venerdì 17 agosto 2012

IL PROGETTO DI UN NUOVO ORDINE MONDIALE

SI SCONTRA CON LE REALTÀ GEOPOLITICA

IMAD FAWZI SHUEIBI
voltairenet.org


È dagli ultimi quattro secoli che i leader politici stanno cercando di creare un ordine internazionale che governi i rapporti fra le nazioni e prevenga le guerre. Se il principio della sovranità dello stato ha dato dei risultati, le organizzazioni intergovernative riflettono principalmente l'equilibrio del potere in quel dato momento. Quanto all’ambizioso progetto USA di un Nuovo Ordine Mondiale, questo si sta frantumando contro le nuove realtà geopolitiche. 

LA LENTA FORMAZIONE DI UN ORDINE INTERNAZIONALE

Anche se la frase "ordine mondiale" è stata introdotta nel discorso po-litico solo di recente, l'idea di un ordine mondiale, o internazionale, è apparsa nel XVII secolo. Ma ogni volta che se ne è presentata l'occasione si è discusso di organizzare e sostenere la pace.

Fu nel 1603 che il re Enrico IV di Francia fece sviluppare dal suo mi-nistro, il duca di Sully, un primo progetto. Questo doveva consistere in una repubblica cristiana che comprendesse tutti i popoli d'Europa e che avrebbe garantito la conservazione delle nazionalità e delle religioni con il compito di risolvere i problemi tra di loro.

Questo Grand Dessein prevedeva la ridefinizione dei confini degli stati per bilanciare il loro potere, la creazione di una confederazione europea a 15, con un Consiglio sovranazionale con il potere di arbitrato, e un esercito in grado di proteggere la confederazione contro i Turchi. 

Ma quel sogno è stato interrotto dall'assassinio di Enrico IV ed è riemerso solo al termine delle guerre iniziate da Luigi XIV quando l'abate di Saint-Pierre lanciò il suo progetto volto a rendere perpetua la pace tra i governanti cristiani. Questo progetto, che venne presentato al Congresso di Utrecht (1713), consisteva nell’adozione integrale di tutte le decisioni prese in tale occasione quale base definitiva sulla questione della definizione dei confini tra i paesi belligeranti, e la creazione di una lega europea delle nazioni (una Federazione Internazionale) la cui missione fosse quella di prevenire i conflitti.

Indipendentemente da questa utopia, a quel tempo l’accordo più importante era naturalmente costituito dal trattato di pace di Vestfalia, firmata nel 1648 alla fine della Guerra dei Trent'anni, condotta sotto l’egida della religione, con un conseguente accumulo di odi e la distruzione del 40% della popolazione.

I negoziati durarono quattro anni (1644-1648). Alla fine, i negoziati consacrarono l’uguaglianza tra tutte le parti in conflitto, sia cattolica che protestante, repubblicana o monarchica.

Il Trattato di Westfalia statuisce quattro principi fondamentali:  



1. La sovranità assoluta dello stato-nazione, e il diritto fondamentale all’autodeterminazione politica.

2. L’uguaglianza giuridica tra gli stati-nazione. Lo stato più piccolo è, quindi, pari al più grande, a prescindere dal-la sua debolezza o dalla sua forza, dalla sua ricchezza o povertà.

3. Il rispetto dei trattati e l'emergere di una legge internazionale vincolante.

4. La non interferenza negli affari interni degli altri stati.


Certamente questi sono principi generali che non determinano una sovranità assoluta, e che non sono mai prima esistiti. Tuttavia questi principi delegittimano le azioni che possono abolire la sovranità. I filosofi politici avevano tutti sostenuto questi progetti. Rousseau chiese con tutte le sue forze di costituire un unico stato contrattuale che raggruppasse tutti i paesi europei. Kant aveva pubblicato nel 1875 Verso la pace perpetua. Per lui, la pace è una figura giuridica che richiede la codifica di una legge generale applicabile a tutti gli Stati. L’utilitarista inglese Bentham aveva stigmatizzato la diplomazia segreta, in quanto che essa si sottrae al diritto. Egli aveva anche auspicato la creazione di un’opinione pubblica internazionale in grado di costringere i governi a rispettare le risoluzioni internazionali e a ricorrere all'arbitrato.

LA CREAZIONE DI ISTITUZIONI DI REGOLAMENTAZIONE INTERNAZIONALI

L'idea di un ordine internazionale è andata avanti costantemente, ma sempre in base alle regole sulla sovranità adottate dalla Pace di Westfalia. Ha dato i natali alla Santa Alleanza proposta dallo zar Alessandro I nel 1815, e al progetto di Concert européen proposto dal cancelliere austriaco Metternich nel XIX secolo al fine di evitare "la rivoluzione", che nel linguaggio politico razionale significa il caos.

E' da questo momento che gli stati cominciarono a organizzare vertici per risolvere i problemi al di fuori della guerra, favorendo l'arbitrato e la diplomazia.

E' in questa prospettiva che dopo la Prima Guerra Mondiale è stata fondata la Società delle Nazioni 

(SdN). Ma questa era nulla più che il concretarsi dei rapporti di forza del momento, al servizio dei vincitori di questa guerra. I suoi valori morali erano dunque relativi. Così, nonostante l'obiettivo dichiarato di voler risolvere le controversie tra le nazioni con un arbitrato piuttosto che con la guerra, essa ha dichiarato la propria competenza nella gestione dei popoli sottosviluppati o colonizzati – politicamente, economicamente e amministrativamente – fino al momento della loro autodeterminazione. 

È questo che, naturalmente, ha portato alla legittimazione dei mandati. Nel prendere questa posizione, la Lega delle Nazioni incarnava la realtà coloniale.

L'artificiosità di questa organizzazione si è dimostrata quando si è scoperta incapace di far fronte a gravi eventi internazionali come la conquista della Manciuria da parte del Giappone, quella dell’Abissinia (Etiopia) e l'annessione di Corfù (Grecia) da parte dell’Italia, ecc.

Sebbene l'idea della Lega, concepita da Leon Bourgeois, sia stata promossa dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, Washington non vi ha mai aderito. Chiamati a parteciparvi, Giappone e Germania si sono ritira-ti. Così che l'istituzione si è rivelata priva di valore.

Il successore della Lega, le Nazioni Unite, sono state un riflesso della Carta Atlantica firmata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito il 4 agosto 1941, e della Dichiarazione di Mosca, adottata dagli Alleati il 30 ottobre 1943, quando annunciarono la creazione di "una struttura organizzativa basata sul principio di uguaglianza sovrana di tutti gli Stati amanti della pace". Il progetto è stato sviluppato in occasione della Conferenza di Dumbarton Oaks a Washington dal 21 agosto al 7 ottobre 1944. I principi della Carta Atlantica sono stati anche oggetto di approvazione nel corso della Conferenza di Yalta (4-12 febbraio 1945), prima di essere sanciti nella Conferenza di San Francisco (il 25 e 26 giugno 1945).

L'ideologia della globalizzazione viene poi sancita dall'ONU sin dalla sua creazione, quando ha affermato di prevedere un sistema collettivo di sicurezza per tutti, compresi gli Stati che non ne sono membri. In realtà, l'ONU non è molto diverso dalla SdN, non è una associazione contrattuale tra eguali, ma un riflesso dei rapporti di potere del momento a profitto dei suoi vincitori.

Detto questo, tutto il mondo si è inchinato a quella volontà.

Questa organizzazione, che si è voluta mondiale, era in pratica l'espressione del desiderio di dominio delle potenze vincitrici a scapito della volontà popolare che non venne presa in considerazione.

Questa realtà geopolitica è stata confermata al momento della creazione del Consiglio di Sicurezza che è composto dalle cinque maggiori potenze (i vincitori) come membri permanenti, e di altri membri, non permanenti, ma eletti secondo criteri geografici, con una conseguente rappresentazione subalterna dell'Africa e dell'Asia.

Il fallimento di questo sistema si è rivelato durante la Guerra Fredda. Il conflitto tra le due superpotenze è stato imposto alle potenze minori che ne hanno sopportato tutte le conseguenze a livello locale e regionale. Questa strutturazione dei ruoli è apparsa evidente nel funzionamento delle Nazioni Unite nei confronti di qualsiasi domanda di adesione per il trattamento dei conflitti, come si è visto per quanto riguarda la Palestina, la Corea, la nazionalizzazione del petrolio iraniano, la crisi del Canale di Suez, l'occupazione israeliana, il Libano ecc.

L'ONU è stata creata proclamando "la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne così come delle nazioni grandi e piccole, al fine di creare le condizioni necessarie per il mantenimento della giustizia e per il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e da altre fonti del diritto internazionale". Tuttavia, il sistema di veto ha privato le altre nazioni del diritto di essere degli attori in modo eguale.

In definitiva, le istituzioni internazionali hanno sempre mostrato gli equilibri del potere, lontano da qualsiasi idea di giustizia in senso filosofico o morale.

Il Consiglio di Sicurezza è un direttorio mondiale (in continuità di quello instaurato da Metternich) che riserva la possibilità di imporre risoluzioni solo agli alleati vincitori della seconda guerra mondiale, e non a coloro che cercano la pace.

Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, si è rivelato cruciale per cambiare il sistema internazionale.

LA RIFORMA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI DA PARTE DEGLI USA

In quel momento i discepoli di Leo Strauss hanno trionfato negli Stati Uniti con l'aiuto dei giornalisti neoconservatori. A loro avviso, la società è divisa in tre caste: i saggi, i signori e il popolo. I saggi, soli detentori della verità, ne rivelano una parte ai politici (i signori), mentre il popolo deve sottomettersi alle loro decisioni. Essi non hanno cessato di promuovere le loro idee e chiedono l'abrogazione dei principi del Trattato di Westfalia, ossia il rispetto della sovranità statale e la non ingerenza negli affari interni. Per imporre l'egemonia occidentale, costoro evocano un “diritto d’ingerenza umanitaria”, una “responsabilità di proteggere” che spettano ai saggi, posti in atto dai signori e imposto ai popoli. Nella revisione del vocabolario della Seconda Guerra Mondiale, si sono anche appellati a sostituire la "Resistenza" con dei negoziati. Nel 1999, gli appelli dei neoconservatori sono stati trasmessi in diversi paesi occidentali, tra cui Regno Unito e Francia. Tony Blair ha presentato l'attacco al Kosovo da parte della NATO come la prima guerra umanitaria della storia. In un discorso a Chicago, ha sostenuto che il Regno Unito non ha cercato di difendere i propri interessi, ma di promuovere valori universali. La sua dichiarazione è stata accolta molto positivamente sia da Henry Kissinger che da Javier Solana (che era allora segretario generale della NATO e anche dell'UE). Poco dopo, Bernard Kouchner è stato nominato l'amministratore ONU del Kosovo.

Non vi è alcuna differenza significativa tra la teoria straussiana e nazista. In Mein Kampf, Hitler aveva già stigmatizzato il principio della sovranità statale affermato dal Trattato di Westfalia.

In termini economici, questa visione ha già trionfato con FMI, Banca Mondiale e WTO. Fin dalla loro nascita, queste istituzioni hanno cercato di interferire nella situazione economica, finanziaria e di bilancio, in particolare sui più poveri e vulnerabili. Alcuni Stati arabi sono stati vittime della loro consulenza in materia di liberalizzazione economica, privatizzazione del settore pubblico e svendita delle risorse naturali.

Washington ha esitato sulla condotta da tenere dopo la scomparsa dell'URSS. A poco a poco gli Stati Uniti si sono affermati come unica superpotenza, come "iper-potere" nelle parole di Hubert Vedrine. Pertanto, si ritiene che il sistema delle Nazioni Unite ereditato dalla Seconda Guerra Mondiale sia stato superato. Essi non contenti di ignorare le Nazioni Unite, hanno poi cessato di adempiere ai propri obblighi finanziari(verso di loro), non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, si sono rifiutati di aderire alla Corte Penale Internazionale, e hanno ripetutamente umiliato l’Unesco.

Le idee stabilite con la Seconda Guerra Mondiale sono state spazzate via dagli attacchi dell'11 settembre 2001.

La Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d'America, enunciata dal presidente George W. Bush, il 20 settembre 2002, ha proclamato un nuovo diritto, quello della "azione militare preventiva contro gli stati canaglia".

La strategia statunitense è stata accompagnata da uno sconvolgimento concettuale. La nozione di Resistenza, dopo quella francese all'occupazione nazista, è stato delegittimata a favore di un esigenza di risoluzione dei conflitti tramite negoziazione, indipendentemente dai diritti inalienabili delle parti. Allo stesso modo, il concetto di terrorismo, mai definito nel diritto internazionale, è stato utilizzato per delegittimare qualsiasi gruppo armato in conflitto con uno Stato, qualunque siano le cause di questo conflitto.  Abrogando le convenzioni di guerra, Washington ha rinviato all’interesse del momento gli "omicidi mirati" che aveva cessaato dopo la guerra del Vietnam e che Israele ha praticato per oltre un decennio. Secondo i loro giuristi, non sarebbero a rigore un "assassinio", ma un "omicidio per legittima difesa", anche senza alcuna necessità di proteggersi, né concomitanza di minaccia e reazione, né proporzionalità della risposta. La “ingerenza umanitaria”, o la “responsabilità di proteggere” sono state collocate al di sopra della sovranità degli Stati. Infine, ha fatto la sua apparizione la nozione di Stati canaglia .

Questi Stati canaglia sono definiti tali da quattro criteri che sono rilevanti solo per supposizioni e per processi alle intenzioni:  



• I loro leader opprimono il loro popolo e saccheggiato i loro averi.

• Non rispettano il diritto internazionale e costituiscono una minaccia permanente per i loro vicini.

• Sostengono il terrorismo.

• Odiano gli Stati Uniti e i suoi principi democratici.


Con un decennio di ritardo dalla scomparsa dell'URSS gli Stati Uniti hanno lanciato il loro rimodellamento delle relazioni internazionali. Per quanto concerne il Medio Oriente, il filosofo neoconservatore Bernard Lewis. e il suo discepolo Fouad Ajami, hanno enunciato i principali obiettivi: mettere fine al nazionalismo arabo colpendo i regimi tirannici che sono il cemento del mosaico tribale, settario e religioso. La distruzione e lo smembramento degli Stati di questa regione porterà al "Caos costruttivo", una situazione incontrollabile in cui ogni coesione sociale scompare e dove l'uomo viene restituito allo stato di natura. Queste società ritorneranno allora ad uno stadio pre-nazionale, o addirittura pre-storico, dal quale sorgeranno dei micro-Stati etnicamente omogenei e, per forza di cose, dipendenti dagli Stati Uniti. Uno dei leader straussiani, Richard Perle, ha assicurato che le guerre in Iraq e in Libano sarebbero state seguite da altre in Siria, Arabia Saudita con infine l’apoteosi in Egitto.

TRE TAPPE

In ogni caso, la costruzione del Nuovo Ordine Mondiale è passata attraverso diverse fasi.

1. Dal 1991 al 2002 una fase di incertezza. Washington ha esitato nell’affermarsi come unica superpotenza e nel decidere unilateralmente il destino del mondo. Anche se questo periodo ha attraversato più di un decennio, rappresenta solo un breve momento nella storia.

2. Negli anni 2003-2006, Washington ha cercato di applicare a tutti i costi la teoria del "caos costruttivo" al fine di ampliare la propria egemonia. Ha combattuto due guerre, uno con le proprie truppe in Iraq, l'altro per procura in Libano. La sconfitta israeliana nel 2006 ha temporaneamente interrotto questo progetto. Russia e Cina, hanno allora usato due volte il veto nel Consiglio di Sicurezza (riguardo a Myanmar e Zimbabwe) anche per manifestare timidamente il loro ritorno sulla scena internazionale.

3. Nel periodo dal 2006 ad oggi, il sistema unipolare ha ceduto il passo ad uno non-polare. La potenza si è dispersa. Cina, UE, India, Russia e Stati Uniti da soli rappresentano oltre la metà degli abitanti del mondo, il 75% del PIL mondiale ed effettuano l'80% delle spese militari. Questo dato di fatto giustifica in qualche misura un sistema multipolare a causa della persistente concorrenza tra questi due poli.

LA NEBULOSA DI UN MONDO NON-POLARE 

È importante sottolineare che tali poteri devono affrontare le sfide provenienti sia dall’alto (le organizzazioni regionali e globali) che dal basso (le milizie, ONG, aziende multinazionali). Il potere è ovunque e da nessuna parte, in mani diverse, in diversi luoghi.

Oltre alle sei maggiori potenze mondiali, ci sono decine di potenze regionali. Si può portare ad esempio nell’America Latina il Brasile, e più o meno l’Argentina, il Cile, il Messico, il Venezuela. Nell’Africa, la Nigeria, il Sud Africa e l’Egitto. Nel Medio Oriente, l’Iran, Israele, l’Arabia Saudita. Il Pakistan, nel sud-est asiatico. Australia, Indonesia e Corea del Sud nell’Asia orientale e nel Pacifico occidentale.

Numerose organizzazioni intergovernative sono su questa lista di forze: il FMI, la Banca Mondiale, l'OMS e l'ONU in quanto tale. Le organizzazioni regionali come l'Unione africana, la Lega araba, l’ASEAN, la UE, l’ALBA, ecc. Per non parlare di club come l'OPEC.

Devono essere aggiunti alcuni Stati all'interno delle Nazioni Unite come la California o l’Uttar Pradesh [lo Stato più popoloso dell'India], e anche città come New York o Shanghai.

Ci sono anche aziende multinazionali, comprendenti quelle dell'energia e della finanza. E media globali come Al-Jazeera, BBC, CNN. E milizie come Hezbollah, l'Esercito del Mahdi o i Talebani. Bisogna aggiungere i partiti politici, le istituzioni religiose e i movimenti delle organizzazioni terroristiche, dei cartelli della droga, le ONG e le fondazioni. La lista è infinita.

Gli Stati Uniti rimangono la principale concentrazione del potere. Le loro spese militari annuali sono stimate oltre i 500 miliardi di dollari. Questa cifra potrebbe raggiungere i 700 miliardi se si tiene conto del costo delle operazioni in corso, sia in Iraq che in Afghanistan. Con il loro PIL annuo, stimato in 14 miliardi di dollari, sono al primo posto nell'economia mondiale.

Tuttavia, la realtà del potere degli Stati Uniti non deve mascherare il suo declino sia in termini assoluti che relativi ad altri Stati. Come notato da Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, il progresso di paesi come Cina, Russia, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ha raggiunto i 1.000 miliardi dollari all'anno. Questo è naturalmente dovuto al mercato dell'energia. Data l'esplosione della domanda da parte di Cina e India, tale importo continuerà a crescere. Il dollaro debole contro la sterlina e l'euro non si tradurrà solo in un deprezzamento del suo valore rispetto alle valute asiatiche, ma in una possibile trasformazione del mercato petrolifero che pagherà con un paniere di valute o in euro.

E quando il dollaro non sarà più la valuta di commercio del petrolio, l'economia statunitense si troverà vulnerabile alle crisi inflazionistiche e valutarie.

Due meccanismi di base hanno sostenuto la non-polarità del mondo:  



• I flussi finanziari hanno trovato la loro strada al di fuori dei canali legali e senza che i governi ne avesse-ro conoscenza. Questo suggerisce che la globalizzazione indebolisce l'influenza delle grandi potenze.

• Questi flussi sono stati ampiamente utilizzati dagli Stati petroliferi per finanziare segretamente attori non statali.


Di conseguenza, in un sistema non polare, il fatto di essere il più forte Stato del mondo non garantisce il monopolio della forza. Qualsiasi tipologia di gruppi o di individui, può accumulare influenza.

Secondo il professor Hedley Bull, le relazioni internazionali sono sempre state un misto di ordine e caos. Se seguiamo la sua teoria, il sistema non polare crea da sé stesso la propria complessità. E questo è proprio quello che è successo. 

Nel 2011, l'aggravamento delle tensioni sulla Libia ha dimostrato che il sistema non-polare non era più praticabile. Ne sono emersi due orientamenti concorrenti.

Il primo è degli USA. Esso mira a costruire un nuovo ordine mondiale che corrisponde alla strategia di Washington. Esso prevede l'abolizione della sovranità dello Stato stabilita dalla Pace di Westfalia, e la sua sostituzione con l'ingerenza umanitaria sia come legittimazione retorica che come cavallo di Troia dell’American way of life.

La seconda, sostenuta dalla Shanghai Cooperation Organization e dal BRICS, è sino-russa. È questai che ha preteso il mantenimento dei principi del Trattato di Westfalia, senza per questo volgersi indietro. Si tratta di determinare una nuova regola del gioco. Qualcosa che si basi sui due nuclei che ruotano attorno ad un certo numero di poli.

Chiaramente, il controllo delle risorse, compresa l'energia rinnovabile, è la porta ideale per la creazione di un nuovo sistema, il cui emergere è bloccato dal 1991.

E 'anche chiaro che il controllo delle rotte del gas e dei trasporti è il centro del conflitto in Siria. Senza dubbio, la polarizzazione dei poteri su questo argomento va certamente al di là delle cause interne, e supera la questione dell'accesso alle acque calde, o gli interessi logistici della base navale di Tartous.

L'IMPERATIVO ENERGIA

La battaglia dell’energia è stata la grande battaglia di Dick Cheney. L’ha condotta nel 2000-2008 nei confronti di Cina e Russia. Dopo, questa politica è stata perseguita da Barack Obama.

Per Cheney, la domanda di energia sta crescendo più rapidamente rispetto all'offerta, il che alla fine porta a una carenza. Il mantenimento del dominio degli Stati Uniti passa dunque in primo luogo attraverso il controllo delle rimanenti riserve di petrolio e gas. Inoltre, più in generale, se le relazioni internazionali attuali sono strutturate sulla geopolitica del petrolio, è la fornitura di uno stato che determina la sua ascesa o la caduta. Da qui il suo piano in quattro punti:  



• Incoraggiare, a qualunque costo, ogni produzione locale tramite dei vassalli al fine di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti nei confronti di tutti i fornitori non-amici a, in modo da aumentare così la libertà d’Azione di Washington.

• Controllare le esportazioni di petrolio dagli stati del Golfo arabo, non per accaparrarsele, ma per usarle come arma di pressione sui clienti e sugli altri fornitori.

• Controllare le vie marittime in Asia, vale a dire gli approvvigionamenti di Cina e Giappone, non solo di petrolio, ma anche di materie prime.

• Incoraggiare la diversificazione delle fonti di energia utilizzate in Europa al fine di ridurre la dipendenza europea verso il gas russo e l'influenza politica che Mosca persegue.


Ma gli americani hanno fissato come obiettivo primario la loro indipendenza energetica. Questo era il senso della politica sviluppata da Dick Cheney dopo ampie consultazioni con i giganti energetici, nel maggio 2001. Esso passa attraverso una diversificazione delle fonti locali: olio, gas domestico, carbone, energia idroelettrica e nucleare. E con un rafforzamento degli scambi con i paesi amici dell'emisfero occidentale, tra cui Brasile, Canada e Messico.

L'obiettivo secondario è quello di controllare il flusso di petrolio nel Golfo Arabico. Questa è stata la ragione principale nell’innescare prima Desert Storm (1991), e poi l'invasione dell'Iraq (2003).

Il piano di Cheney è focalizzato sul controllo delle vie marittime: lo Stretto di Hormuz (attraverso il quale passa il 35% del commercio mondiale di petrolio), o dello Stretto di Malacca. Ad oggi, questi vie marittime sono essenziali per la sopravvivenza economica di Cina, Giappone, Corea del Nord e anche Taiwan. Questi corridoi permettono di portare energia e materie prime per le industrie in Asia, e di esportare manufatti verso i mercati mondiali. Controllandole, Washington si garantisce la lealtà dei suoi principali alleati asiatici e al contempo limita l'ascesa della Cina.

L'attuazione di questi obiettivi geopolitici tradizionali ha portato gli USA a rafforzare la loro presenza navale nella regione Asia-Pacifico, e di entrare in una rete di alleanze militari con Giappone, India e Australia. Sempre col fine di contenere la Cina.

Washington ha sempre considerato la Russia come una concorrente geopolitica. Ha colto ogni occasione per ridurre il suo potere e la sua influenza. In particolare, temeva la crescente dipendenza dell'Europa occidentale dal gas naturale russo, il che poteva influenzare la sua capacità di gestire i movimenti di opposizione russi in Europa orientale e nel Caucaso.

Per offrire un'alternativa, Washington ha spinto gli europei ad approvvigionarsi nel bacino del Mar Caspio, mediante la costruzione di nuovi gasdotti attraverso Georgia e Turchia. Si trattava di aggirare la Russia con l'aiuto di Azerbaijan, Kazakhstan e Turkmenistan ed evitando l'uso di tubazioni della Gazprom. Da qui l'idea di Nabucco.

Per migliorare l'indipendenza energetica del suo paese, Barack Obama si è improvvisamente trasformato in un nazionalista autarchico. Ha incoraggiato lo sfruttamento di petrolio e gas in tutto l'emisfero occidentale, a prescindere dai pericoli della perforazione in zone ecologicamente fragili, come la costa dell'Alaska e del Golfo del Messico, e con l’utilizzo di qualsiasi tecnica, come il fracking.

Nel suo discorso sullo stato della Nazione 2012, il presidente Obama ha detto con orgoglio: 

"Negli ultimi tre anni abbiamo aperto milioni di acri di terra alla prospezione di petrolio e gas. Stasera ho chiesto all'amministrazione di aprire oltre il 75% delle risorse di petrolio e di gas in mare aperto. Ora, in questo momento, la produzione di petrolio degli Stati Uniti è la più alta da otto anni. E' vero. Da otto anni. E non è tutto. Lo scorso anno, la nostra dipendenza dal petrolio estero è diminuita ed ha raggiunto il livello più basso da sedici anni"[ 1 ].

Parlava con particolare entusiasmo, l'estrazione di gas naturale per cracking di scisti bituminosi: "Abbiamo riserve di gas naturali che preservano l'America per cento anni"[ 2 ].

Nel marzo del 2011, Washington ha aumentato le sue importazioni dal Brasile per diminuire quelle dal petrolio del Medio Oriente.

In effetti, Washington ha continuato a garantire il controllo degli Stati Uniti su importanti vie marittime che si estendono dallo Stretto di Hormuz a sud del mare della Cina, e a costruire una rete di basi e di alleanze che circondano La Cina, l'emergente potere globale, sotto forma di un arco che va dal Giappone alla Corea del Sud, all’Australia, al Vietnam e le Filippine nel sud-est, poi in l’India, nel sud-ovest. Tutto coronato da un accordo con l'Australia per costruire una struttura militare a Darwin, sulla costa nord, vicino al Mar Cinese Meridionale.

Washington sta cercando di includere l'India in una coalizione di paesi della regione ostile alla Cina e col fine di strappare New Delhi nelle mani di BRICS, una strategia di accerchiamento della Cina che causerebbe un problema molto grave a Pechino. 

Gli studi hanno dimostrato una ripartizione inattesa delle riserve di gas mondiali. La Russia è al primo posto con 643 miliardi di metri cubi nella Siberia occidentale. In secondo luogo, l'Arabia, compreso il deposito di Ghawar, con 426 miliardi di metri cubi. Poi nel terzo, il Mediterraneo con 345 miliardi di metri cubi di gas che devono essere aggiunti ai 5,9 miliardi di barili di gas liquido, e ancora agli 1,7 miliardi di barili di petrolio. Per quanto riguarda il Mediterraneo, esso è principalmente in Siria. Il deposito scoperto a Qara può raggiungere i 400.000 metri cubi al giorno, il che rende il paese il quarto più grande produttore nella regione, dopo Iran, Iraq e Qatar.

Il trasporto del gas dalla cintura di Zagros (Iran) verso l’Europa dovrà passare attraverso l'Iraq e la Siria. Questo ha completamente invertito i progetti americani e consolidato i progetti russi (Nord Stream e South Stream). Il gas siriano è sfuggito a Washington, e non gli resta che ripiegare sul gas libanese.

La guerra continua ...

Imad Fawzi Shueibi
Fonte; www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/Le-projet-de-Nouvel-Ordre-Mondial
14.08.2012

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da OLDHUNTER 

NOTE

[ 1 ] " Negli ultimi tre anni, abbiamo aperto milioni di ettari di nuovi campi di petrolio e gas, e stasera, sto autorizzando la mia amministrazione ad aprire oltre il 75 per cento del nostro potenziale off-shore di petrolio e di gas. (Applausi) Proprio ora - proprio ora – la produzione di petrolio americano è la maggiore. Da otto anni. Proprio così - otto anni. Non solo - l'anno scorso, ci siamo affidati meno al petrolio straniero che in uno qualunque degli ultimi 16 anni ".

[ 2 ] " Abbiamo una fornitura di gas naturale, che in America può durare quasi 100 anni."

mercoledì 15 agosto 2012

Produttori di Droni contribuiscono alla campagna milionaria delle elezioni al Congresso USA


La febbre del Presidente Obama del drone è contagiosa e si sta diffondendo in tutto il mondo, e le industrie americane  costruttrici stanno schiavizzando i dipendenti a lavorare oltre le loro possibilità per soddisfare la domanda.

Christopher Ames,  direttore dello sviluppo della strategia internazionale per il Pentagon General Atomics Aeronautical, era quasi contento nella sua dichiarazione a Reuters per quanto riguarda l'apertura di un potenziale lucrativo mercato d'oltremare, il controllo remoto delle macchine assassine.

"C'è stato un notevole interesse internazionale," ha detto a Reuters. "Ci sono molti  paesi che da tempo hanno chiesto i Predator... (la variante per l'esportazione) che aprono i mercati per noi."

Ames  non rivela quali paesi sono interessati all'acquisizione di droni della sua azienda, ma  ha confermato che l'America Latina, il Medio Oriente e l'Asia sud-orientale " sono tutte aree interessate a considerevoli acquisti".

Diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che diversi regimi, compresi quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita, hanno cercato di garantirsi contratti per l'acquisto di droni armati da fornitori americani, rivelatisi finora, infruttuosi.

In tutta onestà, General Atomics non è il solo "American Defense Contractor" ansioso di spacciare i droni Predator ad altri governi desiderosi di averli. Northrop Grumman e altre aziende continuano a spingere le lobby del Congresso e alla casa bianca per facilitare restrizioni all'esportazione di vendite di droni. 
Tali vendite libere di droni, naturalmente, potrebbero finire nelle mani di regimi che vogliono utilizzare tali dispositivi per danneggiare gli interessi americani nel mondo — un esempio fra tutti l'Iran.

"La proliferazione di questa tecnologia segnerà un grande cambiamento nel modo delle guerre combattute nel mondo ," ha detto Kimball. "Stiamo parlando di macchine da guerra molto sofisticate. Dobbiamo stare molto attenti a chi ottiene questa tecnologia. Per evitare che si rivolti contro di noi e ci facciano del male."

Chi non è avvezzo a ottenere il  modo di vendere, sappia, che i costruttori di droni  sanno che la strada per entrare nel cuore di un deputato è attraverso il suo portafoglio.

Le probabilità  che i lettori non hanno mai sentito parlare, di Caucus Unmanned Systems, sono alte.

rapporti tra i responsabili della costruzione dei droni e i legislatori è stato recentemente segnalato da una stazione radio in  Arizona:
Il drone —  e la tecnologia che la promuove — sta diventando sempre più di capitale importanza per la nazione, la visione del governo sui veicoli senza equipaggio,aiutano a risparmiare denaro nella difesa, come meglio pattugliare i confini del paese e fornendo un nuovo strumento alle agenzie  militari ed anche a quelle civili.

"È sicuramente una potente lobby nel Congresso," ha detto Alex Bronstein-Moffly, analista di primo Street Research Group, un'azienda basata a Washington D.C. che analizza dati di lobbying.

"È probabilmente lassù nell'Assemblea più potente che se né  parlato." E, dice, che membri dell'assemblea si sono ben piazzati per influenzare sia la spesa pubblica che regolamenti.

Il Congressista Howard P. "Buck" McKeon (R -California) è il co-presidente dell'assemblea. In particolare, McKeon serve anche come Presidente del House Armed Services Committee.

È interessante nota che l'assemblea comprende otto membri del Comitato sugli stanziamenti, ( House Committee on Appropriations), l'organismo che ha in  sostanza  il controllo dei cordoni finanziari del governo federale.

Molti dei membri dell'assemblea,  sono sostenuti finanziariamente dall'industria dei droni che essi avallano. Secondo i dati di Bronstein-Moffly, i membri del caucus 58  ha ricevuto un totale di $2,30 milioni in contributi nei comitati di azione politica a cui si sono affiliati i produttori drone dal 2011.

Inoltre, 21 membri del caucus drone rappresentano stati di confine. Questi membri del Congresso hanno ricevuto circa $1 milione in depositi nelle loro casse nelle campagne elettorali cicliche per le elezioni dal 2010 al 2012, secondo le informazioni segnalate da: Center for Responsive Politics and analyzed by Fronteras Desk and Investigative Newsource.

Ad esempio, la General Atomics’ PAC, è uno dei tre migliori contribuenti della campagna elettorale degli ultimi tempi in California a favore dei congressisti Brian Bilbray, Ken Calvert, Jerry Lewis e McKeon.

Nel 2010 e nel 2012, General Atomics’ PAC, ha pagato oltre $140.000 in donazioni per sostenere i membri, dei drone caucus, che rappresentano gli Stati e si trovano al confine con il Messico.

Un PAC in gran parte finanziato dalla Northrop Grumman ha contribuito per circa 150.000 $ per i 16 membri del Congresso nel caucus drone che rappresentano i distretti della California, del Texas, Arizona e Nevada.

Nessuna meraviglia che queste società mordono il freno per la rimozione degli ostacoli ai loro piani di vendite d'oltremare. In uno studio pubblicato di recente, il Teal Group stima che la spesa UAV sarà nel prossimo decennio quasi il doppio  delle attuali spese nel mondo,   UAV spende 6,6 miliardi di dollari ogni anno che diventano 11,4 miliardi di dollari, per un totale di poco più di $ 89 miliardi nei prossimi 10 anni.

lunedì 13 agosto 2012

BCE, EURO, SCENARI: appunti


BCE, EURO, SCENARI: appunti


1. Il 2 agosto, la Banca Centrale Europea (BCE), malgrado le roboanti esternazioni del suo presidente Mario Draghi sulla difesa ad oltranza dell’euro di pochi giorni prima, ha in parte “deciso di non decidere”, almeno fino a metà settembre, quando la Corte costituzionale di Karlsruhe emetterà la sentenza sulla costituzione del Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS), che si sostituirà all’attuale Fondo Salva-Stati, quest’ultimo dotato di 100 miliardi di euro, una cifra irrisoria per poter intervenire efficacemente contro gli assalti ai debiti sovrani dei paesi cosiddetti del Sud (ce ne vorrebbero 300 solo per salvare la Spagna). 

Questo significa che nelle prossime settimane, in mancanza di una autorità veramente in grado di “fare qualunque cosa per preservare l’euro”, i mercati saranno probabilmente soggetti a forti oscillazioni determinate dal “calcolo delle probabilità” sulla fuoriuscita o meno dall’euro di Spagna e Italia. La questione di fondo è: quanta sovranità i paesi del Sud sono di nuovo pronti a concedere per “tirare avanti” con i loro debiti crescenti?



Triste figure, di Raymond Burki , 24 heuresSvizzera 


Prima della riunione del board della BCE i paesi in sofferenza avevano chiesto che l’istituto di Francoforte si mettesse ad acquistare direttamente e in modo illimitato i titoli pubblici spagnoli e italiani in modo da favorire una diminuzione dei tassi ed evitare che il loro accesso al mercato fosse precluso. Spagna e Italia non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di solvibilità: l’intervento della BCE non dovrebbe essere solo quello di calmierare i mercati facendo scendere a livelli sostenibili i tassi di interesse, ma anche quello di sostituirsi eventualmente agli investitori che non vogliono più sottoscrivere questi stessi titoli. 

Il che comporta un radicale cambiamento della natura della politica monetaria della BCE. In sé, non si tratta di un fatto nuovo. Già nell’autunno dell’anno scorso la BCE aveva acquistato direttamente sul mercato oltre 200 miliardi di euro di titoli dei paesi in difficoltà. All’inizio di quest’anno aveva poi iniettato nel sistema bancario europeo oltre 1.000 miliardi di euro che sono stati usati soprattutto nei paesi mediterranei per acquistare obbligazioni dei loro Paesi. 

Pure, in seguito, seppure non sia stato ufficialmente proclamato, gli interventi della BCE sono proseguiti soprattutto attraverso cospicui finanziamenti delle banche spagnole e italiane. Col risultato di una esplosione del bilancio della BCE, che sta diventando il principale detentore di titoli statali dei Paesi in difficoltà o di obbligazioni in cui sono stati cartolarizzati mutui ipotecari e altri crediti delle banche.

Ma l’appello al cambiamento della natura degli interventi della BCE – da straordinari a ordinari – rappresenta una violazione dei suoi statuti, ciò che provoca, come si è visto in questi giorni, l’opposizione della Bundesbank. Come maggiore azionista della UE, per la Germania il salvataggio dell’Euro nella sua forma attuale diventa sempre più proibitivo, al punto che l’agenzia di rating Moody’s ha espresso un giudizio negativo sulle prospettive economiche della Germania. Il salvataggio dell’euro a colpi di interventi disordinati e a costi crescenti appare sempre più problematico. 

La prospettiva di una spaccatura dell’euro comincia infatti ad essere esplicitamente evocata da molte personalità tedesche. Essa appare come la soluzione più “ragionevole” ad una crisi che sta distruggendo non solo l’economia della zona euro, ma soprattutto la credibilità dell’ideale europeo. Come si dice in Germania, oggi è meglio un grande dolore con una fine certa, che un dolore senza fine.


2. É alla luce di questo scenario (la spaccatura dell’euro) che va interpretato quanto emerso il 2 agosto a Francoforte. E’ vero, come scrive il Financial Times (“Zen and the art of central banking”, 4 agosto), che sia Draghi che Bernanke sono ormai entrambi impegnati nell’arte Zen della nientitudine: “Strictly speaking, the Federal Reserve and the European Central Bank did nothing. But their respective leaders, Ben Bernanke and Mario Draghi, showed how doing nothing is far from being inactive”. 

Siamo, insomma, di fronte alle tipiche virtù della performatività del linguaggio, il “fare cose con le parole”. Fare cosa? “The real message is that the peripheral economies will not be given money for nothing. The pressure for meaningful structural reform is to remain intense, and any short-term bailout will be conditional and supervised by external agencies” (“Italy and Spain coy on rescue fund move”, FT, 3 agosto). Ecco la novità: la BCE è disposta ad agire solo se prima i paesi che chiedono un intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni, aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea. Le parole della BCE, comunque, hanno disorientato i mercati, tanto che, dopo la reazione catastrofista dei mercati del giorno seguente, c’è voluta una spiegazione del Financial Times per ristabilire, in modo altrettanto esagerato, la fiducia degli stessi mercati. Insomma, da un atto linguistico all’altro. 

L’incertezza regna sovrana.


Ma procediamo con ordine: prima di tutto, con le “decisioni” della BCE di Draghi siamo ancora lontani da quel cambiamento della politica monetaria auspicato da molti prima del 2 agosto, ossia la trasformazione della BCE in una vera e propria banca centrale che, intervenendo direttamente sui mercati con l’acquisto di obbligazioni pubbliche (come fa la Fed o la banca centrale giapponese, ecc.) si preoccupa non solo di combattere l’inflazione (ancora l’unica vera priorità della BCE), ma anche di regolare in senso macro-economico le variabili fondamentali della crescita economica (investimenti e occupazione, in primo luogo). 


É vero che la BCE, oltre ad effettuare operazioni sul mercato secondario di “importo adeguato”, potrebbe non sterilizzare gli acquisti di titoli, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un quantitative easing mirato, ossia la creazione di liquidità a mezzo di interventi sul mercato dei titoli statali. Ma qui siamo ancora nell’ordine dei possibili. É stato invece deciso che la BCE interverrà solo dopo che sia stato concordato un programma di assistenza tra il Paese che chiede aiuto e il FondoSalva-Stati/Salva-Spread. E qui, apriti cielo! “Questa subordinazione ha almeno due inconvenienti. Primo, la richiesta di aiuti all’Efsf è un’ammissione di impotenza. 

Ciò ha ovvi costi politici, ma anche economici, perché rivela che lo stesso Paese ritiene di non riuscire a farcela con le proprie forze. L’esperienza (europea e internazionale) insegna che, quando un Paese chiede prestiti a organismi sovranazionali, l’accesso ai mercati gli rimane poi precluso a lungo. Secondo, la richiesta di aiuto è formulata prima di sapere quali condizioni saranno imposte per ricevere assistenza. L’incertezza non è di poco conto, perché l’intervento dei fondi europei deve essere approvato dall’Eurogruppo. Le condizioni imposte sono quindi il frutto di un negoziato politico e non solo tecnico. 

Un negoziato intergovernativo, condotto in posizione di estrema debolezza contrattuale, potrebbe costringere il Paese a subire condizioni fortemente pregiudizievoli dell’interesse generale dei propri cittadini” (Guido Tabellini, “La BCE cerca scudi politici”, Il Sole 24 Ore, 4 agosto). Perché, allora, questa clausola della “sorveglianza speciale”, oltretutto aggiuntiva a quelle già decise (e approvate dai Parlamenti)? Se lo chiede addirittura Eugenio Scalfari: “Ho grandissima stima ed anche affettuosa amicizia per Mario Draghi ma non mi impedisce di porgli la domanda: perché l’acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev’essere autorizzato?” (La Repubblica, 5 agosto). Secondo Tabellini, “la vera ragione di questa pistola puntata alla tempia è che la BCE ha bisogno di una copertura politica. Senza l’accordo e la sorveglianza dei governi europei, non vi sarebbe una maggioranza abbastanza ampia nel Consiglio della BCE per approvare gli acquisti di titoli di Stato sul mercato secondario. Prendiamone atto, nella consapevolezza che i governi delle banche centrali europee sono tutt’altro che indipendenti dal potere politico”. 

E questa sarebbe la “vittoria” di Mario Draghi contro Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank “isolato” a causa della sua testardaggine? Sembra di sognare! Di fatto, ha vinto l’ordoliberismo tedesco, ha vinto cioè la politica del rigore e della disciplina politico-statale funzionale al rafforzamento dell’economia di mercato. “Se, come probabile, saremo costretti a chiedere lo scudo ‘anti-spread’, la campagna elettorale sarà un inutile esercizio retorico: la politica economica italiana dei prossimi anni verrà comunque decisa a Francoforte”. “Le varie road map elettorali dei partiti rischiano di scomparire prima ancora di essere imboccate… Il ‘che fare’ sarà l’agenda dell’Europa per salvare l’euro e l’Italia è il test più importante. Le alleanze politiche dovrebbero seguire: pro o contro l’euro è la prima linea di demarcazione. Una comoda terza via non esiste, fermo restando che si può essere euro-ottimisti ma non euro-stupidi, ed euro-scettici ma non populisti all’ultimo stadio” (Guido Gentili, “I compiti a casa, strada obbligata”, Il Sole 24 Ore, 4 agosto). Goodbye Mr. Socialism.


3. Siamo ormai in un “nuovo feudalesimo” basato sullo “Stato di eccezione” di Karl Schmitt, come scrive Guido Rossi, “che comporta la rigida soggezione economica della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o burocrati, poco importa” (Il Sole 24 Ore, 5 agosto)? Sembrerebbe di sì, con la (ovvia) differenza che nel feudalesimo criticato da Montesquieu il comando gerarchico era basato sulla confusione tra ricchezza terriera e autorità, mentre oggi la ricchezza finanziaria rimanda al comando sul comune, al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso. 


Privatizzazione dei beni comuni, smantellamento del Welfare State, dismissione del patrimonio pubblico, costrizione al debito (in Italia, negli ultimi mesi, il debito privato delle famiglie pare sia aumentato del 33%), sono le forme del comando neo-feudale sulla moltitudine attiva, sul comune. Da soli, i mercati finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di feudalizzazione del comune. Per questo c’è bisogno delle istituzioni statali, del sistema dei partiti, delle modifiche della costituzione (vedi, ad esempio, il pareggio di bilancio o le varie spending reviews). La questione della rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta di classe “oltre la rappresentanza”.

Questo significa “lottare contro l’euro”, e a nulla serve l’illusione (social-democratica) che, salvando l’euro, si salva la possibilità di aprire spazi di resistenza sovra-nazionali. Questo euro sta di fatto de-europeizzando l’Europa, la sta frammentando, balcanizzando, riproponendo concretamente un sovranismo nazional-bancario destinato a restringere sempre di più gli spazi di socializzazione-europeizzazione delle lotte sociali.


I dati sulla riduzione, a partire dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di Germania e Francia sono a questo proposito significatvi: una riduzione dei prestiti alle banche dei paesi periferici e semi-periferici pari a oltre il 25%. Si tratta di una vera e propria “financial fragmentation and nationalization”, conseguenza della paura che una spaccatura dell’Euro porti all’introduzione dei controlli sui movimenti di capitale e all’aumento della pressione per erogare crediti a partire dai depositi interni ai paesi deboli. 

Ne consegue che al Nord le banche possono far crediti a costi ridotti, mentre al Sud si assiste alla drastica riduzione della capacità creditizia (vedi “German banks sound retreat. Net lending to weaker eurozone nations falls. French groups also cut cross-border exposure”, FT, 30 luglio).

Non c’è quindi spazio per velleità sovraniste, di ritorno alla sovranità nazionale per rompere la camicia di forza della moneta unica. Di fatto, il sovranismo bancario è già in atto e non ci sembra che stia contribuendo a migliorare la situazione. Una situazione, oltretutto, in cui la frammentazione è concretamente all’opera all’interno degli stessi Stati nazionali, come sta accadendo in Spagna, ma anche in Italia, con la crisi della Catalonia, di Valencia, ecc. (“Europe’s Brutual Game Of Dominos”, BloombergBusinessweek, 5 agosto). E, soprattutto, in una fase in cui “The stream of migrants is the most eye-catching part of a larger trend – people from recession-hit countries in the southern eurozone moving northwards to seek work” (Gerrit Wiesmann, “Greek swap sun and austerity for jobs in rainy Germany”, FT, 2 agosto). 


La questione dei migranti torna ad essere fondamentale nella definizione degli spazi di lotta.
C’è solo spazio per la costruzione di una moneta (del) comune che sappia dare espressione materiale alla lotta di classe trans-nazionale. Una lotta che parta da precise e concrete “soggettività migranti”, da forme di riappropriazione del comune, del sapere (“Maybe it is easier to be European if you’re well educated”, dice un emigrato greco), che su queste basi sappia ricomporre un “sapere monetario condiviso”, in cui la moneta sia veicolo di ricomposizione di senso, di autonomia sociale, non certo di esclusiva appropriazione di lavoro e di vita altrui.



4. La tenuta sociale, interna ai vari paesi della zona euro, è il problema centrale dei prossimi mesi. La moneta unica, con le riforme economiche che comporta, non può reggere se cresce un movimento di rivolta contro il sistema dei partiti chiamato ad implementare i Memorandum della troika. Di questo sono perfettamente consapevoli anche i tedeschi. Hans-Werner Sinn e Friedrich Sell prongono sulle colonne del Financial Times la loro soluzione a questo problema politico-sociale: “The idea is to allow countries leaving the euro to adopt their own currency temporarily with an option to return later” (“Our opt-in opt-out solution to the eurozone crisis”, FT, 1 agosto). Sinn è l’economista tedesco più influente, colui che da tempo critica (ferocemente) i paesi periferici per il loro lassismo, sostenendo l’insostenibilità economica per la Germania dell’attuale sistema monetario europeo. L’idea di permettere ai paesi del Sud di uscire “temporaneamente” dall’euro per riconquistare la loro competitività (via svalutazione della loro moneta) e, soprattutto, il loro consenso politico-sociale interno, la dice lunga su quel che i tedeschi hanno in mente, e da tempo: la spaccatura dell’eurozona, né più né meno. Esiste già un accordo (European Exchange Rate Mechanism) che permette ai paesi in attesa di entrare nell’euro, come la Danimarca, la Lettonia e la Lituania, di “esercitarsi” per un paio di anni (infatti, l’ERM II da loro proposto ai paesi deboli già nell’euro dovrebbe essere una specie di “training space”) prima di entrare a far parte dell’eurozona. Insomma, quel che Sinn e Sell propongono è una spaccatura dell’euro in due aree monetarie (se poi la Grecia, la Spagna o l’Italia ritorneranno nell’euro, dipenderà dalla loro capacità di sfruttare la leva della svalutazione entro un margine di +/- 15%). Gli esempi storici di uno scenario del genere non mancano: la separazione dal dollaro del D-Mark nel 1969, l’uscita della sterlina dallo SME all’inizio degli anni ’90, l’Argentina e la rottura della parità col dollaro nel 2002.


É, a suo modo, un’opzione sovranista (Jacques Sapir è ancora più radicale, ma la direzione sembra la stessa) ma declinata su due aree monetarie. Si noti che anche Michel Aglietta, che sostiene l’opzione federalista, non vede affatto male l’uscita della Grecia dall’euro (Zone Euro. Eclatement ou fédération, Michalon: Parigi, 2012). Chi, come noi, parte dalle lotte, dai movimenti, dalle soggettività, non può sottrarsi dall’esprimersi politicamente su questi scenari. Da una parte, è evidente che l’Eruopa monetaria sta sgretolandosi a causa delle sue contraddizioni interne (monetarie e istituzionali). Personalmente continuo a credere che la spaccatura dell’euro sia l’esito più probabile. Non lo auspico, semplicemente mi sembra che sia “nelle cose”. Vedremo. Dall’altra, il passaggio dalla moneta unica attuale alla moneta (del) comune è l’orizzonte dei movimenti sociali, che sono apolidi (per definizione storica) e che quindi devono sottrarsi a qualsiasi ripiegamento sovranista. La moneta (del) comune sarà l’esito di questa tensione. É un processo materiale, costitutivo, aperto.


sabato 11 agosto 2012

Massicce irrorazioni sul Nord Pacifico = Spaventosa siccità negli USA


Massicce irrorazioni sul Nord Pacifico = Spaventosa siccità negli USA 
GeoEngineering Watch

drought-monitor-july-20121-300x224La foto satellitare di oggi, in basso, dovrebbe essere estremamente allarmante per chiunque la esamini da vicino. L'intera porzione dell'Oceano Pacifico, visibile in questa immagine, è praticamente coperta da foschia da irrorazione di aerosol. Si riescono a riconoscere le singole scie con un attento esame. Tutti quelli che si prenderanno il tempo per cercare articoli sull'argomento "la geoingegneria riduce le precipitazioni" o voci simili, si accorgeranno che non vi è praticamente alcun dibattito a livello scientifico. Un ambiente saturo di particelle diminuisce e disperde la pioggia. Punto e basta. 

 Inoltre, la natura di questi metalli riflettenti che bloccano il sole riduce drasticamente l'evaporazione, rendendo l'intero scenario molto peggiore. Se l'irrorazione continuerà, continuerà anche la siccità. Anche se la siccità indotta è già abbastanza grave, i milioni e milioni di tonnellate di particolato assolutamente tossico che stanno scaricando vengono trasportati dall'atmosfera e si depositano sul pianeta intero. 

 I nostri cieli bianco argento sono un segnale molto chiaro di questo, anche quando non ci sono irrorazioni evidenti sopra la nostra testa. Quanto metallo è già contenuto nel nostro corpo a causa della costante introduzione? Lo strato di ozono viene distrutto ogni giorno dalle irrorazioni. 

I livelli di raggi UV sono già alle stelle. Non è difficile rilevare l'intensità del sole negli ultimi tempi. (Cercate "la Geoingegneria distrugge lo strato di ozono") Non c'è alcun dibattito su ciò che le particelle nell'alta atmosfera fanno allo strato di ozono. Lo decimano. Punto e basta. 

 Come mostra chiaramente l'immagine qui sotto, l'irrorazione del nostro pianeta va avanti giorno dopo giorno a tutta velocità. Anche se alcuni non vedono nulla direttamente sopra la testa, e pensano che tutto va bene, è tutt'altro che così.


 SW Current US Siccità Monitor 

 L'interruzione di dati per le mappe Drought Monitor avviene il Martedì alle 7 del mattino, Eastern Standard Time. Le mappe, che sono basate sull'analisi dei dati, vengono pubblicate ogni Giovedi alle 8:30 am Eastern Time. 

 NOTA: Per visualizzare le condizioni di siccità regionali, cliccate sulla mappa qui sotto. Si puo' accedere alle mappe degli Stati dalle mappe regionali. 

 Fonte: GeoEngineering Watch 6 Agosto 2012 
 Traduzione: Anna Moffa per ilupidieinstein.blogspot.it

martedì 7 agosto 2012

Perché il Sardo è una Lingua


Perché il sardo è una lingua.

Alexandra Porcu 
“A volte, dare una spiegazione sui vari tipi di lingue e linguaggi che esistono, è più facile per i non-linguisti che per linguisti. I non-linguisti differenziano in maniera chiara, per esempio distinguono facilmente tra lingua e dialetto. […]. I non-linguisti dichiarano una lingua quella che si scrive, invece i linguisti hanno imparato a ignorare questa differenza, anzi hanno scoperto che si tratta solo di una differenza fittizia […].” (Coulmas: 1985: 16).

Normalmente, oggigiorno nessuno metterebbe in dubbio che il sardo sia una lingua e non un dialetto dell’italiano. Ispirata però da una notizia di attualità, sono arrivata a chiedermi, con quale criterio le persone che lavorano nella Cassazione, si fanno le loro idee; Se in un tribunale per poter parlare di delitto, si chiamano esperti: medici, psicologhi, chimici ecc. Quando invece si parla di lingua? Non ci si dovrebbe forse affidare a nessun esperto? A quanto pare, in Italia succede. La Cassazione, con dei giudici che dovrebbero difendere la dignità delle persone e delle varie comunità, ha sentenziato, qualche settimana fa, che il sardo è un dialetto e non una lingua. Persone che ovviamente hanno studiato giurisprudenza e non linguistica.

A questo punto, dove sono i critici sardi? I linguisti e gli intellettuali, difensori della lingua sarda? Sono qui e si stanno lamentando. Sono usciti vari articoli nella pagina di in “Formaparis”, su Facebook e nei quotidiani sardi. Un partito indipendentista ha convocato un incontro a Cagliari, dal titolo: “Fine della lingua sarda?”, dove si parlerà di questo problema.

Essendo figlia di emigrati sardi, nata e cresciuta in Germania e avendo studiato romanistica e linguistica, sono rimasta veramente senza parole per l’accaduto. Per questo ed altri motivi vorrei offrire il mio modesto contributo “da fuori”.

Mi chiedo: Come mai sia possibile che oggigiorno esistano ancora incertezze generali sul fatto che il sardo sia una lingua propria e non un dialetto dell’italiano? Forse è così come dice Coulmas. Il problema è che non esiste una lingua sarda unificata scritta, accettata e adoperata dal Popolo Sardo, meglio: da tutti sardofoni. Questa situazione porta spesso ad alcuni non-linguisti, che sono ovviamente un numero molto più grande dei linguisti, a pensare che il sardo non sia a pari dignità con l’italiano.

Il purismo ottocentesco in Italia, il Fascismo italiano e la tarda riconoscenza (1999) delle lingue minoritarie nella Costituzione dello Stato Italiano, ha contribuito a far credere al Popolo Sardo che la loro lingua fosse un dialetto dell’italiano appunto. L’ha fatto credere non solo a loro, ma anche agli italiani. E per questo motivo, il sardo non ha mai avuto lo stesso prestigio dell’italiano.

In quest’articolo vorrei quindi avvicinarmi al problema della distinzione tra lingua e dialetto.
Considerando che il Sardo non possiede una forma di lingua scritta, accettata dalla maggior parte dei parlanti, dobbiamo stabilire altri criteri che dimostrino che il sardo non sia un dialetto. Di solito questi criteri non sono insiti nel “corpus” dell’idioma in considerazione, poiché ogni dialetto è funzionale come lo è una lingua (anche un dialetto ha parole, una grammatica, morfologia ecc. insomma: è un sistema composto da “materiale linguistico”).

Ciò che rimane allora, sono esclusivamente dei criteri sociologici e culturali, criteri che vorrei elencare qui di seguito. Ovviamente, riferendomi ad altri linguisti, testi scientifici di linguistica e sociolinguistica. Le citazioni, in lingue straniere sono state da me tradotte, in modo non lineare, rispettandone sempre l’autenticità del contenuto.

Iniziamo: La soluzione dei non-linguisti, di vedere nella lingua scritta l’aspetto più importante, è collegata al concetto di lingua=nazione. I dialetti elevati a lingue, lo sono diventati con la fondazione degli stati. Di solito questi dialetti erano la base della lingua letteraria, almeno in Italia con il fiorentino e le Tre Corone (Dante, Boccaccio e Petrarca) è stato così. Tutto questo accompagnato però da un processo storico.   

“Dialetti e lingue d i v e n t a n o storiche ed è per questo motivo che in alcuni casi è molto difficile rispondere alla domanda ‘lingua o dialetto?‘, siccome in alcuni casi il processo non è ancora finito e non è ancora arrivato alla sua destinazione […].” (Coseriu: 1980: 108).

Per quanto riguarda il sardo questo processo è finito. L’unico problema è che i sardi non hanno una lingua standard scritta, accettata e usata dai parlanti del sardo. Una lingua sarda che utilizzano tutti i sardofoni e che s’insegna nelle scuole. Insomma: un sardo che si usa in “maniera normale” ovvero, normalizzato. Questo, secondo me, è l’unico passo, ancora da fare in Sardegna per rassegnare alla definitiva sconfitta i detrattori della nostra lingua.
Gli altri processi che rendono il sardo una lingua, sono stati compiuti. Processi e fatti che vorrei elencare.

1.   La politica linguistica

Spesso, nella letteratura linguistica che parla del sardo, si trova la frase di Max Weinreich:
„A shprakh iz a diyalekt mit an armey un a flot“ (Una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito e una flotta), si veda per esempio: Bolognesi/ Heeringa: 2005: 19, Casula: 2010: 9, Stolfo: 2009: 27. Una metafora buona, ma non molto soddisfacente se si vuole veramente distinguere tra lingua e dialetto. La maggior parte degli autori che usano questa metafora, sono del parere che la “flotta e l’esercito” sia collegato al riconoscimento politico di una lingua. Questo criterio è il più noto di tutti:

“Parlare di Lingua Sarda è doppiamente giusto dal giorno in cui i sardi (un numero sufficiente di sardi) hanno deciso di esigerne il riconoscimento politico. Questo però non significa che il sardo sia ‘tecnicamente’ una lingua nel modo in cui lo è l’italiano o l’inglese. Un qualsiasi dialetto locale invece lo è. Le cosiddette lingue nazionali sono in genere dei dialetti che ‘hanno fatto carriera in politica’. […].” (Bolognesi: 2002: 37).

Se non si tratta di una lingua nazionale, il riconoscimento al livello politico di una lingua minoritaria è molto importante. Questo processo è avvenuto con la legge 482, del 1999, quando nella Costituzione Italiana sono state elencate per la prima volta le minoranze linguistiche. Sono state chiamate: “Lingue storiche”. Tra loro anche il sardo. La richiesta è stata già fatta da Salvi quasi venticinque anni prima (1975) nel suo libro “Le lingue tagliate”. Sono passati cinquant’anni dalla Costituzione Italiana del 1948, nella quale si scriveva solo che le minoranze linguistiche si devono tutelare. Prima del 1999 non sono mai state nominate.

2.   Il nome di una lingua.

”Il riconoscimento di una lingua avviene di solito, non solo se i parlanti stessi la riconoscono come tale, ma anche se lo fanno i parlanti di altre comunità. Una lingua storica è una raccolta di tradizioni storiche del parlare. Queste tradizioni storiche del parlare definiscono l’autonomia di una lingua. Questo viene riconosciuto dai parlanti stessi e dai parlanti di altre comunità linguistiche. Questo riconoscimento trova espressione aggiungendo a queste tradizioni storiche del parlare un adiectivum proprium. Per esempio chiamandole: ’lingua tedesca’, ’lingua inglese’, ’lingua francese’ e così via.” (Coseriu: 1980: 109).

In italiano si dice: la lingua sarda, in inglese: Sardinian language e in tedesco: Sardische Sprache, ecc. In tutte le lingue menzionate, al sardo è affiancato la parola “lingua”. I sardi  chiamano la loro lingua Limba/ Lingua Sarda (lingua sarda) o Su sardu. L’ultimo nome dimostra che non solo le combinazioni delle parole Limba Sarda si deve analizzare, ma anche il glottonimo (il nome di una lingua): Su Sardu (Il Sardo). Seguendo Back che ha fatto una ricerca sui vari tipi di glottonimi, il sardo fa parte del tipo 3.2 perché deriva dall’etnonimo (nome dell’ etnia).:

“Esistono aree linguistiche, dove i parlanti dichiarano di far parte di una sola comunità etnica. Di solito in queste aree si sono sviluppate più di una varietà regionale standard (dialetti scritti) invece di una lingua standard che fa lingua tetto alle altre norme. Ma comunque si usa solo un glottonimo per tutte queste varietà, il quale deriva dall’etnonimo, del sentimento d’unità della popolazione.” (Back: 1982: 235).

I sardi stessi si dichiarano minoranza etnica, il Popolo Sardo, non solo per la situazione geografica dell’essere un’isola, ma soprattutto perché si distinguono geneticamente da altre popolazioni europee.  

3.   Appartenenza

Ancora non è stato discusso esplicitamente che cosa significa allora Lingua Sarda Su Sardu, se non esiste una lingua tetto. Nel caso del sardo si tratta di una coesistenza di dialetti, dei dialetti sardi. Se si parla della Lingua Sarda, si sta parlando di uno di questidialetti sardi che nel momento del parlare rappresenta la Lingua Sarda Il Sardo, lo accenna anche Bolognesi nella citazione precedente. Bruno (1999: 88) usa, per questo fenomeno, la metafora termine ombrello.

LA lingua sarda non esiste, ogni dialetto sardo è Lingua Sarda Su Sardu, è LA lingua.Questo dimostra che i parlanti sanno che i loro dialetti appartengono ad una famiglia linguistica, e che i dialetti sardi fanno parte di UNA lingua con tanti dialetti. Una lingua che NON fa parte del sistema linguistico italiano.

”Tutto sommato, possiamo dire che: Sebbene i sardi non abbiano una lingua standard, nel senso di una lingua sovraregionale, i parlanti si distinguono consciamente, tramite la loro lingua, dall’area culturale e linguistica italiana.” (Rindler Schjerve: 1982: 278).

4. La tradizione letteraria

La maggior parte dei dialetti sono d i v e n t a t e lingue sulla base di uno standard letterario. Kloss, distingue tra “Abstandsprachen“ (“lingue di distanza”) e “Ausbausprachen“ (“lingue in costruzione”). Il criterio più importante tra queste due è la letteratura (o la lingua scritta). Già la scelta terminologica di Kloss, indica la diversità tra questi due concetti.

"Abstandsprachen" sono le lingue che si distinguono ovviamente di altre sulla base della loro diversità strutturale. Per Kloss il sardo fa parte delle "Abstandsprachen" (1978: 28). In questo caso, la data della pubblicazione è molto importante, poiché il sardo in quel periodo non era neanche riconosciuto ufficialmente.
Kloss definisce il concetto di "Ausbausprache" così:

“Ausbausprachen sono ’lingue, che sono in costruzione, lingue che -nel loro essere in costruzione- si posso usare in vari luoghi perché sono diventate strumenti qualificati in certi ambiti’. Lingue che fanno parte di questa categoria, sono state riconosciute come tali perché sono state costruite o arricchite per servire come strumenti standardizzati per ogni faccenda letteraria.” (Kloss: 1978: 25).

Letteratura in lingua sarda esiste, non esiste una sola lingua sarda scritta (anche se esistono due tradizioni letterarie sarde, il “Campidanese Illustre” e il Logudorese Illustre”). Si scrive in sardo da mille anni. Si scriveva, e anche attualmente si scrive in sardo, basta vedere la raccolta di Tola (2006). Non si può quindi negare l’esistenza della storia letteraria sarda. Tutti i testi, scritti in sardo, sono l’evidenza di una tradizione letteraria storica sarda.

Oggigiorno, Kloss, probabilmente riconoscerebbe il sardo più come „Ausbausprache“, invece di „Abstandsprache“, siccome tutti i punti menzionati prima, la rendono tale. Al massimo, si potrebbe dire che il sardo non solo ha compiuto l’azione di d i v e n t a r e una lingua storica, ma che sta compiendo anche l’azione di  d i v e n t a r e una “Ausbausprache”. L’ultimo passo per arrivare a quest’obiettivo, così Kloss, è di arrivare a una lingua standard che non si usa solo per produrre letteratura, ma che venga usata anche in saggi, testi giornalistici e informativi (1978: 37).

Ciò che allora mette il dubbio ad alcuni sardi e infine anche alla Cassazione italiana, è il fatto di non voler riconoscere il sardo come lingua perché non esiste una lingua sarda scritta unitaria, come quella italiana, e il fatto che i sardi sono stati alfabetizzati in italiano rafforza questo sentimento, purtroppo.

Riassumiamo i criteri che sono stati menzionati. Criteri generali che possono far parte dell’“esercito e della flotta“ che rendono il sardo, una lingua storica. Certamente questi criteri possono essere ampliati e approfonditi.

1.   Il riconoscimento politico giuridico nella legge dello Stato, in questo caso quello Italiano con la legge nr.482 del 1999.
2.   Il nome di una lingua ”la lingua sarda“, “sa limba/lingua sarda”, “su sardu”, “il sardo”.
3.   La coscienza del popolo sardo che i loro dialetti appartengono a un altro sistema linguistico, quello sardo e non quello italiano.
4.   L’esistenza di letteratura, scritta in sardo, anche se non unitario.
5.   L’esistenza di una lingua standard scritta che funge come lingua tetto, sovraregionale.

La tesi che avevo stabilito all’inizio, ormai però non è più valida al cento per cento. Tant’è vero che non esiste UNO standard della lingua sarda, ma esistono vari. Anche l’ultimo criterio, menzionato qui, ormai è “in costruzione”; vari standard in competizione tra loro sono i candidati ufficiali e ufficiosi pronti ad assolvere questo compito.

Sotto i nostri occhi sta veramente nascendo LA lingua sarda. Stiamo arrivando a ciò che Coseriu chiama “l’Esemplare di una lingua” (1980: 113), tramite una koinè che, secondo me, si sta creando in questo momento. Si stanno già usando vari standard scritti del sardo che prima o poi si uniranno. Nascerà LA lingua sarda. Ci vorrà un po’ di tempo, l’importante è che i sardofoni continuino ad usare la loro lingua, sia nel parlato e anche nello scritto. Non solo gli intellettuali e gli scrittori, TUTTI.

Infine però, quest’ultimo criterio è l’unico criterio che alcuni NON-linguisti cercano di non vedere per evitare di dover riconoscere l’evidenza che il sardo è una lingua, una lingua al pari dell’italiano, e non un dialetto di quest’ultimo. Allora quale sarebbe la soluzione per convincere gli ultimi scettici, e infine tutti coloro che in Cassazione non sono stati in grado di chiamare un esperto che inesorabilmente gli avrebbe confermato che il sardo è una lingua e non un dialetto?

A mio modesto avviso ci si dovrebbe avvicinare ad UNO standard scritto, usando le varie proposte di standard che esistono. Ogni comune sardofono in Sardegna dovrebbe avere la libertà di scegliere quale standard vuole adottare. Ormai si possono scegliere: La Limba Sarda UnificadaLimba de Mesania, Limba Sarda Comuna, Grammatica di Lepori, Ainas po su Sardu, Grafia Sarda Comuna di Bolognesi,  ecc.

Tutte queste proposte di standard scritto (e altre) si usano già in internet ed altri posti. Sinceramente, negli ultimi anni ho osservato un processo di avvicinamento tra loro, perché infondo, si capiscono tutti, poiché stanno scrivendo la stessa lingua: Su Sardu. Questo passo, tra l’altro democratico, si dovrebbe fare per arrivare ad UNA “Lingua Esemplare” che tutti i sardi accettino e usino quotidianamente, questo senza eliminare le specificità locali nel parlato.

Tutto questo, lo dovrebbe scegliere il Popolo Sardo e non la Regione Autonoma della Sardegna. La RAS dovrebbe fungere solo come rappresentante del popolo, così come la Cassazione.

So che sembra che questa mia idea crei solo caos, ma anche questo “caos” alla fine, in futuro, sarà un processo, un passo storico nel tempo, nel D I V E N T A R E.

Il sardo si dovrebbe: insegnare nelle scuole, usarlo nei media, inserire un esame obbligatorio in concorsi pubblici, usarlo sempre e da per tutto. In maniera tale che un giudice della Cassazione non possa arrivare a comprare neanche un pacchetto di sigarette in Sardegna, senza un vocabolario sardo-italiano. Se così fosse, nessuno metterebbe in dubbio che il sardo È una lingua e non un dialetto.

Si parla sempre di “difesa della lingua sarda”, invece di fare un “attacco con la lingua sarda”. Certamente, scrivendo questo, non ho scoperto l’America, ma secondo me il bravo linguista scrive le cose che i parlanti sanno già, ma che a volte vanno ricordate e riportate alla coscienza dell’essere umano.

Solo un’ultima domanda mi tormenta. Se tutti i sardofoni iniziassero a scrivere lettere minatorie ai giudici della Cassazione, naturalmente in lingua sarda, potrebbero essere citati in giudizio? 

Alexandra Porcu, Berlino 

Bibliografia:

Back, Otto (1982): „Sprachsituationen und Sprachennamen“, in: Braga, Giorgio / Monti Civelli, Ester (Hrsg.) Linguistic problems and European unity, Milano: Franco Angeli Editore (233-237).

Bolognesi, Roberto (1999): “Per un approccio sincronico alla linguistica e alla standardizzazione del sardo”, in: Bolognesi, Roberto / Helsloot, Karijn (Hrsg.): (1999): La lingua sarda. L’identità socioculturale della Sardegna nel prossimo millenio. Pro loco di Senorbì. Atti del convegno di Quartu Sant’ Elena 9-10 Maggio 1997, Cagliari: Condaghes (27-97).

Bolognesi, Roberto / Heeringa, Wilbert (2005): Sardegna fra tante lingue, Cagliari: Condaghes.

Bruno, Nello (1999): “Per un approccio comunicativo alla lingua sarda. Aspetti metodologici e didattici.”, in: Bolognesi, Roberto / Helsloot, Karijn (Hrsg.) La lingua sarda. L’identità socioculturale della Sardegna nel prossimo millenio. Pro loco di Senorbì. Atti del convegno di Quartu Sant’ Elena 9-10 Maggio 1997, Cagliari: Condaghes (81-97).

Casula, Francesco (2010): La Lingua Sarda e l’insegnamento a scuola. La legislazione europea, italiana e sarda a tutela delle minoranze linguistiche, Cagliari: ALFA EDITRICE.

Coseriu, Eugenio (1980): „Historische Sprache und Dialekt“, in: Göschel, Joachim/ Ivić, Pavle/ Kehr, Kurt (Hrsg.) Dialekt und Dialektologie. Ergebnisse des internationalen Symposiums ‚Zur Theorie des Dialekts’, Marburg/ Lahn, 5.-10. September 1977, Wiesbaden: Franz Steiner Verlag (106- 122).

Coulmas, Florian (1985): Sprache und Staat. Studien zur Sprachplanung und Sprachpolitik, Berlin-NewYork: Walter de Gruyter.

Kloss, Heinz (1978): Die Entwicklungen neuer germanischer Kultursprachen seit 18.00,Düsseldorf: Pädagogischer Verlag Schwann.

Rindler Schjerve, Rosita (1982): „Der Sprachenstreit in Sardinien und die Frage der ’Lingua Sarda’”, in: Braga, Giorgio / Monti Civelli, Ester (Hrsg.) Linguistic problems and European unity, Milano: Franco Angeli Editore (274-281).

Salvi, Sergio (1975): Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, Milano: Rizzoli.

Stolfo, Marco (2009): Si ses europeu, faedda in sardu. Deghe annos de Lege 482/1999, Sardigna, Italia, Europa, Ghilarza: Iskra.

Tola, Salvatore (2006): La letteratura in lingua sarda. Testi, autori, vicende, Cagliari: CUEC.

domenica 5 agosto 2012

“Qualsiasi cosa occorra!” – In che misura la BCE è davvero pronta per correre al salvataggio dell’euro?


Marshall Auerback 
neweconomicperspectives.org/2
Tradotto da  Curzio Bettio



Rileggendo le osservazioni del signor Draghi sui movimenti di mercato, espresse giovedì scorso, 26 luglio, si ha la sensazione che il Presidente della Banca centrale europea (BCE) riconosca che la BCE deve darsi un orientamento bancario. La maggior parte dei partecipanti al mercato si sono comprensibilmente concentrati sull’impegno del signor Draghi, secondo cui la BCE sarebbe “pronta a fare tutto il necessario” per preservare la moneta unica.“Credetemi, questo basterà!”, ha comunicato in una conferenza a Londra.

il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi

Noi preferiamo concentrarci su altri aspetti del discorso. È particolarmente rilevante che il signor Draghi abbia messo in evidenza l’irrimediabile e fatale difetto della zona euro rilevato dal professor Peter Garber circa 14 anni fa:

“Finché non sarà percepita una qualche possibilità di uscita dall’euro da parte di una qualsiasi nazione dell’euro-zona, l’instaurato sistema di migrazione che associa mercati privati al sistema europeo di sostegno della Banca centrale [Target 2 (*), ELA, pronti contro termine della BCE] potrebbe funzionare come un qualsiasi altro sistema monetario di un unico Stato nazione.”



Tuttavia, Garber ammetteva che, se fosse sorta la prospettiva di una uscita dall’euro e, quindi, un rischio di svalutazione per i detentori di titoli depositati presso le banche domiciliate nel paese di cui si prevedeva l’uscita (ad esempio, la Grecia o la Spagna), il sistema monetario europeo sarebbe stato esposto ad un assalto agli sportelli bancari.

In base al Trattato UE  veniva garantita la mobilità dei capitali.
Data la comune valuta bancaria, i trasferimenti dalle banche domiciliate nei paesi a rischio di uscita euro (ad esempio, in Grecia, Spagna) a banche domiciliate in altri Stati nazionali della zona euro (ad esempio, in Germania, Paesi Bassi) avvenivano a costo zero.

Di fronte a un rischio percepito come non-trascurabile di una uscita dall’euro, e quindi di una perdita da svalutazione, i razionali partecipanti al mercato potrebbero spostare tutti i loro titoli depositati, dalle banche domiciliate nel paese a rischio di uscita dall’euro verso le banche domiciliate in quei paesi inattaccabili al centro dell’euro-zona.

Gli Stati Uniti associano 50 Stati e possiedono una Banca centrale (la Federal Reserve). Tra questi Stati avvengono trasferimenti di fondi e di titoli. Ma non esiste alcuna possibilità di secessione da parte di uno Stato, che possa trascinare con sé una propria moneta svalutata.

Quindi, non esiste alcun incentivo per migrazioni di depositi dalle banche di uno Stato o di una regione alle banche di un’altra. Per giunta, i mercati privati, con un piccolo aiuto da parte della Federal Reserve, andranno a chiudere il circuito finanziario nel momento in cui si verificassero tali trasferimenti.

Il Sistema Monetario Europeo avrebbe dovuto operare in questo modo. E fintanto che non sono sopraggiunte preoccupazioni che qualche paese avrebbe potuto abbandonare l’euro, lo ha fatto. Ma una volta che il rischio di uscita dall’euro alla periferia d’Europa ha sollevato la sua brutta testa, il sistema euro è diventato completamente diverso.

Peter Garber affermava che, percepita una tale prospettiva, il sistema dell’euro si sarebbe dimostrato un meccanismo perfetto per una corsa agli sportelli bancari. E una volta che nel 2009 sono sorti certi dubbi su una possibile uscita dall’euro da parte della Grecia e dell’Irlanda, ha avuto inizio la corsa ai depositi - e sul serio!

E anche il discorso di Draghi sembra riconoscere implicitamente questo difetto:
Ci sono alcune sfide a breve termine, per non dire altro. Le sfide a breve termine, a nostro avviso, si riferiscono prevalentemente alla frammentazione finanziaria che ha preso posto nell’area euro. Gli investitori si sono ritirati all’interno dei loro confini nazionali. Il mercato interbancario non sta funzionando... Il mercato interbancario non funziona, perché per qualsiasi banca in tutto il mondo le norme che regolano attualmente la liquidità – quelle per concedere prestiti alle altre banche o per prendere a prestito da altre banche – rappresentano un buon motivo per perdere denaro.

Allora, la prima questione è che la regolamentazione deve essere ricalibrata completamente.

Il secondo punto è in un certo senso un problema di azione collettiva: perché le autorità di vigilanza nazionali, esaminando la crisi, hanno chiesto alle loro banche, le banche sotto la loro supervisione, di revocare le loro attività all’interno dei confini nazionali. E queste autorità stringono il cerchio attorno alle posizioni di liquidità, in modo che la liquidità non possa scorrere, anche attraverso lo stesso gruppo finanziario, perché le autorità di vigilanza del settore finanziario stanno ribadendo il loro “no”.

Così, anche se ognuna di loro può trovarsi nel giusto, collettivamente hanno sbagliato. E questa situazione dovrà essere superata, naturalmente.
E poi c’è un fattore di riluttanza e avversione al rischio. L’avversione al rischio ha a che fare con il rischio della controparte. Ora, nella misura in cui penso che la mia controparte stia andando in default, non ho alcuna intenzione di fare prestiti a questa controparte. Ma può essere che arrivi il fallimento di questa controparte, perché a corto di finanziamenti. E io penso che ci siamo interessati della questione con le due grandi LTRO (**), quando abbiamo iniettato mezzo bilione di liquidità netta nelle banche dell’area euro. Ci siamo preoccupati ed impegnati su questo.

Allora, si ha il recesso della controparte in relazione alla percezione che la mia controparte possa fallire a causa della mancanza di capitale. Noi possiamo fare ben poco al riguardo.
Inoltre, esiste un’altra dimensione, rispetto a ciò che attiene ai premi (gli interessi!) che vengono caricati sugli Stati sovrani che prendono a prestito. Questi premi sono relativi, come ho detto, al default, alla liquidità, ma hanno anche a che fare sempre di più con la convertibilità, con il rischio di convertibilità.
La verità è che “qualsiasi cosa occorra!” (per usare l’espressione del signor Draghi che ha generato così grande eccitazione nei mercati alla fine della scorsa settimana) ha a che fare con la questione della convertibilità, che il professor Garber sottolineava anni fa.

Inoltre, affrontare questo problema significa appoggiare incondizionatamente tutti gli Stati sovrani tra cui, sì, anche la Grecia. Perché, mancare di sostenere tutti i membri della zona euro contraddice la premessa centrale dell’unione monetaria: vale a dire, quella di essere permanente e indissolubile.

Quindi, discutere apertamente sulla possibilità di una “Grexit”, di una uscita della Grecia dalla zona euro, aggrava solo il problema attuale e impone un’altra tornata di attacchi speculativi, come fanno i calamari vampiri che individuano qual è l’elemento successivo da attaccare. Il problema è che non risulta chiaramente se tutti gli Stati membri riconoscano la logica insita a tutto questo.
Nello specifico, la Germania e l’Olanda hanno lanciato minacce persistenti, e non tanto per il sottile, di cacciare fuori Atene, se quest’ultima intendesse modificare i termini del memorandum del suo salvataggio. I Tedeschi e gli Olandesi, come pure i Finlandesi, si muovono nella direzione opposta a quella di Draghi.

Questi paesi non sono disposti a fare “qualsiasi cosa occorra!”, ma al contrario stanno esponendo i limiti precisi entro cui sono disposti ad agire.
In particolare, non possiamo dare per scontato che la Corte costituzionale tedesca rispetterà l’operato della BCE senza sollevare obiezioni, e che la Bundesbank semplicemente consentirà alla BCE di procedere e di fare “qualsiasi cosa occorra!”.

Infine, è diventato sempre più evidente che, a seguito della corsa agli sportelli bancari, l’esposizione della BCE nei confronti dei PIIGS (Portogallo – Irlanda – Italia – Grecia – Spagna)  è maggiore di quanto i mercati attualmente riconoscono. La Germania e gli altri paesi del nord ora si rendono conto dell’entità del coinvolgimento, e questo è ciò che sta causando il loro rifiuto a sostenere salvataggi finanziari senza precisi limiti.

Ma senza assicurarsi il sostegno tedesco, come si fa a fermare la corsa agli sportelli?
Consentitemi di ribadire: si tratta di problemi politici e giuridici, non di questioni economiche.
La BCE può sempre “compilare l’assegno”, come molti dei miei colleghi blogger della “New Economic Perspectives” hanno sostenuto.
Ma ci sono sul tavolo fattori chiaramente politici che impediscono alla BCE di assumere ciò che comunque dovrebbe essere un suo ruolo naturale istituzionale.

Quello che non sta facendo è di impedire una situazione per cui i depositi stanno abbandonando le banche alla periferia per dirigersi verso le banche al cuore della zona euro. Queste banche principali prestano al Sistema di Banche Centrali europee (con in fondo “all’amo” la BCE ), che quindi assume il ruolo di prestatore di ultima istanza di finanziamenti alle banche della periferia.
Può darsi che da aprile le banche in Grecia, Irlanda e Portogallo abbiano perso la metà dei depositi e che le banche in Italia e Spagna abbiano perso un quarto dei loro depositi. I prestiti interbancari stanno affondando, così come le attività nette in valuta della BCE.

Per comprendere il significato finale di questo processo, supponiamo che continui la corsa agli sportelli bancari e che le banche alla periferia complessivamente perdano la maggior parte dei loro depositi, le banche al centro hanno da corrispondere crediti enormi sulla BCE e la posizione di prestatore di ultima istanza della BCE fa da contrappeso alla maggioranza di ciò che erano i notevoli depositi nelle banche della periferia. Allora, che tipo di sistema bancario è mai questo? Un sistema che non funziona assolutamente bene ed altamente instabile!

Si verrebbe ad avere tutta una serie di banche della periferia che dipendono in modo massiccio dai finanziamenti della BCE, come prestatore di ultima istanza. Che cosa potrebbe succedere se la Corte suprema della Germania ora decretasse che le attività della BCE come prestatore di ultima istanza sono del tutto illegali? Questo potrebbe accelerare la corsa agli sportelli e dare origine ad un sistema bancario ancora più disfunzionale, in quanto le banche della zona euro non sarebbero inclini a prestare nemmeno alla loro base di clienti normali.

Aggiungete a ciò la proposta di un’addizionale austerità di misure fiscali che la Troika si prefigge, a compensazione per l’aiuto al sistema bancario compromesso della Spagna (austerità confermata in questo fine settimana dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble) e vi troverete ad affrontare un più grave problema. Allora, qual è la natura del problema?
Ciò che è sbagliato risiede nel ruolo distorto della BCE e nella natura instabile del sistema bancario dell’euro nel suo complesso.
Se semplicemente facciamo nostra la tendenza che la recente corsa ai depositi acceleri, forse entro sei mesi la maggior parte dei depositi originali nei paesi periferici avrà preso il volo.

In buona sostanza, questo consegnerebbe alla BCE, come prestatore di ultima istanza, una esposizione verso la periferia dell’ordine di diversi miliardi di euro. Questo potrebbe rappresentare un’esposizione in perdita pari a quasi 40 volte il capitale della BCE (prima della rivalutazione delle riserve auree).
Non credo che le banche centrali, in quanto fondamentalmente enti governativi, abbiano bisogno di avere un capitale positivo. Ma credo che un’esposizione in perdita per possibili uscite dall’euro da parte di questi paesi periferici quasi certamente creerebbe una grave crisi di fiducia nei confronti dell’euro.

Che faranno allora il signor Draghi e la BCE?
Cosa significa realmente “qualsiasi cosa occorra!”?
È un paradosso. Per rendere il suo “tutto ciò che serve” un impegno credibile, il signor Draghi deve andare ben oltre i confini tradizionali dell’ortodossia economica e del sistema bancario centrale.
Ma nell’andare ben oltre questi confini, il signor Draghi non corre forse il rischio di creare un’altra crisi di fiducia nei confronti dell’euro?

N.d.T.:
Il sistema Target2, avviatosi nel gennaio 2007, andava a sostituire il sistema Target, operativo dal 1999, che era stato realizzato sulla base di un livello minimo di armonizzazione tra i sistemi di regolamento lordo (RTGS) domestici, per consentirne l’avvio fin dall’inizio dell’Unione economica e monetaria. Un sistema di regolamento lordo è un insieme di infrastrutture, di norme e di procedure tecniche e operative che consente ai partecipanti di regolare singole operazioni o reciproche obbligazioni direttamente su conti presso la Banca centrale e, per le transazioni in titoli, presso i sistemi di deposito accentrato dei valori mobiliari.

Il processo di integrazione del sistema finanziario europeo, destinato a proseguire con l’allargamento dell’Unione europea, la domanda di nuovi servizi delle banche e delle infrastrutture di mercato, la ricerca di più elevati livelli di efficienza, anche attraverso la riduzione delle piattaforme di regolamento, e l’evoluzione tecnologica hanno rappresentato i principali fattori di cambiamento che hanno sollecitato un riesame del sistema di regolamento paneuropeo.
Le linee di indirizzo strategiche sull’architettura e sulle caratteristiche di Target2, approvate nell’ottobre del 2002 dal Consiglio direttivo della BCE, prevedevano, tra l’altro, che nel nuovo sistema venisse realizzata una piattaforma unica condivisa alla quale potevano partecipare, su base volontaria, le singole banche centrali nazionali che decidevano di dismettere il proprio sistema di regolamento lordo.

Coerentemente con le suddette linee, la Banca d’Italia, la Deutsche Bundesbank e la Banque de France (cosiddette 3G) hanno deciso di realizzare una piattaforma comune (single shared platform - SSP) da offrire in Target2, e le altre banche centrali si sono dimostrate disponibili ad aderire a quella piattaforma SSP.

Gli incontri che hanno impegnato le 3G, a partire dal secondo semestre del 2003, hanno consentito di definire la struttura organizzativa del progetto, l’architettura e le caratteristiche funzionali della piattaforma, nonché i ruoli e le responsabilità di ciascuna delle tre banche centrali nelle fasi di sviluppo e di gestione della SSP.



Fonte: http://neweconomicperspectives.org/2012/07/whatever-it-takes-how-far-is-the-ecb-really-prepared-to-go-to-save-the-euro.html
Data dell'articolo originale: 29/07/2012
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=7887 

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