mercoledì 4 maggio 2011

Geronimo EKIA (enemy killed in action). Lo stupro del diritto internazionale

peacereporter.net
Angelo Miotto

Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - senza rispetto del diritto. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione. Intervista a Danilo Zolo

Due dozzine di rambo statunitensi su due elicotteri in territorio sovrano pachistano, un blitz con armi da fuoco, un cadavere fantasma, una cerimonia su una portaerei con sepoltura in mare. In un copione da effetti speciali, raccontato come un'avvincente saga hollywoodiana, si è sancita la definitiva morte del diritto internazionale. Un insieme di regole ragionate, studiate e condivise nel corso di decenni, fredde e razionali proprio per dirimere contenziosi infuocati che vivono di tensioni drammatiche. Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - umiliando il diritto condiviso. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione.

Danilo Zolo è professore di filosofia del diritto e di filosofia del diritto internazionale a Firenze. A PeaceReporter racconta lo sdegno per le regole infrante in una comunità internazionale incapace di rispondere alle nuove sfide della guerra asimmetrica e della propagandata 'guerra al terrorismo' che ha caratterizzato fine e inizio di due secoli.

Professore, un blitz illegale dal punto di vista del diritto internazionale? Spogliamoci dell'emotività della notizia: abbiamo assistito al fulcro dello sfascio delle regole condivise (almeno sui trattati)?

Siamo in presenza di uno stravolgimento radicale del diritto internazionale, che è divenuto risibile per come viene applicato dalla comunità internazionale. È chiaro che gli Stati Uniti usano le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza come una copertura. Aggrediscono, usano armi potentissime, fanno stragi di decine e centinaia di migliaia di persone come in Iraq e poi ottengono dal Consiglio di sicurezza una accettazione di fatto della realtà. L'Onu serve a questo, a giustificare post factum crimini gravissimi. Ci sono tre crimini in atto, a carico di Obama: la guerra in Afghanistan, che continua con strage di innocenti senza nessuna fondazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite. La guerra contro la Libia, altra violazione della Carta Onu che al comma sette articolo 2 vieta qualsiasi intervento all'interno di tensioni di carattere di guerra civile di altro stato. E ora siamo in presenza di un'altra gravissima violazione, perché un gruppo di militari altamente specializzati sono stati incaricati di fare strage e di assassinare una persona in uno Stato terzo, il Pakistan. Una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto alla vita delle persone non motivata da motivi particolari. Perché che quella persona fosse bin Laden non è sicuro e d'altra parte la cerimonia di cui si parla su portaerei e poi la scomparsa in mare del cadavere dell'ucciso sono procedure vergognose sul piano del diritto e dell'esistenza delle persone.

Siamo di fronte alla necessità di riformare il diritto internazionale?

Riformare il diritto internazionale significherebbe riformare le Nazioni unite, cambiare la Carta dell'Onu. Mentre si parla di un diritto internazionale consuetudinario, ma è una chiacchiera a vuoto perché non viene rispettato. Una riforma significherebbe chiedere agli Usa di rinunciare ai propri privilegi. Il Consiglio di sicurezza, che è l'unico organo che può usare la forza nelle situazioni estreme, è dominato da cinque membri permanenti e questa la dice lunga su come sia democratico. L'assemblea non ha alcun potere decisionale. La mia opinione è che non ci sarà nessuna riforma delle istituzioni internazionali, e quindi del diritto, se non ci sarà il cambiamento profondo nei rapporti di forza economici, militari e nucleari con le potenze come Russia, India, Cina, Brasile e anche il Sudafrica. Se queste forze riescono a stabilire dei rapporti internazionali che li liberino dal dominio degli Usa. Altrimenti, nessuna riforma.

Il concetto di guerra simmetrica complica il quadro.

Le guerre scatenate dagli Usa dal 1991 contro l'Iraq sono guerre in cui c'è una asimmetria nella potenza militare e una asimmetria profonda nelle conseguenze delle guerre: le perdite militari occidentali sono risibili, mentre le strage di militari iracheni, degli afgani si contano a migliaia, con persone innocenti. Vittime della guerra o per le conseguenze di essa.

La tanto sbandierata democrazia occidentale, secondo lei, ieri con il blitz e certe rappresentazioni di giubilo che segnale ha dato di sé stessa? C'è voluto il Vaticano per richiamare alla compostezza di fronte alla morte.

È singolare che lo abbia detto il Vaticano, che questi ultimi anni non si è particolarmente schierato con la pace. Il pontefice ha spento le candeline festeggiando con Bush e facendo una dichiarazione di entusiasmo nei confronti dei comportamenti degli Usa. Meglio che lasciamo perdere questo aspetto.

Per quanto riguarda l'Occidente da oltre venti anni scatena guerre di aggressione nei confronti di una serie di stati collocati in Medio Oriente, e sono tutte guerre che violano il diritto internazionale. Stessa situazione anche nei Balcani: ricordiamo la guerra del 1999 contro la Serbia, di fatto con la motivazione falsa di carattere umanitario che ha portato alla strage di alcune migliaia di serbi e ha avuto un solo risultato umanitario; in Kosovo oggi vicino a Urosevac ci sono 7000 soldati nordamericani, armatissimi e con ordigni nucleari. L'Occidente non può avere una qualifica onoraria nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è in declino perché è una ideologia occidentale completamente falsificata dai comportamenti di fatto.


martedì 3 maggio 2011

La rapina del secolo: l’assalto dei «volenterosi» ai fondi sovrani libici

Manlio Dinucci

Il Manifesto

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

Zoom Foto

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.
In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.
L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

domenica 1 maggio 2011

Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi


Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi

Di
Andrea Pili (esponente di SdeL-SNI)

Il 28 aprile 1794 il popolo sardo di Cagliari si rese conto, per la prima volta, che i suoi interessi erano in contrasto con quelli dei piemontesi, dominatori e invasori. Perciò in tale data ci fu il culmine di quella “emozione popolare” che, dal tentativo d'occupazione francese nel 1793, aveva persuaso non pochi sardi di poter finalmente ottenere incarichi dirigenziali fino ad allora riservati soltanto ai continentali. Tuttavia, da questo momento in poi iniziò ad essere chiaro che anche gli interessi dei sardi non erano tutti concilianti: Gerolamo Pitzolo- che pure era un comandante delle milizie sarde opposte ai francesi- e Paliaccio, Marchese della Planargia, dopo avere ottenuto dal sovrano sabaudo gli importanti incarichi di- rispettivamente- intendente generale e di generale delle armi, divennero i principali avversari del movimento riformatore sardo. Infatti, essi incarnavano il pensiero della sparuta nobiltà feudale autoctona e della borghesia cittadina retrograda; tali componenti non volevano andare oltre le cinque richieste stamentarie del '93 ed erano impaurite da altri possibili sviluppi.

Il movimento riformatore però fu presto capace di avere il controllo degli Stamenti e del nuovo vicere Vivalda, il quale era un inetto. L'intento dei riformisti oscillava dalla richiesta di una maggiore autonomia da Torino fino all'abolizione del regime feudale. Quest'ultima fu la principale aspirazione di Giovanni Maria Angioy il quale, pur estraneo agli eventi del 28 aprile, grazie alla sua importante posizione di magistrato della Reale Udienza divenne il vero capo della tendenza innovatrice. Purtroppo anche all'interno di questa le aspettative non erano comuni. Due eventi del 1795 portarono alla rottura del riformismo cagliaritano: il linciaggio di Pitzolo e del marchese della Planargia; la spedizione di Mundula e Cilocco a Sassari per sedare il tentativo di secessione del Capo di Sopra. Cosa significarono questi due fatti? Il progresso ingresso delle masse popolari- anche quelle delle campagne, finora escluse- nel processo rivoluzionario sardo; erano stati tanti gli oppressi dal feudalesimo che si associarono a Cilocco ( si parla addirittura di 13000 persone) radunate da banditori inneggianti alla rivolta contro il regime feudale. Questa marcia su Sassari del '95 fu il primo vero incontro tra il movimento riformista di Cagliari e le rivolte popolari antifeudali, frequenti ma sempre rimaste ignorate dagli Stamenti. Dalla fine del 1795 divenne chiara l'esistenza di riformisti interessati soltanto ad ottenere quei privilegi da cui erano stati esclusi (Pintor, Musso, Cabras, Sisternes) e di uomini che ormai apparvero come autentici rivoluzionari (Angioy, Mundula, Cilocco) influenzati dalle idee illuministe ed accomunati dalla volontà di portare il popolo sardo nella modernità. Così i cosiddetti moderati premettero su Vivalda per allontanare Angioy, dando a lui l'incarico di alternos a Sassari, pensando in tal modo di uccidere le velleità rivoluzionarie.

Nel 1796 Angioy a Sassari proseguì la sua battaglia rivoluzionaria, incoraggiando federazioni tra le ville contro il pagamento dei tributi feudali. Quando il vicere tentò di stroncare la sua azione, l'alternos decise di marciare su Cagliari con intenzioni ancora non chiarite definitivamente, ma di certo per imporre la fine del regime feudale. Purtroppo finì male, il bonese fu costretto alla fuga e dal 1796 al 1802 si alternarono repressioni violente a deboli tentativi insurrezionali fino a quello- per cui trovarono la morte Sanna Corda e Cilocco- più chiaramente repubblicano e indipendentista.

Gli indipendentisti del 2011 devono essere i prosecutori dei rivoluzionari di fine XVIII secolo; questo vuol dire che dobbiamo legare la volontà di indipendenza dall'Italia ad un progetto politico rivoluzionario tale da allontanare quei sardi che si avvicinerebbero alle nostre istanze nazionaliste solo per ricavarne dei vantaggi. Se i rivoluzionari di due secoli fa guardavano alla Repubblica Francese ed alle idee dell'illuminismo, noi dobbiamo invece guardare a quella parte del mondo che sta lottando con successo contro il neoliberismo in favore di una democrazia sociale e identitaria.

L'indipendentismo non deve commettere più l'errore del primo Angioy: credere che basti appartenere a questa terra per avere a cuore le istanze del popolo sardo. Per fare irrompere la Nazione Sarda nella storia occorre invece: allontanarsi chiaramente dai sardi pescecani alla Zuncheddu o alla Cualbu; denunciare l'autonomismo alla Mauro Pili (e i suoi Unidos) o alla Renato Soru, che non vuole rompere le catene con lo stato italiano ed i suoi partiti; distaccarsi dalla fazione retrograda e collaborazionista della Chiesa; puntare chiaramente all'edificazione di una democrazia sociale e partecipativa che punti all'acquisizione progressiva del potere sull'economia da parte dei cittadini, contro il neoliberismo nemico e falsificatore della democrazia.

A differenza dell'alternos e dei suoi compagni abbiamo qualcosa in più: maggiore consapevolezza storica. Infatti la storia della Nazione Sarda è la base principale per la nostra nuova democrazia, dal comunitarismo nuragico a quello giudicale abbiamo la sensazione di un percorso storico interrotto dall'imperialismo e a cui dobbiamo riagganciarci. Non mere battaglie identitarie ma rivoluzione nazionale e sociale del XXI secolo.

INDIPENDENTZIA!!!!

mercoledì 27 aprile 2011

Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 28 aprile 2011


Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…

Un murales che ricorda ''Sa die de sa Sardigna''

L’incontro di Seneghe, lo scorso 25 marzo, ha compiuto il percorso storico e logico che ci ha condotto dalla ricorrenza del 150° dell’Italia a sa die de sa Sardigna. Ha avuto inizio un confronto che si è posto quale punto di partenza per una riscossa culturale e sociale, capace di elaborare strategie di mutamento. Un cambiamento che deriva da studi, da dibattiti, da una messa a fuoco dei problemi della Sardegna, per proporre indirizzi, per alimentare una partecipazione, per unire forze disperse che nella disunione non portano a progetti di crescita. C’è bisogno di promuovere una presenza combattiva e maggiormente consapevole del proprio ruolo nel contesto attuale.

La crisi sarda è innanzitutto una crisi culturale e di forza progettuale, un ritardo nel cogliere i tempi giusti per la crescita, i modi, i tempi, i luoghi più pertinenti. Senza saperi, conoscenze, progetti, il tempo ci coglie sempre impreparati: altri sono padroni del nostro tempo.
Ci siamo lasciati ragionando di Sardegna e di unità d’Italia per incamminarci verso sa die de sa Sardigna offrendo a noi stessi, e ad altri che desiderassero avviarsi con noi nel cammino, dei nuovi appuntamenti.

Non sapevamo che il Consiglio regionale non avrebbe fatto memoria di sa die, seppure il disinteresse era già chiaro nel silenzio dei programmi e nella modestissima entità delle risorse previste. Tale insensibilità ci rattrista e offende, ma non ci stupisce. Sappiamo che fa male, a chi si pone nella subalternità, proporgli la memoria del dovere e del diritto alla libertà. Ma qui siamo di fronte all’abbandono dell’unica e più importante festa del Popolo sardo!

Con le 5 domande rivolte al re nel 1793 è iniziata la fase vertenziale della Sardegna moderna e con essa la rivoluzione della nostra contemporaneità. Tante cose ci dicono però che quella fase necessita di un’evoluzione veloce. La vertenzialità da sola è al tramonto perché rimanda ogni responsabilità all’esterno di noi. Ogni giorno le strade e le piazze della Sardegna vedono un popolo che protesta, ma le risposte restano sempre lontane, non arrivano o giungono solo nella forma utile agli interessi di altri. Così rischiamo di sprecare le dure e costose battaglie della nostra gente, mentre la frustrazione per le risposte non ricevute potrebbe presto portare allo scoramento e alla definitiva rinuncia.

Il destino della Sardegna è più che mai nelle mani dei sardi. E quindi, alimentando la consapevolezza dell’urgere di scelte importanti che proseguano l’antica aspirazione alla sovranità contenuta anche nelle “cinque domande”, a noi si dà la possibilità e l’obbligo di chiederci quali siano le domande che oggi dobbiamo porre a noi stessi per trovare le giuste risposte: al livello istituzionale, sociale, economico, culturale, politico. Come nel triennio rivoluzionario (1793 – 1796), ma apprendendo le lezioni della storia. Queste possono essere le nostre cinque domande dell’oggi, 28 aprile 2011.

1). E’ del tutto evidente la debolezza istituzionale e politica delle rappresentanze della Sardegna. Le cause non sono solamente da ricondurre ai limiti dello Statuto ma anche all’incapacità di affermare i propri diritti istituzionali. Nella prospettiva immediata non si intravvede come le forze politiche sarde possano mutare questo quadro desolante: non c’è un progetto condiviso e fermo di Statuto che risponda alle esigenze dei sardi, resta ancora tutta da costruire una forza contrattuale per sostenerlo nell’ambito del Governo e del Parlamento, l’esclusione dal Parlamento europeo è già essa stessa manifestazione ed effetto di tale debolezza. I sardi hanno perduto quella primogenitura federalista che i loro migliori uomini avevano difeso lungo tutto il Novecento, dopo che le stesse proposte erano state sconfitte nell’Ottocento a seguito della ‘fusione perfetta’ e dei modi con cui si concretizzò la formazione dello Stato italiano. Questa proposta si chiama ‘federalismo’. Quello che poche e inascoltate voci richiamano negli ultimi decenni a partire dalla grande crisi della fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Quello stesso federalismo che, riproposto oggi dalle regioni settentrionali, sembra configurarsi, invece che come una forma di condivisione della sovranità, come una forma di neocentralismo che rischia di rendere ancora più dura la dipendenza della Sardegna.

Quale la risposta a questa situazione? Dobbiamo forse prendere atto che l’impossibilità di esso a causa degli interessi settentrionali, e il sistematico boicottaggio dello Stato all’affermazione del nostro diritto alla sovranità e alla presenza in Europa, ci lasci quale unica alternativa la debacle di una nuova ‘perfetta fusione’? L’unica atto da compiere a breve non è forse quella della volontà e dell’iniziativa popolare nella forma dell’Assemblea Costituente?

2). Circa la questione sociale non mancano certamente le lotte, gli scioperi, i viaggi della protesta a Roma né le manifestazioni sindacali a Cagliari. Il fatto è che questa protesta e le risposte politiche regionali e nazionali non si misurano con obiettivi precisi di sviluppo, si vive nel contingente senza un piano preciso e dunque senza risultati, anche parziali, concreti.
Cresce nei comuni dell’interno la consapevolezza del proprio spopolamento ma tanti segnali ci manifestano i messaggi della non rassegnazione. E’ fondamentale la protesta cosciente e organizzata dei giovani come dispositivo di pressione e di orientamento politico.

Un piano B per le zone industriali deserte (Isili, Ottana tra le prime, quindi Porto Vesme e Porto Torres) e la bonifica integrale delle zone industriali, non rappresentano, oramai degli atti dovuti e delle scelte indilazionabili? Cosa ci proponiamo per il futuro dei piccoli comuni? Quale azione per verificare il significato e gli effetti dell’abnorme crescita di Cagliari e di Olbia, con la nuova spinta alla conurbazione delle coste, con lo spopolamento dei comuni dell’interno? Quale proposta per un futuro occupativo dei giovani dei paesi e delle città?

3). Le risorse locali – territoriali a vantaggio dei sardi. C’è l’urgenza di un protagonismo economico che ponga le risorse territoriali al centro della crescita: ambiente, turismo, agro-alimentazione, pastorizia, agricoltura, piccola industria, artigianato. E’ proprio il prodotto identitario che trova sbocco nel mercato mondiale.
L’eolico e il fotovoltaico sono in mano alle imprese multinazionali: alla Sardegna il degrado ambientale, i capitali a favore degli sfruttatori. Con la questione della Tirrenia permane e si aggrava la dipendenza nei trasporti.
Ma ciò che è più grave è la povertà delle risorse culturali: ultimi in Italia per livello di studio, con una grave dispersione scolastica e la crisi della scuola e dell’università.
E’ una debolezza che ci condanna sia nel campo di un moderno investimento delle risorse locali, sia per quanto riguarda gli investimenti tecnologici di imprese esterne. In questa prospettiva di crescita può darsi una risposta alla sfiducia dei giovani che non vedono orizzonti possibili e si adagiano in una condizione passiva.
Non è ormai urgente un confronto serio e propositivo che coinvolga le varie forze produttive, per dare loro uno spazio di parola e di progettualità, per formare soggettività che credono nel proprio ruolo? Non dovremmo rivalutare a fondo tutti coloro che, con il lavoro delle braccia e della mente, producono beni e ricchezza?

4). Mai come oggi nella realtà sarda è fondamentale il ruolo degli intellettuali. E’ necessaria una produzione culturale che riguardi l’economia e tutte le scienze umane e tecnologiche, riaffermando con fermezza l’importanza della lingua sarda nel processo della crescita. Una produzione culturale come produzione di senso, come informazione e formazione pubblica per una presa di coscienza. Produzione culturale come produzione materiale: scrittura, film, tv, teatro, musica, arti visive, che facciano da fermento per una presenza combattiva dell’opinione pubblica.
Oggi ogni produzione culturale è necessariamente produzione materiale e sociale, e viceversa.
Ogni prodotto materiale è un prodotto culturale: l’artigiano è un produttore di cultura materiale e simbolica. Si producono segni non oggetti, messaggi, non solo merce! Perciò la mobilitazione deve investire tutte le diverse attività produttive.
Non si impone forse un nuovo legame tra l’intellettualità delle città e quelle dei paesi, tra gli esperti dell’accademia e della scuola e le diffuse competenze, che riproponga il senso e il segno di un comune destino in questa Isola, con queste risorse umane ed economiche, con i doni della natura e quelli della nostra umanità? Non è forse giunto il tempo di fare il punto sul complessivo stato della cultura in Sardegna?


5). Noi tutti tocchiamo ogni giorno con mano i limiti della politica sarda, vediamo chiaramente che la Sardegna è abbandonata dallo Stato e mal governata. Ciò è dovuto alla modesta incidenza dei parlamentari sardi nel Governo e nel Parlamento italiano, nonché alla scarsa autorevolezza, anche personale, degli uomini politici sardi, sia nell’ambito dei diversi partiti, sia nei giuochi di potere. Per non parlare della debolezza politica della Giunta e del Consiglio regionale rispetto alle decisioni economiche e finanziarie del Governo centrale. Le responsabilità di questa situazione sono tante e vengono anche da lontano. Ma non ci interessa ora soffermarci sulle mancanze dei protagonisti della politica. Siamo pronti a riconoscere dei limiti al nostro non sufficiente operare. I discorsi che al momento ci appaiono pressanti sono i programmi e le azioni capaci di portarci al di là della presente situazione.
Potremmo porre ai Consiglieri regionali una domanda sul senso e le modalità del loro ruolo nella più importante istituzione della Sardegna. Dovremmo anche noi interrogarci se, in assenza della necessaria assunzione di impegno, non sia urgente un’azione che provenga dalla società, dalla cultura, dalle forze economiche e dagli enti locali per assumersi anche le responsabilità dolorose che una verificata insufficienza e latitanza delle rappresentanze istituzionali comporta.

Chiunque sia in grado di provare queste esigenze e di mettersi con noi in cammino sulla strada delle possibili soluzioni è un nostro compagno di viaggio. Ci incontreremo di nuovo a Seneghe, nella Casa Aragonese, sabato 21 maggio 2011, a partire dalle ore 9,30.



Sa die de sa Sardigna 2011

COMUNICATO STAMPA

Presso la Casa Aragonese del comune di Seneghe si svolgerà, sabato 21 maggio, un incontro e un dibattito sui temi più urgenti della Sardegna. Esso si pone in continuità con l’incontro del 25 marzo scorso, svolto anch’esso a Seneghe, che è stato ricco di elaborazioni storiche e di interferenze tra la ricorrenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e le questioni poste da sa Die de sa Sardigna. E’ nata così l'esigenza di proseguire la riflessione e di orientarla verso i temi più urgenti della realtà sarda nella prospettiva di approfondire l'analisi e di rinforzare sia la speranza progettuale e sia le proposte programmatiche.
In riferimento alla festa dei Sardi del 28 aprile, si è pensato di formulare cinque domande in analogia con le cinque domande rivolte al re nel 1793 che ha iniziato, per così dire, la fase vertenziale della Sardegna moderna.
Sono cinque domande che investono l'aspetto istituzionale, sociale, economico e culturale per come le questioni si presentano nell'attuale momento storico con i propri caratteri di urgenza.
Questione istituzionale che ci interroga sull'elaborazione dello statuto sardo e sulla forza contrattuale con lo Stato.
Questione sociale che pone il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile, lo spopolamento dei piccoli comuni dell'interno, la drammaticità della crisi industriale.
Una domanda fondamentale riguarda il modello di sviluppo: valorizzazione delle risorse locali, calcolato investimento nell’eolico e nel solare a beneficio dei sardi, questione dei trasporti che condiziona anche lo sviluppo turistico.
Come interrogarsi sul ruolo degli intellettuali come impegno sociale e come produzione culturale che investa l'economia e l'innovazione tecnologica delle forme produttive? E quale ruolo esercitano essi nella formazione dell'opinione pubblica e nella riformulazione radicale della scuola sarda?
La domanda conclusiva ci interroga tutti gli sulla qualità della politica sarda e sulla incidenza dei politici sardi nei confronti dello Stato a difesa degli interessi della Sardegna.
Queste sono le questioni che saranno introdotte da studi specifici e arricchite da molteplici contributi e da liberi interventi.
I sottoscritti si danno appuntamento a Seneghe, presso la Casa Aragonese del Comune, sabato 21 maggio 2011, alle ore 9,30. I cittadini sono invitati a ragionare e discutere con noi, in continuità con Sa die de sa Sardigna.

Firma: Bachisio Bandinu (antropologo, giornalista), Antonio Buluggiu (insegnante), Luciano Carta (storico, dirigente scolastico), Vittoria Casu (docente universitario, già consigliere regionale), Placido Cherchi (antropologo) , Alberto Contu (storico), Gianfranco Contu (storico) , Mario Cubeddu (storico, insegnante), Salvatore Cubeddu (sociologo), Giuseppe Doneddu (storico, docente universitario), Federico Francioni (storico, insegnante), Gianni Loy (docente universitario), Piero Marcialis (attore, insegnante), Piero Marras (cantautore,già consigliere regionale), Luciano Marrocu (storico, docente universitario), Alberto Merler (sociologo, docente universitario), Nicolò Migheli (sociologo), Maria Antonietta Mongiu (archeologo, insegnante, già assessore regionale), Giorgio Murgia (già consigliere regionale), Michela Murgia (scrittrice, insegnante), Paolo Mugoni (insegnante), Maria Lucia Piga (sociologo, docente universitario), Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore), Paolo Pillonca (giornalista, scrittore), Mario Puddu (insegnante, scrittore), Vindice Ribichesu (giornalista), Andrea Vargiu (docente universitario).

giovedì 21 aprile 2011

Minamisoma, la città simbolo della catastrofe

Colpita dal terremoto e dallo
tsunami l’11 marzo, oggi la città
costiera del Tohoku è
minacciata dalla crisi nucleare.
Intanto sulla Tepco piovono le
richieste di risarcimento
Justin McCurry
Global Post



Se c’è un posto che riassume la portata della tragedia che si è abbattuta sul Giappone quello è Minamisoma. Nel terremoto e nello tsunami dell’11 marzo questa città costiera nella prefettura di Fukushima ha perso 1.470 abitanti, e cinque settimane dopo la popolazione rimasta vive in un limbo nucleare. Una parte della città si trova infatti nella zona compresa entro i 20 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, dichiarata proibita. Nel giro di pochi giorni dall’inizio della crisi nucleare, i 70mila abitanti di Minamisoma erano diventati diecimila, trasferiti con degli autobus nei centri di accoglienza a centinaia di chilometri di distanza.

Oggi, anche se alcuni ritornano, Minamisoma è di fatto una città fantasma. L’11 aprile, l’estensione dell’area di evacuazione ad alcune zone a 40 chilometri dalla centrale ha aggravato la situazione di una comunità già tormentata. Per completare il nuovo ordine di evacuazione, che interessa decine di migliaia di persone, ci vorrà un mese. Nel frattempo il lusso degli abitanti che avevano cominciato a tornare a casa,incoraggiati dalla diminuzione della radioattività, potrebbe fermarsi.

Nonostante le rassicurazioni delle autorità circa i livelli delle radiazioni, il premier Naoto Kan ha ammesso di non sapere quando sarà possibile revocare l’allarme in posti come Minamisoma e, tramite il suo portavoce, ha ammesso che chi abitava vicino all’impianto non potrà tornare a casa prima di dieci o vent’anni. Kan ha poi ritrattato, ma ormai il danno era fatto. “È scandaloso”, ha commentato Michio Furukawa, sindaco di Kawamata, prefettura di Fukushima. “Ha idea dei sacriici che stiamo facendo?”.

Indennizzi in tempi rapidi
La decisione di estendere la zona di evacuazione è stata resa nota lo stesso giorno
in cui le autorità hanno alzato la gravità dell’incidente di Fukushima al livello 7, al pari di Cernobyl. La contaminazione causata dalla centrale giapponese è solo un decimo di quella sprigionata dal reattore sovietico, ma l’iniziale fuga radioattiva e i timori per la salute dei residenti delle zone circostanti hanno lasciato poca scelta al governo, che ha dichiarato quella di Fukushima Daiichi una “catastrofe grave”.

Una decisione che ha fatto aumentare le pressioni sulla Tokyo electric power company (Tepco) in merito ai risarcimenti. Circa 48mila famiglie nel raggio di 30 chilometri dalla centrale hanno i requisiti per ricevere un indennizzo provvisorio, pari a un milione di yen (circa 8.300 euro) per le famiglie e a 750mila yen per le persone che vivono da sole. Il totale ammonta a cinquanta miliardi di yen, senza però contare le richieste che arriveranno da agricoltori e pescatori della zona.

Anche la federazione delle cooperative agricole giapponesi, infatti, ha chiesto un
risarcimento immediato per i danni derivati dal divieto di vendita di alcuni prodotti e per la disinformazione sulla frutta e la verdura della regione, ingiustamente ritenute pericolose. “È inaccettabile”, ha dichiarato la federazione. “Nelle zone colpite è in pericolo la base stessa dell’agricoltura, con conseguenze disastrose per i coltivatori”.


Da sapere
Il 17 aprile la Tokyo elecrtic power company
(Tepco), che gestisce la centrale di Fukushima,
ha presentato un piano per risolvere la crisi
nucleare nel giro di nove mesi. In una prima
fase si cercherà di rafreddare i reattori,
portando la temperatura sotto i 100 gradi
centigradi, per poi ridurre la quantità del
materiale radioattivo nella seconda fase.

La Tepco ha precisato che non è del tutto sicura
che l’operazione avrà successo.
Il 20 aprile il governo giapponese ha preso in
considerazione la possibilità di rafforzare il
controllo delle zone contaminate rendendo
obbligatoria l’evacuazione e impedendo
tassativamente l’ingresso ai residenti sfollati e
ai giornalisti.

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