giovedì 19 maggio 2011

La trappola del governo italiano sui referendum

  • Su 15 e 16 de Maju Vota EJA contra su nucleare

In Sardinia il 15 e 16 MAGGIO 2011 si è svolto il primo referendum al mondo sul nucleare (consultivo) dopo il disastro accaduto a Fukushima.
SARDIGNA NATZIONE (movimento indipendentista sardo) ha raccolto le 16600 firme per permettere ai sardi di esprimere il loro parere sul nucleare, 6000 firme oltre le necessarie dovute a termine di legge Regionale; l'impegno profuso per la sua riuscita è dovuta ai movimenti indipendentisti e ambientalisti sardi, hanno dato al popolo sardo questa libertà di espressione, strumento di democrazia diretta, e portato al voto oltre 860.000 elettori sardi (su un milione e mezzo di abitanti siti su un'isola di appena 24mila Kmq )
Elettori molto determinati a dire la loro, e che hanno votato espressamente contro il nucleare con un a percentuale che non lascia dubbi sul loro pensiero antinuke, infatti il 97.40% di SI per il rifiuto del nucleare ha determinato il NO alle centrali nucleari e ai suoi residuati e scorie, ponendo una pietra tombale sulle bocche dei tanti lachè e affaristi italioti;
Un grandissimo risultato raggiunto a motivo della stanchezza ed il rifiuto popolare delle servitù imposte alla Sardegna da un centinaio e più d'anni dallo stato italiota, una terra vituperata e resa colonia, martoriata dalle servitù militari, da discariche di scorie industriali delle acciaierie italiane del nord e con l'iquinamento del suo territorio a motivo di industrie collocate fuori luogo dal potere italiota negli anni sessanta e settanta, rendendo il territorio schiavo della logica del capitale USA e GETTA oltre alla umiliazione del collocare gente attiva e dignitosa in situazioni offensive per noi sardi come la cassa integrazione ecc.. (da sapere: il 60% del totale delle servitù militari in estensione territoriale dello stato italiano sono site in Sardinia) la logica di colonia a cui ci hanno relegato e imposte da centocinquanta anni di occupazione italiota, ci da molto fastidio e vogliamo fare azione di liberazione sia: dalle promesse vane dei porci servi (tzaracus) dei politicanti "italioti", che di quegli idioti-servi sardo-italioti prostarti davanti all'altare del denaro della loro vera "patria", infastidisce molto vedere la forza che questi governi di destra e centrosinistra italici esercitano per sottomettere il nostro popolo in terra di Sardinia!

Per noi sardi questo referendum consultivo sul nucleare ha significato un forte no a questa speculazione sul nucleare in terra nostra del premier italiota Berluscone, e la rivendicazione di sovranità sulla proria terra atta dal nostro essere natzione matura per la libertà e autodeterminazione, stanca di essere sottoposta da troppo tempo a queste amenità di oltre Tirreno.





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LIBERTADE PRO SA SARDINIA EST COSA GIUSTA E DEPIDA!!

A FORA IS ITAGLIANUS DE SARDINIA, LIBERTADE E JUSTITZIA PRO SU POPULU SARDU!!




















Michael Leonardi

Counterpunch USA


Il 12 e 13 giugno gli italiani
voteranno su nucleare, legittimo
impedimento e privatizzazione
dell’acqua. La maggioranza sta
facendo di tutto per ostacolare le
consultazioni popolari

In Italia la democrazia è sempre più a pezzi. Il governo di Silvio Berlusconi e la sua maggioranza in parlamento stanno cercando di bloccare un refrendum che dovrebbe impedire la costruzione di nuove centrali nucleari sul territorio nazionale. L’Italia non produce energia nucleare dal 1990, e i recenti sondaggi indicano che più del 75 per cento degli italiani è contrario alla costruzione di questi impianti.

Il referendum è in programma per il 12 e 13 giugno, ma un emendamento presentato il 19 aprile dal governo prevede la so-spensione di un anno del progetto di rilancio dell’energia nucleare e rischia di far saltare la consultazione popolare. La campagna è stata condotta dal partito d’opposizione Italia dei valori, che ha guidato un vasto movimento di cittadini e associazioni ambientaliste riuscendo a raccogliere le 500mila firme necessarie per proporre il referendum.

L’Italia è l’unico, tra i paesi del G8, a non produrre energia nucleare. Sulla penisola non ci sono centrali attive dal 1990,anche se circa il 10 per cento dell’elettricità consumata viene da energia nucleare prodotta in Francia e Germania. Nel 1987, un anno dopo l’incidente di Cernobyl, i cittadini italiani votarono un referendum che ha sancito la diminuzione graduale e infine la sospensione della produzione di energia nucleare. In quel momento l’Italia aveva due centrali attive, e in tutta la storia del paese ci sono stati quattro reattori in funzione.

Nel 2007, durante la campagna elettorale che l’ha portato al governo per la terza volta, Berlusconi annunciò l’intenzione di voler tornare alla produzione di energia nucleare, nel quadro di una strategia energetica nazionale.
All’epoca Berlusconi non era stato l’unico a sostenere la necessità di un ritorno al nucleare. Anche alcuni importanti esponenti del Partito democratico (Pd), appena fondato, si erano espressi a favore.

Un cablogramma pubblicato da Wikileaks ha rivelato che Pier Luigi Bersani, l’attuale segretario del Partito democratico, che nel 2007 era in carica come ministro dello sviluppo economico nel governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, aveva aperto uno spiraglio al ritorno del nucleare attraverso un accordo sulla Global nuclear energy partnership (Gnep) con il segretario per l’energia statunitense di allora, Samuel Bodman. Parlando del referendum del 1987, Bersani aveva detto che il risultato della consultazione “non esclude l’Italia dalla generazione di energia nucleare, che è solo sospesa”. Inoltre, il leader del Partito democratico si augurava che l’accordo stipulato tra l’amministrazione Bush e il governo Prodi potesse “cambiare l’atteggiamento degli italiani verso l’energia nucleare”.

Anche Walter Veltroni, l’ex sindaco diRoma che nel 2008 è stato il primo candidato del Pd per la presidenza del consiglio,nel suo programma elettorale si era detto pronto a discutere l’idea di un ritorno alla produzione di energia atomica di quarta generazione.

Dopo Fukushima

Dopo l’incidente della centrale di Fukushima, in Giappone, Bersani e il Partito democratico hanno fortemente ridimensionato il loro sostegno al nucleare, schierandosi
contro il progetto del governo di costruire nuovi reattori. I democratici si sono schierati al fianco del partito dei Verdi, dell’Italia dei valori e di migliaia di cittadini italiani che hanno criticato i tentativi di Berlusconi di bloccare il referendum, accusandolo di “intralciare il processo democratico”. Fukushima ha dato nuova forza al movimento antinucleare e ha radunato intorno al no all’energia atomica un’opinione pubblica che nel corso degli anni si era gradualmente spaccata.

Dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008, il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, prima di essere costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione, annunciò che il governo intendeva costruire la prima delle nuove centrali nucleari entro il 2013. Il 24 febbraio del 2009 è stato siglato un accordo tra la Francia e l’Italia per permettere agli italiani di usufruire delle conoscenze degli esperti francesi in materia di progetazione delle centrali. Il 9 luglio del 2009 l’Italia ha approvato un disegno di legge sull’energia che prevedeva l’istituzione di

Nucleare, <a href="/quotazioni/quotazioni.asp?step=1&action=ricerca&codiceStrumento=u2ae&titolo=ENEL">Enel</a>/Edf soci maggioritari con alleanza allargata









Nel 2009 l’Enel ha
concluso un accordo
con Électricité de
France (EDF) per la
creazione della joint
venture Sviluppo



un’Agenzia per la sicurezza nucleare e concedeva al governo sei mesi per individuare i siti dove costruire le nuove centrali. Siti che a tutt’oggi non sono ancora stati selezionati. Il 3 agosto del 2009 l’Enel, il gigante italiano dell’energia, ha concluso un ac­cordo con Électricité de France (Edf) per la creazione della joint venture Sviluppo Nu­cleare Italia. Il compito della società è studiare la possibilità di costruire almeno quattro reattori usando un progetto dell’azienda francese Areva, la più importante del mondo in questo settore. Questi oligarchi dell’energia, con l’alto patronato di Berlusconi, stanno facendo il possibile per proteggere l’investimento multimiliar­dario in un futuro nucleare.

Suicidio politico

In quest’ottica si spiega la decisione del go­verno di rinviare di un anno tutte le discussioni sulla ricerca e la selezione dei siti de­stinati alle nuove centrali in Italia. Una mossa che ha suscitato immediatamente lo scetticismo del movimento antinucleare e dei partiti d’opposizione, ed è stata inter­pretata da molti come un goffo tentativo di bloccare il referendum di giugno. Il 26 apri­le del 2011, nel giorno del venticinquesimo anniversario dell’incidente di Cernobyl, Berlusconi ha tenuto una conferenza stam­pa a Roma insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. In quell’occasione il pre­sidente del consiglio ha chiarito una volta per tutte le intenzioni del governo: “Siamo assolutamente convinti che l’energia nu­cleare sia il futuro per tutto il mondo”, ha detto. Berlusconi ha mostrato alcuni son­daggi recenti, secondo i quali, allo stato attuale, il referendum per bloccare il ritorno al nucleare potrebbe davvero passare. Il presidente del consiglio ha ammesso poi di aver deciso di sospendere temporanea­mente il programma nucleare per ritornare sull’argomento quando i cittadini italiani si saranno “calmati” e avranno compreso che le centrali nucleari sono la via più sicu­ra e praticabile per produrre energia.

Il Ca­valiere ha inoltre accusato “la sinistra e gli ecologisti” di aver manipolato le emozioni degli elettori dopo Cernobyl e di aver pe­nalizzato i cittadini italiani, che sono costretti a pagare bollette della luce più care rispetto ai francesi, che dispongono di 58 reattori. Berlusconi si è poi detto convinto che “la situazione in Giappone abbia spa­ventato gli italiani”, e ha concluso garantendo che “l’inevitabile ritorno dell’Italia all’energia atomica” non sarà ac­cantonato, e che la collaborazio­ne tra Enel ed Edf andrà avanti. Sostenere il nucleare proprio quando la Germania e il Giappo­ne annunciano la sospensione dei loro programmi e l’abbandono dei pro­getti di costruzione di nuovi reattori, po­trebbe sembrare un suicidio politico. Ma non in Italia, almeno fino a quando Berlu­sconi sarà al potere.

Il Cavaliere controlla ormai tutte le principali reti televisive.
Questo fa sì che informare i cittadini sul voto del 12 e 13 giugno sia molto complicato, anche perché la longa manus della censura si sta facendo sentire. Al concerto del primo maggio, organizzato ogni anno a Roma dalle principali organizzazioni sin­dacali e trasmesso dalla Rai, agli artisti è stato chiesto di firmare una liberatoria con cui, tra le altre cose, accettavano di non parlare dei referendum, pena una multa di migliaia di euro.

Per ora il referendum per bloccare l’energia nucleare è ancora in programma.
Solo la corte di cassazione, con una senten­za dell’ultimo minuto, potrebbe decidere di cancellarlo. È quello che spera il gover­no, conidando nell’efetto della cosiddetta moratoria nucleare. Oltre a quello sull’e­nergia, il 12 e 13 giugno si terranno altri tre referendum: due per annullare il tentativo del governo Berlusconi di privatizzare le risorse idriche, l’altro per abrogare il cosid­detto legittimo impedimento, una norma approvata dalla maggioranza per proteg­gere Berlusconi dai processi a suo carico.
Per ognuno dei quesiti i promotori hanno dovuto raccogliere 500mila firme, e i referendum saranno validi solo se andrà a vo­tare il 50 per cento più uno degli aventi di­ritto. Negli ultimi dieci anni nessun refe­rendum ha raggiunto il quorum.

La battaglia dell’acqua

Secondo alcuni il governo Berlusconi avrebbe intenzione di bloccare anche la consultazione sull’acqua pubblica. Si spie­gherebbe in quest’ottica la decisione di creare una nuova authority per l’acqua. Per chi è impegnato e politicamente attivo sembra evidente che il governo Berlusconi sta tentando in ogni modo di bloccare il processo democratico. Ma la maggior par­te dei cittadini riceve informazioni solo attraverso l’impero di reti televisive pub­bliche e private sotto il controllo del Cavaliere, e rimane all’oscuro di tutto.

Le noti­zie sui referendum vengono tra­smesse quasi solo a notte fonda o all’alba. Per pubblicizzare i refe­rendum molti cittadini sono sce­si in strada distribuendo volanti­ni, ricorrendo ai social network e ad azioni creative e dirette per difondere le notizie e portare le persone alle urne. Il 9 maggio alcuni attivisti di Greenpeace han­no srotolato un grosso striscione dal balco­ne che Benito Mussolini usava per i suoi discorsi, a Palazzo Venezia a Roma. Sullo striscione c’è una caricatura di Berlusconi accompagnata dalla frase “Italiani, il vostro futuro lo decido io”, e da un invito ai cittadini ad andare a votare il referendum sul nucleare.

Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, ha riassunto così la situazione: “I referendum si faranno anche se i ladri di democrazia sono tornati in azione. Il governo non riuscirà a rubare il diritto degli italiani di esprimersi demo­craticamente contro il nucleare e la priva­tizzazione dell’acqua”.

Il 12 e 13 giugno il popolo italiano avrà l’opportunità di cambiare il corso del proprio futuro votando sì per dire no all’ener­gia nucleare e alla privatizzazione dell’ac­qua.

mercoledì 4 maggio 2011

Geronimo EKIA (enemy killed in action). Lo stupro del diritto internazionale

peacereporter.net
Angelo Miotto

Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - senza rispetto del diritto. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione. Intervista a Danilo Zolo

Due dozzine di rambo statunitensi su due elicotteri in territorio sovrano pachistano, un blitz con armi da fuoco, un cadavere fantasma, una cerimonia su una portaerei con sepoltura in mare. In un copione da effetti speciali, raccontato come un'avvincente saga hollywoodiana, si è sancita la definitiva morte del diritto internazionale. Un insieme di regole ragionate, studiate e condivise nel corso di decenni, fredde e razionali proprio per dirimere contenziosi infuocati che vivono di tensioni drammatiche. Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - umiliando il diritto condiviso. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione.

Danilo Zolo è professore di filosofia del diritto e di filosofia del diritto internazionale a Firenze. A PeaceReporter racconta lo sdegno per le regole infrante in una comunità internazionale incapace di rispondere alle nuove sfide della guerra asimmetrica e della propagandata 'guerra al terrorismo' che ha caratterizzato fine e inizio di due secoli.

Professore, un blitz illegale dal punto di vista del diritto internazionale? Spogliamoci dell'emotività della notizia: abbiamo assistito al fulcro dello sfascio delle regole condivise (almeno sui trattati)?

Siamo in presenza di uno stravolgimento radicale del diritto internazionale, che è divenuto risibile per come viene applicato dalla comunità internazionale. È chiaro che gli Stati Uniti usano le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza come una copertura. Aggrediscono, usano armi potentissime, fanno stragi di decine e centinaia di migliaia di persone come in Iraq e poi ottengono dal Consiglio di sicurezza una accettazione di fatto della realtà. L'Onu serve a questo, a giustificare post factum crimini gravissimi. Ci sono tre crimini in atto, a carico di Obama: la guerra in Afghanistan, che continua con strage di innocenti senza nessuna fondazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite. La guerra contro la Libia, altra violazione della Carta Onu che al comma sette articolo 2 vieta qualsiasi intervento all'interno di tensioni di carattere di guerra civile di altro stato. E ora siamo in presenza di un'altra gravissima violazione, perché un gruppo di militari altamente specializzati sono stati incaricati di fare strage e di assassinare una persona in uno Stato terzo, il Pakistan. Una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto alla vita delle persone non motivata da motivi particolari. Perché che quella persona fosse bin Laden non è sicuro e d'altra parte la cerimonia di cui si parla su portaerei e poi la scomparsa in mare del cadavere dell'ucciso sono procedure vergognose sul piano del diritto e dell'esistenza delle persone.

Siamo di fronte alla necessità di riformare il diritto internazionale?

Riformare il diritto internazionale significherebbe riformare le Nazioni unite, cambiare la Carta dell'Onu. Mentre si parla di un diritto internazionale consuetudinario, ma è una chiacchiera a vuoto perché non viene rispettato. Una riforma significherebbe chiedere agli Usa di rinunciare ai propri privilegi. Il Consiglio di sicurezza, che è l'unico organo che può usare la forza nelle situazioni estreme, è dominato da cinque membri permanenti e questa la dice lunga su come sia democratico. L'assemblea non ha alcun potere decisionale. La mia opinione è che non ci sarà nessuna riforma delle istituzioni internazionali, e quindi del diritto, se non ci sarà il cambiamento profondo nei rapporti di forza economici, militari e nucleari con le potenze come Russia, India, Cina, Brasile e anche il Sudafrica. Se queste forze riescono a stabilire dei rapporti internazionali che li liberino dal dominio degli Usa. Altrimenti, nessuna riforma.

Il concetto di guerra simmetrica complica il quadro.

Le guerre scatenate dagli Usa dal 1991 contro l'Iraq sono guerre in cui c'è una asimmetria nella potenza militare e una asimmetria profonda nelle conseguenze delle guerre: le perdite militari occidentali sono risibili, mentre le strage di militari iracheni, degli afgani si contano a migliaia, con persone innocenti. Vittime della guerra o per le conseguenze di essa.

La tanto sbandierata democrazia occidentale, secondo lei, ieri con il blitz e certe rappresentazioni di giubilo che segnale ha dato di sé stessa? C'è voluto il Vaticano per richiamare alla compostezza di fronte alla morte.

È singolare che lo abbia detto il Vaticano, che questi ultimi anni non si è particolarmente schierato con la pace. Il pontefice ha spento le candeline festeggiando con Bush e facendo una dichiarazione di entusiasmo nei confronti dei comportamenti degli Usa. Meglio che lasciamo perdere questo aspetto.

Per quanto riguarda l'Occidente da oltre venti anni scatena guerre di aggressione nei confronti di una serie di stati collocati in Medio Oriente, e sono tutte guerre che violano il diritto internazionale. Stessa situazione anche nei Balcani: ricordiamo la guerra del 1999 contro la Serbia, di fatto con la motivazione falsa di carattere umanitario che ha portato alla strage di alcune migliaia di serbi e ha avuto un solo risultato umanitario; in Kosovo oggi vicino a Urosevac ci sono 7000 soldati nordamericani, armatissimi e con ordigni nucleari. L'Occidente non può avere una qualifica onoraria nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è in declino perché è una ideologia occidentale completamente falsificata dai comportamenti di fatto.


martedì 3 maggio 2011

La rapina del secolo: l’assalto dei «volenterosi» ai fondi sovrani libici

Manlio Dinucci

Il Manifesto

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

Zoom Foto

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.
In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.
L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

domenica 1 maggio 2011

Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi


Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi

Di
Andrea Pili (esponente di SdeL-SNI)

Il 28 aprile 1794 il popolo sardo di Cagliari si rese conto, per la prima volta, che i suoi interessi erano in contrasto con quelli dei piemontesi, dominatori e invasori. Perciò in tale data ci fu il culmine di quella “emozione popolare” che, dal tentativo d'occupazione francese nel 1793, aveva persuaso non pochi sardi di poter finalmente ottenere incarichi dirigenziali fino ad allora riservati soltanto ai continentali. Tuttavia, da questo momento in poi iniziò ad essere chiaro che anche gli interessi dei sardi non erano tutti concilianti: Gerolamo Pitzolo- che pure era un comandante delle milizie sarde opposte ai francesi- e Paliaccio, Marchese della Planargia, dopo avere ottenuto dal sovrano sabaudo gli importanti incarichi di- rispettivamente- intendente generale e di generale delle armi, divennero i principali avversari del movimento riformatore sardo. Infatti, essi incarnavano il pensiero della sparuta nobiltà feudale autoctona e della borghesia cittadina retrograda; tali componenti non volevano andare oltre le cinque richieste stamentarie del '93 ed erano impaurite da altri possibili sviluppi.

Il movimento riformatore però fu presto capace di avere il controllo degli Stamenti e del nuovo vicere Vivalda, il quale era un inetto. L'intento dei riformisti oscillava dalla richiesta di una maggiore autonomia da Torino fino all'abolizione del regime feudale. Quest'ultima fu la principale aspirazione di Giovanni Maria Angioy il quale, pur estraneo agli eventi del 28 aprile, grazie alla sua importante posizione di magistrato della Reale Udienza divenne il vero capo della tendenza innovatrice. Purtroppo anche all'interno di questa le aspettative non erano comuni. Due eventi del 1795 portarono alla rottura del riformismo cagliaritano: il linciaggio di Pitzolo e del marchese della Planargia; la spedizione di Mundula e Cilocco a Sassari per sedare il tentativo di secessione del Capo di Sopra. Cosa significarono questi due fatti? Il progresso ingresso delle masse popolari- anche quelle delle campagne, finora escluse- nel processo rivoluzionario sardo; erano stati tanti gli oppressi dal feudalesimo che si associarono a Cilocco ( si parla addirittura di 13000 persone) radunate da banditori inneggianti alla rivolta contro il regime feudale. Questa marcia su Sassari del '95 fu il primo vero incontro tra il movimento riformista di Cagliari e le rivolte popolari antifeudali, frequenti ma sempre rimaste ignorate dagli Stamenti. Dalla fine del 1795 divenne chiara l'esistenza di riformisti interessati soltanto ad ottenere quei privilegi da cui erano stati esclusi (Pintor, Musso, Cabras, Sisternes) e di uomini che ormai apparvero come autentici rivoluzionari (Angioy, Mundula, Cilocco) influenzati dalle idee illuministe ed accomunati dalla volontà di portare il popolo sardo nella modernità. Così i cosiddetti moderati premettero su Vivalda per allontanare Angioy, dando a lui l'incarico di alternos a Sassari, pensando in tal modo di uccidere le velleità rivoluzionarie.

Nel 1796 Angioy a Sassari proseguì la sua battaglia rivoluzionaria, incoraggiando federazioni tra le ville contro il pagamento dei tributi feudali. Quando il vicere tentò di stroncare la sua azione, l'alternos decise di marciare su Cagliari con intenzioni ancora non chiarite definitivamente, ma di certo per imporre la fine del regime feudale. Purtroppo finì male, il bonese fu costretto alla fuga e dal 1796 al 1802 si alternarono repressioni violente a deboli tentativi insurrezionali fino a quello- per cui trovarono la morte Sanna Corda e Cilocco- più chiaramente repubblicano e indipendentista.

Gli indipendentisti del 2011 devono essere i prosecutori dei rivoluzionari di fine XVIII secolo; questo vuol dire che dobbiamo legare la volontà di indipendenza dall'Italia ad un progetto politico rivoluzionario tale da allontanare quei sardi che si avvicinerebbero alle nostre istanze nazionaliste solo per ricavarne dei vantaggi. Se i rivoluzionari di due secoli fa guardavano alla Repubblica Francese ed alle idee dell'illuminismo, noi dobbiamo invece guardare a quella parte del mondo che sta lottando con successo contro il neoliberismo in favore di una democrazia sociale e identitaria.

L'indipendentismo non deve commettere più l'errore del primo Angioy: credere che basti appartenere a questa terra per avere a cuore le istanze del popolo sardo. Per fare irrompere la Nazione Sarda nella storia occorre invece: allontanarsi chiaramente dai sardi pescecani alla Zuncheddu o alla Cualbu; denunciare l'autonomismo alla Mauro Pili (e i suoi Unidos) o alla Renato Soru, che non vuole rompere le catene con lo stato italiano ed i suoi partiti; distaccarsi dalla fazione retrograda e collaborazionista della Chiesa; puntare chiaramente all'edificazione di una democrazia sociale e partecipativa che punti all'acquisizione progressiva del potere sull'economia da parte dei cittadini, contro il neoliberismo nemico e falsificatore della democrazia.

A differenza dell'alternos e dei suoi compagni abbiamo qualcosa in più: maggiore consapevolezza storica. Infatti la storia della Nazione Sarda è la base principale per la nostra nuova democrazia, dal comunitarismo nuragico a quello giudicale abbiamo la sensazione di un percorso storico interrotto dall'imperialismo e a cui dobbiamo riagganciarci. Non mere battaglie identitarie ma rivoluzione nazionale e sociale del XXI secolo.

INDIPENDENTZIA!!!!

mercoledì 27 aprile 2011

Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 28 aprile 2011


Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…

Un murales che ricorda ''Sa die de sa Sardigna''

L’incontro di Seneghe, lo scorso 25 marzo, ha compiuto il percorso storico e logico che ci ha condotto dalla ricorrenza del 150° dell’Italia a sa die de sa Sardigna. Ha avuto inizio un confronto che si è posto quale punto di partenza per una riscossa culturale e sociale, capace di elaborare strategie di mutamento. Un cambiamento che deriva da studi, da dibattiti, da una messa a fuoco dei problemi della Sardegna, per proporre indirizzi, per alimentare una partecipazione, per unire forze disperse che nella disunione non portano a progetti di crescita. C’è bisogno di promuovere una presenza combattiva e maggiormente consapevole del proprio ruolo nel contesto attuale.

La crisi sarda è innanzitutto una crisi culturale e di forza progettuale, un ritardo nel cogliere i tempi giusti per la crescita, i modi, i tempi, i luoghi più pertinenti. Senza saperi, conoscenze, progetti, il tempo ci coglie sempre impreparati: altri sono padroni del nostro tempo.
Ci siamo lasciati ragionando di Sardegna e di unità d’Italia per incamminarci verso sa die de sa Sardigna offrendo a noi stessi, e ad altri che desiderassero avviarsi con noi nel cammino, dei nuovi appuntamenti.

Non sapevamo che il Consiglio regionale non avrebbe fatto memoria di sa die, seppure il disinteresse era già chiaro nel silenzio dei programmi e nella modestissima entità delle risorse previste. Tale insensibilità ci rattrista e offende, ma non ci stupisce. Sappiamo che fa male, a chi si pone nella subalternità, proporgli la memoria del dovere e del diritto alla libertà. Ma qui siamo di fronte all’abbandono dell’unica e più importante festa del Popolo sardo!

Con le 5 domande rivolte al re nel 1793 è iniziata la fase vertenziale della Sardegna moderna e con essa la rivoluzione della nostra contemporaneità. Tante cose ci dicono però che quella fase necessita di un’evoluzione veloce. La vertenzialità da sola è al tramonto perché rimanda ogni responsabilità all’esterno di noi. Ogni giorno le strade e le piazze della Sardegna vedono un popolo che protesta, ma le risposte restano sempre lontane, non arrivano o giungono solo nella forma utile agli interessi di altri. Così rischiamo di sprecare le dure e costose battaglie della nostra gente, mentre la frustrazione per le risposte non ricevute potrebbe presto portare allo scoramento e alla definitiva rinuncia.

Il destino della Sardegna è più che mai nelle mani dei sardi. E quindi, alimentando la consapevolezza dell’urgere di scelte importanti che proseguano l’antica aspirazione alla sovranità contenuta anche nelle “cinque domande”, a noi si dà la possibilità e l’obbligo di chiederci quali siano le domande che oggi dobbiamo porre a noi stessi per trovare le giuste risposte: al livello istituzionale, sociale, economico, culturale, politico. Come nel triennio rivoluzionario (1793 – 1796), ma apprendendo le lezioni della storia. Queste possono essere le nostre cinque domande dell’oggi, 28 aprile 2011.

1). E’ del tutto evidente la debolezza istituzionale e politica delle rappresentanze della Sardegna. Le cause non sono solamente da ricondurre ai limiti dello Statuto ma anche all’incapacità di affermare i propri diritti istituzionali. Nella prospettiva immediata non si intravvede come le forze politiche sarde possano mutare questo quadro desolante: non c’è un progetto condiviso e fermo di Statuto che risponda alle esigenze dei sardi, resta ancora tutta da costruire una forza contrattuale per sostenerlo nell’ambito del Governo e del Parlamento, l’esclusione dal Parlamento europeo è già essa stessa manifestazione ed effetto di tale debolezza. I sardi hanno perduto quella primogenitura federalista che i loro migliori uomini avevano difeso lungo tutto il Novecento, dopo che le stesse proposte erano state sconfitte nell’Ottocento a seguito della ‘fusione perfetta’ e dei modi con cui si concretizzò la formazione dello Stato italiano. Questa proposta si chiama ‘federalismo’. Quello che poche e inascoltate voci richiamano negli ultimi decenni a partire dalla grande crisi della fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Quello stesso federalismo che, riproposto oggi dalle regioni settentrionali, sembra configurarsi, invece che come una forma di condivisione della sovranità, come una forma di neocentralismo che rischia di rendere ancora più dura la dipendenza della Sardegna.

Quale la risposta a questa situazione? Dobbiamo forse prendere atto che l’impossibilità di esso a causa degli interessi settentrionali, e il sistematico boicottaggio dello Stato all’affermazione del nostro diritto alla sovranità e alla presenza in Europa, ci lasci quale unica alternativa la debacle di una nuova ‘perfetta fusione’? L’unica atto da compiere a breve non è forse quella della volontà e dell’iniziativa popolare nella forma dell’Assemblea Costituente?

2). Circa la questione sociale non mancano certamente le lotte, gli scioperi, i viaggi della protesta a Roma né le manifestazioni sindacali a Cagliari. Il fatto è che questa protesta e le risposte politiche regionali e nazionali non si misurano con obiettivi precisi di sviluppo, si vive nel contingente senza un piano preciso e dunque senza risultati, anche parziali, concreti.
Cresce nei comuni dell’interno la consapevolezza del proprio spopolamento ma tanti segnali ci manifestano i messaggi della non rassegnazione. E’ fondamentale la protesta cosciente e organizzata dei giovani come dispositivo di pressione e di orientamento politico.

Un piano B per le zone industriali deserte (Isili, Ottana tra le prime, quindi Porto Vesme e Porto Torres) e la bonifica integrale delle zone industriali, non rappresentano, oramai degli atti dovuti e delle scelte indilazionabili? Cosa ci proponiamo per il futuro dei piccoli comuni? Quale azione per verificare il significato e gli effetti dell’abnorme crescita di Cagliari e di Olbia, con la nuova spinta alla conurbazione delle coste, con lo spopolamento dei comuni dell’interno? Quale proposta per un futuro occupativo dei giovani dei paesi e delle città?

3). Le risorse locali – territoriali a vantaggio dei sardi. C’è l’urgenza di un protagonismo economico che ponga le risorse territoriali al centro della crescita: ambiente, turismo, agro-alimentazione, pastorizia, agricoltura, piccola industria, artigianato. E’ proprio il prodotto identitario che trova sbocco nel mercato mondiale.
L’eolico e il fotovoltaico sono in mano alle imprese multinazionali: alla Sardegna il degrado ambientale, i capitali a favore degli sfruttatori. Con la questione della Tirrenia permane e si aggrava la dipendenza nei trasporti.
Ma ciò che è più grave è la povertà delle risorse culturali: ultimi in Italia per livello di studio, con una grave dispersione scolastica e la crisi della scuola e dell’università.
E’ una debolezza che ci condanna sia nel campo di un moderno investimento delle risorse locali, sia per quanto riguarda gli investimenti tecnologici di imprese esterne. In questa prospettiva di crescita può darsi una risposta alla sfiducia dei giovani che non vedono orizzonti possibili e si adagiano in una condizione passiva.
Non è ormai urgente un confronto serio e propositivo che coinvolga le varie forze produttive, per dare loro uno spazio di parola e di progettualità, per formare soggettività che credono nel proprio ruolo? Non dovremmo rivalutare a fondo tutti coloro che, con il lavoro delle braccia e della mente, producono beni e ricchezza?

4). Mai come oggi nella realtà sarda è fondamentale il ruolo degli intellettuali. E’ necessaria una produzione culturale che riguardi l’economia e tutte le scienze umane e tecnologiche, riaffermando con fermezza l’importanza della lingua sarda nel processo della crescita. Una produzione culturale come produzione di senso, come informazione e formazione pubblica per una presa di coscienza. Produzione culturale come produzione materiale: scrittura, film, tv, teatro, musica, arti visive, che facciano da fermento per una presenza combattiva dell’opinione pubblica.
Oggi ogni produzione culturale è necessariamente produzione materiale e sociale, e viceversa.
Ogni prodotto materiale è un prodotto culturale: l’artigiano è un produttore di cultura materiale e simbolica. Si producono segni non oggetti, messaggi, non solo merce! Perciò la mobilitazione deve investire tutte le diverse attività produttive.
Non si impone forse un nuovo legame tra l’intellettualità delle città e quelle dei paesi, tra gli esperti dell’accademia e della scuola e le diffuse competenze, che riproponga il senso e il segno di un comune destino in questa Isola, con queste risorse umane ed economiche, con i doni della natura e quelli della nostra umanità? Non è forse giunto il tempo di fare il punto sul complessivo stato della cultura in Sardegna?


5). Noi tutti tocchiamo ogni giorno con mano i limiti della politica sarda, vediamo chiaramente che la Sardegna è abbandonata dallo Stato e mal governata. Ciò è dovuto alla modesta incidenza dei parlamentari sardi nel Governo e nel Parlamento italiano, nonché alla scarsa autorevolezza, anche personale, degli uomini politici sardi, sia nell’ambito dei diversi partiti, sia nei giuochi di potere. Per non parlare della debolezza politica della Giunta e del Consiglio regionale rispetto alle decisioni economiche e finanziarie del Governo centrale. Le responsabilità di questa situazione sono tante e vengono anche da lontano. Ma non ci interessa ora soffermarci sulle mancanze dei protagonisti della politica. Siamo pronti a riconoscere dei limiti al nostro non sufficiente operare. I discorsi che al momento ci appaiono pressanti sono i programmi e le azioni capaci di portarci al di là della presente situazione.
Potremmo porre ai Consiglieri regionali una domanda sul senso e le modalità del loro ruolo nella più importante istituzione della Sardegna. Dovremmo anche noi interrogarci se, in assenza della necessaria assunzione di impegno, non sia urgente un’azione che provenga dalla società, dalla cultura, dalle forze economiche e dagli enti locali per assumersi anche le responsabilità dolorose che una verificata insufficienza e latitanza delle rappresentanze istituzionali comporta.

Chiunque sia in grado di provare queste esigenze e di mettersi con noi in cammino sulla strada delle possibili soluzioni è un nostro compagno di viaggio. Ci incontreremo di nuovo a Seneghe, nella Casa Aragonese, sabato 21 maggio 2011, a partire dalle ore 9,30.



Sa die de sa Sardigna 2011

COMUNICATO STAMPA

Presso la Casa Aragonese del comune di Seneghe si svolgerà, sabato 21 maggio, un incontro e un dibattito sui temi più urgenti della Sardegna. Esso si pone in continuità con l’incontro del 25 marzo scorso, svolto anch’esso a Seneghe, che è stato ricco di elaborazioni storiche e di interferenze tra la ricorrenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e le questioni poste da sa Die de sa Sardigna. E’ nata così l'esigenza di proseguire la riflessione e di orientarla verso i temi più urgenti della realtà sarda nella prospettiva di approfondire l'analisi e di rinforzare sia la speranza progettuale e sia le proposte programmatiche.
In riferimento alla festa dei Sardi del 28 aprile, si è pensato di formulare cinque domande in analogia con le cinque domande rivolte al re nel 1793 che ha iniziato, per così dire, la fase vertenziale della Sardegna moderna.
Sono cinque domande che investono l'aspetto istituzionale, sociale, economico e culturale per come le questioni si presentano nell'attuale momento storico con i propri caratteri di urgenza.
Questione istituzionale che ci interroga sull'elaborazione dello statuto sardo e sulla forza contrattuale con lo Stato.
Questione sociale che pone il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile, lo spopolamento dei piccoli comuni dell'interno, la drammaticità della crisi industriale.
Una domanda fondamentale riguarda il modello di sviluppo: valorizzazione delle risorse locali, calcolato investimento nell’eolico e nel solare a beneficio dei sardi, questione dei trasporti che condiziona anche lo sviluppo turistico.
Come interrogarsi sul ruolo degli intellettuali come impegno sociale e come produzione culturale che investa l'economia e l'innovazione tecnologica delle forme produttive? E quale ruolo esercitano essi nella formazione dell'opinione pubblica e nella riformulazione radicale della scuola sarda?
La domanda conclusiva ci interroga tutti gli sulla qualità della politica sarda e sulla incidenza dei politici sardi nei confronti dello Stato a difesa degli interessi della Sardegna.
Queste sono le questioni che saranno introdotte da studi specifici e arricchite da molteplici contributi e da liberi interventi.
I sottoscritti si danno appuntamento a Seneghe, presso la Casa Aragonese del Comune, sabato 21 maggio 2011, alle ore 9,30. I cittadini sono invitati a ragionare e discutere con noi, in continuità con Sa die de sa Sardigna.

Firma: Bachisio Bandinu (antropologo, giornalista), Antonio Buluggiu (insegnante), Luciano Carta (storico, dirigente scolastico), Vittoria Casu (docente universitario, già consigliere regionale), Placido Cherchi (antropologo) , Alberto Contu (storico), Gianfranco Contu (storico) , Mario Cubeddu (storico, insegnante), Salvatore Cubeddu (sociologo), Giuseppe Doneddu (storico, docente universitario), Federico Francioni (storico, insegnante), Gianni Loy (docente universitario), Piero Marcialis (attore, insegnante), Piero Marras (cantautore,già consigliere regionale), Luciano Marrocu (storico, docente universitario), Alberto Merler (sociologo, docente universitario), Nicolò Migheli (sociologo), Maria Antonietta Mongiu (archeologo, insegnante, già assessore regionale), Giorgio Murgia (già consigliere regionale), Michela Murgia (scrittrice, insegnante), Paolo Mugoni (insegnante), Maria Lucia Piga (sociologo, docente universitario), Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore), Paolo Pillonca (giornalista, scrittore), Mario Puddu (insegnante, scrittore), Vindice Ribichesu (giornalista), Andrea Vargiu (docente universitario).

giovedì 21 aprile 2011

Minamisoma, la città simbolo della catastrofe

Colpita dal terremoto e dallo
tsunami l’11 marzo, oggi la città
costiera del Tohoku è
minacciata dalla crisi nucleare.
Intanto sulla Tepco piovono le
richieste di risarcimento
Justin McCurry
Global Post



Se c’è un posto che riassume la portata della tragedia che si è abbattuta sul Giappone quello è Minamisoma. Nel terremoto e nello tsunami dell’11 marzo questa città costiera nella prefettura di Fukushima ha perso 1.470 abitanti, e cinque settimane dopo la popolazione rimasta vive in un limbo nucleare. Una parte della città si trova infatti nella zona compresa entro i 20 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, dichiarata proibita. Nel giro di pochi giorni dall’inizio della crisi nucleare, i 70mila abitanti di Minamisoma erano diventati diecimila, trasferiti con degli autobus nei centri di accoglienza a centinaia di chilometri di distanza.

Oggi, anche se alcuni ritornano, Minamisoma è di fatto una città fantasma. L’11 aprile, l’estensione dell’area di evacuazione ad alcune zone a 40 chilometri dalla centrale ha aggravato la situazione di una comunità già tormentata. Per completare il nuovo ordine di evacuazione, che interessa decine di migliaia di persone, ci vorrà un mese. Nel frattempo il lusso degli abitanti che avevano cominciato a tornare a casa,incoraggiati dalla diminuzione della radioattività, potrebbe fermarsi.

Nonostante le rassicurazioni delle autorità circa i livelli delle radiazioni, il premier Naoto Kan ha ammesso di non sapere quando sarà possibile revocare l’allarme in posti come Minamisoma e, tramite il suo portavoce, ha ammesso che chi abitava vicino all’impianto non potrà tornare a casa prima di dieci o vent’anni. Kan ha poi ritrattato, ma ormai il danno era fatto. “È scandaloso”, ha commentato Michio Furukawa, sindaco di Kawamata, prefettura di Fukushima. “Ha idea dei sacriici che stiamo facendo?”.

Indennizzi in tempi rapidi
La decisione di estendere la zona di evacuazione è stata resa nota lo stesso giorno
in cui le autorità hanno alzato la gravità dell’incidente di Fukushima al livello 7, al pari di Cernobyl. La contaminazione causata dalla centrale giapponese è solo un decimo di quella sprigionata dal reattore sovietico, ma l’iniziale fuga radioattiva e i timori per la salute dei residenti delle zone circostanti hanno lasciato poca scelta al governo, che ha dichiarato quella di Fukushima Daiichi una “catastrofe grave”.

Una decisione che ha fatto aumentare le pressioni sulla Tokyo electric power company (Tepco) in merito ai risarcimenti. Circa 48mila famiglie nel raggio di 30 chilometri dalla centrale hanno i requisiti per ricevere un indennizzo provvisorio, pari a un milione di yen (circa 8.300 euro) per le famiglie e a 750mila yen per le persone che vivono da sole. Il totale ammonta a cinquanta miliardi di yen, senza però contare le richieste che arriveranno da agricoltori e pescatori della zona.

Anche la federazione delle cooperative agricole giapponesi, infatti, ha chiesto un
risarcimento immediato per i danni derivati dal divieto di vendita di alcuni prodotti e per la disinformazione sulla frutta e la verdura della regione, ingiustamente ritenute pericolose. “È inaccettabile”, ha dichiarato la federazione. “Nelle zone colpite è in pericolo la base stessa dell’agricoltura, con conseguenze disastrose per i coltivatori”.


Da sapere
Il 17 aprile la Tokyo elecrtic power company
(Tepco), che gestisce la centrale di Fukushima,
ha presentato un piano per risolvere la crisi
nucleare nel giro di nove mesi. In una prima
fase si cercherà di rafreddare i reattori,
portando la temperatura sotto i 100 gradi
centigradi, per poi ridurre la quantità del
materiale radioattivo nella seconda fase.

La Tepco ha precisato che non è del tutto sicura
che l’operazione avrà successo.
Il 20 aprile il governo giapponese ha preso in
considerazione la possibilità di rafforzare il
controllo delle zone contaminate rendendo
obbligatoria l’evacuazione e impedendo
tassativamente l’ingresso ai residenti sfollati e
ai giornalisti.

Otto proposte urgenti per un’altra Europa

Éric Toussaint
cadtm.org/
Tradotto da Curzio Bettio

Il CADTM, il Comitato per l’Annullamento del Debito del Terzo Mondo, fondato in Belgio il 15 marzo 1990, è una organizzazione internazionale costituita da membri e comitati locali con sede in Europa, Africa, America Latina e Asia. Agisce in coordinazione con altre organizzazioni e movimenti che lottano per il medesimo obiettivo ( “Jubilé Sud” e altre campagne operanti per l’annullamento del debito e l’abbandono delle politiche di aggiustamenti strutturali). Il suo impegno principale: l’elaborazione di alternative radicali miranti al soddisfacimento universale di bisogni, di libertà e dei diritti umani fondamentali.

La crisi scuote l’Unione Europea fino alle sue fondamenta. Per diversi paesi, il nodo scorsoio del debito pubblico li ha costretti e sono stati afferrati alla gola dai mercati finanziari.
Con la complicità attiva dei governi in carica, della Commissione europea, della Banca Centrale europea e del Fondo Monetario Internazionale, le istituzioni finanziarie all’origine della crisi si stanno arricchendo e speculano sui debiti dello Stato.

Il padronato approfitta della situazione per lanciare un’offensiva brutale contro tutta una serie di diritti economici e sociali della maggioranza della popolazione.
La riduzione dei disavanzi pubblici deve essere necessariamente attuata, però non riducendo la spesa pubblica sociale, ma attraverso maggiori entrate fiscali, combattendo la grande evasione fiscale e tassando maggiormente i capitali, le transizioni finanziarie, i patrimoni e le rendite dei grandi benestanti.

Inoltre, per ridurre il déficit, bisogna ridurre radicalmente le spese per gli armamenti, e tutte quelle altre spese socialmente inutili e pericolose per l’ambiente. Nel contempo, è indispensabile aumentare la spesa sociale, in particolare per compensare gli effetti della depressione economica. Ma al di là di tutto ciò, bisogna considerare questa crisi come una possibilità di rompere con la logica capitalista e di realizzare un cambiamento radicale della società.
La nuova logica da costruire deve rompere con il produttivismo, incorporare la distribuzione di servizi ecologici, sradicare le differenti forme di oppressione (razziale, patriarcale, ecc.) e promuovere i beni comuni.
Per questo, bisogna costruire un fronte anticrisi, tanto su scala europea che locale, in modo da riunire le energie per creare un rapporto di forza favorevole alla messa in attuazione di soluzioni radicali centrate sulla giustizia sociale e ambientale.
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Nell’agosto 2010, il CADTM ha formulato otto proposte rispetto all’attuale crisi in Europa[1].

L’elemento centrale resta la necessità di procedere all’annullamento della parte illegittima del debito pubblico. Per pervenire a questo, il CADTM raccomanda la realizzazione di una revisione del debito pubblico da effettuarsi sotto il controllo dei cittadini.
Questa revisione, in particolari circostanze, dovrà combinarsi con una sospensione unilaterale e sovrana del rimborso del debito pubblico. L’obiettivo della revisione è quello di giungere ad un annullamento/ripudio della parte illegittima del debito pubblico e ad una forte riduzione della parte residua del debito.
La riduzione radicale del debito pubblico è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per fare uscire dalla crisi i paesi dell’Unione Europea. Bisogna completare la manovra attraverso tutta una serie di misure di varie dimensioni nei diversi settori.

Realizzare una revisione del debito pubblico al fine di annullarne la parte illegittima

Una parte importante del debito pubblico degli Stati dell’Unione Europea è illegittima, in quanto risultato di politiche deliberate da governi che hanno deciso di privilegiare sistematicamente una classe sociale, la classe dei capitalisti e degli altri strati favoriti, a detrimento del resto della società. La diminuzione delle imposte sui redditi alti delle persone fisiche, sui loro patrimoni, sugli introiti delle società private ha indotto i poteri pubblici ad aumentare il debito pubblico per colmare il buco lasciato da questa riduzione fiscale.
Inoltre, i poteri pubblici hanno fortemente aumentato il carico delle imposte sui redditi delle famiglie più modeste, che costituiscono la maggioranza della popolazione.
A tutto ciò, dal 2007-2008, è andato a sommarsi il salvataggio delle istituzioni finanziarie private, responsabili dirette della crisi, che è costato molto caro alle finanze pubbliche e che ha fatto esplodere il debito pubblico.
L’abbassamento delle entrate provocato dalla crisi causata dalle istituzioni finanziarie private ha dovuto essere ancora una volta compensato da massicci prestiti.
Questo quadro generale assegna chiaramente il marchio di illegittimità ad una parte importante dei debiti pubblici.

A questo si aggiungono altre fonti evidenti di illegittimità in un certo numero di paesi soggetti al ricatto dei mercati finanziari.
I nuovi debiti contratti a partire dal 2008 si sono prodotti in un contesto in cui i banchieri (e altre istituzioni finanziarie private) hanno utilizzato ed utilizzano il denaro fornito a bassi tassi di interesse dalle banche centrali per speculare, e costringere i poteri pubblici ad aumentare le rimunerazioni che a queste banche private i governi devono versare.
Di più, nei paesi come la Grecia, l’Ungheria, la Lettonia, la Romania o l’Irlanda, i prestiti accordati dal Fondo Monetario Internazionale sono stati accompagnati da condizioni che costituiscono una violazione dei diritti economici e sociali delle popolazioni. A peggiorare le cose, queste condizioni favoriscono una volta di più i banchieri e altri istituti finanziari.
Sono anche queste le ragioni che marchiano di illegittimità le condizioni imposte.
Infine, in alcuni casi, la volontà popolare viene schernita: per esempio, quando, nel febbraio 2011, gli Irlandesi hanno votato a larga maggioranza contro i partiti che avevano fatto dei regali ai banchieri e avevano accettato le condizioni imposte dalla Commissione europea e dal Fondo Monetario Internazionale, la nuova coalizione di governo ha perseguito grosso modo la medesima politica dei precedenti governanti.

Più generalmente, in alcuni paesi si assiste ad una marginalizzazione del potere legislativo a favore di una politica dei fatti compiuti imposta dal potere esecutivo, che sottoscrive accordi con la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale. Poi, il potere esecutivo presenta al Parlamento questi accordi che hanno la caratteristica del « prendere o lasciare ». Si arriva perfino a dibattiti senza votazione, organizzati su argomenti di primaria importanza. Si rafforza la tendenza del potere esecutivo di trasformare l’organo legislativo in un ufficio del Registro.
In questo contesto estremamente inquietante, con la consapevolezza che una serie di Stati, prima o poi, dovrà confrontarsi con il rischio concreto di insolvenza per mancanza di liquidità, e che il rimborso di un debito illegittimo è per principio inaccettabile, è opportuno pronunciarsi in modo chiaro per l’annullamento dei debiti illegittimi. Annullamento, i cui costi devono essere sostenuti dai responsabili della crisi, vale a dire dalle istituzioni finanziarie private.
Per paesi come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo o alcuni paesi dell’Europa dell’Est (e per paesi come l’Islanda, esterni all’Unione Europea), vale a dire per quesi paesi sottoposti al ricatto degli speculatori, del Fondo Monetario e di altri organismi come la Commissione europea, è opportuno ricorrere ad una moratoria unilaterale del rimborso del debito pubblico.
Questa proposta assume crescente popolarità nei paesi più toccati dalla crisi.

A Dublino, alla fine di novembre 2010, in una inchietsa di opinione realizzata per telefono su un campione di 500 persone, il 57% degli Irlandesi interrogati si è pronunciato a favore di una sospensione del pagamento del debito (default, in inglese), piuttosto che ricevere l’aiuto d’urgenza da parte del Fondo Monetario Internazionale e di Bruxelles.
«Default! say the people – Default ! afferma la gente » (la gente per la sospensione del pagamento), titolava il Sunday Independent, principale quotidiano dell’isola.
Secondo il CADTM, una moratoria unilaterale di questa natura deve combinarsi con la realizzazione di una revisione dei prestiti pubblici (con la partecipazione e sotto controllo dei cittadini).
La revisione deve permettere di fornire al governo e all’opinione pubblica le prove e gli argomenti necessari all’annullamento/ripudio della parte del debito identificato come illegittimo.
Il diritto internazionale e il diritto di ogni Stato offrono una base legale per una tale azione suprema unilaterale di annullamento/ripudio.

Per i paesi che ricorrono alla sospensione del pagamento, il CADTM, data l’esperienza maturata sulla questione del debito dei paesi del Sud del mondo, mette in guardia contro una misura insufficiente, come può essere la semplice sospensione del rimborso del debito, che può rivelarsi controproducente. È necessaria una moratoria senza l’aggiunta di interessi per il ritardo sulle somme non rimborsate.
In altri paesi come la Francia, la Gran-Bretagna o la Germania, non è necessariamente obbligatorio decretare una moratoria unilaterale durante la realizzazione della revisione.
Naturalmente, anche in questi casi la revisione deve essere condotta in modo da determinare l’entità dell’annullamento/ ripudio al quale si deve procedere.
In caso del deteriorarsi della congiuntura internazionale, può venire di attualità una sospensione del pagamento anche per quei paesi che si ritengono al riparo dai ricatti dei prestatori privati.
La partecipazione dei cittadini è l’imperativa condizione per garantire l’obiettività e la trasparenza della revisione.
Nello specifico, la commissione delegata alla revisione dovrà essere composta dai rappresentanti delle istituzioni dello Stato interessate, così come da esperti della revisione delle pubbliche finanze, da economisti, da giuristi, da costituzionalisti, dai rappresentanti dei movimenti sociali…

La commissione permetterà di determinare le diverse responsabilità nei processi di indebitamento e di esigere che i responsabili nazionali ed internazionali rendano conto alla giustizia.
In caso di atteggiamento ostile del governo in carica nei confronti della revisione, diventa necessario costituire una commissione di revisione civica senza partecipazione governativa.
In ogni caso, è legittimo che le istituzioni private e le persone fisiche con redditi elevati, che detengono titoli di questi debiti, sopportino il fardello della cancellazione dei debiti sovrani illegittimi, in quanto portano in modo largo la responsabilità della crisi, da cui per di più hanno tratto largamente profitto.

Il fatto che essi debbano sopportare l’onere della cancellazione è appena un giusto ritorno verso una maggiore giustizia sociale. È importante istituire un registro dei possessori di titoli in modo da potere indennizzare fra costoro i cittadini con redditi bassi e medi.
Se la revisione dimostra l’esistenza di reati connessi all’indebitamento illegittimo, gli autori di questi crimini dovranno essere severamente condannati a pagare riparazioni e non dovranno sfuggire alle pene della carcerazione, in proporzione alla gravità delle loro azioni. Bisogna chiedere conto nei tribunali a quelle autorità che hanno lanciato i prestiti illegittimi.
Per quanto riguarda i debiti che non sono oggetto di illegittimità, sarebbe opportuno imporre uno sforzo ai creditori in termini di riduzione dei tassi di interesse su azioni e obbligazioni, accompagnando questo con uno spostamento della scadenza del rimborso.

Inoltre, sarebbe giusto effettuare una distinzione positiva in favore dei piccoli detentori di titoli del debito pubblico, che converrà rimborsare normalmente.
Inoltre, l’importo a carico del bilancio statale per il rimborso del debito dovrà essere limitato a seconda dello stato dell’economia, della capacità dei poteri pubblici a rimborsare e del carattere incomprimibile delle spese sociali.
Tutto questo sull’esempio di ciò che è stato fatto per la Germania dopo la Seconda guerra mondiale.

L’Accordo di Londra del 1953 relativo al debito tedesco, che in modo specifico consisteva nel ridurre del 62% l’ammontare del debito, stipulava che il rapporto fra il servizio del debito e le rendite dalle esportazioni non doveva andare oltre il 5 %[2].
Per meglio definire un rapporto di questa natura: l’importo destinato al rimborso del debito non può superare il 5% delle entrate statali.
Allo stesso modo, bisogna adottare un quadro di legalità, al fine di evitare il ripetersi della crisi che ha visto il suo inizio nel 2007-2008: proibizione di socializzare i debiti privati, obbligo di organizzare una revisione permanente delle politiche di indebitamento pubblico con la partecipazione della società civile, imprescrittibilità dei reati collegati con l’indebitamento illegittimo, dichiarazione di nullità dei debiti illegali…

2. Bloccare i piani di austerità, che sono ingiusti e approfondiscono la crisi.

In accordo con le esigenze del Fondo Monetario Internazionale, i governi dei paesi europei hanno fatto la scelta di imporre ai loro popoli politiche di rigorosa austerità, con tagli netti alle spese pubbliche: licenziamenti nel pubblico impiego, congelamento o riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, limitazione all’accesso a determinati servizi pubblici vitali e alla protezione sociale, innalzamento dell’età pensionabile.
Al contrario, le imprese pubbliche reclamano – e ottengono – un aumento delle loro tariffe, e nel contempo i costi per l’accesso alla sanità e all’istruzione sono rivisti verso l’alto. Il ricorso ad aumenti di imposte indirette particolarmente ingiuste, in particolare dell’IVA, è in crescita.
Le Aziende di Stato, competitive nei loro settori con le imprese private, vengono fortemente privatizzate.
Le politiche di rigore attuate sono spinte ad un livello che non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale. Gli effetti della crisi sono anche amplificati da quei pretesi rimedi, che principalmente mirano a tutelare gli interessi dei detentori del capitale.

In breve, i banchieri bevono, i popoli sono i capri espiatori!
Ma la gente sopporta sempre meno l’ingiustizia di queste riforme caratterizzate da una regressione sociale di grandi dimensioni.
In termini relativi, sono i lavoratori dipendenti, i salariati, i disoccupati e le famiglie a basso reddito che sono i più sfruttati, in modo tale che gli Stati continuino ad ingrassare i creditori.
E fra le persone più colpite, sono le donne ad occupare il primo posto, in quanto l’organizzazione attuale dell’economia e della società patriarcale fa pesare su di loro gli effetti disastrosi della precarietà, del lavoro parziale e sottopagato. Direttamente interessate dalle degradazioni dei servizi pubblici sociali, sono le donne a pagare il prezzo più alto. La lotta per imporre un’altra logica è indissociabile dalla lotta per il rispetto assoluto dei diritti delle donne.

3. Stabilire una effettiva giustizia fiscale europea e un’equa ridistribuzione della ricchezza. Impedire e vietare le transazioni con i paradisi fiscali e giudiziari. Lottare contro la fraudolenta e massiccia evasione fiscale delle grandi imprese e dei più ricchi.

Dal 1980, le imposte dirette, per i redditi più alti e per le grandi imprese, non hanno mai smesso di abbassarsi. Così, nell’Unione Europea, dal 2000 al 2008, i tassi superiori di imposta sul reddito e le imposte sulle società hanno visto una diminuzione rispettivamente di 7 e 8 punti. Quelle centinaia di miliardi di euro in sgravi fiscali sono state in gran parte orientate verso la speculazione e l’accumulazione di ricchezza per i più abbienti.
Bisogna combinare una profonda riforma della fiscalità, ai fini della giustizia sociale (riduzione dei profitti e dei patrimoni dei più ricchi per aumentare quelli della maggioranza della popolazione) con una sua armonizzazione a livello europeo per impedire il dumping, la sperequazione, fiscale[3]. L’obiettivo è un aumento delle entrate pubbliche, in particolare attraverso le imposte progressive sul reddito delle persone fisiche più ricche (il tasso marginale sulla quota più elevata dei redditi deve essere portato al 90 %[4]), attraverso l’imposta sui patrimoni a partire da un certo ammontare e l’imposta sulle società.
Questo aumento delle entrate deve andare di pari passo con una rapida riduzione del prezzo di accesso ai beni e servizi di prima necessità (alimenti di base, acqua, elettricità, riscaldamento, trasporti pubblici, materiale scolastico…), in modo particolare con una decisa riduzione dell’IVA tutta concentrata sui beni e i servizi essenziali. Allo stesso modo, si tratta di adottare una politica fiscale che favorisca la protezione dell’ambiente, tassando in maniera dissuasiva le industrie inquinanti.
L’Unione Europea deve adottare una tassa sulle transazioni finanziarie, specialmente su quelle che avvengono nel mercato dei cambi, così da aumentare le entrate dei pubblici poteri.
I diversi G20 hanno rifiutato, nonostante le loro dichiarazioni di intenti, di affrontare efficacemente le problematiche derivanti dai paradisi legali e fiscali.
Una semplice misura da adottare da ogni Parlamento per contrastare questi paradisi fiscali (che fanno perdere ogni anno ai paesi del Nord del mondo, ma questo vale anche per quelli del Sud del mondo, risorse vitali per lo sviluppo delle popolazioni) consiste nel vietare a tutte le persone fisiche e a tutte le imprese presenti sul loro territorio di mettere in atto qualsiasi transazione attraverso i paradisi fiscali, pena un’ammenda di un ammontare equivalente.
Al di là di questo, è necessario sradicare questi buchi neri della finanza, i traffici criminali, la corruzione, la criminalità in giacca e cravatta.
L’evasione fiscale priva di mezzi consistenti la collettività e gioca contro l’occupazione. Ingenti risorse pubbliche devono essere destinate a finanziare i servizi per una la lotta efficace contro queste frodi. I risultati devono essere resi pubblici e i colpevoli devono essere pesantemente sanzionati.

4. Mettere ordine nei mercati finanziari, soprattutto con la creazione di un registro dei proprietari di titoli, con la proibizione di vendite allo scoperto e di speculazioni in tutta una serie di settori. Creare un’agenzia pubblica europea di valutazione dei titoli.

La speculazione su scala mondiale rappresenta molte volte la ricchezza prodotta sul pianeta. Il montaggio sofisticato della meccanica finanziaria rende la speculazione totalmente incontrollabile. Gli ingranaggi messi in moto dalla speculazione destrutturano l’economia reale. L’opacità sulle transazioni finanziarie è la regola. Per tassare i creditori alla fonte, è necessario identificarli.
Deve cessare la dittatura dei mercati finanziari !
Deve cessare la speculazione in tutta una serie di settori. È necessario proibire la speculazione sui titoli del debito pubblico, sulle monete, sugli alimenti[5].
Allo stesso modo, devono venire vietate le vendite allo scoperto[6] e i Credit Default Swaps devono essere strettamente regolamentati.
[N.d.t. : Uno swap è un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato l’obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di copertura del rischio, e il credit default swap (cds) è in effetti come una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere sicuro del rimborso. Se il costo dovesse balzare, mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni.]
Bisogna chiudere i mercati a trattativa privata dei prodotti derivati che sono dei veri e propri buchi neri, che sfuggono a qualsiasi regolamentazione e controllo.

Il settore delle agenzie di valutazione (rating) deve essere strettamente riformato ed inquadrato. Lungi dall’essere lo strumento di una valutazione scientifica oggettiva, queste agenzie sono strutturalmente beneficiarie della mondializzazione neo-liberista e hanno scatenato a più riprese delle catastrofi sociali.
In buona sostanza, il declassamento della valutazione di un paese implica l’innalzamento dei tassi di interesse sui prestiti che vengono accordati. Quindi, la situazione economica del paese preso di mira si deteriora ancora di più. Il comportamento del gregge degli speculatori moltiplica le difficoltà riscontrate che incideranno ancor più pesantemente sulle persone.
La forte sudditanza delle agenzie di valutazione agli ambienti finanzari nord-americani rende queste agenzie di valutazione attori principali a livello internazionale, la cui responsabilità dello scatenamento e dell’evoluzione delle crisi non è proprio messo in luce dai mezzi di informazione. La stabilità economica dei paesi europei è stata posta sulle mani di queste agenzie di valutazione, senza garanzie, senza mezzi di controllo serio da parte dei pubblici poteri.
Per rompere questa situazione di imbroglio, è essenziale la creazione di una agenzia pubblica di valutazione.

5. Trasferire al settore pubblico le banche, sotto controllo dei cittadini.

Dopo decenni di abusi finanziari e di privatizzazioni, è giunto il momento di trasferire il settore bancario sotto pubblico dominio. Gli Stati devono riacquistare la loro capacità di controllo e di direzione delle attività economiche e finanziarie. Inoltre, devono disporre di strumenti per realizzare gli investimenti e finanziare la spesa pubblica, riducendo al minimo il ricorso al prestito da istituzioni private e /o da altri paesi.
È necessario espropriare senza indennizzo le banche e trasferirle al settore pubblico sotto il controllo dei cittadini.
In alcuni casi, le espropriazioni delle banche private possono rappresentare un costo per lo Stato in ragione dei debiti che queste banche hanno potuto accumulare. Il costo in questione deve essere recuperato dal patrimonio generale dei grandi azionisti. In effetti, le società private che detengono le azioni delle banche, e che le hanno condotte nel baratro realizzando comunque lauti profitti, impegnano una parte dei loro patrimoni in altri settori dell’economia. Quindi, diventa necessario un salasso sulla ricchezza patrimoniale degli azionisti. Questo, per evitare al massimo la socializzazione delle perdite. L’esempio dell’Irlanda è emblematico, la maniera con la quale è stata effettuata la nazionalizzazione della Irish Allied Bank è inaccettabile. Bisogna trarne una lezione !

6. Riportare al pubblico le numerose imprese e i servizi privatizzati dopo il 1980.

Una caratteristica di questi ultimi trent’anni è stata la privatizzazione di molte imprese e servizi pubblici. Dalle banche al settore industriale, per non parlare dei servizi postali, delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti, i governi hanno trasferito ai privati tratti interi dell’economia, e in questo passaggio hanno perso qualsiasi capacità di regolamentazione e di controllo della stessa economia. Questi beni pubblici, frutto del lavoro collettivo, devono ritornare nelle mani del dominio pubblico. Si tratterà di creare nuove imprese pubbliche e di adattare i servizi pubblici ai bisogni della popolazione, per dare risposte soprattutto alle problematiche dei cambiamenti climatici, per esempio con la creazione di una agenzia pubblica che si interessi dell’isolamento termico delle abitazioni.

7. Ridurre radicalmente l’orario di lavoro per creare occupazione e aumentare i salari e le pensioni.
Distribuire in modo diverso la ricchezza è la migliore risposta alla crisi. La quota parte della ricchezza prodotta destinata a favore dei lavoratori è diminuita significativamente da diversi decenni, mentre i creditori e le imprese hanno accresciuto i loro profitti per destinarli alla speculazione.
L’aumento dei salari non solo permette alle persone di vivere con dignità, ma rafforza anche i mezzi che servono per il finanziamento della protezione sociale e del regime pensionistico.
Riducendo l’orario di lavoro senza riduzione del salario e creando occupazione, si migliora la qualità della vita dei lavoratori e si fornisce un impiego a tutti coloro che lo cercano. Inoltre, la riduzione drastica dell’orario di lavoro offre la possibilità di mettere in pratica un diverso ritmo di vita, una maniera differente di vivere la società con il ripudio del consumismo. Il tempo guadagnato in favore di momenti di libertà consentirà l’aumento della partecipazione attiva delle persone alla vita politica, al rafforzamento della solidarietà, alle attività di volontariato e alla crescita culturale.

8. Riformare democraticamente un’altra Unione Europea, fondata sulla solidarietà.

Moltissime disposizioni dei trattati che disciplinano l’Unione Europea, la zona euro e la Banca Centrale europea devono essere abrogate. Per esempio. Occorre sopprimere gli articoli 63 e 125 del Trattato di Lisbona, che impediscono qualsiasi controllo sul movimento dei capitali e il soccorso ad uno Stato in difficoltà. Allo stesso modo, bisogna abbandonare il Patto di Stabilità e di Crescita. Inoltre, è necessario sostituire gli attuali con nuovi trattati, in un quadro di un effettivo processo costituente democratico, in modo da conseguire un Patto di Solidarietà fra i popoli in favore dell’occupazione e dell’ecologia.
Si deve rivedere completamente la politica monetaria, lo status e le pratiche della Banca Centrale europea. Risulta una limitazione molto pesante l’incapacità del potere politico di imporre alla Banca Centrale Europea la creazione di moneta. Ponendo questa Banca al di sopra dei governi, e dunque dei popoli, l’Unione Europea ha compiuto una scelta disastrosa, quella di sottomettere l’interesse delle persone all’interesse della finanza, tutto il contrario di come dovrebbe essere.
Al culmine della crisi, mentre molti movimenti sociali denunciavano le regole troppo rigide e profondamente inadeguate, la Banca Centrale europea è stata costretta a cambiare rotta, modificando con urgenza il ruolo che le era stato assegnato. Disgraziatamente, la Banca ha consentito di adeguarsi solo per ragioni opportunistiche: non per prenderei in considerazione gli interessi della gente, ma per preservare gli interessi dei creditori.

Ciò dimostra che le carte devono essere rimescolate e ridistribuite: la Banca dovrebbe agevolare il finanziamento diretto a quegli Stati interessati a conseguire obiettivi sociali ed ambientalisti, che incorporano completamente i bisogni fondamentali delle popolazioni.
Attualmente, con queste modalità, vengono finanziate invece attività economiche molto diversificate, come l’investimento nella costruzione di un complesso ospedaliero o un progetto puramente speculativo. Il potere politico deve almeno pensare di imporre costi molto diversi agli uni e agli altri: bassi tassi di interesse dovrebbero essere riservati agli investimenti socialmente giusti ed ecologicamente sostenibili, tassi molto alti, quasi proibitivi, come lo richiede la situazione, per quelle operazioni di natura speculativa, a cui comunque sarebbe opportuno imporre un divieto puro e semplice in alcuni settori.
Un'Europa fondata sulla solidarietà e la cooperazione dovrebbe voltare le spalle alla concorrenza e alla competizione, che trascinano « verso il fondo ». La logica neo-liberista ha prodotto la crisi e ha rivelato il suo fallimento. Ha spinto al ribasso gli indicatori sociali: meno protezione sociale, meno occupazione, meno servizi pubblici.
I pochi che hanno approfittato di questa crisi hanno di fatto calpestato i diritti della maggioranza.
I colpevoli hanno guadagnato, le vittime pagano!

Questa logica, che sottende a tutte le norme fondanti l’Unione Europea, Patto di Stabilità e di Crescita in testa, dovrebbe essere demolita: questa logica non è più sostenibile.
Un’altra Europa, fondata sulla cooperazione fra Stati e la solidarietà fra i popoli, deve divenire l’obiettivo prioritario. Per questo, le politiche fiscali e di bilancio non dovrebbero venire uniformate, in quanto le economie europee presentano forti disparità, ma coordinate in modo che emerga finalmente una soluzione « verso l’alto ».
Su scala europea, devono imporsi politiche globali, comprendenti massicci investimenti pubblici per la creazione di occupazione pubblica nei settori essenziali, nei servizi contigui ed affini alle energie rinnovabili, alla lotta contro il cambiamento climatico, nei settori sociali di base.

Questa diversa Europa resa democratica deve, per il CADTM, operare per imporre principi non negoziabili: rafforzamento della giustizia fiscale e sociale, scelte orientate verso l’innalzamento del livello e della qualità della vita dei suoi abitanti, disarmo e riduzione drastica delle spese militari, compreso il ritiro delle truppe europee dall’Afghanistan e lo smantellamento della NATO, scelte energetiche durevoli senza il ricorso al nucleare, rigetto degli organismi geneticamente modificati (OGM).
Infine, l’Europa deve risolutamente mettere termine alla sua politica di fortezza assediata contro i candidati all’immigrazione, per diventare un partner leale e veramente solidale nei confronti dei popoli del « Sud del mondo ».

[1]Vedi http://www.cadtm.org/Juntos-para-imponer-otra-logica In questo nuovo documento, vengono riprese queste otto proposte, attualizzandole e sviluppandole.
[2] Vedere Éric Toussaint, Banque mondiale : le Coup d’État permanent, CADTM-Syllepse-Cetim, 2006, capitolo 4.
[3] Pensiamo all’Irlanda che pratica un tasso del solo 12,5 % sui profitti delle società.
[4] Sottolineamo come questo tasso del 90 % sia stato imposto ai ricchi sotto l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt negli anni ‘30.
[5] Vedere Damien Millet e Éric Toussaint, La Crise, quelles crises ?, Aden-CADTM-Cetim, 2010, capitolo 6.
[6] Le vendite allo scoperto permettono di speculare sul ribasso di un titolo, vendendo a termine questo titolo senza disporre dello stesso. Le autorità tedesche hanno vietato le vendite allo scoperto, mentre le autorità francesi e quelle di altri paesi si sono opposte a questa misura.




Per concessione di CADTM
Fonte: http://www.cadtm.org/Huit-propositions-urgentes-pour
Data dell'articolo originale: 19/04/2011
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=4601

domenica 17 aprile 2011

Un nuovo inizio.. a Fukushima.....

Ian Buruma
The Wall Street Journal

Non è la prima volta che Shintaro Ishihara – scrittore, politico e attuale governatore di Tokyo (di fatto, il sindaco della città) – commette una gaffe. Ishihara ha definito il terremoto dell’11 marzo un “castigo divino” per l’“egoismo” dei giapponesi. È un chiodo fisso della destra giapponese l’idea che le giovani generazioni pensino solo a se stesse, siano troppo individualiste e abbiano perso il vecchio spirito collettivo dei giapponesi obbedienti e disciplinati che apparentemente hanno sempre anteposto l’interesse nazionale al loro.

Questa volta le parole del governatore non sono passate sotto silenzio. Ishihara è stato immediatamente subissato di critiche ed è stato costretto a chiedere scusa per la mancanza di solidarietà nei confronti delle innumerevoli vittime del terremoto, dello tsunami e del disastro nucleare. Non solo: i giapponesi, giovani compresi, hanno dimostrato in queste settimane quanto possano ancora essere disciplinati e altruisti.

Ishihara, nella sua insensibilità, non ha fatto altro che cedere a un’abitudine primitiva quanto diffusa nella storia dell’uomo, quella di attribuire un’intenzionalità alle forze impersonali della natura. Nell’antica Cina un terremoto o un qualsiasi altro disastro stro naturale veniva considerato un cattivo presagio, il segno che una dinastia imperiale stava per terminare. Anche in Giappone c’erano credenze simili. Tradizionalmente i terremoti venivano attribuiti ai sussulti di un pesce gatto gigante. Sempre nella tradizione, il pesce gatto era considerato come una divinità da adorare e placare.

In quale altro modo degli esseri umani indifesi possono dare un senso al fatto di vivere ai piedi di un vulcano o nel mezzo di una faglia tettonica? Un attimo prima bevono tranquillamente il tè o preparano il pranzo; e un istante dopo tutto il loro mondo può essere spazzato via da una gigantesca ondata di lava o dall’acqua. Ovviamente non c’è un perché, ma per l’uomo è diicile vivere senza dare un senso alle cose. Questo non riguarda solo i cinesi e i giapponesi. La reazione del giornalista statunitense ultraconservatore Glenn Beck al terremoto è stata altrettanto risibile di quella del governatore Ishihara: secondo lui si sarebbe trattato di un invito di Dio a seguire i dieci comandamenti.
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I giapponesi fanno da sempre i conti con la forza distruttrice della natura. In passato, tuttavia, questa forza è stata anche benevola. Quando nel 1274 una lotta di quasi sedicimila guerrieri mongoli, cinesi e coreani tentò di attaccare il Giappone, uno spaventoso tifone face naufragare le navi, scongiurando l’invasione. Di qui il termine kamikaze, vento divino. In quella circostanza la natura venne in soccorso del Giappone.

Non per niente nel 1944, quando il paese si trovò in una situazione altrettanto disperata, i piloti suicidi furono ribattezzati kamikaze. I soli sforzi militari non erano più sufficienti a evitare la sconfitta. Si invocava qualcosa di più sacro e spirituale: il sacrificio dei giovani migliori e più brillanti. Solo così le superiori forze americane si sarebbero piegate. O almeno, quella era la speranza.

C’è una terribile ironia nel fatto che il Giappone, dopo il terremoto, si trovi ad affrontare un disastro nucleare. Il Giappone, come tutti sanno, è stato il primo paese (e finora l’unico) a subire un attacco atomico.

Anche quello fu considerato da qualcuno come un castigo divino. Vedere Tokyo in fiamme sotto le ondate di bombe incendiarie dei B-29, che provocarono quasi centomila vittime in poche notti, fu terribile.

Non si conosce ancora la portata esatta della catastrofe che ha colpito il Giappone. Sicuramente il paese reagirà, come ha fatto in passato. Anzi, tornerà più forte di prima, scrive Ian Buruma in un certo senso comprensibile. Il fatto che un’intera città venisse rasa al suolo in pochi secondi da un’unica bomba, invece, era paragonabile solo a una calamità naturale.

In effetti non si trattava più di qualcosa di assimilabile a una “normale” operazione di guerra. Il nemico era invisibile. Non c’erano difese possibili. Questo, probabilmente, convinse anche i più irriducibili del comando militare nipponico a firmare la resa incondizionata. La bomba atomica, nelle parole dell’imperatore Hirohito, era “un’arma nuova e terribile” capace di portare alla “totale estinzione della civiltà umana”. Non era considerato un disonore arrendersi per salvare la civiltà umana.

Sotto l’ombra del fungo atomico Oltre ai tremendi costi umani delle esplosioni atomiche, i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki hanno avuto altre conseguenze nefaste. Hanno messo in una prospettiva distorta la questione della responsabilità giapponese nella guerra. Le bombe hanno fatto apparire l’intero disastro bellico come una calamità naturale, una specie di gigantesco terremoto, invece che una storia di follia umana di cui tutti i giapponesi erano stati complici.
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Molti giapponesi, in buona fede, considerarono la bomba atomica come un castigo divino, una sorta di lavacro della coscienza. La descrizione più famosa del bombardamento di Nagasaki fu quella di una delle vittime, il dottor Takashi Nagai, un esperto di radiologia che poi sarebbe morto di leucemia. Ai suoi occhi la bomba fu come una benedizione, una catastrofe capace di portare l’umanità alla redenzione. Nagai era cattolico, come molti cittadini di Nagasaki. Ma tanti giapponesi hanno creduto nel suo messaggio. La casa di Nagai è diventata una specie di santuario. Proprio in quanto vittime della bomba atomica, da allora in poi i giapponesi si sarebbero trasformati in salvatori della civiltà umana, rifiutando la guerra e pregando per la pace eterna.

In questo nuovo atteggiamento pacifista, i giapponesi si sono comportati come hanno fatto sempre di fronte alle forze della natura: hanno cercato di placarle ricorrendo a formule magiche. Nel frattempo le responsabilità della seconda guerra mondiale sono state quasi completamente dimenticate. La responsabilità della sicurezza militare è stata aidata al vecchio nemico, gli Stati Uniti, e il principale garante della sicurezza è diventato l’ombrello nucleare americano.
Nagai, pur consapevole della potenza distruttiva dell’energia atomica, la considerava anche “un trionfo della fisica”, un passo da gigante nel progresso dell’umanità.

Fin dall’inizio i giapponesi hanno avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’energia nucleare. Il fatto che varie componenti dell’ombrello atomico americano entrino ed escano a piacimento dai portil’istituzione più criticata nell’ultimo disastro nucleare sia la Tokyo electric power company (Tepco), nota per aver più volte coperto le pericolose avarie dei suoi reattori nucleari. Eppure, come sappiamo, il Giappone dipende dall’energia nucleare più di qualsiasi altro paese del mondo.

La costante consapevolezza che la calamità può colpire in qualsiasi momento ha segnato la cultura giapponese. Questo vale soprattutto per la cultura postbellica, che ha prodotto la famosa serie dei film di Godzilla. Godzilla non era stato concepito solo come una specie di King Kong gigante. Il personaggio nacque in seguito a un incidente nucleare del 1954, quando gli Stati Uniti fecero esplodere una bomba all’idrogeno e un membro dell’equipaggio di un peschereccio giapponese rimase ucciso dalle radiazioni. Godzilla, il distruttore del Giappone, veniva fatto saltare in aria da una serie di esplosioni nucleari sottomarine.

Tra l’altro, il creatore degli efetti speciali per i film di Godzilla, Eiji Tsuburaya, era stato anche l’autore degli spettacolari effetti di un altro film, Sea battle from Hawaii to Malaya (Battaglia in mare dalle Hawaii a Malaya), girato nel 1942 per festeggiare il primo anniversario della vittoria di Pearl Harbor. In Giappone, dunque, i pericoli dell’energia nucleare creata dall’uomo vengono strettamente associati alle catastrofi naturali, come è accaduto durante l’ultimo grande terremoto. Questa sensazione di pericolo costante ha lasciato il segno sulla cultura del paese. La prima religione originaria del Giappone, lo shinto, letteralmente “la via degli dei”, si basa su una serie di rituali volti a placare le forze della natura, considerate divine. Poiché la natura può essere allo stesso tempo irata e benevola, queste divinità devono essere continuamente gratificate con offerte, cerimonie e sacrifici. Gli dei shinto, a differenza del Dio cristiano o ebraico, non impongono leggi o regole morali, né dogmi. Esigono solo rispetto.

Anche il buddismo, con la sua profonda consapevolezza della natura effimera della vita e il suo ciclo di morte e rinascita, si addice particolarmente a un popolo costretto a vivere sotto la costante minaccia di una catastrofe naturale. “Fatalismo” è la parola che spesso viene usata per descrivere il tipico atteggiamento dei giapponesi. Essere rassegnati ai capricci della natura e del destino, tuttavia, non vuol dire considerare la vita priva di valore. Al contrario, può far apprezzare ancora di più il poco tempo a di morte aspirando a una sorta di immortalità: se non per se stessi, almeno per le loro opere. I monumenti all’uomo (per esempio, Manhattan o Chicago) sono costruiti per durare in eterno, almeno idealmente, e lo stesso vale per i monumenti a Dio come le grandi cattedrali europee. I giapponesi, che vivono ai piedi di vulcani e su faglie tettoniche, non costruiscono per l’eternità. L’architettura tradizionale, che utilizza materiali lessibili come carta e legno per resistere alle scosse, non è pensata per durare in eterno. Il più famoso santuario shinto in Giappone, talmente sacro che solo i membri della famiglia imperiale possono esercitarvi la funzione di alti sacerdoti, si trova a Ise, nel Giappone centrale. È stato fondato quindici secoli fa, ma in un certo senso è nuovissimo, perché viene abbattuto e ricostruito ogni vent’anni. L’unica continuità è nella discontinuità.

I fiori di Edo
Oggi a Tokyo e in altre moderne città giapponesi ci sono grattacieli di cemento e vetro progettati per resistere ai terremoti, ma si tratta di uno sviluppo recente. Anche se gli edifici non vengono più costruiti in legno (troppo costoso e difficile da mantenere), le città hanno tuttora un aspetto precario, simile a un set cinematograico, quasi fossero consapevoli della loro transitorietà. In questo, ricordano più Los Angeles che Manhattan.

In effetti, nel ventesimo secolo Tokyo è stata quasi totalmente distrutta per ben due volte: la prima durante il terribile terremoto del 1923 e la seconda nel 1945, quando fu ridotta in cenere dalle bombe incendiarie statunitensi. E per ben due volte gli abitanti di Tokyo, in modo rapido, energico e perino entusiastico, hanno ricostruito la loro capitale. Quando Tokyo era ancora chiamata Edo, prima del diciannovesimo secolo, i suoi abitanti erano orgogliosi della loro stoica accettazione di terremoti e incendi, noti come “i fiori di Edo”.


È l’altra faccia del fatalismo, la capacità di reagire al disastro ovunque esso colpisca, a Tokyo o sulla costa nordorientale. Gli osservatori stranieri hanno sottolineato la disciplina e la solidarietà dei giapponesi in quest’ultima circostanza. Niente saccheggi, niente rivolte, niente violenza. Non sempre è stato così. Subito dopo il terremoto del 1923, quando si sparse la voce che i cittadini coreani stavano avvelenando le riserve d’acqua, la folla entrò nel panico e cominciò Non stavolta. La disciplina ha tenuto.

Forse per il conformismo sociale imposto a tutti i giapponesi in dalla più tenera età, o forse per il dovere di prendersi cura delle proprie cose, o per il timore di mettere in difficoltà il prossimo. Ma forse anche per la consapevolezza, maturata dopo secoli di convivenza con i disastri, che tutto ciò che crolla può essere ricostruito. I giapponesi hanno un’espressione: “traboccare con l’acqua”. È un modo di dimenticare ciò che è passato. Può essere un difetto – non assumersi le responsabilità del passato – ma anche un pregio, se si traduce nella capacità di guardare al futuro.

Ancora non conosciamo la portata esatta dell’attuale catastrofe giapponese, però possiamo essere certi che il paese non solo reagirà ancora una volta, ma tornerà più forte di prima. Il fatto che il governo non abbia esitato ad accettare l’aiuto dei paesi stranieri, a differenza di quanto avvenne nel 1995 dopo il terremoto di Kobe, è un segno che il Giappone di oggi è più aperto verso il mondo ed è meno sensibile al tema dell’orgoglio nazionale. Per la prima volta i coreani e i cinesi hanno prestato aiuto al Giappone, e questo contribuirà senz’altro a migliorare le relazioni fra i tre paesi, in passato compromesse da odi e spargimenti di sangue. La mobilitazione delle forze armate e lo sforzo straordinario compiuto dai soldati per soccorrere i loro concittadini gioverà all’immagine dei militari giapponesi e restituirà la fiducia a un paese che, dopo una guerra disastrosa, non era ritenuto in grado di difendersi da solo.

Il segnale più importante, tuttavia, è il comportamento dei cittadini comuni, che con la loro reazione tranquilla hanno dimostrato che le parole sprezzanti del governo a Ishihara non erano solo sciocche e rozze, ma sbagliate. I cittadini stanno prendendo sul serio le loro responsabilità, non solo nei confronti di se stessi e delle loro famiglie, ma anche del prossimo. E se questo contrasta con gli stereotipi sui giapponesi, ben venga: andavano demoliti da tempo.

Nuove scosse
Il 7 aprile una scossa di magnitudo 7,4 ha colpito il nordest del Giappone provocando quattro morti ma lasciando apparentemente illesi i due reattori della centrale nucleare di Fukushima. L’11 aprile, un mese dopo il terremoto del Tohoku, l’area è stata colpita da una scossa di magnitudo 7,1 che ha temporaneamente messo fuori uso l’impianto elettrico esterno dei reattori 1 e 3 dell’impianto Fukushima 1, rallentando i lavori di rafreddamento tramite il pompaggio di acqua. La scossa ha provocato almeno una vittima. Zona di evacuazione L’11 aprile le autorità hanno deciso di estendere la zona di evacuazione obbligatoria ad alcuni comuni che si trovano a più di 20 chilometri dalla centrale di Fukushima. A Katsurao, Iitate e Kawamata – che si trovano oltre la zona di evacuazione volontaria, compresa tra i 20 e i 30 chilometri – gli abitanti rischiano di assorbire una quantità di radioattività ritenuta pericolosa. Per questo entro un mese dovranno lasciare le loro case. Greenpeace, dopo aver fatto delle misurazioni, ha chiesto di allontanare le donne incinte e i bambini anche dall’area metropolitana di Fukushima, giudicata “altamente pericolosa”. Il 12 aprile il governo ha alzato il livello di gravità della crisi nucleare portandola a 7, il più alto, equivalente all’incidente di Cernobyl.

Giappone/ Manifestazioni a Tokyo e Nagoya contro il nucleare Dopo incidente Fukushima cresce protesta contro impianti atomici


Manifestazioni
Il 10 aprile 17.500 persone sono scese in piazza a Tokyo contro gli impianti nucleari.

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