I ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti: la loro vita è più stabile
Manuel Castells
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Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola.In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se poi ognuno lo intende a suo modo.
Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo. Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in beneici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana.
L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale. Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo.
Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano.
Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di fe- licità perché sconvolge la ruotine quotidiana.
Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito suiciente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici.
Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.
D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’afermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti inziamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni.
Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari. In in dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la diicoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo.
Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di afetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici. Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuo- vo ilone di ricerca, sintomo di un profondo cambia- mento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.
MANUEL CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009)
Guardando i dati di tutti gli stati del mondo sembrerebbe però che le popolazioni più felici si trovino nell’America centrale!
Ecco la mappa dell’HPI di tutto il mondo:
Cartina dell’Europa che indica il livello di felicità nei vari Stati, calcolato in base all’indice HPI (Happy Planet Index)!
Questo indice prende in considerazione tre variabili: il livello di soddisfazione personale, l’aspettativa di vita e l’impatto ecologico.
A quanto pare, nonostante tutto, pare che in Italia non si stia cosi’ male!
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