lunedì 21 marzo 2011

SULLE CONDIZIONI DELLA SARDEGNA

E' ovvio che le considerazioni quì riportate sono di parte e non diretta testimonianza del popolo sardo!

sa defenza


dal rapporto del console W.J.Craig a Sir James Hudson del 21 agosto 1860 - da: "Le relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna" a cura di G. Giarrizzo, Roma, 1962 - ripreso in: D. Mack Smith"Il Risorgimento italiano" Edizioni Laterza, Bari, 1973

Il desiderio che la Sardegna venga annessa a una grande potenza non è, tra i sardi, di nascita recente. Posso testimoniare della sua esistenza durante gli ultimi quarantadue anni. Quando per la prima volta presi a viaggiare nell'isola, le lagnanze del ceto mercantile erano unanimi e generali; ci si imbatteva ovunque negli stessi commenti: "Il nostro governo, per debolezza o per parzialità, limita le sue cure paterne agli Stati continentali, si nutre del nostro grasso e si veste della nostra lana, ma trascura il suo gregge.

Gli stessi doni che la provvidenza ci ha concesso in grande abbondanza, hanno per noi l'effetto di una maledizione; infatti, poiché l'isola viene tenuta solo per sopportazione, la politica vuole che le sue risorse siano tenute nascoste. Dovremmo essere annessi a nazioni potenti come l'Inghilterra o la Francia, che avrebbero il potere di tenere l'isola con la volontà e con i mezzi necessari per promuoverne la prosperità e per svilupparne le risorse". Era dunque la politica del clero e della nobiltà nativa a soffocare questa idea, essendo lo status quo tutto ciò che essi potevano desiderare; ma i loro sforzi furono inutili, e se questa idea poteva esistere quando la superstizione e il dominio della nobiltà cercavano entrambi di sopprimerla, si può immaginare quanta più forza essa abbia ora che sia l'una che l'altro hanno il quotidiano effetto dl farle mettere radici più profonde. Ora che il clero e la nobiltà sono privati dei loro privilegi e sono costretti a una posizione di uguaglianza politica con coloro che erano abituati a considerare gonzi ignoranti o zotici abbrutiti, si può facilmente capire, sia per lo spirito delle caste in questione, sia per la caratteristica indole vendicativa dei sardi, quale tipo di sentimenti queste due classi ora nutrano nei confronti della perpetrazione di questi atti per loro sacrileghi. ……. In un paese dove la superstizione e l'ignoranza prevalgono, la volontà del popolo è sempre dominata dai preti, e per dimostrare che questo è in particolare il caso della Sardegna, basta solo accennare al fatto che il censimento del 1848 dava i seguenti risultati:


Maschi

Femmine

Totale

Non sanno leggere

246.916

265.265

512.181

Sanno solo leggere

3.928

3.082

7.010

Sanno leggere e scrivere

23.483

4.238

27.721


274.327

272.585

546.912

La percentuale di ecclesiastici è di 1 per ogni 208 abitanti. Parlando dell'annessione dell'isola alla Francia i commenti sono ovunque gli stessi: "Non possiamo stare peggio di come stiamo e non abbiamo quindi nulla da perdere da un cambiamento. Noi gemiamo sotto il peso di una pesante tassazione che è in continuo aumento e non abbiamo la consolazione di una speranza di sollievo. Il nostro governo non fa nulla per aiutarci o incoraggiarci, ma ci lascia dibattere nelle difficoltà senza aiutarci. Ci si dice che abbiamo chiesto di nostra spontanea volontà una parità di trattamento e che l'abbiamo ottenuta: sì, nella forma, ma non nella sostanza; ci è stata concessa una eguaglianza scrupolosa ma non proporzionata alla natura e alle condizioni dell'isola. Siamo ad uno stadio infantile, schiacciati dal peso che i maturi e consolidati Stati continentali possono reggere con relativa facilità. Se fossimo annessi a una grande nazione saremmo in parte alleviati da tale peso; essa promuoverebbe l'industria locale, introdurrebbe capitalisti e capitali, valorizzerebbe per il meglio le possibilità dell'isola e ci aiuterebbe a tal punto che, alla fine, potrebbe renderci autosufficienti e non più a suo carico".

La guerra in Libia vista da George Friedman

Domenica 20.03.2011

affaritaliani


libia guerra apertura

George Friedman è uno dei massimi studiosi e commentatori di geopolitica e scrive su Stratfor, una delle migliori riviste americane del settore
(1).

Ora la guerra libica è cominciata. Essa mette insieme una coalizione di potenze europee più gli Stati Uniti, alcuni stati arabi e i ribelli libici contro il governo libico. Lo scopo, a lungo termine, non confessato ma chiaro, è un cambiamento di regime, che rimuova il governo del leader libico Muhammar Gheddafi e lo sostituisca con un nuovo regime costruito intorno ai ribelli. La missione è più chiara della sua strategia, e la strategia non può essere dedotta dalle prime mosse.

La strategia potrebbe essere costituita dall’imposizione di una no-fly zone e attacchi contro i centri di comando e controllo della Libia, o queste due cose più diretti attacchi terrestri contro le forze di Gheddafi. E queste cose potrebbe anche combinarsi con un’invasione ed occupazione della Libia. La questione, dunque, non è la missione ma la strategia da perseguire. Quanto lontano è disposta ad andare la coalizione, o almeno alcuni dei suoi membri, per realizzare il cambiamento di regime e occuparsi poi delle conseguenze del cambiamento di regime? Quante risorse sono disposti a fornire e quanto a lungo sonno disposti a combattere? Bisognerebbe ricordare che in Iraq e in Afghanistan l’occupazione divenne il cuore della guerra e il cambio di regime fu soltanto l’atto introduttivo.

È possibile che i membri della coalizione non abbiano ancora deciso la strategia, oppure ci potrebbe essere disaccordo fra loro. Consideriamo dunque le prime fasi della guerra, senza tener conto di quanto lontano essi siano disposti ad andare perseguendo la loro missione. Segue un’analisi delle prime mosse: la distruzione di postazioni contraeree missilistiche, di basi e depositi, e di molti altri obiettivi, sempre dal cielo. Questa è la parte in cui gli Stati Uniti in particolare e l’Occidente in generale sono veramente bravissimi. Ma è l’inizio della guerra. Le principali capacità di Gheddafi sono nel campo dell’armamento convenzionale e in particolare dell’artiglieria. Distruggere la sua forza aerea ed isolare le sue forze non porterà per ciò stesso a vincere la guerra. La guerra si fa sul terreno. La questione è la motivazione delle sue truppe: se esse percepiscono che arrendersi è inaccettabile o personalmente catastrofico, potrebbero continuare a combattere. A quel punto la coalizione dovrebbe decidere se intende impegnarsi nella distruzione delle forze di terra di Gheddafi con gli attacchi aerei. Questo può essere realizzato, ma non è affatto una conclusione scontata che funzionerebbe. Per di più, questa è la fase in cui le perdite civili cominciano a salire. È un paradosso dello stato di guerra nato dallo scopo di porre termine alle sofferenze umane che i mezzi per realizzarlo possono a volte imporre notevoli sofferenze umane. Questa non è un’affermazione meramente teorica.

È a questo punto che i sostenitori della guerra che vogliono porre un termine alle sofferenze potrebbero rivoltarsi contro i loro leader politici per non aver posto un termine alle sofferenze senza un alto costo. Bisognerebbe ricordare che Saddam Hussein è stato universalmente detestato ma che coloro che lo detestavano spesso non erano disposti ad imporre il prezzo necessario per rovesciarlo. Gli europei sono particolarmente sensibili, al riguardo. Il problema dunque diviene il punto fino al quale questa rimane un’operazione aerea, come è stato per il Kosovo, o diviene un’operazione di terra. Il Kosovo è l’ideale, ma Gheddafi non è Slobodan Milosevic e potrebbe pensare che non ha nessun posto dove andare, se si arrende. Per lui combattere potrebbe essere questione di vita o di morte, mentre per Milosevic non lo era. Lui e i suoi seguaci potrebbero resistere. Questa è la grande incognita. La scelta qui è fra il mantenere le operazioni aeree per un periodo molto lungo senza risultati chiari, o invadere quel Paese. E questo solleva la questione di sapere quale nazione sarebbe disposta ad inviare le truppe che lo invadono. L’Egitto appare pronto ma c’è una vecchia animosità fra i due Paesi, e le sue azioni potrebbero non essere viste come una liberazione. Potrebbero farlo gli europei. È difficile immaginare Obama che prenda in considerazione una terza guerra nel mondo musulmano come la propria guerra. Questo è il punto in cui veramente la coalizione è messa alla prova. Se c’è un’invasione, è probabile che abbia successo. Il problema poi diviene se le forze di Gheddafi si daranno all’opposizione e alla rivolta. Questo, ancora una volta, dipende dal loro morale ed anche dal loro comportamento. Gli americani provocarono una rivolta in Iraq mettendo i baathisti in una posizione insopportabile. In Afghanistan i Taliban rinunciarono al potere formale senza essere stati sconfitti in modo decisivo. Essi si raggrupparono, si riorganizzarono e tornarono. Non si sa se Gheddafi possa fare questo o no. È chiaro che questa è la principale incognita.

Il problema in Iraq non fu costituito dalle forze per operazioni speciali. Non furono gli attacchi per decapitare o sopprimere le difese aeree dei nemici. Non fu la sconfitta dell’esercito irakeno sul terreno. Fu l’occupazione, quando il nemico si riorganizzò e impose una rivolta con cui gli Stati Uniti trovarono estremamente difficile avere a che fare. Dunque il successo dei prossimi giorni non ci dirà nulla. Anche se Gheddafi si arrende o è ucciso, anche se nessuna invasione è necessaria, salva una piccola forza di occupazione per aiutare i ribelli, la possibilità di una rivolta rimane intatta. Noi non sapremo se comincerà una rivolta fino al momento in cui essa comincerà. Per conseguenza, l’unica cosa che sarebbe sorprendente riguardo all’attuale fase delle operazioni, sarebbe se essa fallisse. La decisione è stata presa nel senso che la missione deve ottenere il cambiamento di regime in Libia. La sequenza strategica è l’organizzazione di routine per la guerra, sin dal 1991: stavolta con una maggiore componente europea. I primi giorni andranno estremamente bene ma essi non ci diranno se la guerra andrà bene o andrà male. Il test da superare si avrà se una guerra che ha lo scopo di porre fine alle umane sofferenze comincia ad infliggere umane sofferenze. Questo sarà il momento in cui sarà necessario adottare decisioni politiche difficili e quando sapremo se la strategia, la missione e la volontà politica si accordano bene le une con le altre. George Friedman Un paio di domande del traduttore, Gianni Pardo: Vale la pena fare una guerra in queste condizioni? E poi, siamo tanto interessati al “regime change” in Libia da fare una guerra per questo? E se ci sono altri scopi, quali sono?

di Gianni Pardo

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(1) Il testo originale.


The Libyan war has now begun. It pits a coalition of European powers plus the United States, a handful of Arab states and rebels in Libya against the Libyan government. The long-term goal, unspoken but well understood, is regime change — displacing the government of Libyan leader Moammar Gadhafi and replacing it with a new regime built around the rebels. The mission is clearer than the strategy, and that strategy can’t be figured out from the first moves. The strategy might be the imposition of a no-fly zone, the imposition of a no-fly zone and attacks against Libya’s command-and-control centers, or these two plus direct ground attacks on Gadhafi’s forces. These could also be combined with an invasion and occupation of Libya. The question, therefore, is not the mission but the strategy to be pursued. How far is the coalition, or at least some of its members, prepared to go to effect regime change and manage the consequences following regime change? How many resources are they prepared to provide and how long are they prepared to fight? It should be remembered that in Iraq and Afghanistan the occupation became the heart of the war, and regime change was merely the opening act.

It is possible that the coalition partners haven’t decided on the strategy yet, or may not be in agreement. Let’s therefore consider the first phases of the war, regardless of how far they are prepared to go in pursuit of the mission. Like previous wars since 1991, this war began with a very public buildup in which the coalition partners negotiated the basic framework, sought international support and authorization from multinational organizations and mobilized forces. This was done quite publicly because the cost of secrecy (time and possible failure) was not worth what was to be gained: surprise. Surprise matters when the enemy can mobilize resistance. Gadhafi was trapped and has limited military capabilities, so secrecy was unnecessary. While all this was going on and before final decisions were made, special operations forces were inserted in Libya on two missions. First, to make contact with insurgent forces to prepare them for coming events, create channels of communications and logistics and create a post-war political framework. The second purpose was to identify targets for attack and conduct reconnaissance of those targets that provided as up-to-date information as possible. This, combined with air and space reconnaissance, served as the foundations of the war. We know British SAS operators were in Libya and suspect other countries’ special operations forces and intelligence services were also operating there. War commences with two sets of attacks.

The first attacks are decapitation attacks designed to destroy or isolate the national command structure. These may also include strikes designed to kill leaders such as Gadhafi and his sons or other senior leaders. These attacks depend on specific intelligence on facilities, including communications, planning and so on along with detailed information on the location of the leadership. Attacks on buildings are carried out from the air but not particularly with cruise missile because they are especially accurate if the targets are slow, and buildings aren’t going anywhere. At the same time, aircraft are orbiting out of range of air defenses awaiting information on more mobile targets and if such is forthcoming, they come into range and fire appropriate munitions at the target. The type of aircraft used depends on the robustness of the air defenses, the time available prior to attack and the munitions needed. They can range from conventional fighters or stealth strategic aircraft like the U.S. B-2 bomber (if the United States authorized its use). Special operations forces might be on the ground painting the target for laser-guided munitions, which are highly accurate but require illumination. At the same time these attacks are under way, attacks on airfields, fuel storage depots and the like are being targeted to ground the Libyan air force.

Air or cruise missile attacks are also being carried out on radars of large and immobile surface-to-air (SAM) missile sites. Simultaneously, “wild weasel” aircraft — aircraft configured for the suppression of enemy air defenses — will be on patrol for more mobile SAM systems to locate and destroy. This becomes a critical part of the conflict. Being mobile, detecting these weapons systems on the ground is complex. They engage when they want to, depending on visual perception of opportunities. Therefore the total elimination of anti-missile systems is in part up to the Libyans. Between mobile systems and man-portable air-defense missiles, the threat to allied aircraft can persist for quite a while even if Gadhafi’s forces might have difficulty shooting anything down. This is the part that the United States in particular and the West in general is extremely good at. But it is the beginning of the war. Gadhafi’s primary capabilities are conventional armor and particularly artillery. Destroying his air force and isolating his forces will not by itself win the war. The war is on the ground. The question is the motivation of his troops: If they perceive that surrender is unacceptable or personally catastrophic, they may continue to fight. At that point the coalition must decide if it intends to engage and destroy Gadhafi’s ground forces from the air.

This can be done, but it is never a foregone conclusion that it will work. Moreover, this is the phase at which civilian casualties begin to mount. It is a paradox of warfare instigated to end human suffering that the means of achieving this can sometimes impose substantial human suffering itself. This is not merely a theoretical statement. It is at this point at which supporters of the war who want to end suffering may turn on the political leaders for not ending suffering without cost. It should be remembered that Saddam Hussein was loathed universally but those who loathed him were frequently not willing to impose the price of overthrowing him. The Europeans in particular are sensitive to this issue. The question then becomes the extent to which this remains an air operation, as Kosovo was, or becomes a ground operation. Kosovo is the ideal, but Gadhafi is not Slobodan Milosevic and he may not feel he has anywhere to go if he surrenders. For him the fight may be existential, whereas for Milosevic it was not. He and his followers may resist. This is the great unknown. The choice here is to maintain air operations for an extended period of time without clear results, or invade.


This raises the question of whose troops would invade. Egypt appears ready but there is long animosity between the two countries, and its actions might not be viewed as liberation. The Europeans could do so. It is difficult to imagine Obama adopting a third war in Muslim world as his own. This is where the coalition is really tested. If there is an invasion, it is likely to succeed. The question then becomes whether Gadhafi’s forces move into opposition and insurgency. This again depends on morale but also on behavior. The Americans forced an insurgency in Iraq by putting the Baathists into an untenable position. In Afghanistan the Taliban gave up formal power without having been decisively defeated. They regrouped, reformed and returned. It is not known to us what Gadhafi can do or not do. It is clear that it is the major unknown. The problem in Iraq was not the special operations forces. It was not in the decapitation strikes or suppression of enemy air defenses. It was not in the defeat of the Iraqi army on the ground. It was in the occupation, when the enemy reformed and imposed an insurgency on the United States that it found extraordinarily difficult to deal with. Therefore the successes of the coming day will tell us nothing. Even if Gadhafi surrenders or is killed, even if no invasion is necessary save a small occupation force to aid the insurgents, the possibility of an insurgency is there. We will not know if there will be an insurgency until after it begins. Therefore, the only thing that would be surprising about this phase of the operation is if it failed. The decision has been made that the mission is regime change in Libya. The strategic sequence is the routine buildup to war since 1991, this time with a heavier European component. The early days will go extremely well but will not define whether or not the war is successful. The test will come if a war designed to stop human suffering begins to inflict human suffering. That is when the difficult political decisions have to be made and when we will find out whether the strategy, the mission and the political will fully match up.

domenica 20 marzo 2011

La sinistra deve rompere il tabù: l’opzione indipendentista ha un serio fondamento politico

lanuovasardegna

Perché non potremmo fare come la Groenlandia, cui la Danimarca ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione?

di Massimo Dadea *

Sono trascorsi oltre tre mesi dall’approvazione dell’ordine del giorno unitario in materia di riforme istituzionali che impegna la prima commissione del Consiglio regionale ad elaborare, entro novanta giorni, un percorso costituente: riscrittura dello Statuto, legge Statutaria, legge elettorale, normativa sulla incompatibilità ed ineleggibilità, riforma dell’organizzazione regionale. E tutto tace. E allora, in attesa dell’Assemblea costituente e prima ancora che la prima commissione si decida a dedicare un po’ del proprio prezioso tempo a queste tematiche, potrebbe essere utile iniziare ad entrare nel merito delle questioni.

Incominciamo a prendere atto che l’Autonomia speciale è finita. Dobbiamo con coraggio inoltrarci in territori finora sconosciuti, battere strade nuove, sfatare, specie per la sinistra, tabù ritenuti intoccabili, come ad esempio l’opzione indipendentista. Un moderno concetto d’indipendenza è qualcosa di molto lontano da quello ottocentesco e risorgimentale. In un mondo globalizzato, indipendenza non vuol dire né «separatismo» né «separatezza».

Indipendenza vuol dire costruire, consensualmente, un rapporto paritario, tra eguali, senza vincoli gerarchici, con lo Stato italiano. Un rapporto paritario tra eguali che hanno condiviso oltre 60 anni di democrazia repubblicana, che hanno convissuto con lealtà sotto la stessa Carta costituzionale.

Queste tematiche diventano ancora più rilevanti alla luce dei sommovimenti che stanno agitando i Paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma nella ricerca di una via originale verso l’autodeterminazione, può essere di un qualche aiuto anche l’e sperienza della Groenlandia. Un’isola «distante», come la Sardegna, dal territorio metropolitano danese, con una propria identità culturale e linguistica.

Un’isola che, dopo un lungo iter preparatorio gestito consensualmente dalle autorità danesi e da quelle groenlandesi, confortato da un referendum consultivo, ha approvato, nel giugno del 2009, il nuovo Statuto autonomico. L’aspetto interessante è che nel nuovo Statuto sono contenute apposite procedure istituzionali per la scelta della definitiva indipendenza della Groenlandia.

Nel preambolo si afferma che «il popolo groenlandese è un popolo ai sensi del diritto internazionale, con il conseguente diritto all’a utodeterminazione» e che lo Statuto è frutto dell’accordo del governo danese con quello groenlandese in qualità di parti equivalenti. All’articolo 1 si prevede che le autorità groenlandesi hanno la facoltà di istituire Corti di giustizia, alle quali è affidato l’esercizio del potere giudiziario, così come di acquisire sotto il loro controllo le forze di polizia e della guardia costiera, mentre la lingua groenlandese diventa la lingua ufficiale in sostituzione del danese.

I proventi dell’estrazione del petrolio verranno invece divisi in modo progressivo tra Groenlandia e Danimarca. In sostanza, il vero principio costituzionale regolatore del processo autonomico groenlandese risiede nel consenso, nella condivisione, nel reciproco rispetto, nella pari dignità. L’indipendenza sarà il frutto di un accordo tra le autorità locali e quelle centrali, nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Ecco quindi, mentre il mondo cambia vorticosamente, in Sardegna tutto tace, niente si muove, tutto ristagna. Ancora una volta l’a ssemblea regionale si trova difronte ad un bivio: dare inizio ad un’esaltante fase costituente oppure sancire il definitivo fallimento di una classe politica rivelatasi non all’altezza delle aspettative della Sardegna.

* ex assessore regionale al Bilancio PD regione Sardegna

DONNA SARDA IN ABITO TRADIZIONALE
















MANIFESTAZIONE CONTRO IL NUCLEARE

MANIFESTAZIONE ANTINUCLEARE!!
- Sabato 26 Marzo 2011 ore 15:00 corteo. Partenza da P.zza M. Polo e concerto P.zza del Carmine, Cagliari
A sostegno del referendum consultivo regionale del 15 maggio e di quello abrogativo del 12 giugno.

IL COMITATO.SI.NONUCLE, preso atto che la grave situazione che si è creata in Giappone a causa delle centrali nucleari, non minaccia solo le popolazioni locali ma anche una buona parte della popo
lazione mondiale, nella seduta del 17/03/2011 ad Oristano ha ritenuto che i sardi, non solo, debbano dare una chiaro segno di solidarietà verso la popolazione Giapponese, che rischia gravi contaminazioni nucleari, ma debbano anche rendere evidente la loro contrarietà al Nucleare in Sardegna e nel Mondo.

Per cui IL COMITATO indice una MANIFESTAZIONE CORTEO CON CONCERTO FINALE da svolgersi a Cagliari sabato 26/03/2011 con partenza alle ore 15 da Piazzale Marco Polo, pressi fiera, e conclusione con comizi nel Largo Carlo Felice e concerto finale in Piazza Carmine.

Modalità, organizzazione e documento da diffondere, verranno decise dalla condivisione via internet di tutti gli iscritti al COMITATO.

Il COMITATO.SI.NONUCLE costituitosi a S. Giusta il 04/07/2010 per informare il popolo sardo sul referendum consultivo contro il nucleare che verrà votato il 15 maggio del 2011 e sensibilizzarlo sulla necessità di votare SI al quesito “Sei contrario all’installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti ?”.

Al comitato aderiscono più di 200 organizzazioni (comuni, artisti, deputati, senatori, partiti, sindacati, organizzazioni culturali … ) e più di 5000 cittadini, di tutte le fedi politiche, culturali o religiose.

Il comitato ha gia organizzato SA DIE DE SA VARDIANIA a Cirras, frazione di S. Giusta, a Teulada possibili sedi di centrali nucleari ed a Quirra contro le guerre simulate che uccidono.

Oristano 17/03/2011

Bustianu Cumpostu
Coordinatore dell'iniziativa

Per comunicazioni:

Coordinatore dell’organizzazione Bustianu Cumpostu
Tel./fax 0784.415249 0348.7815084


www.comitatosinonucle.net


IL SARDEGNA - Politica: Al Senato la proposta nucleare: tutte nell'Isola le quattro centrali 05.03.2009

regione sardegna


Marco Mostallino marco.mostallino@epolis.sm ■ E alla fine la candidatura è arrivata. Da fonte scientifica autorevole, per di più con un ruolo istituzionale: la Sardegna è il posto migliore per le centrali nucleari promesse dal governo Berlusconi. E non per una delle quattro che dovrebbero sorgere in Italia, bensì per l'intero pacchetto. « La Sardegna è l’area italiana migliore per la costruzione di centrali nucleari, perché è la più stabile dal punto di vista sismico», ha riferito ieri E n z o B o s c h i , p r e s i d e n t e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) durante una audizione davanti alla commissione Territorio e ambiente del Senato. L'audizione è un momento nel quale il Parlamento comincia a farsi delle idee precise su un problema, ascoltando i tecnici di settore prima di esaminare disegni di legge del Governo o proposte di deputati e senatori. E ieri, a Palazzo Madama, è toccato al numero uno della sismologia italiana parlare del ventilato ritorno all'energia figlia dell'atomo. Il responsabile dell'istituto statale è stato chiaro: «La regione Sardegna è una zona con una storia geologica completamente diversa dal resto dell’Italia. Si potrebbero fare tutte e quattro le centrali nucleari che il governo intende costruire lì, anche se poi bisognerebbe risolvere il problema del trasferimento dell’energia - ha aggiunto Boschi - Bisogna evitare che il problema venga affrontato con le informazioni sbagliate», ha proseguito il sismologo: «Ho visto sui giornali che un sito proposto era quello di Augusta, in Sicilia: non potrebbe esserci un’area più sbagliata, perché si trova su una faglia sismica». La Sardegna invece è terra antica, stabile, dove le scosse di terremoto sono rare e leggere. Ecco che un sistema delicato e potenzialmente devastante come una centrale nucleare nell'isola, secondo Boschi, sarebbe sistemato bene, al riparo da eventi sismici catastrofici. Così non una ma quattro centrali potrebbero trovare spazio nella regione. Decidere, comunque, non è in capo a Boschi. Il governo non ha ancora avviato le procedure per i criteri tecnici di scelta dei siti: dopo questi, sulla base di rapporti scientifici, l'esecutivo dovrà stilare una lista di zone candidate e poi procedere alla individuazione delle quattro aree che saranno oggetto di quella che viene chiamata nelle carte ministeriali «servitù nucleare». Nei giorni scorsi, il neo presidente della Regione Ugo Cappellacci aveva assicurato che «nessuna centrale nucleare verrà costruita nell'Isola: se vorranno farlo, dovranno passare sul mio corpo», ha concluso il governatore. Ma la sua resistenza potrebbe non bastare: nel disegno di legge sull'energia (che ancora non è stato votato) il governo è autorizzato a superare il no delle Regioni.



L’incidente nucleare ora è di livello 5. Cosa significa? La tabella






Oggi l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è passato da livello 4 a livello 5. Ma cosa significa? I livelli di rischio nucleare sono sette e fanno parte di una scala detta Ines (International Nuclear and radiological Event Scale), sviluppata dall’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) a partire dal 1989. Si tratta di una scala logaritmica, e quindi il passaggio da un livello all’altro rappresenta un aumento di danni di circa dieci volte. Lo scopo della scala è classificare gli incidenti nucleari e radiologici e rendere immediatamente percepibile al pubblico, in maniera corretta, la loro gravità senza fare riferimento a dati tecnici di difficile comprensione.


http://www.linkiesta.it/

venerdì 18 marzo 2011

L'APOCALISSE È GIÀ QUI

ANTI-NUKE - Tanaka, storico leader del movimento

«Arroganza, profitti, bugie Così è nata la catastrofe»
Junko Terao
ilmanifesto

Quando il 1 marzo 1954 gli Stati Uniti testarono una bomba all'idrogeno nell'atollo di Bikini, il peschereccio giapponese «Daigo Fukuryu Maru» si trovava al largo delle coste giapponesi, 150 chilometri a est dell'area dichiarata pericolosa dalle autorità americane. Poco dopo Aikichi Kuboyama, il radioperatore del peschereccio, si ammalò a causa delle radiazioni e morì. Nel frattempo il carico di tonno pescato era finito sui banchi del mercato Tsukiji di Tokyo, il più grande del Giappone, e si temeva che le piogge avessero contaminato l'acqua e il terreno. La contaminazione del cibo era una cosa fino ad allora sconosciuta e provocò il panico. In particolare furono le casalinghe di Tokyo a rendersi conto subito della portata dell'evento e a organizzare la prima campagna contro il nucleare. Nel giro di pochi mesi raccolsero più di un milione di firme per la messa al bando dei test nucleari e l'anno successivo il comitato che nel frattempo era nato e si era allargato organizzò la prima conferenza mondiale contro l'atomica e la bomba H. Fu quella la scintilla che diede origine al Gensuikyo, il Consiglio giapponese contro l'atomica, fulcro del movimento antinucleare giapponese e punto di riferimento per i movimenti analoghi nel resto del mondo. Di colpo l'incidente di Bikini (così lo chiamano i giapponesi) riportò a galla l'incubo delle devastazioni di Hiroshima e Nagasaki, e centinaia di migliaia di giapponesi cominciarono a manifestare per le strade per dire «mai più». Un movimento che negli anni non è rimasto indenne da conflitti politici e scissioni ma che ha svolto un ruolo importante nella diffusione di una coscienza antinucleare tra i giapponesi. All'interno del Gensuikyo anche gli hibakusha, i sopravvissuti alle atomiche, i testimoni dell'orrore, trovarono il modo di uscire allo scoperto dopo dieci anni di silenzio. Terumi Tanaka è il segretario generale dello Hidankyo, l'associazione nazionale degli hibakusha che ha svolto un ruolo fondamentale all'interno del movimento e ottenuto risultati importanti, a cominciare dalla legge speciale per i sopravvissuti, che fino al 1957 non avevano diritto all'assistenza medica speciale. Se il Giappone sta vivendo una crisi come quella di oggi, dice, è colpa dell'arroganza di chi ha sempre minimizzato gli effetti del nucleare.



Come mai il Giappone, che ha vissuto la tragedia atomica, ha deciso di ricorrere all'energia nucleare correndo un rischio molto elevato vista l'alta sismicità del territorio?
La scelta di affidarsi all'energia nucleare è da imputare all'arroganza dei tecnici, che hanno sempre assicurato che non ci fossero rischi, e all'atteggiamento delle grandi multinazionali che pensano solo al profitto. La sicurezza totale è un falso mito e chi ha conosciuto l'orrore delle radiazioni dell'atomica, come me, è sempre stato contrario alle centrali nucleari. Le nostre opinioni in merito, però, non sono mai state ascoltate dai governi giapponesi, che hanno sempre sottovalutato i danni delle radiazioni e hanno deciso di seguire la politica pro-nucleare statunitense, cercando di convincere i cittadini che il nucleare è sicuro.

Col tempo la memoria si è indebolita, di chi è la colpa?
La responsabilità è della classe politica che ha sempre inseguito i suoi interessi. E anche i mezzi d'informazione hanno una responsabilità. In questi giorni i media non hanno mai accennato a Hiroshima e Nagasaki. Parlano del pericolo della fuga delle radiazioni ma il vero dato spaventoso è l'esistenza di ventimila armi atomiche nel mondo. Il fatto che non vi si accenni mai è un nonsense.

Si è sviluppato un movimento molto attivo. Com'è cambiata nei decenni la coscienza anti-nucleare?
La coscienza antinucleare in Giappone ha risentito dell'indebolimento di questo sentimento nel resto del mondo negli anni della guerra fredda. Ma l'anno scorso abbiamo ottenuto un risultato incoraggiante alla conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione: un accordo mondiale per la realizzazione di un mondo senza nucleare.

Crede che questa crisi porterà a una nuova coscienza anti-nucleare tra le giovani generazioni o i giapponesi tra qualche anno dimenticheranno come è successo con Hiroshima e Nagasaki?
Questo incidente probabilmente farà crescere un movimento contro l'energia nucleare ma è importante che questo vada di pari passo con uno sforzo intenzionale per aumentare quello contro le armi nucleari. Bisogna ricordarsi che il nucleare è incompatibile con l'essere umano.

Cosa significa vivere da hibakusha?
Significa avere il dovere di denunciare questa incompatibilità.

In queste ore ci sono dei cittadini che scappano verso sud. Cosa prova sentendo queste notizie?
Sia il governo che i tecnici della Tepco sapevano benissimo cosa stava succedendo. Nonostante questo hanno evacuato la popolazione vicino alla centrale senza spiegare perché, senza spiegare il rischio delle radiazioni e creando solo panico. Paradossalmente avrei preferito credere che né il governo né i tecnici sapessero bene cosa stava accadendo e quali erano i rischi, ma la verità è che l'hanno nascosto volontariamente.





Guido Viale
ilmanifesto
Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone?

fonte: Japan Times

La valutazione della gravità
Non e non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia, l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura che si risveglia. Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami.

Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si incarica di svelare. È un'intera classe dirigente, non solo del nostro paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro. Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque: c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso?


Per chi non ha la possibilità o la voglia di sviluppare un pensiero critico e si lascia educare dai media, sono gli scienziati e i tecnici a poterci e doverci guidare lungo la frontiera dello sviluppo. I risultati di quella guida sono ora lì davanti ai nostri occhi. L'apocalisse ci rivela invece che sono gli artisti, con la loro sensibilità e il loro disinteresse, a instradarci verso la scoperta del futuro. Leggete Terra bruciata di James Ballard o, meglio ancora, La strada di Cormac McCarthy; o andate a vedere il film tratto da questo romanzo. Vi ritroverete immediatamente immersi in panorami che oggi le riprese televisive della costa nordorientale del Giappone ci mettono davanti agli occhi. E con McCarthy potrete rivivere anche il senso di abbandono, di terrore, di sconforto, di inanità che solo una irriducibile voglia di sopravvivere a qualunque costo e il fuoco di un legame affettivo indissolubile riesce a sconfiggere.

L'apocalisse ci rivela che la normalità - quella che ha contraddistinto la vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro "sviluppo" e del nostro finto "benessere" - è finita o sta per finire per sempre. È finita per il Giappone - e non solo per le popolazioni sommerse dallo tsunami - che ora deve fermare le sue fabbriche, sospendere le sue esportazioni, far viaggiare a singhiozzo i suoi treni, chiudere le pompe di benzina, spegnere le luci, bloccare tutti o quasi i suoi reattori nucleari; senza sapere con che cosa sostituirli e senza sapere se e quando potrà riprendersi da un colpo del genere (un destino simile a quello che potrebbe far piombare di colpo la Francia nelle condizioni di un paese "sottosviluppato" se solo le accadesse un incidente analogo). I tanti programmi di «rinascita del nucleare» varati negli ultimi anni - che sono la risposta più irresponsabile e criminale alla crisi economica mondiale - si rivelano una truffa: il tentativo di far credere che con l'atomo consumi, sviluppo ed "emersione" di paesi che annoverano miliardi di abitanti possano riprendere e continuare a crescere come prima. Tant'è che quei programmi stavano andando avanti - e forse verranno mantenuti ancora per un po' - soltanto nei paesi senza nemmeno la parvenza della democrazia (tra cui l'Italia). Ma adesso tutti, o quasi, si dovranno fermare.

Ma non saranno rose e fiori neanche per i paesi che viaggiano a petrolio, metano e carbone, come il nostro. Il Medio Oriente è in fiamme e se - o meglio, quando - crollerà il regno saudita, anche il petrolio arriverà con il contagocce. Soprattutto in Italia; ma anche in Europa. E allora addio sogni di gloria per l'industria automobilistica: non solo quelli di Marchionne (che sono un mero imbroglio), ma anche per quelli di tutta l'Europa. Per non parlare degli Stati Uniti: a giugno dovranno rinnovare una parte del loro debito, che è ben più serio e in bilico di quelli di tutti i paesi dell'Unione europea messi insieme; ma forse nessuno lo vorrà più comprare. Il che significa che un nuovo crack planetario è alle porte.
Insomma, niente sarà più come prima. Era già stato detto all'indomani dell'11 settembre; ma poi ciascuno ha continuato a fare quello che faceva prima. Comprese le guerre; compresa le speculazioni finanziarie e la reiterazione della crisi che essa si porta dietro; e che è stata invece trattata come «un incidente di percorso», da cui riprendere al più presto la strada di prima, discettando sui decimali di Pil che da un momento all'altro potrebbero invece precipitare di un quinto o di un terzo.

Quello che l'apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la "normalità" di domani. L'apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo. Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture fisiche; o per l'intasamento della loro "capacità di carico"; ma anche e soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico calpestato dalle menzogne e dall'ipocrisia di chi comanda.
Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di una maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti, dalle grandi strutture, dalle grandi reti, dai grandi capitali, dalle grandi corporation che li controllano e dalle organizzazioni statali e sovrastatali che ne sono controllate: tutte cose che possono venir meno, o cambiare improvvisamente aspetto dall'oggi al domani.

Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un paese del "prospero" Occidente. Le fonti rinnovabili, l'efficienza e il risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un'agricoltura a chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.


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