sabato 18 settembre 2010

Perché Pechino preoccupa gli Stati Uniti

Nel 2009 il budget militare della Cina ha raggiunto i 150 miliardi di dollari,
circa un quinto di quello che ha speso il Pentagono per le guerre in Iraq e
Afghanistan nello stesso anno



Noam Chomsky
internazionale
Tra le presunte minacce alla superpotenza che domina il mondo sta emergendo con forza una nuova rivale: la Cina. E gli Stati Uniti la tengono sotto osservazione. Il 13 agosto uno studio del Pentagono ha osservato che la crescente forza militare della Cina “potrebbe impedire le operazioni delle navi da guerra statunitensi nelle acque internazionali al largo delle coste cinesi”, ha scritto Thom Shanker sul New York Times. Washington teme che “la mancanza di trasparenza della Cina sulle intenzioni delle sue forze armate provochi instabilità in una regione vitale del pianeta”. È invece evidente che gli Stati Uniti vogliono agire liberamente in tutta la “regione vitale del pianeta” vicina alla Cina (come altrove). E ostentano la loro capacità di farlo: hanno un bilancio militare che corrisponde più o meno a quello di tutti gli altri paesi messi insieme, hanno centinaia di basi militari in tutto il mondo e una netta supremazia tecnologica.

Che la Cina non rispetti le norme della cortesia internazionale lo si è capito quando, a luglio, si è opposta alla partecipazione della portaerei a propulsione nucleare George Washington alle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, vicino alla costa cinese. L’occidente, invece, sa benissimo che gli Stati Uniti organizzano queste operazioni per difendere la stabilità del pianeta e la loro stessa sicurezza.

Quando si parla di problemi internazionali, il termine “stabilità” ha un signiicato preciso: il dominio degli Stati Uniti. Quindi nessuno si è sorpreso quando l’ex direttore di Foreign Afairs, James Chace, ha spiegato che nel 1973 per ottenere la “stabilità” in Cile era necessario “destabilizzare” il paese, rovesciando il governo legittimo del presidente Salvador Allende e instaurando la dittatura del generale Augusto Pinochet, ovviamente nell’interesse della stabilità e della sicurezza.

Come tutti sanno, la sicurezza degli Stati Uniti richiede un controllo assoluto. Questa premessa ha ottenuto l’imprimatur uiciale dallo storico dell’università di Yale John Lewis Gaddis in Surprise, security and the American experience, che studia le origini della dottrina della guerra preventiva di George W. Bush. Il principio su cui si basa questa dottrina è che l’espansione è “l’unica via per garantire la sicurezza”, concetto che Gaddis fa risalire a quasi due secoli fa.

Quando Bush ha avvertito i cittadini statunitensi che “in caso di necessità dovevano essere pronti ad agire preventivamente per difendere la loro libertà e la loro vita”, stava riesumando una vecchia teoria e “ribadendo princìpi che molti presidenti avrebbero sicuramente condiviso”. Lo avrebbe fatto anche Bill Clinton, secondo il quale gli Stati Uniti avevano il diritto di usare la forza per garantirsi “libero accesso a mercati chiave, forniture energetiche e risorse strategiche”. William Cohen, segretario alla difesa di Clinton, sosteneva che gli Stati Uniti devono avere
un’immensa forza militare e “schierarla in posizione” in Europa e in Asia “per plasmare l’opi-
nione che gli altri popoli devono avere di noi” e “impedire eventi che potrebbero influire sulla nostra vita e sulla nostra sicurezza”. Questa formula della guerra permanente è una nuova dottrina strategica, che è stata poi ampliata da George W. Bush e da Barack Obama.

Secondo lo studio del Pentagono, nel 2009 il budget militare della Cina ha raggiunto i 150 miliardi di dollari, avvicinandosi a “un quinto di quello che ha speso il Pentagono per le guerre in Iraq e Afghanistan” nello stesso anno e che è solo una minima parte del bilancio militare degli Stati Uniti. Se si parte dall’idea che Washington deve esercitare un “potere indiscusso” su buona parte del mondo, usando la sua “supremazia economica e militare”, e “limitare l’esercizio della sovranità” di quegli stati che potrebbero interferire con i suoi progetti, la preoccupazione americana è comprensibile.

Questi sono i princìpi stabiliti dai massimi esperti statunitensi di politica estera durante la seconda guerra mondiale, quando fu deciso come doveva essere organizzato il mondo dopo il conlitto. Gli Stati Uniti dovevano mantenere il predominio in una “Grande area”,
che comprendeva come minimo tutto l’emisfero occidentale, l’estremo oriente e i territori dell’ex impero britannico, comprese le cruciali risorse energetiche del Medio Oriente. L’Europa poteva anche scegliere una strada indipendente, per esempio il progetto gollista di un continente che andava dall’Atlantico agli Urali.
Ma uno degli scopi del patto atlantico era proprio evitare questo rischio, e il problema rimane ancora oggi, visto che la Nato è diventata una forza gestita dagli Stati Uniti per controllare le infrastrutture del sistema energetico planetario da cui dipende l’occidente.
Da quando sono diventati la prima potenza del pianeta, gli Stati Uniti hanno cercato di mantenere in piedi un sistema di controllo globale. Ma non è un progetto facile da realizzare. Questo sistema comincia a mostrare le sue crepe, con una serie di importanti conseguenze per il futuro. A minacciarlo è una rivale sempre più influente: la Cina. u bt

NOAM CHOMSKY

NOAM CHOMSKY @ AMNESTY INTERNATIONAL TALK
insegna linguistica
all’Mit di Boston.
Il suo ultimo libro
uscito in Italia è Sulla
nostra pelle. Mercato
globale o movimento
globale? (Il Saggiatore
tascabili 2010).





venerdì 17 settembre 2010

La protesta dei pastori, in settemila a Cagliari



Trenta cavalieri aprono il lungo corteo di magliette blu e di sindaci. Molti slogan e qualche sfottò. Qualche uovo lanciato contro il palazzo della Regione ma senza alcuna violenza
di Umberto Aime
lanuova

I pastori a cavallo davanti al Consiglio regionale
CAGLIARI. Ugolino raglia, Andrea scarta, Toto gratta l’asfalto, ruvido, e un barile, vuoto. Marco fa le bizze, ha paura, non vuole scendere, lo metteranno giù di peso. Ebbene sì, qui, in piazza Marco Polo, ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Altro che Mucca Carolina, mascotte di un latte leghista, quello sì protetto da Berlusconi, qua ci sono i Quattro Asinelli. Da parata, protagonisti e interpreti del presidente della Giunta, dell’assessore, di chi è a capo del Consorzio obbligato a difendere il pecorino dalle imitazioni (lo farà davvero?) e del presidente della Coldiretti. È questo il sindacato-nemico, dicono venduto e defunto, un necrologio sei metri per due celebra senza lacrime la sua dipartita. È quella della bandierina giallo-verde: vessillo che sarà subito carabonizzato.



La discesa degli asinelli è il colpo di teatro, è la fantasia messa al servizio della rivolta. Non c’è possibilità di confondere Ugo-Ugolino con Marco, neanche Andrea con Toto. Sono stati battezzati a Lula - da dove arrivano - e poi sul piazzale della Fiera, impacchettati come sono in lenzuola bianche su cui una mano ferma ha scritto, in nero-spray, nome e cognome di ogni bersaglio: Cappellacci, Prato, Meloni e Scalas, nell’ordine. Dalla nascita sono quattro bipedi, oggi quadrupedi destinati alla beffa popolare. Frutto di un’irriverenza agropastorale dunque genuina, e della sfacciataggine di chi è in piazza, a Cagliari, dopo essere partito da Alghero, Olbia, Sassari, Oristano, da Nulvi e Busachi, da Ovodda e Pabillonis, da Ottana e Sedilo, da Ittiri e Olzai, dal Campidano, dal Goceano, dalla Barbagia, dall’Ogliastra e da qualunque altro stazzo conosciuto. Sono qui per salvare ovile, casa e famiglia. Evviva, Siamo tutti pastori. Sono i settemila che ieri fino alle cinque della sera hanno conquistato e riempito viale Diaz, viale Bonaria, via Roma e il portico del Consiglio regionale. Due ore di marcia sotto il sole, un chilometro e mezzo di rabbia, migliaia di passi messi assieme dal Movimento dei pastori sardi.




Erano in tanti, sono stati tutti bravi, buoni e civili, dirà il vicequestore Oreste Barbella, liberato da un peso, ordinare la carica, che sarebbe stato troppo pesante. Anche se qualche tensione c’è stata: per tre volte carabinieri e agenti hanno alzato lo scudo e abbassato le visiere dei caschi anti-sommossa. Cattivi presagi? No, lo hanno fatto solo per dissuadere e tenere a bada i più scalmanati, senza però mai impugnare i manganelli: complimenti, anche loro sono stati bravi, buoni e civili. Anche quando dalla massa è partito un tiro incrociato sull’orribile facciata del Consiglio. Con una decina di uova che hanno centrato le vetrate del Palazzo, proiettili da combattimento delle campagne, molto più leggeri dei due sassi finiti su una finestra del primo piano.



Nient’altro da segnalare, per la cronaca nera. Merito di una cantilena - calmi, pastori, calmi - ripetuta dieci, venti, cento volte dagli organizzatori prima, durante e dopo il corteo. Una voce di pace che è servita da bromuro, altrimenti poteva finire come negli anni novanta, sempre in via Roma: pecore sgozzate e lancio di lacrimogeni. Stavolta niente lacrime e sangue, almeno sull’a cciottolato cagliaritano, negli ovili pene e dolori continuano purtroppo a essere quotidiani. Sessanta centesimi per un litro di latte, una birra costa tre volte tanto nel bar di via Lepanto. È pazzesco. Quattro euro al chilo per un vitello: sono listini da fame. Bisogna resistere.



Bisogna esserci dentro il corteo del duemila-e-dieci, che passerà alla storia come un Sant’Efisio settembrino, una Cavalcata sassarese della protesta. Non è folclore, è l’orgoglio di essere sardi. È una sagra di colori, slogan, bandiere, fischietti, campanacci e striscioni. Sul petto e nelle mani di padri, madri e figli, che avanzano a ondate, ma tenuti a bada da un picchetto d’o nore, eccellente e monumentale: trenta cavalieri, in testa al gruppo. Pariglia perfetta, voluta da Felice Floris e dal suo secondo, Andrea, che gli assomiglia in tutto persino nello sguardo luciferino: incute rispetto, non terrore. Poi dentro ci sono trenta sindaci, quelli che più di altri, insieme ai marescialli in divisa, mattina e sera devono badare all’intifada degli ovili. Stazzi e case impregnati di una miscela esplosiva, l’esasperazione: questa sì che dovrebbe far paura a qualcuno. Sempre.



Qui c’è spazio per tutti: sulla strada, sui marciapiedi, sul Leoncino che è stato già ad Elmas, Olbia, Alghero, a Tramatza e a Porto Rotondo, le altre cinque piazze di una rivoluzione anti-disperazione cominciata il 30 luglio. C’è gente aggrappata ai finestrini di un mastodontico e vuoto Iveco-Eurostar trasporta-latte: nessuno tsunami bianco si abbatterà sul Palazzo. Chi è a piedi indossa le magliette blu del Movimento, che diventano nere se arrivano da Orune, celesti per Olbia, verdi dalla Nurra: è un arcobaleno di tinte e paesi. Viste dall’alto, tutte insieme, sembrano coriandoli, ma non è Carnevale, è una mattina di Passione. Raccontata da Gianni, Franco, Alberto, Anna Laura e Giovanni, che sono di Nulvi, Pattada, Ovodda, Busachi e Nugheddu Santa Vittoria: Siamo alla fame. Siamo ostaggio degli industriali, delle banche, della politica, della burocrazia, degli speculatori, del gasolio, delle bollette. Non vogliamo morire. Non vogliono crepare insieme alle loro ventiduemila aziende agonizzanti. Mai. Chi oggi ha ottantasei anni e munge pecore da quand’era bambino, gonfia il petto dentro un maglioncino su cui il nipotino, quinta elementare, ha scritto: Non t’arrendas como, non ti arrendere adesso. Mai. Siamo tutti pastori, gridano dal fondo del corteo, quando il grosso è già sotto la Regione. Il traguardo è raggiunto, sono tutti vincitori.

C’è chi parla al microfono, sindaci, gente comune, politici, e c’è chi si accalca sotto il Leoncino-palco, altri sindaci, tanta gente comune, ancora politici di una parte e dell’altra. Chi fa l’o norevole vorrebbe accaparrarsi questo Movimento, ma questo è un movimento libero, trasversale e incazzato che non si fa imbrigliare. Anzi, dà fuoco alle tessere di chi lo ha tradito, le associazioni, e scaraventa acqua, birra e vino sulla giacca del presidente della Regione. Che dopo l’incontro con la delegazione ha la forza di salire sul palco-cassone. È un finale a sorpresa. Il coraggio sfacciato piace e a un Ugo Cappellacci, che almeno stavolta non può passare certo per babbeo, i settemila della piazza lo lasciano parlare. Ascoltano in silenzio le sue promesse che per Felice Floris oggi vanno bene al novantacinque per cento, domani si vedrà.



Andrea Prato non ha la stessa fortuna: di lui non si fidano, gli fanno fare una figuraccia. Lo volete sentire? No, no, sotto un tuono di fischi. È una condanna, tremenda come sono tremendi i suoi mocassini bi-colore. Mai visti, neanche ai piedi di un cittadino. Dal parterre a lui gridano di tutto, mandate a quel paese comprese, mentre col presidente la folla è più buona. Gli dà credito, anche se uno di Ovodda si aggrappa alla sponda e grida brutale: Attento a non fregarci. Presidente, non può più sbagliare.


giovedì 9 settembre 2010

Viva l’economia della felicità

I ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti: la loro vita è più stabile

Manuel Castells
www.internazionale.it


Manuel Castells

Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola.In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se poi ognuno lo intende a suo modo.

Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo. Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in beneici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana.

L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale. Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo.

Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano.

Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di fe- licità perché sconvolge la ruotine quotidiana.

Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito suiciente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici.

Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.

D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’afermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti inziamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni.

Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari. In in dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la diicoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo.

Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di afetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici. Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuo- vo ilone di ricerca, sintomo di un profondo cambia- mento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.


Comunicazione e potere

MANUEL CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009)

Guardando i dati di tutti gli stati del mondo sembrerebbe però che le popolazioni più felici si trovino nell’America centrale!

Ecco la mappa dell’HPI di tutto il mondo:

Cartina dell’Europa che indica il livello di felicità nei vari Stati, calcolato in base all’indice HPI (Happy Planet Index)!

Questo indice prende in considerazione tre variabili: il livello di soddisfazione personale, l’aspettativa di vita e l’impatto ecologico.

A quanto pare, nonostante tutto, pare che in Italia non si stia cosi’ male!

martedì 7 settembre 2010

Con Eta «niente da negoziare»



tradutzioni de su comunicau bideu in itallianu

"Molto è accaduto da che è organizzata una strategia selvaggia di negazione e annientamento dei Paesi Baschi e con le armi in mano, ETA è piegata nella lotta per la libertà.

i cittadini, uomini e donne si sono date il meglio delle loro speranze e aspirazioni ordinarie di diversa provenienza si sono uniti nella lotta comune.

Data la riforma politica del franchismo, impegnate nella negazione e annientamento dei Paesi Baschi, mentre altri han deciso di presentarsi nel quadro di quello che chiamano "autonomia", l'ETA ha agito responsabilmente proponendo una chiara rottura democratica e dispose la resistenza ai tentativi di assimilazione e di attacchi.

ETA e, in generale, il basco di sinistra, hanno continuato nella lotta. E il suo costo non è stato piccolo. Stiamo pagando molto caro: la tortura, il carcere, l'esilio o la morte.

Ma i frutti di questa lotta è stata difficile la sopravvivenza del Paese basco che ha mantenuto aperta la porta a una versione futura.

Abbiamo dimostrato che il quadro regionale non è il modo per soddisfare i desideri del popolo basco, che non è solo uno strumento per influenzare la divisione e smembramento del Paese Basco. E ci siamo riusciti, uno dopo l'altro, misure per neutralizzare la lotta di liberazione.

Uno dei lavori di ETA è stato quello di aprire nuovi scenari nella lotta di liberazione del popolo basco. Così, l'ETA ha contribuito a presentare proposte per iniziative di collaborazione e le risoluzioni del conflitto.

In tempi recenti, il Paese Basco è stato trovato in un crocevia importante. La lotta politica ha lasciato il posto alle nuove condizioni. Venduto in autonomia, è il momento per un cambiamento politico. Ora è il momento di costruire un quadro democratico per il paese basco, nel rispetto della volontà della maggioranza del popolo basco.

Lo Stato spagnolo è consapevole che il Paese basco è a un bivio, e si può scegliere il percorso di indipendenza. Vogliono creare le condizioni in cui è bloccato tutto, vogliono evitare il dialogo politico e soffocare le aspirazioni delle persone in stato di emergenza.

Gli attivisti baschi ei cittadini baschi devono rispondere a questa situazione in modo responsabile e con urgenza.

E 'tempo di assumersi le proprie responsabilità e prendere misure forti ... nella articolazione del progetto di indipendenza, la creazione di condizioni democratiche in risposta alla repressione e alla difesa ferma delle libertà civili e politiche.

cambiamento politico è possibile. Ma in questo modo non ci sono scorciatoie.

Il sentiero della libertà si deve percorrere, passo dopo passo, magari con flessibilità, ma sono necessari sforzi e la lotta per raggiungere tale obiettivo.

Senza confronto, è impossibile superare la negazione e isolazionismo. In questa direzione, l'ETA ha sempre teso la mano.

ETA conferma il suo impegno a trovare una soluzione democratica al conflitto. Nel suo impegno a realizzare un processo democratico che consente di decidere liberamente e democraticamente il proprio futuro attraverso il dialogo e di negoziati, l'ETA è pronto, oggi come ieri, a concordare le condizioni democratiche minime necessarie per avviare un processo democratico, se il governo spagnolo ha la volontà.

Ciò che sappiamo anche che la comunità internazionale, che voglia di rispondere alla volontà e l'impegno di ETA a partecipare alla costruzione di un duraturo, giusto e democratico la lotta politica di secoli.

ETA ha annunciato che alcuni mesi fa ha preso la decisione di non svolgere azioni armate.

ETA vuole ribadire l'invito ad agire responsabilmente in merito a tutti gli attori politici, sociali e sindacali baschi, ribadisce che, in quanto le persone hanno bisogno di intervenire con decisione a raggiungere una fase del processo democratico e dare voce al popolo.

Perché la porta alla vera soluzione del conflitto sarà aperto soltanto quando i diritti dei Paesi Baschi sono riconosciuti e ratificati.

In conclusione, facciamo appello a tutti i cittadini baschi di continuare la lotta, ciascuno nel suo campo, con l'impegno di tutti, tutti insieme riusciremo a rompere il muro di rifiuto e passo irreversibile strada verso la libertà. "
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Quasi unanime e troppo scontata la risposta di governo, partiti e media
Dopo l'annuncio di domenica scorsa di una «alto el fuego»

Maurizio Matteuzzi
ilmanifesto.it
In Spagna tutti o quasi - governo di sinistra e opposizione di destra, il resto dei partiti e i giornali - a minimizzarne l'importanza e liquidarlo come «insufficiente» e «deludente», «ambiguo», «fraudolento», «fumo negli occhi», «una trappola», «una nuova manovra», «un canto di sirene». Nel Paese basco reazioni più prudenti e favorevoli: «un valido contributo alla costruzione della pace e al consolidamento di un processo democratico», una prima risposta «importante e positiva» alle pressioni della sinistra abertzale (radicale) basca per una soluzione politica.

Ma il video diffuso domenica, grazie allo scoop del giornalista Clive Myrie della Bbc (che l'ha avuto da una sua fonte alla Gare du Nord di Parigi dopo un primo contatto alla stazione del metro di Covent Garden a Londra) e poi pubblicato in prima pagina dal giornale basco Gara, in cui l'Eta annuncia, unilaterlmente e senza condizioni (ma anche senza precisare se sia permanente o no), «la cessazione delle azioni armate offensive», al di fuori della Spagna è stato preso sul serio. Non solo da Gerry Adams, storico leader del Sinn Fein - il braccio politico dell'Ira - ma anche dalla Commissione europea di Bruxelles. Adams, che ha avuto un ruolo centrale nel processo politico che ha portato alla soluzione negoziata del conflitto in Nord-Irlanda ed è impegnato nella ricerca di un'analoga soluzione politica - l'unica ragionevolmente praticabile, anche se costosa e sempre rifiutata dai vari governi spagnoli - del conflitto basco, ha espresso «soddisfazione» per «il significativo» annuncio dell'Eta «di cercare l'indipendenza di Euskadi per vie democratiche» e afferma di considerare «vitale che il governo spagnolo risponda in modo positivo, approfitti dell'opportunità per far avanzare un processo di pace e stabilisca rapidamente negoziati politici non escludenti». La Commissione europea considera che l'annuncio da parte di Eta (l'undicesimo in 42 anni) offra «motivi di prudente speranza» e afferma che «seguirà da vicino gli sviluppi».


Le reazioni on Spagna, per il momento, non danno spazio né agli auspici di Adams né alle «prudenti speranze» di Bruxelles. La prima risposta del governo socialista di Zapatero è stata affidata, ieri, al ministro degli interno Alfredo Perez Rubalcaba: «scetticismo» su tutta la linea; «la politica antiterrorista» che ha inferto colpi durissimi all'Eta «si manterrà intatta»; «nessuna tregua» da parte dello stato e dei servizi; niente negoziati perché con l'Eta «non si può dialogare» e non c'è nulla da negoziare. Idem il Partido popular (con l'eccezione dell'euro-deputato Jaime Mayor Oreja, ex ministro degli interni di Aznar, che accusa da mesi il governo di essere in negoziati segreti con Eta e l'annuncio di domenica è il loro risultato). Idem i partiti nazionalisti non baschi e anche l'unico deputato di Izquierda unida Gaspar Llamazares: «Quello che ci si aspetta dall'Eta non è una tregua ma la cessazione definitiva delle azioni armate». Sole voci discordanti il deputato di sinistra catalano Joan Herrera (il governo «non deve lasciarsi sfuggire l'opportunità») e il Blocco nazionalista gallego.
Forse non può essere che così visti i precedenti. Perché non è solo l'Eta a essere debolissima e minata da divisioni interne nella sua deriva militarista-terrorista. Debolissimo in questa fase - dopo i devastanti effetti della crisi economica che ha spazzato via «il miracolo spagnolo» - è anche Zapatero. Quando volava alto, si era provato a tentare la strada di una soluzione politica e negoziata del conflitto basco, e l'Eta nel marzo 2006 aveva proclamato un «alto el fuego permanente». Ma, sotto l'attacco violentissimo della destra (anche se Aznar aveva a suo tempo intavolato negoziati con «la banda terrorista») e dei media, quell'ipotesi naufragò e l'Eta riprese l'attività armata in dicembre.
In Spagna ci si interroga sul perché dell'annuncio dell'Eta adesso. Per guadagnare tempo e riorganizzarsi dopo i durissimi colpi subiti? Per le pressioni degli sponsor internazionali (l'appello dei 4 Nobel per la pace per un cessate il fuoco «permanente» del marzo scorso) e di Batasuna (illegalizzata come «braccio politico dell'Eta» dalla sciagurata «Ley de partidos» approvata praticamente all'unanimità nel 2002), che aspira a reintrare nel gioco politico legale in vista delle amministraive del maggio prossimo? Una risposta positiva a Batasua o velenosa per dimostrare che la via legale è impraticabile e quindi per l'indipendenza non resta che la via armata? La «lotta anti-terrorista» non è un pretesto troppo allettante per i partiti spagnoli a fini elettoral-politici e per non affrontare il nodo basco? Domande a cui il tempo risponderà.
murales eta murales eta

http://www.youtube.com/watch?v=bBWDDBpf3Yw&feature=related



domenica 5 settembre 2010

Si riaccendono le speranze delle vittime di Bhopal

La Corte suprema accoglie il ricorso del governo di Dheli e decide di inasprire le accuse contro i dirigenti dell'impianto che causò il più grave disastro industriale della storia

di Clara Gibellini
ilfattoquotidiano.it
Un omicidio di massa e non una tragica fatalità. Si riaccende la speranza delle vittime di Bhopal affinché sia fatta giustizia. La recente decisione della Corte Suprema indiana ha infatti deciso di accogliere il ricorso del governo per inasprire i capi di imputazione contro i responsabili del più grande disastro chimico della storia.

A tre mesi dalla sentenza choc che, il sette giugno scorso, ha dichiarato colpevoli di “criminale negligenza umana” sette ex dirigenti della Union Carbide, condannandoli a due anni di detenzione e al pagamento di un’irrisoria multa di 100mila rupie (appena 1.700 euro). Oggi i rappresentanti della multinazionale, potrebbero essere nuovamente incriminati per omicidio colposo.

La Union Carbide, oggi assorbita dalla Dow Chemical, era la proprietaria della fabbrica di pesticidi nella città di Bhopal, dove, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984, una fuoriuscita di gas venefici causò la morte per avvelenamento di oltre 3000 persone e, nel corso dei decenni, l’agonia di almeno altre 20mila vittime contaminate dai veleni fuoriusciti dalla fabbrica.

La riapertura della causa innalza fino a dieci anni di carcere la pena prevista per i responsabili di quel disastro. Una buona notizia per le associazioni di sostegno ai sopravvissuti, che dopo decenni di proteste per ottenere risarcimenti adeguati alle dimensioni della catastrofe, vedono ora la possibilità di riscrivere almeno l’epilogo giudiziario dell’evento che ha sconvolto la loro esistenza. «Questa decisione è un grande passo per riparare ai numerosi torti causati negli anni dalla Corte suprema. Siamo molto soddisfatti perché ciò rende più concreta la possibilità che i responsabili scontino la loro pena” – ha affermato Satinath Sarangi del Bhopal Group for Information and Action.

Per ottenere giustizia, la vera conquista sarebbe però quella di riuscire a riportare in India Warren Anderson, presidente della Union Carbide al momento della tragedia, e considerato il vero responsabile della mancanza di manutenzione, controlli e sicurezza che hanno provocato la fuoriuscita del gas dalla fabbrica costruita in uno dei sobborghi più popolosi della città. Arrestato pochi giorni dopo il disastro e rilasciato su cauzione, Anderson, oggi novantenne, si è poi rifugiato negli Stati Uniti, dove grazie alla complicità del governo e alle tardive richieste di estradizione da parte della giustizia indiana, vive da venticinque anni una lussuosa vita da latitante.

Dopo la sentenza “farsa” di giugno, il governo di Nuova Delhi ha dichiarato di voler acquisire nuove prove contro l’intoccabile ex presidente e a Bhopal molti sperano che la questione della sua estradizione rientri nell’agenda della prossima visita, a novembre, di Barack Obama in India.

venerdì 3 settembre 2010

ASINARA/VINYLS Via al secondo bando Verso i 200 giorni da «reclusi» sull'isola












Costantino Cossu

ilmanifesto
PORTO TORRES (SASSARI)

«Facciamo colazione consapevoli che questo è un momento importante, che deciderà del nostro destino. L'umore non è dei migliori, ci facciamo coraggio l'un l'altro e cominciamo una nuova giornata di lotta. A pranzo poi Antonio prepara delle pennette condite con pomodoro fresco, aglio e basilico. Ottime. Se non lo sposa Piera, Antonio lo sposiamo noi».

Una giornata quasi come le altre 188 ormai trascorse, dal 24 febbraio, nell'ex supercarcere dell'Asinara dai cassintegrati della Vinyls. Quasi. Ieri, infatti, è stato pubblicato, sul sito Vinyls Italia, il secondo bando i
nternazionale, dopo il primo del marzo scorso, per la cessione degli stabilimenti di Porto Marghera (205 dipendenti), di Ravenna (45) e di Porto Torres (120) dell'azienda chimica in amministrazione straordinaria. I gruppi industriali o finanziari eventualmente interessati potranno presentare un'offerta d'acquisto, da depositare presso un notaio di Venezia, entro il 22 ottobre prossimo alle 18. La richiesta dovrà contenere, tra l'altro, il prezzo e gli impegni sui livelli occupazionali e sulla ripresa della produzione per almeno un biennio.

Il bando, firmato dai commissari straordinari della Vinyls (Franco Appeddu, Mauro Pizzigati e Giorgio Simeone), recepisce l'accordo sottoscritto il 22 luglio scorso al ministero de
llo Sviluppo economico per la ripresa del ciclo cloro-Pvc nei tre stabilimenti interessati.

Saranno i commissari a procedere alla scelta finale, valutando, in particolare, la situazione patrimoniale e finanziaria di chi avanza le offerte, oltre che la capacità degli acquirenti di far fronte agli impegni, anche finanziari, derivanti dall'acquisto. Per dare ai potenziali compratori informazioni esaurienti sulla situazione degli stabilimenti in vendita sarà allestita a Marghera, nella sede della Vinyls I
talia, una «data room», che sarà aperta dal 20 settembre all' 8 ottobre. Lo scorso marzo l'unico soggetto interessato all'acquisto, il gruppo Ramco del Qatar, aveva rinunciato durante le trattative.


«Chiunque compri - dicono ora i cassintegrati della Vinyls - farà un buon affare. La nostra fabbrica produceva cloruro di vinile da etilene e dicloroteano con una capacità annua di circa 170 chilotoni. E ha anche un impianto per produrre polivinicloruro in emulsione (Pvc/E) con una capacità di circa 65 chilotoni. Impianti tecnologicamente avanzati e professionalità eccellente, oggi mandata al macero».

Prosegue intanto il sostegno spontaneo alla lotta degli operai di Porto Torres, anche in forme minime: «L'altro ieri la signora Rosa di Ittiri, un piccolo paese vicino a Sassari, ci ha inviato delle ottime angurie. Ricambiamo con baci e abbracci». E si cercano sostegni fuori dall'isola: «Due di noi, Pietro e Andrea, stanno per partire alla volta di Piacenza alla festa del Partito democratico. Chiederanno alle forze di opposizione di unirsi per combattere in Parlamento in difesa del lavoro, incalzando i banditi che sono al governo. L'economia è la vera emergenza. Serve una politica industriale vera, in tutti i settori, non solo in quello della chimica».

Dopo sei mesi trascorsi nelle celle dell'ex carcere, c'è un po' di stanchezza, ma anche molta determinazione a continuare: «La nostra situazione è disagiata, ma non cederemo. Rivolgiamo un pensiero ai minatori cileni bloccati nelle viscere della terra. Dovranno resistere più di noi per ritornare alla superficie». Sintonia anche con i pastori che rischiano di finire sul lastrico per il crollo del prezzo del latte. Durante il blitz degli allevatori nei giorni scorsi in Costa Sm
eralda
c'era una rappresentanza dei cassintegrati Vinyls.

martedì 31 agosto 2010

Il gene del profitto che va modificato

Claudio Malagoli*
www.ilmanifesto.it



Il nostro paese con il 7% circa della superficie agricola utilizzata (12,7 milioni di ettari), produce il 13% circa del fatturato agricolo dell'Ue (50.000 milioni di euro), segno inequivocabile di una produzione ad alto valore aggiunto, decisamente apprezzata dal consumatore. Da un punto di vista economico e sociale si tratta di un grande patrimonio da tutelare, in quanto la produzione agricola per il mercato rappresenta solo una parte dei reali benefici che il settore agricolo apporta alla collettività. Non dobbiamo dimenticare che nel nostro paese il ruolo dell'agricoltura è di fondamentale importanza per il presidio e la manutenzione del territorio, per la conservazione dell'assetto idrogeologico, per la conservazione e la tutela del paesaggio, per la conservazione della biodiversità, per la creazione di spazi ad uso ricreazionale, ecc. Pertanto è riduttivo vedere l'agricoltura solo dal lato produttivo per il mercato, occorre vederla e tutelarla per le esternalità positive che essa fornisce.

Ecco allora che la nostra società ha bisogno della presenza dell'agricoltura e dell'agricoltore sul territorio e dovrà adottare politiche in grado di proteggere il suo reddito, al fine di consentire la permanenza di questa attività anche in aree marginali, che non possono certo competere sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita. È in questo contesto che si inseriscono le problematiche relative agli organismi geneticamente modificati. Purtroppo qualcuno crede ancora che lo sviluppo di una società dipenda dal prodotto interno lordo, per cui se gli ogm sono un modo per incrementare il Pil devono essere accettati e chi esprime pareri contrari, o quantomeno scettici, è ipocrita o falso. Se questo ragionamento fosse vero, perché essere contrari agli ormoni utilizzati nell'allevamento bovino, o agli animali transgenici, o agli animali clonati, o agli animali transgenici clonati?
Secondo queste persone qual'è l'obiettivo degli ogm? Facile: produrre cibo a basso costo per esportare e per fare profitto. È pura utopia pensare che il nostro paese possa essere competitivo sul mercato internazionale con gli stessi prodotti! L'Italia, con aziende agricole della superficie media di 5-6 ettari (contro i 220 ettari degli Usa), con i suoi costi burocratici, con la sue limitazioni nell'uso di antiparassitari e di concimi («legge nitrati» ), con il suo sistema sociale, come potrà competere con gli stessi prodotti con gli Usa, con la Cina o con l'Argentina? Sarebbe come se la Ferrari volesse competere con la Fiat nella produzione delle Panda, sarebbe come se Valentino volesse competere con l'India nella produzione delle magliette di cotone!

Occorre poi considerare che sul mercato internazionale vige ancora il baratto per cui se noi esportiamo qualcosa, poi dobbiamo importare come pagamento qualcos'altro. Ecco allora che le cose cambiano, in quanto l'invasione dei pomodori dalla Cina o delle carni dai paesi dell'Est (spesso esportati con politiche di dumping) probabilmente non è legato allo sviluppo tecnologico, ma è il risultato di accordi commerciali mediante i quali noi esportiamo prodotti industriali/tecnologici e loro ci pagano con quello che hanno, prodotti agricoli. Ecco allora che in questo modo si rischia di mettere in discussione anche la sovranità alimentare del nostro Paese. Mai come in questi ultimi anni abbiamo vissuto una così forte crisi del settore agricolo, con prezzi di mercato dei cereali e dei prodotti zootecnici che hanno raggiunto livelli da non coprire il costo di produzione. In questa situazione, purtroppo, molte aziende agricole di aree marginali (di collina e di montagna) hanno abbandonato l'attività produttiva (nel 2000 erano presenti secondo l'Istat 2,5 milioni di aziende agricole, che oggi ammontano a circa 1,7 milioni) e altre aziende agricole hanno «seminato» campi fotovoltaici e/o eolici. Non dimentichiamo poi che la concorrenza del mercato globalizzato, basata sull'importazione di alimenti di qualità discutibile a bassi prezzi, potrebbe essere la causa indiretta di comportamenti illeciti sul mercato del lavoro. Imprenditori senza scrupoli, pur di mantenere un certo livello di redditività, ricorrono a manodopera illegale, non applicano le tutele sindacali eccetera.

Gli ogm sono in grado di rafforzare la nostra agricoltura e il reddito dell'agricoltore? Purtroppo la risposta è negativa, in quanto, con ogni probabilità: se è vero che determineranno un abbassamento dei costi di produzione (cosa tutta da verificare fin tanto che ci sarà separazione di filiera, ovvero l'etichettatura per alimenti ogm e non ogm), è altrettanto vero che favoriranno un abbassamento dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli, impedendo così un aumento dei profitti e determinando una perdita di reddito reale per l'agricoltore; brevetto e sviluppo di sementi apomittiche (che producono vegetali geneticamente identici) causeranno la perdita di imprenditorialità per l'agricoltore, che diventerà un prestatore di manodopera per conto di chi detiene il brevetto, in quanto le produzioni saranno attuate sulla base di un «contratto di coltivazione»; faciliteranno l'operazione di delocalizzazione delle coltivazioni agricole, che saranno trasferite nei paesi caratterizzati da un minor costo dei fattori produttivi; determineranno l'abbandono dei territori marginali, che non hanno le potenzialità produttive necessarie a far produrre queste piante (terreno, acqua di irrigazione, clima, ecc.) e non saranno in grado di competere sulla base dei bassi costi di produzione; attraverso strategie di appropriazionismo e di sostituzionismo attuate dall'industria sementiera determineranno una minor utilizzazione, e conseguentemente un minor reddito, dei fattori produttivi solitamente apportati direttamente dall'agricoltore (manodopera soprattutto); aumenteranno la dipendenza del nostro paese nei confronti delle forniture di sementi provenienti dall'estero; determineranno un danno di immagine per l'agro-alimentare nazionale, da tutti conosciuto e copiato per le sue produzioni di eccellenza.

In definitiva, le problematiche relative all'introduzione degli ogm sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Come per altre innovazioni tecnologiche, se da un lato il tipo di sviluppo attuato in agricoltura in questi ultimi anni, improntato soprattutto all'esasperata ricerca del profitto, ha consentito di massimizzare la produttività dei fattori della produzione, dall'altro non è sempre stato in grado di garantire sia un'equa ripartizione delle produzioni tra le diverse aree del pianeta, sia modalità di produzione compatibili con l'esigenza di salvaguardare l'ambiente e lo sviluppo sostenibile del territorio rurale. A questo proposito si auspica che gli ogm, così come gran parte delle innovazioni tecnologiche introdotte in agricoltura in questo secolo, non siano viste come un ulteriore strumento «necessario» per incrementare la produttività del lavoro, a scapito, ancora una volta, dell'ambiente. Se si parte dal presupposto che occorra incrementare il reddito da lavoro in agricoltura, mantenendo inalterato il salario e abbassando il prezzo di vendita dei prodotti agricolo-alimentari, affinché con motivazioni di tipo ricardiano il consumatore incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte eccedente ad altri consumi non primari, l'«individuo biotecnologico» diventa strumento fondamentale per attuare tale strategia.

Discorso a parte è quello relativo alla ricerca sugli ogm che, se fatta con le dovute cautele, deve andare avanti. Occorre però considerare che lo sviluppo tecnologico, che non attiene certo al campo della ricerca scientifica, non è neutro e deve sottostare a giudizi economici, politici ed etici. In particolare, prima di una loro introduzione è necessario rispondere ad alcune domande: 1) per quale motivo il nostro Paese, che vanta produzioni alimentari copiate in tutto il mondo (agropirateria), dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? 2) esiste sul mercato un'impresa che vuole iniziare a produrre un bene che il 75% degli acquirenti ha detto di non voler comprare? 3) perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? 4) potrà competere il nostro paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto? 5) è eticamente giusto ricercare un aumento del reddito reale attraverso un abbassamento del prezzo degli alimenti, mantenendo così inalterati i salari? 6) è eticamente giusto creare un mercato degli alimenti ritenuti di serie A (biologico, Dop, Igp ecc.) ed un altro ritenuto di serie B (ogm), col pericolo di creare una sorta di proletariato alimentare?

*Università di Scienze Gastronomiche, Pollenzo/Bra (CN)

sabato 28 agosto 2010

"Nucleare pericoloso la Russia insegna"

Parla il direttore di Greenpeace: "Il fuoco non minaccia solo le centrali, ma anche gli impianti che trattano le scorie. Anche un black-out di pochi minuti porterebbe all'emergenza"

di ANTONIO CIANCIULLO
repubblica.it

Oltre alla minaccia terroristica, alla carenza di acqua dolce per il raffreddamento degli impianti e ai costi che s'impennano, per il nucleare arriva ora la grana incendi: lo scenario della Russia di questi giorni ci offre una nuova visione dei rischi legati alle centrali atomiche. Da una parte Chernobyl torna a manifestare i suoi effetti, dall'altra l'assedio delle fiamme attorno agli impianti nucleari rivela una minaccia finora poco considerata.

Come è possibile che, a distanza di 24 anni dalla catastrofe che ha distrutto il reattore ucraino, quella radioattività torni a essere un problema?

"I radionuclidi del cesio emesso nell'esplosione della centrale di Chernobyl si ridurranno a un millesimo solo fra tre secoli", risponde Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. "Oggi il 60 per cento di quella radioattività è ancora lì, nel terreno e nelle piante: il fumo degli incendi la rimette in circolazione, anche se con un effetto locale, a differenza di quanto avvenne nel 1986, quando la nube radioattiva si alzò per chilometri seminando il suo carico distruttivo in un'area enorme".

Quindi nel conto degli incendi russi dobbiamo mettere anche la contaminazione radioattiva?

" Una parte della nube di Chernobyl è stata rimessa in circolazione. E' un elemento che va ad aggravare un bilancio sanitario già critico, visto che si è parlato di un raddoppio della mortalità a Mosca a causa del fumo degli incendi. Sono aumentati in maniera consistente sia il particolato, creando problemi immediati alla respirazione, che elementi cancerogeni come il benzene".

Altri incendi minacciano le centrali nucleari.
"Non solo le centrali, anche gli altri impianti nucleari. Ad esempio quelli del centro atomico di Mayak, negli Urali, dove c'è un deposito a cielo aperto di scorie nucleari in cui sono stoccate 40 tonnellate di plutonio".

Qual è il rischio?
"Ci sono vari livelli di rischio. Supponiamo ad esempio che le fiamme colpiscano solo le linee esterne di trasmissione della corrente elettrica, i trasformatori. Ebbene la centrale si troverebbe isolata e si dovrebbe procedere a un arresto rapido del reattore, una procedura che comporta sempre una certa dose di rischio".

E' già successo?

"E' successo proprio a Mayak il 3 settembre del 2000. Per venti minuti fu interrotta la fornitura elettrica e lanciato il sistema di sicurezza basato su motori diesel. Quei motori erano in condizione di lavorare solo per 30 minuti, se il problema fosse durato più a lungo si sarebbe entrati in una situazione critica".

Un problema del genere potrebbe riguardare anche gli impianti che il governo Berlusconi vuole costruire in Italia?

"Nel nostro caso si parla di reattori epr per i quali è previsto un tetto di due minuti per circoscrivere un incendio. Quando guardiamo quello che sta succedendo in Russia e pensiamo che con i cambiamenti climatici andrà sempre peggio...."

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