lunedì 7 maggio 2012

Fukushima Il reattore n° 4 rilascia Cesio-137 i venti condannano la California

weeklyintercept

Technorati
Stephen Alexander

Se il reattore 4 a Fukushima diventa instabile e rilascia 10 volte la quantità di Cesio-137 (Cs-137) rilasciata al momento dell'incidente nucleare di Chernobyl, e i venti prevalenti potrebbero portarlo fino alla parte occidentale degli USA -che significa California .

Il 30 aprile 2012, 72 organizzazioni ONG hanno inviato una richiesta alle Nazioni Unite e al governo giapponese sollecitando la rapida azione per stabilizzare l'unità centrale nucleare di Fukushima Daiichi 4 combustibile nucleare esaurito.
Gli esperti nel settore nucleare sia  Giapponesi che nel mondo hanno approvato la lettera.

La lettera conteneva avvertimenti che l'unità
4  ha danneggiata la piscina del combustibile nucleare esaurito contiene cesio-137.
Questa piscina se è stata esposta a un terremoto o un altro evento che drena la piscina, quindi il risultato potrebbe essere un  catastrofico incendio radioattivo. La lettera ha esortato le Nazioni Unite a creare un vertice della sicurezza nucleare per trovare una soluzione al problema al'Unità di Fukushima Daiichi 4 e alla piscina del combustibile nucleare esaurito. La proposta ha indicatoto come le Nazioni Unite dovrebbero creare un team indipendente di valutazione relativa all'unità Fukushima Daiichi 4 e organizzare l'assistenza internazionale per stabilizzare il combustibile nucleare esaurito dell'unità e impedire la catastrofe imminente. La lettera è stata consegnata sia al Segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon che al Primo Ministro giapponese Yoshihiko Noda.  
La seconda lettera ha incoraggiato il Giappone a chiedere ufficialmente aiuto alle Nazioni Unite.  Gli oltre 10.000 elementi di combustibile esaurito siti presso l'impianto di Fukushima Daiichi si trovano in piscine vulnerabili ai terremoti futuri. La radioattività è di circa 85 volte più alta e  duratura rispetto alla radioattività rilasciata a Chernobyl.

STIGLITZ E L' AUSTERITA' SUICIDA

DI GUSTAVO PIGA
ilmanifesto.it





  
Ascoltare il dibattito tra Monti e Stiglitz è stato emozionante. Potenti le cannonate dell’economista americano, che lasciano basita una platea abituata allo slang triste europeo. Al termine del suo discorso si sente lo spavento che pervade la sala, paura per una crisi che forse non passerà se non si faranno le cose giuste. Il linguaggio è stato come quello di un marziano. Tant’è che la migliore difesa che il premier ha potuto montare è stata quella di differenziare l’America dall’Europa in termini di obiettivi. Non ha funzionato.
L’Europa non deve solo crescere economicamente, come gli Stati Uniti, ma far crescere anche le sue istituzioni e questo può andare anche a scapito della crescita economica. Mi sono detto che non è così, che forse per uno o due o anche tre anni può essere così, ma nessuna nazione può tenersi in piedi, coesa socialmente, senza che le sue istituzioni siano dedicate solamente alla crescita del benessere dei suoi cittadini.

Un linguaggio che effettivamente non si sente più nel nostro Paese. Non è solo questione di diversa enfasi, no, ascoltare Stiglitz era rendersi conto che esiste là fuori una strada alternativa di cui in Europa è vietato parlare. Un nuovo «dibattito proibito», per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi che uscì qualche anno fa. Era anche dare nuova linfa alle parole, come se queste fossero rose innaffiate dopo lunga aridità.

Prendete la parola più menzionata in Italia questi giorni. La parola spreco. Anche Stiglitz ne ha parlato. Di sprechi. Ma non parla di Bondi. No, parla del più grande spreco, quello vero, quello reale, dice Stiglitz: lo spreco immenso, trilioni di dollari, di tutte quelle risorse, naturali, materiali ed umane, uguali a quelle che avevamo nel 2008 e che da allora però non utilizziamo più a causa di questa crisi. «Ed è l’austerità che tiene vivi questi sprechi». Tutti quei giovani, che oggi non lavorano, che diventeranno alienati dal resto della società, che se e quando, tra tanti anni – se continuiamo con la stupida austerità – troveranno forse un lavoro, ma a salari più bassi perché avranno disimparato a fare e avranno perso l’orgoglio e la voglia di affermarsi. Ecco lo spreco, dice il Premio Nobel. Ecco, è questo l’unico vero, grande intollerabile spreco di questa maledetta crisi che non vogliamo combattere.

Perché si può combattere. Con un nuovo approccio di politica economica. Nessuna grande economia mondiale, mai, è uscita da una crisi di questo tipo con l’austerità, dice Stiglitz che diventa subito un fiume in piena che abbatte le nostre magre argomentazioni europee affaticate dal fallimento. «L’austerità non funziona, basta guardare ai dati: essa smonta anche i rientri dei bilanci pubblici verso il pareggio». Le riforme? Le riforme che servono anche nel breve periodo sono quelle che migliorano la situazione dell’accesso al credito per le piccole imprese e quelle che aumentano il sostegno alle università. Le riforme sono utili, ma hanno bisogno di tempo e, nel frattempo a volte riducono la domanda nel sistema, che già manca. Il mercato del lavoro americano è certamente flessibile eppure ciò non ha impedito che si raggiungesse una disoccupazione del 10%. In questa crisi non si creano posti di lavoro senza maggiore domanda aggregata. Bisogna fare politiche per il breve periodo. «E il breve periodo può durare a lungo se si mantiene l’austerità». Tutto qui? No, finiamo con la ricetta proposta dall’economista americano.

Primo, politica fiscale espansiva in Germania, anche con ampi deficit pubblici. Concordiamo. Secondo, in Italia, politica fiscale espansiva senza maggiori deficit pubblici. Il che significa più spesa pubblica con gli aumenti di tasse (già fatti) destinati a pagarci la spesa pubblica e non il debito pubblico. Oppure con i tagli agli sprechi che non devono generare maggiore austerità ma maggiore domanda da parte dell’unico attore che in questa crisi può domandare, lo Stato. Concordiamo. Senza toccare il deficit, il Pil sale, facendo anche scendere i rapporti deficit e debito su Pil. Grande ruolo per investimenti pubblici, spesa per l’istruzione e per la sanità. Terzo, tasse e spesa pubblica devono anche ridurre le disuguaglianze che specie in questa fase distruggono la crescita economica. Concordiamo.

Senza maggiore spesa pubblica anni ed anni davanti a noi di maggiore disoccupazione. Alle sue raccomandazioni aggiungiamo: vera spesa pubblicata, monitorata e la cui qualità sia assicurata da competenze e assenza di corruzione.

Monti ha detto alla fine del dibattito: «Sono desideroso di sapere come rispettare l’obbligo di bilancio in pareggio facendo diminuire il rapporto debito su Pil e soddisfacendo al contempo l’esigenza immediata di crescita». Forse non se ne è reso conto, forse sì, ma questo «come» glielo aveva spiegato pochi minuti prima Stiglitz, che ha aggiunto: «I terremoti accadono. Anche gli tsunami. Non è colpa nostra se accadono. Ma perché a queste tragedie dobbiamo aggiungere dei disastri causati da noi stessi? È criminale questa ignoranza di quanto è avvenuto nel passato, l’economia deve essere al servizio della gente, e non viceversa».


giovedì 3 maggio 2012

Sardinya: «Isola indipendente»

  SARDINYA: SA REVOLUTZIONI DE IS PABAULIS

"L'indipendenza non va riferita a un futuro indeterminato. Appartiene all'urgenza e alla responsabilità del presente. CHI DICE CHE I TEMPI NON SONO MATURI CREDE CHE IL TEMPO DEBBA MATURARE PER CONTO SUO, COME FRUTTO DI STAGIONE. E' una concezione PASSIVA che chiude la frontiera del tempo e nega la sua apertura. (...) Chi dice di attendere il tempo giusto subisce il tempo governato dagli altri e continua a servire i padroni del tempo..."

Bachisio Bandinu, PRO S'INDIPENDENTZIA, pag.6

 Giuseppe Meloni

www.unionesarda.it

 Il quesito proposto da Malu Entu

«Isola indipendente»: l'iniziativa di Doddore Meloni raccoglie 27mila firme


Doddore Meloni

Sono già più di 27mila le firme raccolte dal referendum per l'indipendenza proposto da Doddore Meloni. Ad annunciarlo è lo stesso fondatore della Repubblica di Malu Entu, alla vigilia del suo compleanno numero 69 (è nato il 4 maggio), che coincide anche con la data del suo ritorno alla politica attiva, nel 2008, dopo tanti anni di silenzio.

IL QUESITO
Il testo su cui Meloni ha raccolto le sottoscrizioni (27.347, per la precisione) è molto diretto: «Sei d'accordo, in base al diritto internazionale delle Nazioni Unite, al raggiungimento della libertà del popolo sardo, con l'Indipendenza?». Non si parla genericamente di autogoverno o poteri locali: ai cittadini viene chiesto un pronunciamento molto chiaro, a favore o contro l'ipotesi della creazione di una Repubblica di Sardegna.
Forse anche per questa nettezza, molti degli altri leader indipendentisti hanno preso le distanze dall'iniziativa di Doddore Meloni. L'idea del referendum è emersa nei mesi in cui alcune delle varie sigle (la stessa Malu Entu insieme a Sardigna natzione, Progres e A manca pro s'indipendentzia) stavano progettando la cosiddetta Convergenza nazionale, ossia una sorta di patto di collaborazione politica tra diversi soggetti dell'area identitaria.

POSIZIONI CONTRASTANTI
Obiettivo sfumato, almeno momentaneamente: e tra le ragioni della mancata intesa c'è anche la scelta di Meloni di avviare la raccolta firme, giudicata negativamente dai colleghi perché assunta in solitario. I leader dei vari partiti e movimenti temono che un'eventuale consultazione, se si concludesse con la sconfitta del sì all'opzione della Repubblica sarda, segni un arretramento del loro ideale indipendentista e della relativa battaglia.
Ma questo, per Doddore Meloni, non è un buon motivo per non provarci neppure. «Per la prima volta nella storia della nostra terra - scrive in un comunicato - la popolazione sarda si potrà esprimere sul suo presente e sul futuro delle prossime generazioni». Meloni valuterebbe con favore anche una percentuale pro-indipendenza attorno al 35%: «Farebbe emergere un sentimento diffuso anche tra gli elettori dei partiti italiani, e favorirebbe la nascita di un polo indipendentista per presentarsi alle prossime elezioni regionali». 

martedì 1 maggio 2012

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio di farlo riscrivere dalla società civile

 

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio
di farlo riscrivere dalla società civile

Da undici anni si tenta (inutilmente) di varare l'Assemblea costituente  

Fabio Manca

www.unionesarda.it

Che lo Statuto speciale, la Carta costituzionale dei sardi, abbia bisogno di essere cambiato per aumentare il grado di autonomia della Regione e soprattutto dopo l'avvento del federalismo, e il conseguente decentramento di decine funzioni, e dopo l'ingresso dell'Italia nell'Unione europea è un fatto condiviso. Sul modo per farlo le forze politiche si dividono: è opportuno che le modifiche statutarie vengano fatte dal Consiglio regionale o da una nuova assemblea, composta non solo da politici, ma da gente comune e rappresentanti di tutte le forze sociali e imprenditoriali eletti dai cittadini?
È il tema del sesto dei dieci quesiti sui quali i sardi dovranno esprimersi domenica. “Siete favorevoli alla riscrittura dello Statuto della Regione autonoma della Sardegna da parte di un'Assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i cittadini sardi?” chiede il Movimento referendario.

LE ADESIONI Del tema si discusse abbondantemente tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, gli anni in cui, sulla spinta di un largo movimento trasversale, prima i Riformatori sardi, poi la Giunta regionale (su proposta dell'allora assessore agli Affari generali Italo Masala), seguiti dai Sardisti e da buona parte del gruppo dei Democratici di sinistra, presentarono proposte o disegni di legge poi unificati nella proposta di legge nazionale numero 5 approvata dal Consiglio regionale nel torrido pomeriggio del 31 luglio del 2001.
La legge chiedeva sostanzialmente che al titolo VII della legge costituzionale del 26 febbraio 1948 numero 3 (lo Statuto sardo) venisse aggiunto un articolo che autorizzava il Consiglio regionale a deliberare l'istituzione di un'assemblea costituente. Poi la legge, come spesso accade, si arenò in commissione Affari costituzionali del Senato e da lì non si è mai mossa.

«FACCIAMO DA SOLI» Nel frattempo è cambiato il mondo, compreso il titolo V della Costituzione che modifica le competenze di Regioni, Province e Comuni, e numerose Regioni hanno già modificato la loro Carta senza chiedere il permesso al Parlamento. Ed è esattamente ciò che si intende fare in Sardegna. Se i sardi si esprimeranno per il sì, sarà una esplicita autorizzazione a indire le elezioni per l'Assemblea costituente. Che - nelle intenzioni dei promotori - sarà costituita da tutte le componenti della società: dai sindacati alle imprese sino ai sindaci. Saranno loro a decidere che cosa cambiare dello Statuto speciale: certamente (lo ribadisce il leader della Cisl nell'articolo sotto) tra le altre cose vorranno una reale autonomia finanziaria e, dunque, una maggiore percentuale delle tasse pagate in Sardegna, il riconoscimento dell'insularità come fattore di svantaggio, più competenze sull'istruzione.

IL LAVORO DEL CONSIGLIO Sullo Statuto sta lavorando da tempo (seriamente ma con i tempi e i veti della politica) la commissione Autonomia del Consiglio regionale. Ragione per cui i nemici della Costituente ritengono il referendum superfluo. Secondo i promotori, al contrario, il Consiglio regionale non è riuscito negli ultimi undici anni e non riuscirà oggi a produrre nulla. Perché tende ad autoproteggersi. Come una Casta.

INTERVISTA. Parla Mario Medde, leader della Cisl sarda

«Istituzioni screditate,  rinnoviamo noi le norme»


«Dico sì alla Costituente perché né la Giunta né il Consiglio regionale hanno le carte in regola per riscrivere lo Statuto speciale e perché ci vuole una forte forza contrattuale nel confronto con lo Stato, che si può avere solo con una grande e diffusa partecipazione popolare».
Mario Medde, leader della Cisl Sarda, è tra i sostenitori storici della battaglia per la riscrittura dello Statuto attraverso un'assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i sardi. E oggi che la crisi economica è drammatica, che il rapporto con lo Stato è ai minimi termini, come il gradimento dei partiti, lo è in modo ancora più convinto. «Per riscrivere lo statuto e liberare canali di collegamento, oggi ostruiti, tra partiti istituzioni e società ci vuole una forte legittimazione popolare», dice. Un'altra ragione è connessa alla necessità di far sì che lo Statuto venga rivisitato anche attraverso la partecipazione delle forze sociali ed economiche che sono in prima linea per rilanciare i temi dell'economia e del lavoro.

RIEQUILIBRARE I POTERI Per Medde: «Il nuovo Statuto può essere incisivo se saprà riequilibrare i rapporti e poteri e se rinegozierà le risorse che spettano alla Sardegna e questo sarà possibile solo se ci sarà una spinta totale dei sardi». Nel merito, il primo punto da rivedere sarebbe l'articolo otto, modificato alcuni anni fa in virtù dell'accordo, per ora inattuato, raggiunto in conferenza Stato-Regione sulla percentuale delle tasse versate dai sardi che spettano all'Isola. «Ci spetta una percentuale maggiore delle entrate fiscali e occorre che vengano riscosse direttamente dalla Regione, non più dallo Stato, a traverso un'agenzia delle entratea carattere regionale». Per Medde «serve un'autonomia finanziaria reale» e gli incrementi accordati dallo Stato e inseriti nel novellato articolo 8 «sono irrisori soprattutto alla luce del fatto che contestualmente sono state assegnate alla Regione le competenze sulla Sanità e sulla Continuità territoriale di cui prima si faceva carico Roma. Il fatto che quell'articolo sia stato decostituzionalizzato e inserito in un articolo della Finanziaria dello Stato la dice lunga sull'atteggiamento dello Stato nei confronti dell'Isola». A giudizio del segretario regionale della Cisl, agire sulla leva fiscale è fondamentale per allineare la Sardegna alle altre regioni, compensando gli svantaggi dell'insularità.

L'ISTRUZIONE REGIONALE Altra competenza da assegnare statutariamente alla Regione, per Medde è l'istruzione. «Oggi abbiamo solo la formazione professionale ma se vogliamo agire sulla dispersione scolastica e sulle drammatiche condizioni dell'edilizia scolastica dobbiamo avere la competenza su tutta la filiera dell'istruzione».

SOBERANIA EST INDIPENDENTZIA

 Gesuino Muledda 
Segretario natzionale RossoMori


Per molte delle cose che dirò posso essere chiamato in causa almeno come corresponsabile. E’ giusto che così sia.
Non è però giusto che qualcuno usi atteggiamenti censori per quanto uno pensa. Vale per tutti l’etica della convinzione e per tutti l’etica della responsabilità.
Concordo con Marcello Fois quando pone al mondo indipendentista la necessità di superare lo schema per cui tutti, o gran parte dei mali, derivano dall’esterno.
Perché è pur necessario, per l’etica della responsabilità, che si dia un giudizio sulle responsabilità dei governanti della Regione, in primo luogo, della lunga stagione della Autonomia; in secondo luogo, del ceto dirigente della società sarda, del quale, in fin dei conti, il ceto politico è espressione. Sto chiamando in causa l’intellettualità sarda, gli imprenditori, i formatori delle giovani generazioni, il sindacato e le rappresentanze di impresa. Fatta salva la principale responsabilità dei dirigenti politici e degli amministratori regionali.
Responsabilità per lo stato attuale della Sardegna.
La quale si è trovata ad affrontare la stagione della globalizzazione senza la pur possibile attrezzatura.
In primo luogo senza una intellettualità impegnata nella elaborazione di un progetto di modernità che avesse, contemporaneamente, una forte elaborazione identitaria, una consapevolezza degli strumenti necessari per la sua affermazione, una visione istituzionale capace di piena rappresentanza per la affermazione degli interessi del popolo sardo.
E una attività di governo che avesse orizzonti larghi e visioni lunghe. Le due cose si intrecciano, evidentemente.
Non si è realizzata in Sardegna la necessaria e possibile accumulazione di forza democratica per deficit nella accumulazione dei saperi, dei poteri, delle produzioni, delle innovazioni e di giustizia sociale
Sinteticamente, c’è stato un deficit di sardismo.
Intendo il sardismo come soggettività politica di un popolo che pretende di affermare contemporaneamente giustizia e libertà. Questo era l’azionismo originario dei padri fondatori del P.S. d’Az., coniugato con la forte determinazione a conquistare i poteri necessari per l’autogoverno del popolo sardo.
E collocavano, i padri fondatori, la Sardegna in un orizzonte europeo, proponendo, già allora, l’unità dell’Europa dei popoli, federale, solidale, e specialmente per Lussu, socialista.
Intorno all’obiettivo della conquista dello statuto di Autonomia si è realizzata una forte mobilitazione di consapevolezze e di popolo.
Come pure, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto si è realizzata una battaglia rivendicativa della rinascita che, pur con limiti, ha conquistato impegno di risorse e ha consentito una importante implementazione dei poteri, per qualche parte normativa, per altre parti di esercizio di fatti di altri poteri.
Valga per tutti la limitazione dei poteri della Cassa per il Mezzogiorno, allora onnipotente.
Ma è stato scelto un modello di sviluppo incentrato sulla industria di base, poi fallita, che non ha portato all’accumulazione della produzione, nè alla nascita e affermazione di un sistema di imprese sarde del settore industriale. E in quel frangente storico non si è realizzata la necessaria e possibile apertura verso le innovazioni che nel mondo si andavano realizzando.
La carica identitaria si è indirizzata prevalentemente verso un rivendicazionismo e una vertenzialità economica e istituzionale durante la quale però, alla fin fine, lo stato italiano, i suoi governi si sono sottratti all’impegno per la Rinascita, progressivamente riducendo la presenza delle partecipazioni statali, introducendo la pratica tutta assistenzialistica della cassa integrazione a vita per la giovane classe operaia.
In gran parte della Sardegna non si è conosciuta la seconda generazione operaia. Responsabilità, certo, dello stato italiano e dei suoi governi. Ma responsabilità, anche dei governi regionali e del ceto dirigente tutto. Ciascuno per quanto gli compete.
E nel frattempo è nata la società dell’informazione. E la quantità della nostra scolarizzazione e la qualità della nostra formazione, non sono state adeguate. Non perché non si siano spese risorse: è mancata la finalizzazione a un progetto di sviluppo adeguato ai tempi. Che anzi i fatti innovativi che si sono proposti sono stati osteggiati perché mettevano in discussione gli equilibri di potere. Lo stesso fenomeno del turismo è nato come corpo sostanzialmente esterno e la nascita e la crescita delle imprese turistiche sarde hanno tardato e non hanno costituito ancora oggi sistema. E le tematiche ambientali sono state vissute come ostacolo all’imprenditoria e le questioni dell’acqua e dell’energia sono state vissute come fatti non combinabili come occasione per organizzare un nuovo modello di sviluppo.
E la riforma agropastorale estesa fin in tutte le zone irrigue ha dato importanti risultati nel settore primario, abbandonato però alla logica predatoria degli industriali del latte; ma di fatto ha orientato gli investimenti e le attenzioni quasi esclusivamente verso la pecora e non per le colture ortofrutticole per le quali siamo rimasti completamente dipendenti.
La Regione Autonoma aveva i poteri per fare questo o altro. Non è stato fatto l’altro necessario e possibile. E’ stato creato un sistema regionale centralistico e ministerializzato. Ma la Regione, di norma, avrebbe dovuto operare attraverso gli Enti locali. E’ stato creato un sistema di bilancio finalizzato alla gestione centralistica che non ha consentito agli amministratori locali di esercitare la propria autonomia, riducendo in questo modo la possibilità di ricambio del ceto politico regionale. Si potrebbe continuare.
L’etica della responsabilità vuole che chi ha avuto ruolo politico, per la parte che gli compete, se ne assuma le responsabilità. Anche senza assolvere lo stato italiano, l’Europa, e i relativi governi.
Nel 1975 il Consiglio Regione ha nominato una commissione speciale per riscrivere lo statuto di Autonomia. Non è stato riscritto. E’ stato solo delegittimato lo statuto esistente non è stato elaborato e adottato il nuovo. Siamo a questo punto.
Una visione sovranista, indipendentista, autonomista, oggi non può sostanziarsi di passato.
Ne si può lontanamente pensare che non si debba prendere atto di quanto di nuovo è sopravvenuto.
Esiste l’Unione Europea che decide sulla gran parte dei nostri interessi. Gli stati nazione di stampo ottocentesco sono finiti e le ultime feroci resistenze messe in campo per tenerli in vita in quella forma stanno solo facendo danno all’idea di Europa e ai cittadini tutti.
I migranti che cercano condizioni di vita migliore, mantenendo la propria identità culturale e religiosa, sono una realtà della quale bisogna prendere atto positivamente.
La finanziarizzazione dell’economia, e la impossibilità e incapacità degli stati nazione a contrastarla rende necessaria altre culture rispetto a quelle che abbiamo ereditato e conosciute.
Le relazioni con questa nuova realtà pretendono che la consapevolezza di essere popolo e nazione (nobile eredità sardista) si trasformi in scelte e atti che consentano a questo popolo e a questa nazione di essere riconosciuti dagli altri popoli e dalle altre nazioni.
E ben per questo serve oggi affermare che l’identità del popolo sardo, oltre le radici e la cultura ereditata è costituita e sostanziata per quello che siamo.
E per quanto, materialmente, è necessario fare va detto che la sovranità si conquista, per intanto, esercitandola.
Servono partiti di Sardegna, sovrani. Servono governi e parlamentari sardi non subalterni a chicchessia.
Serve uno statuto di sovranità, costituzionalmente riconosciuto in Europa e in Italia.
Serve una costituzione Europea per l’esercizio della sovranità del popolo europeo, federalista.
Serve una costituzione italiana federalista.
Serve che la costituzione federalista europea e italiana prevedano il principio di allargamento interno che possa consentire la politica pacifica della autodeterminazione.
E serve dire con chiarezza che la Sardegna ha come orizzonte politico e istituzionale permanente l’Europa.
Serve anche che nella congiuntura non breve della battaglia per la sovranità i ceti dirigenti di questo popolo sardo sappiano coniugare la pratica dello statuto come fatto costituito e la innovazione di una consapevole fase costituente.
Democratica, partecipata, generosa.

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