomica è una sequenza ininterrotta di brutte sorprese.

Dopo Cernobyl

La sicurezza tecnologica è già di per sé un mito. Nel gennaio del 2007 dal tetto della stazione centrale di Berlino, appena inaugurata, si è staccata una trave d’acciaio di due tonnellate che è precipitata a terra da quaranta metri d’altezza. Nel marzo del 2009 l’archivio di stato di Colonia è crollato a causa dei lavori in corso per la costruzione della metropolitana. Nell’aprile del 2010 da un treno ad alta velocità delle ferrovie tedesche si è staccata una porta lungo la tratta che collega Montabaur a Limburg.

In seguito a questi incidenti, però, nessuno ha chiesto di sospendere la costruzione di stazioni ferroviarie, treni veloci e metropolitane. E a ragione, perché anche nel peggiore degli scenari i danni sarebbero stati comunque contenuti. Ma un grave incidente nucleare è un evento di tutt’altro tipo, in grado di trasformarsi in una disgrazia non solo per interi stati, ma anche per tutto un continente. Sotto questo aspetto, il nucleare si distingue da tutte le altre tecnologie. E proprio per questo è rischioso evocare una sicurezza che è già stata smentita dai fatti.

Il termine “sicurezza” non si riferisce a una condizione “oggettiva”, si legge in uno studio dell’Ufficio per la sicurezza dell’atomo di Bonn, ma alla “valutazione di un rischio”. Quando si dichiara che un reattore è sicuro si aferma solo di essere disposti ad accettare un certo livello di rischio. Ma di che rischio si tratta? Considerato che la possibilità di fusione del nocciolo è di 1 a centomila per ciascun impianto, la probabilità che nell’arco di sessant’anni in una delle diciassette centrali atomiche tedesche si veriichi la fusione del nucleo del reattore (meltdown) è dell’1 per cento. Una simile percentuale si può definire sicura? È una scommessa. Una roulette russa.

Nell’autunno del 1986, pochi mesi dopo l’incidente di Cernobyl, il governo tedesco aveva promesso che “la sicurezza delle centrali nucleari del paese sarebbe stata sottoposta a nuove verifiche”. Qual è stato il verdetto? Che gli impianti erano sicuri. E oggi? A poche ore dalla catastrofe giapponese, la cancelliera Angela Merkel ha chiesto una nuova verifica dei parametri di sicurezza, perché “la tutela della vita umana è un imperativo categorico”.

Se queste parole fossero sincere, le 17 centrali tedesche dovrebbero essere spente immediatamente. E i tentativi di costruire nuovi impianti dovrebbero già essere tutti falliti. Otto anni dopo Cernobyl, nel 1994, il governo di Helmuth Kohl ha modificato la legge sull’energia nucleare. Grazie a quel provvedimento, la licenza per la costruzione di nuove centrali è legata alla garanzia che gli efetti di una fusione del nocciolo rimangano circoscritti all’area del complesso e che, perino in caso di meltdown totale, non ci siano danni oltre i confini dell’impianto. Questa condizione, definita “sicurezza implicita”, non era altro che un eufemismo politico alimentato da un’illusione. Sul pianeta non esiste nessun reattore che possa garantire questi livelli di sicurezza. Se i progetti delle centrali atomiche avessero mai dovuto soddisfare questi criteri, sulla Terra non ci sarebbe un solo reattore.

È necessario, quindi, assumersi simili rischi per assicurare l’approvvigionamento energetico agli abitanti del pianeta? Il nucleare contribuisce alla produzione globale di energia appena per il 6 per cento: meno della metà delle energie rinnovabili. I paesi dove le centrali atomiche hanno un peso rilevante sono pochi: Francia, Slovacchia e Svezia. Gli Stati Uniti e la Germania ricavano circa un quinto della loro elettricità dall’atomo. Se però si considera la produzione di elettricità, l’apporto del nucleare sale al 15 per cento. Bisogna ammetterlo: è una quantità considerevole, che ammonta al consumo annuo della Cina. Certo, il fabbisogno elettrico potrebbe essere coperto anche dall’energia prodotta dal carbone, ma questo comporterebbe enormi emissioni di CO2, il gas responsabile del riscaldamento globale. Se quindi il mondo rinunciasse all’energia atomica, la conseguenza sarebbe il collasso climatico? I promotori del nucleare vorrebbero farcelo credere, ma tendono a trascurare la domanda chiave: spegnere i reattori, sostenibili ma pericolosi, servirà a contenere davvero l’aumento della temperatura entro livelli tollerabili?

Se vogliamo che il riscaldamento globale rimanga entro i due gradi, nei prossimi quarant’anni le emissioni di CO2 dovranno ridursi di oltre il 50 per cento: un obiettivo raggiungibile solo risparmiando energia e attingendo alle fonti rinnovabili. Se nel frattempo i reattori nucleari saranno smantellati, occorrerà risparmiare ancora di più, e produrre ancora più energia pulita. Non è un compito impossibile. I piani per una svolta energetica esistono: per esempio quello di Greenpeace, elaborato con il supporto dall’agenzia spaziale tedesca, o quello del Wwf, dai quali si desume che il clima può essere tutelato anche senza ricorrere all’energia atomica.

L’efficienza energetica è il punto fondamentale di tutti questi progetti. Oggi viene sprecata molta energia. Sappiamo che il deserto assorbe nell’arco di sei ore più energia solare di quanta ne usa il genere umano in un anno. E le tecnologie per lo sfruttamento delle rinnovabili sono molto avanzate. Eppure le fonti sostenibili coprono solo una piccola parte della produzione di energia globale. Le pompe e i motori, per esempio, possono funzionare anche con una frazione infinitesimale della corrente che impiegano oggi: basta dotarli di dispositivi di controllo. E l’illuminazione si può ottenere anche con sistemi che consentono un grande risparmio di energia. Ma usare lampadine più efficienti non risolverà il problema. Anche gli stili di vita devono cambiare, e questo rende tutto più complicato.

C’è bisogno di coraggio, da parte dei leader politici ma anche dei cittadini. Un gruppo di ricerca internazionale ha pubblicato di recente sulla rivista The Energy Journal uno studio sulle fonti energetiche da usare per fermare il riscaldamento globale. Uno dei possibili scenari prevede l’eliminazione delle centrali nucleari. Questa soluzione costerebbe all’umanità lo 0,7 per cento della sua ricchezza. Si può imporre al mondo un simile sforzo? Un costo simile è quasi insignificante rispetto a quello provocato dalla catastrofe che si è verificata in Giappone e che potrebbe ripetersi altrove in qualsiasi momento. D’ora in poi chi vuole tenersi strette le centrali nucleari sarà costretto ad affidarsi ad argomentazioni deboli. I buoni motivi sono tutti scomparsi a Fukushima.

mercoledì 23 marzo 2011

Moratoria «bluff» sul nucleare



ilmanifesto

Il governo annuncia lo slittamento di un anno del piano per l'energia atomica
L'opposizione: mossa truffaldina. Sì del Senato al decreto sui siti


Eleonora Martini
ROMA

Davanti all'impasse, sul nucleare il governo Italiota tenta la mossa del cavallo. E con un discreto effetto mediatico, per bocca del ministro dello sviluppo economico Paolo Romani annuncia una «moratoria di un anno sull'attuazione e la ricerca di siti e sull'installazione di centrali». Nessun atto giuridico, spiegano fonti ministeriali, solo un impegno politico che il Consiglio dei ministri formalizzerà oggi stesso.

La legge 133 del 2008, quella che reintroduce l'opzione energetica nucleare in Italia e che è oggetto del quesito referendario abrogativo, non dovrebbe subire - assicura Palazzo Chigi - alcun tentativo di modifica. Dunque il referendum si farà anche se, spera assai la maggioranza, a questo punto altamente "depotenziato". «Mi aspetto che non si decida sull'onda dell'emotività ma sull'onda di un ragionamento e delle certezze che dobbiamo dare come governo e come Unione europea», incalza Romani che assicura: «La decisione è stata presa alla luce di quanto discusso lunedì in sede europea sulle procedure standard di sicurezza da stabilire per tutti i paesi comunitari».

Ma sotto il vestito, almeno fino a ieri sera, non sembra esserci davvero molto: perfino il decreto legislativo correttivo sulla localizzazione delle centrali nucleari e dei siti di stoccaggio non è stato ritirato, come sembrava ipotizzare la maggioranza e in molti speravano, e ha proseguito invece il suo iter parlamentare. Ieri sera la commissione Industria del Senato italiano ha dato (con il voto contrario di Pd e Idv) l'ultimo parere favorevole necessario al governo per mettere a punto entro oggi, giorno di scadenza della delega parlamentare, il testo definitivo. «Fino all'ultimo - racconta il senatore Filippo Bubbico, membro della commissione - abbiamo sperato che il governo ritirasse il decreto, ma non lo ha fatto».

Ermete Realacci, responsabile della green economy del Pd, parla di «lingua biforcuta» e di «bluff atomico». In realtà, secondo quanto annunciato dal ministro italiano Romani, la moratoria di un anno non dovrebbe comprendere la localizzazione dei siti di stoccaggio dei rifiuti nucleari, visti i ripetuti richiami all'Italia da parte dell'Unione europea proprio per la mancanza di un «idoneo deposito nazionale» di rifiuti radioattivi derivanti dalle vecchie centrali dismesse ma anche dalle attività ospedaliere. «La nostra volontà - ha spiegato il titolare dello Sviluppo economico - è di portare al Consiglio dei ministri quella parte del decreto legge correttivo che riguarda il deposito nazionale per lo stoccaggio delle scorie perché si tratta di un grande tema per la sicurezza».

«Cosa significa la moratoria di un anno sul nucleare, se la maggioranza al tempo stesso approva la norma che consente di costruire centrali nucleari e impianti di stoccaggio di scorie anche in caso di parere contrario di Regioni e Comuni?», protesta Realacci riferendosi alle norme contenute nel decreto. Un problema che si ripresenta anche solo per i siti di stoccaggio. Come faranno a scegliere l'area senza il consenso della regione "prescelta"? Niente paura, spiegano da Palazzo Piacentini: l'iter di individuazione è lungo e complesso, e ancora di più lo è la successiva «fase di concertazione».

Dal leader di Fli, Gianfranco Fini, alla Cgil passando per l'Anci (comuni) e per il presidente della conferenza stato-regioni Vasco Errani, sono in molti a tirare un sospiro di sollievo o a complimentarsi per la moratoria, definita da alcuni un felice anche se non esaustivo «primo passo». Ma dal Pd all'Idv, dai Verdi al comitato "Vota sì per fermare il nucleare" costituito da oltre 60 associazioni, l'opposizione compatta grida invece alla «truffa» e al «sabotaggio». «Una mossa furba e truffaldina per far credere agli italiani che non c'è alcun bisogno di andare a votare al referendum», attacca Massimo Donadi, presidente dei deputati Idv. Per il partito di Antonio Di Pietro, come anche per i Verdi di Angelo Bonelli, non è del tutto infondato il timore che il governo possa «preparare un decreto legge per modificare la norma oggetto del quesito referendario», in modo da sabotare non solo politicamente il referendum che dovrebbe tenersi il 12 e il 13 giugno prossimi.

«Non possono farlo», reagisce il Radicale Marco Cappato che anche ieri mattina, da Milano in conferenza stampa con Emma Bonino, aveva chiesto di nuovo lo stop del piano nucleare e una decisa virata verso il risparmio energetico e le rinnovabili, colpite invece quasi a morte con l'ultimo decreto legislativo. «Non si può modificare una legge oggetto di referendum - spiega Cappato - ma nel Paese della distruzione della Costituzione, è lecito sospettare perfino una manovra del genere. Tanto più da parte di un governo che ha messo in piedi un piano nucleare costoso, insensato, e che ci rende subalterni a Sarkozy».



22.03.2011
il manifesto
Europa no nuke, la sinistra ci prova
Alberto D'Argenzio
BRUXELLES

Giappone, ora scatta l'allarme per il cibo L'Oms: grave pericolo di contaminazione

Giappone, è allarme per il cibo


Non un referendum vero e proprio, ma un'iniziativa legislativa popolare per segnare il cammino di uscita dal nucleare in tutta la Ue. Questa è l'idea lanciata ieri dal presidente della Spd, ex ministro dell'ambiente nella grande coalizione, Sigmar Gabriel e dal cancelliere austriaco Werner Faymann. «Devono essere i popoli europei - ha affermato Gabriel in un'intervista alla Bild - a decidere e non i lobbisti dei gruppi economici e i governi».

Lo strumento indicato dai due per fermare l'atomo è una delle maggiori novità previste dal Trattato di Lisbona: «C'è un nuovo diritto in Europa, quello di un'iniziativa popolare a livello europeo», indica Gabriel. Lui, che a suo tempo firmò la legge per la fuoriuscita tedesca dall'atomo (poi ritardata dalla Merkel), pensa all'Europa anche perché in Germania il referendum non è possibile. Invece, con un milione di firme raccolte in un terzo degli Stati membri, i cittadini comunitari possono chiedere alla Commissione Ue di presentare una proposta legislativa.

Qui iniziano però i problemi, legati alle prerogative dell'esecutivo comunitario. «Il Trattato di Lisbona - replica Marlene Holzner, portavoce del commissario all'energie Guenther Oettinger - dice chiaro e tondo che il mix energetico è di competenza degli Stati membri». Bruxelles avrebbe la scappatoia pronta, ma basta un articolo del Trattato per non porsi il problema?
«La Commissione non ha competenze ed è vero - l'analisi di Monica Frassoni, presidente dei verdi europei - ma se Bruxelles si dovesse trovare di fronte a 10 milioni di firme, allora avrebbe davanti una chiara richiesta politica non facile da evadere, anche perché esistono altri sistemi per agire». «Ci sono dei margini di azione - spiega sempre Frassoni - legati alla fissazione degli obiettivi per le rinnovabili e agli strumenti per combattere il riscaldamento globale». Insomma, non contro l'atomo, ma a favore delle sue alternative, le rinnovabili.

Il tutto partendo da due considerazioni. La prima di carattere economico, secondo cui se si investe sul nucleare, non lo si fa sulle rinnovabili, come dimostra la politica energetica italiana. E viceversa, come dimostrano invece Spagna e Germania. La seconda riguarda invece l'introduzione o meno del nucleare nel novero delle energie 'verdi', di quelle buone per combattere le emissioni di CO2, una battaglia lanciata anni fa da Sarkozy e sempre sostenuta dalla lobby dell'atomo. L'incidente giapponese dimostra che il nucleare non è poi tanto verde, nel senso che non emetterà CO2, ma può fare anche di peggio. «Se rinunciamo all'idea malsana del nucleare come elemento della low carbon economy - insiste Frassoni - fissiamo obiettivi più ambiziosi per le rinnovabili e target vincolanti l'efficienza energetica, il cammino di uscita dall'atomo è segnato».

La tragedia in Giappone ha rilanciato il dibattito e fermato lo sdoganamento dell'atomo, facendo traballare i piani energetici europei. Tanto che Oettinger molto probabilmente rivedrà la Energy road map per l'Europa, inizialmente prevista per disegnare il panorama energetico comunitario del 2050. Lo scenario verrà anticipato al 2030, per «dare risposte più concrete». Per quelle date il commissario immagina un futuro non in crescita per l'atomo: «Adesso abbiamo il 30% di energia elettrica dal nucleare, paesi come Francia e Regno unito puntano su questa fonte di energia e non parlano di abbandonarla, ma in futuro prevedo che il nucleare non sarà così importante come adesso: non arriveremo allo 0%, ma l'importante è che il nucleare non aumenti». L'Italia, con i suoi massicci investimenti, va esattamente contromano.

lunedì 21 marzo 2011

SULLE CONDIZIONI DELLA SARDEGNA

E' ovvio che le considerazioni quì riportate sono di parte e non diretta testimonianza del popolo sardo!

sa defenza


dal rapporto del console W.J.Craig a Sir James Hudson del 21 agosto 1860 - da: "Le relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna" a cura di G. Giarrizzo, Roma, 1962 - ripreso in: D. Mack Smith"Il Risorgimento italiano" Edizioni Laterza, Bari, 1973

Il desiderio che la Sardegna venga annessa a una grande potenza non è, tra i sardi, di nascita recente. Posso testimoniare della sua esistenza durante gli ultimi quarantadue anni. Quando per la prima volta presi a viaggiare nell'isola, le lagnanze del ceto mercantile erano unanimi e generali; ci si imbatteva ovunque negli stessi commenti: "Il nostro governo, per debolezza o per parzialità, limita le sue cure paterne agli Stati continentali, si nutre del nostro grasso e si veste della nostra lana, ma trascura il suo gregge.

Gli stessi doni che la provvidenza ci ha concesso in grande abbondanza, hanno per noi l'effetto di una maledizione; infatti, poiché l'isola viene tenuta solo per sopportazione, la politica vuole che le sue risorse siano tenute nascoste. Dovremmo essere annessi a nazioni potenti come l'Inghilterra o la Francia, che avrebbero il potere di tenere l'isola con la volontà e con i mezzi necessari per promuoverne la prosperità e per svilupparne le risorse". Era dunque la politica del clero e della nobiltà nativa a soffocare questa idea, essendo lo status quo tutto ciò che essi potevano desiderare; ma i loro sforzi furono inutili, e se questa idea poteva esistere quando la superstizione e il dominio della nobiltà cercavano entrambi di sopprimerla, si può immaginare quanta più forza essa abbia ora che sia l'una che l'altro hanno il quotidiano effetto dl farle mettere radici più profonde. Ora che il clero e la nobiltà sono privati dei loro privilegi e sono costretti a una posizione di uguaglianza politica con coloro che erano abituati a considerare gonzi ignoranti o zotici abbrutiti, si può facilmente capire, sia per lo spirito delle caste in questione, sia per la caratteristica indole vendicativa dei sardi, quale tipo di sentimenti queste due classi ora nutrano nei confronti della perpetrazione di questi atti per loro sacrileghi. ……. In un paese dove la superstizione e l'ignoranza prevalgono, la volontà del popolo è sempre dominata dai preti, e per dimostrare che questo è in particolare il caso della Sardegna, basta solo accennare al fatto che il censimento del 1848 dava i seguenti risultati:


Maschi

Femmine

Totale

Non sanno leggere

246.916

265.265

512.181

Sanno solo leggere

3.928

3.082

7.010

Sanno leggere e scrivere

23.483

4.238

27.721


274.327

272.585

546.912

La percentuale di ecclesiastici è di 1 per ogni 208 abitanti. Parlando dell'annessione dell'isola alla Francia i commenti sono ovunque gli stessi: "Non possiamo stare peggio di come stiamo e non abbiamo quindi nulla da perdere da un cambiamento. Noi gemiamo sotto il peso di una pesante tassazione che è in continuo aumento e non abbiamo la consolazione di una speranza di sollievo. Il nostro governo non fa nulla per aiutarci o incoraggiarci, ma ci lascia dibattere nelle difficoltà senza aiutarci. Ci si dice che abbiamo chiesto di nostra spontanea volontà una parità di trattamento e che l'abbiamo ottenuta: sì, nella forma, ma non nella sostanza; ci è stata concessa una eguaglianza scrupolosa ma non proporzionata alla natura e alle condizioni dell'isola. Siamo ad uno stadio infantile, schiacciati dal peso che i maturi e consolidati Stati continentali possono reggere con relativa facilità. Se fossimo annessi a una grande nazione saremmo in parte alleviati da tale peso; essa promuoverebbe l'industria locale, introdurrebbe capitalisti e capitali, valorizzerebbe per il meglio le possibilità dell'isola e ci aiuterebbe a tal punto che, alla fine, potrebbe renderci autosufficienti e non più a suo carico".

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