mercoledì 9 maggio 2012

Quirra, il Senato pronto a varare misure urgenti

Mariella Careddu

www.unionesarda.it

Dopo l'audizione al senato italiano di ieri del pm Fiordalisi

Quirra, il Senato pronto a varare misure urgenti

 

 
PM Domenico fiordalisi


Un vertice d'urgenza sui veleni del poligono di Quirra. La commissione parlamentare è sotto choc. Alle dieci e mezza di ieri sera, il procuratore capo della Repubblica di Lanusei, Domenico Fiordalisi, conclude la sua relazione sugli effetti delle esercitazioni militari nel salto di Quirra: i politici capiscono che non c'è un attimo da perdere. Questo pomeriggio alle due, si riunirà l'ufficio di presidenza del Senato per adottare determinazioni urgenti.

L'INCONTRO A ROMA
Un fiume di parole iniziato alle otto e mezza di sera. Due ore di audizione e un faldone con centinaia di pagine che raccontano come il torio, l'amianto e le altre sostanze tossiche sprigionate dalle esercitazioni militari, abbiano impestato la terra e l'aria di quel quadrato grande più di dodicimila ettari, ma non solo. La bonifica dovrà andare oltre i confini catastali dell'area militare, perché l'inquinamento è più grave di quanto si potesse immaginare. 

I DATI DEL DISASTRO
Il pubblico ministero, che solo qualche giorno fa, ha chiesto il rinvio a giudizio per venti persone accusate di aver provocato il disastro e di aver omesso di denunciare la faccenda alle autorità competenti, ha sviscerato ogni aspetto della vicenda. I contenuti del colloquio sono stati secretati. Nel rapporto del procuratore, si va per capitoli. Si ripercorrono cronologicamente le tappe del disastro. Si elencano responsabilità e negligenze. Si evidenzia la pericolosità del torio, un metallo pesante, la cui incidenza è stata spesso sottovalutata. Più difficile da rintracciare attraverso i test, più difficile da smaltire, rispetto al ben più conosciuto uranio impoverito. 

LA COMMISSIONE
Ad ascoltare ogni dettaglio, c'erano i componenti della commissione parlamentare che deve fare chiarezza sui casi di morte e su quelli di malattia che hanno colpito il personale militare impiegato nei poligoni in Italia e all'estero. Tra i parlamentari, l'unico senatore sardo è Gian Piero Scanu del Pd. La relazione di Domenico Fiordalisi ha choccato tutti. Tanto che, alle dieci e mezza di sera, quando il pm si è congedato dai politici, è arrivata la decisione di non lasciar passare nemmeno un giorno in più. Bisogna fare in fretta, trovare una soluzione al più presto e far iniziare la bonifica per evitare che altri danni possano essere provocati in quell'area circondata da pascoli verdi, aziende agricole e centri abitati.


 
Un'esplosione nel poligono di Salto di Quirra

martedì 8 maggio 2012

Quel mistero di Sarsogna

Francesco Cesare Casula 

unionesarda

L'Isola dove tutti dormono e sognano e nessuno sa spiegare il perchè

Nemmeno uno scienziato inviato dall'Onu riesce a coronare la missione

Sogno Lucido
In mezzo a un vasto azzurro mare orlato d'antiche civiltà, insiste a vivere beata sotto il sol dell'avvenir un'isola di sogno, nella quale si dorme e si sogna, si sogna e si dorme, si dorme e si sogna in continuazione. Infatti, per questo, si chiama Sarsogna. 
 
L'ORIGINE
Chi le avesse dato per primo un simile nome, non si sa. I Greci achivi della Grecia e della Magna Grecia, in verità, la chiamavano Enipniona, che, poi, vuol dire sempre “la Dormiente che sogna”. Ma i più informati accademici odierni delle universias studiorum, accaniti latinisti, affermano nelle loro tesi dottorali di Filologia, Glottologia e Laringoiatria romanza che il nome deriva dal latino somnium. E ragionano così: i vecchi naviganti dell'alto mare aperto la conoscevano come ipsa insula somniat (che in italiano vuol dire “quell'isola sogna”…).
Nel corso del tempo secondo i dotti sarebbe caduta la ip e sarebbe rimasta solo la sa (chissà perché). Poi, la parola insula si sarebbe sott'intesa da sola ed eliminata in quanto ovvia.
Indi, dal II secolo a.Cr. in poi le chartae nauticae l'inscrissero col toponimo Sasognat. Ma, questo arbitrio non piaceva ai locali che spontaneamente aggiunsero una “r” eufonica e presero a chiamarla, fra un riposo e l'altro, Sarsognat. In ultimo, alle soglie del Medioevo, senza che nessuno se n'accorgesse (perché tutti dormivano), se n'è andata via quatta quatta la ”t” di coda per sfiducia nelle istituzioni. Ed eccoci giunti, così, a Sarsogna, come tutti oggi la studiano nei libri di geografia e di antropologia.
 
SU GOOGLE EARTH
Proprio così: di geografia e di antropologia; perché l'isola ha in sé una caratteristica unica al mondo, che la fa oggetto di attenti studi e ricerche nel campo delle risorse fisiche e morali umane. Per la parte fisica è presto detto. All'apertura serale di Google Earth risulta posizionata nell'emisfero nord della terra, a mezza strada fra il polo artico e l'equatore, in asse col meridiano londinese di Greenwich, ma un po' più a destra che a sinistra. Ha la forma di un cuscino stazzonato, tutto bozze e incavità al centro, sgualciture e spiegazzamenti ai lati. Contuttociò ha pochi porti, perché gli unici approdi li fecero i romani di passaggio, e ora, benché siano obsoleti e impraticabili (nelle banchine sud ed est), gli indigeni li reputano ancora congeniali, e sono troppo impegnati a dormire per pensare di riattarli coi tubi Innocenti, o, magari, farne uno nuovo in località Santa Pilla, da chiamarsi - potrebb'essere - Porto Alletto. 
 
GLI ABITANTI
Quanti abitanti annoveri, Sarsogna, nessuno lo sa con precisione: chi dice 20.000 chi 200.000 chi addirittura due milioni (pecore incluse). L'incertezza nasce dal fatto che nessun sarsognese è mai stato sveglio così a lungo da riuscire a compilare il formulario del censimento fino in fondo. Ma, di sicuro, quand'anche fossero 20.000, 200.000 o due milioni, essi sono ripartiti in otto, anzi dodici circoscrizioni che aspirano a diventare trentadue, come i denti dell'uomo/donna, in modo da poter masticare il cibo senza sforzo. Le circoscrizioni sono diverse le une dalle altre, e in competizione fra loro. Tutto dipende dalla postura dei dormienti. Nella circoscrizione di mezzo sono posizionati a pancia in su; in quella di sopra a pancia in giù. In quella di sotto dormono rannicchiati; mentre, in quelle di lato sono tutti distesi. E ognuno difende la propria posizione (che chiamano identità), anche a costo della vita.
 
IL MISTERO
Per cercar di capire perché i sarsognesi siano così addormentati tutti gli antropologi dell'orbe terraqueo si buttano a capofitto sull'antropologia culturale. Eppure, anche gli antropologi culturali, che di queste cose se n'intendono e sanno applicare l'olistica come se niente fosse, non riescono a spiegarsi il fenomeno sarsognese: «chi riesce andar via dall'isola dopo un giorno o due si risveglia del tutto e comincia pure a ragionare; chi invece arriva in Sarsogna sveglio e arzillo, pieno di buoni propositi, dopo due o tre giorni si assopisce e s'addormenta profondamente».
Alcuni antropologi, di non so dove, il primo giorno del loro arrivo, frastornati dal russare collettivo, andarono a chiedere lumi al governatore della regione. «Se non le sa lui, queste cose», pensavano, «non a caso sarà stato eletto governatore!».
Lo trovarono addormentato nell'alto scanno della sua autorità con un brutto cappello in testa per ripararsi dalla luce del sole. Cercarono di svegliarlo con cautela, poi scuotendolo leggermente, infine sbatacchiandolo vigorosamente tanto che il cappellaccio gli andò di traverso e rischiò di cadere. «Governatore - gridarono - perché dormite tutti?». Il governatore, di mala voglia, aprì un occhio (due sarebbe stato troppo), si aggiustò le manichette della giacca, quasi a chiedere loro salvifica ispirazione, ingurgitò la domanda, la rimuginò fra sé e sé, e infine trovò la soluzione: «Andate dallo storico di Palazzo, lui conosce senza dubbio la verità», e si riappisolò.
 
PANICO MONDIALE
Neanche lo storico ne cavò piede e anche l'Onu ne fu atterrita. Pensarono, allora, che la causa fosse l'aria («el aire pestilencial» sentenziarono gli ambasciatori di lingua spagnola, che ricordavano la malaria del passato). Tra il vedere e il non vedere, decisero ilico et immediate, all'unanimità, di mandare un drone (aereo senza pilota) per prelevare campioni di atmosfera insulare da analizzare. Niente da fare.
Per farla breve, alla fine diedero la colpa alle mosche (in effetti, la mosca tse-tse provoca il sonno). Chiesero alla comunità scientifica un entomologo che fosse disposto a paracadutarsi al centro dell'isola con tutta la sua attrezzatura (retini, microscopi, reagenti chimici, vettovaglie e tenda da campo) per osservare, catturare e, se del caso, vivisezionare i ditteri sospetti: le noiose mosche domestiche, le schifose mosche cavalline, le rare mosche bianche, le ruzzanti mosche cieche, le reticenti zitt'e mosca; insomma, la famiglia delle musciade al completo (padri, madri e figli).
 
LE MOSCHE
L'eroico scienziato volontario, calato giù dal cielo, perlustrò in lungo e in largo la campagna di Sarsogna sotto il sole cocente dell'estate acchiappando mosche a tutto spiano, tanto che a sera n'ebbe in suo potere un sacco pieno. Dalla contentezza non dormì neppure. Al lume della lampada acetilene si diede ad analizzare, anatomizzare, squartare teste, antenne, addomi, arti superiori ed inferiori delle povere bestiole ronzanti di paura, anelanti alla libertà. Purtroppo, col passar delle ore, si faceva palese l'insuccesso: nessun insetto pareva apportatore di sonno.
L'entomologo era disperato: per lui poteva essere il Nobel, la gloria, l'immortalità; invece, era la sconfitta, la vergogna, l'anonimato eterno. Si deterse il sudore dalla fronte, bevve dell'acqua dalla borraccia con mano tremante e s'apprestò ad escùtere l'ultimo vetrino dov'era spiaccicata la salma di una viscida mosca olearia, meglio conosciuta col nome latino di bactrocera oleae. «Mio Dio - pregò sommesso - fate che sia lei la colpevole». Già gli ciondolava la testa invasa dal torpore pomeridiano (si era al secondo giorno). Bisognava fare in fretta, molto in fretta. Nell'orgasmo dell'urgenza una goccia cadde accanto all'animaletto in osservazione. «Strano, disse l'entomologo, l'acqua che vedo non è del tutto pura…».
Effettivamente, insieme all'H2O il liquido mostrava sospette tracce di un lattice bianchiccio. «Vuoi vedere che…», pensò (non per nulla era un scienziato di fama internazionale!). Spostò il vetrino sul potentissimo microscopio elettronico per avere una scansione più dettagliata, e gli apparvero gli alcaloidi, le proteine, le cellule, l'enzima e gli idrocarburi di una secrezione che Wikipedia individuò proveniente da una pianta acquatica denominata euphorbia dendroides, ovverosia lua.
«La pianta - dice l'enciclopedia - è lattiginosa, con chioma spesso arrotondata, densamente ramificata, ma lassamente fogliosa. Tutta la pianta è tossica (un tempo questa specie veniva utilizzata per la pesca di frodo). Negli uomini, poche stille diluite nell'acqua provocano un sonno profondo». E tutti i bacini dell'isola ne erano invasi….!
 
EPILOGO
«Assassina!!!! - gridò l'entomologo - Ora ti denuncio al mondo intero!!!!". Ma, oramai, era troppo tardi: pure lui aveva bevuto il maledetto liquido, e i tre giorni di veglia erano scaduti. Cadde di schianto sul letto con l'inutile telefonino dell'accusa in mano, che faceva tu, tu, tu, a vuoto. Fu così che nobody in the world, nemmeno la CIA, seppe mai perché a Sarsogna si dorme e si sogna, si sogna e si dorme, si dorme e si sogna in continuazione.
 

Euforbia cespugliosa - portamento

lunedì 7 maggio 2012

Fukushima Il reattore n° 4 rilascia Cesio-137 i venti condannano la California

weeklyintercept

Technorati
Stephen Alexander

Se il reattore 4 a Fukushima diventa instabile e rilascia 10 volte la quantità di Cesio-137 (Cs-137) rilasciata al momento dell'incidente nucleare di Chernobyl, e i venti prevalenti potrebbero portarlo fino alla parte occidentale degli USA -che significa California .

Il 30 aprile 2012, 72 organizzazioni ONG hanno inviato una richiesta alle Nazioni Unite e al governo giapponese sollecitando la rapida azione per stabilizzare l'unità centrale nucleare di Fukushima Daiichi 4 combustibile nucleare esaurito.
Gli esperti nel settore nucleare sia  Giapponesi che nel mondo hanno approvato la lettera.

La lettera conteneva avvertimenti che l'unità
4  ha danneggiata la piscina del combustibile nucleare esaurito contiene cesio-137.
Questa piscina se è stata esposta a un terremoto o un altro evento che drena la piscina, quindi il risultato potrebbe essere un  catastrofico incendio radioattivo. La lettera ha esortato le Nazioni Unite a creare un vertice della sicurezza nucleare per trovare una soluzione al problema al'Unità di Fukushima Daiichi 4 e alla piscina del combustibile nucleare esaurito. La proposta ha indicatoto come le Nazioni Unite dovrebbero creare un team indipendente di valutazione relativa all'unità Fukushima Daiichi 4 e organizzare l'assistenza internazionale per stabilizzare il combustibile nucleare esaurito dell'unità e impedire la catastrofe imminente. La lettera è stata consegnata sia al Segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon che al Primo Ministro giapponese Yoshihiko Noda.  
La seconda lettera ha incoraggiato il Giappone a chiedere ufficialmente aiuto alle Nazioni Unite.  Gli oltre 10.000 elementi di combustibile esaurito siti presso l'impianto di Fukushima Daiichi si trovano in piscine vulnerabili ai terremoti futuri. La radioattività è di circa 85 volte più alta e  duratura rispetto alla radioattività rilasciata a Chernobyl.

STIGLITZ E L' AUSTERITA' SUICIDA

DI GUSTAVO PIGA
ilmanifesto.it





  
Ascoltare il dibattito tra Monti e Stiglitz è stato emozionante. Potenti le cannonate dell’economista americano, che lasciano basita una platea abituata allo slang triste europeo. Al termine del suo discorso si sente lo spavento che pervade la sala, paura per una crisi che forse non passerà se non si faranno le cose giuste. Il linguaggio è stato come quello di un marziano. Tant’è che la migliore difesa che il premier ha potuto montare è stata quella di differenziare l’America dall’Europa in termini di obiettivi. Non ha funzionato.
L’Europa non deve solo crescere economicamente, come gli Stati Uniti, ma far crescere anche le sue istituzioni e questo può andare anche a scapito della crescita economica. Mi sono detto che non è così, che forse per uno o due o anche tre anni può essere così, ma nessuna nazione può tenersi in piedi, coesa socialmente, senza che le sue istituzioni siano dedicate solamente alla crescita del benessere dei suoi cittadini.

Un linguaggio che effettivamente non si sente più nel nostro Paese. Non è solo questione di diversa enfasi, no, ascoltare Stiglitz era rendersi conto che esiste là fuori una strada alternativa di cui in Europa è vietato parlare. Un nuovo «dibattito proibito», per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi che uscì qualche anno fa. Era anche dare nuova linfa alle parole, come se queste fossero rose innaffiate dopo lunga aridità.

Prendete la parola più menzionata in Italia questi giorni. La parola spreco. Anche Stiglitz ne ha parlato. Di sprechi. Ma non parla di Bondi. No, parla del più grande spreco, quello vero, quello reale, dice Stiglitz: lo spreco immenso, trilioni di dollari, di tutte quelle risorse, naturali, materiali ed umane, uguali a quelle che avevamo nel 2008 e che da allora però non utilizziamo più a causa di questa crisi. «Ed è l’austerità che tiene vivi questi sprechi». Tutti quei giovani, che oggi non lavorano, che diventeranno alienati dal resto della società, che se e quando, tra tanti anni – se continuiamo con la stupida austerità – troveranno forse un lavoro, ma a salari più bassi perché avranno disimparato a fare e avranno perso l’orgoglio e la voglia di affermarsi. Ecco lo spreco, dice il Premio Nobel. Ecco, è questo l’unico vero, grande intollerabile spreco di questa maledetta crisi che non vogliamo combattere.

Perché si può combattere. Con un nuovo approccio di politica economica. Nessuna grande economia mondiale, mai, è uscita da una crisi di questo tipo con l’austerità, dice Stiglitz che diventa subito un fiume in piena che abbatte le nostre magre argomentazioni europee affaticate dal fallimento. «L’austerità non funziona, basta guardare ai dati: essa smonta anche i rientri dei bilanci pubblici verso il pareggio». Le riforme? Le riforme che servono anche nel breve periodo sono quelle che migliorano la situazione dell’accesso al credito per le piccole imprese e quelle che aumentano il sostegno alle università. Le riforme sono utili, ma hanno bisogno di tempo e, nel frattempo a volte riducono la domanda nel sistema, che già manca. Il mercato del lavoro americano è certamente flessibile eppure ciò non ha impedito che si raggiungesse una disoccupazione del 10%. In questa crisi non si creano posti di lavoro senza maggiore domanda aggregata. Bisogna fare politiche per il breve periodo. «E il breve periodo può durare a lungo se si mantiene l’austerità». Tutto qui? No, finiamo con la ricetta proposta dall’economista americano.

Primo, politica fiscale espansiva in Germania, anche con ampi deficit pubblici. Concordiamo. Secondo, in Italia, politica fiscale espansiva senza maggiori deficit pubblici. Il che significa più spesa pubblica con gli aumenti di tasse (già fatti) destinati a pagarci la spesa pubblica e non il debito pubblico. Oppure con i tagli agli sprechi che non devono generare maggiore austerità ma maggiore domanda da parte dell’unico attore che in questa crisi può domandare, lo Stato. Concordiamo. Senza toccare il deficit, il Pil sale, facendo anche scendere i rapporti deficit e debito su Pil. Grande ruolo per investimenti pubblici, spesa per l’istruzione e per la sanità. Terzo, tasse e spesa pubblica devono anche ridurre le disuguaglianze che specie in questa fase distruggono la crescita economica. Concordiamo.

Senza maggiore spesa pubblica anni ed anni davanti a noi di maggiore disoccupazione. Alle sue raccomandazioni aggiungiamo: vera spesa pubblicata, monitorata e la cui qualità sia assicurata da competenze e assenza di corruzione.

Monti ha detto alla fine del dibattito: «Sono desideroso di sapere come rispettare l’obbligo di bilancio in pareggio facendo diminuire il rapporto debito su Pil e soddisfacendo al contempo l’esigenza immediata di crescita». Forse non se ne è reso conto, forse sì, ma questo «come» glielo aveva spiegato pochi minuti prima Stiglitz, che ha aggiunto: «I terremoti accadono. Anche gli tsunami. Non è colpa nostra se accadono. Ma perché a queste tragedie dobbiamo aggiungere dei disastri causati da noi stessi? È criminale questa ignoranza di quanto è avvenuto nel passato, l’economia deve essere al servizio della gente, e non viceversa».


giovedì 3 maggio 2012

Sardinya: «Isola indipendente»

  SARDINYA: SA REVOLUTZIONI DE IS PABAULIS

"L'indipendenza non va riferita a un futuro indeterminato. Appartiene all'urgenza e alla responsabilità del presente. CHI DICE CHE I TEMPI NON SONO MATURI CREDE CHE IL TEMPO DEBBA MATURARE PER CONTO SUO, COME FRUTTO DI STAGIONE. E' una concezione PASSIVA che chiude la frontiera del tempo e nega la sua apertura. (...) Chi dice di attendere il tempo giusto subisce il tempo governato dagli altri e continua a servire i padroni del tempo..."

Bachisio Bandinu, PRO S'INDIPENDENTZIA, pag.6

 Giuseppe Meloni

www.unionesarda.it

 Il quesito proposto da Malu Entu

«Isola indipendente»: l'iniziativa di Doddore Meloni raccoglie 27mila firme


Doddore Meloni

Sono già più di 27mila le firme raccolte dal referendum per l'indipendenza proposto da Doddore Meloni. Ad annunciarlo è lo stesso fondatore della Repubblica di Malu Entu, alla vigilia del suo compleanno numero 69 (è nato il 4 maggio), che coincide anche con la data del suo ritorno alla politica attiva, nel 2008, dopo tanti anni di silenzio.

IL QUESITO
Il testo su cui Meloni ha raccolto le sottoscrizioni (27.347, per la precisione) è molto diretto: «Sei d'accordo, in base al diritto internazionale delle Nazioni Unite, al raggiungimento della libertà del popolo sardo, con l'Indipendenza?». Non si parla genericamente di autogoverno o poteri locali: ai cittadini viene chiesto un pronunciamento molto chiaro, a favore o contro l'ipotesi della creazione di una Repubblica di Sardegna.
Forse anche per questa nettezza, molti degli altri leader indipendentisti hanno preso le distanze dall'iniziativa di Doddore Meloni. L'idea del referendum è emersa nei mesi in cui alcune delle varie sigle (la stessa Malu Entu insieme a Sardigna natzione, Progres e A manca pro s'indipendentzia) stavano progettando la cosiddetta Convergenza nazionale, ossia una sorta di patto di collaborazione politica tra diversi soggetti dell'area identitaria.

POSIZIONI CONTRASTANTI
Obiettivo sfumato, almeno momentaneamente: e tra le ragioni della mancata intesa c'è anche la scelta di Meloni di avviare la raccolta firme, giudicata negativamente dai colleghi perché assunta in solitario. I leader dei vari partiti e movimenti temono che un'eventuale consultazione, se si concludesse con la sconfitta del sì all'opzione della Repubblica sarda, segni un arretramento del loro ideale indipendentista e della relativa battaglia.
Ma questo, per Doddore Meloni, non è un buon motivo per non provarci neppure. «Per la prima volta nella storia della nostra terra - scrive in un comunicato - la popolazione sarda si potrà esprimere sul suo presente e sul futuro delle prossime generazioni». Meloni valuterebbe con favore anche una percentuale pro-indipendenza attorno al 35%: «Farebbe emergere un sentimento diffuso anche tra gli elettori dei partiti italiani, e favorirebbe la nascita di un polo indipendentista per presentarsi alle prossime elezioni regionali». 

martedì 1 maggio 2012

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio di farlo riscrivere dalla società civile

 

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio
di farlo riscrivere dalla società civile

Da undici anni si tenta (inutilmente) di varare l'Assemblea costituente  

Fabio Manca

www.unionesarda.it

Che lo Statuto speciale, la Carta costituzionale dei sardi, abbia bisogno di essere cambiato per aumentare il grado di autonomia della Regione e soprattutto dopo l'avvento del federalismo, e il conseguente decentramento di decine funzioni, e dopo l'ingresso dell'Italia nell'Unione europea è un fatto condiviso. Sul modo per farlo le forze politiche si dividono: è opportuno che le modifiche statutarie vengano fatte dal Consiglio regionale o da una nuova assemblea, composta non solo da politici, ma da gente comune e rappresentanti di tutte le forze sociali e imprenditoriali eletti dai cittadini?
È il tema del sesto dei dieci quesiti sui quali i sardi dovranno esprimersi domenica. “Siete favorevoli alla riscrittura dello Statuto della Regione autonoma della Sardegna da parte di un'Assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i cittadini sardi?” chiede il Movimento referendario.

LE ADESIONI Del tema si discusse abbondantemente tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, gli anni in cui, sulla spinta di un largo movimento trasversale, prima i Riformatori sardi, poi la Giunta regionale (su proposta dell'allora assessore agli Affari generali Italo Masala), seguiti dai Sardisti e da buona parte del gruppo dei Democratici di sinistra, presentarono proposte o disegni di legge poi unificati nella proposta di legge nazionale numero 5 approvata dal Consiglio regionale nel torrido pomeriggio del 31 luglio del 2001.
La legge chiedeva sostanzialmente che al titolo VII della legge costituzionale del 26 febbraio 1948 numero 3 (lo Statuto sardo) venisse aggiunto un articolo che autorizzava il Consiglio regionale a deliberare l'istituzione di un'assemblea costituente. Poi la legge, come spesso accade, si arenò in commissione Affari costituzionali del Senato e da lì non si è mai mossa.

«FACCIAMO DA SOLI» Nel frattempo è cambiato il mondo, compreso il titolo V della Costituzione che modifica le competenze di Regioni, Province e Comuni, e numerose Regioni hanno già modificato la loro Carta senza chiedere il permesso al Parlamento. Ed è esattamente ciò che si intende fare in Sardegna. Se i sardi si esprimeranno per il sì, sarà una esplicita autorizzazione a indire le elezioni per l'Assemblea costituente. Che - nelle intenzioni dei promotori - sarà costituita da tutte le componenti della società: dai sindacati alle imprese sino ai sindaci. Saranno loro a decidere che cosa cambiare dello Statuto speciale: certamente (lo ribadisce il leader della Cisl nell'articolo sotto) tra le altre cose vorranno una reale autonomia finanziaria e, dunque, una maggiore percentuale delle tasse pagate in Sardegna, il riconoscimento dell'insularità come fattore di svantaggio, più competenze sull'istruzione.

IL LAVORO DEL CONSIGLIO Sullo Statuto sta lavorando da tempo (seriamente ma con i tempi e i veti della politica) la commissione Autonomia del Consiglio regionale. Ragione per cui i nemici della Costituente ritengono il referendum superfluo. Secondo i promotori, al contrario, il Consiglio regionale non è riuscito negli ultimi undici anni e non riuscirà oggi a produrre nulla. Perché tende ad autoproteggersi. Come una Casta.

INTERVISTA. Parla Mario Medde, leader della Cisl sarda

«Istituzioni screditate,  rinnoviamo noi le norme»


«Dico sì alla Costituente perché né la Giunta né il Consiglio regionale hanno le carte in regola per riscrivere lo Statuto speciale e perché ci vuole una forte forza contrattuale nel confronto con lo Stato, che si può avere solo con una grande e diffusa partecipazione popolare».
Mario Medde, leader della Cisl Sarda, è tra i sostenitori storici della battaglia per la riscrittura dello Statuto attraverso un'assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i sardi. E oggi che la crisi economica è drammatica, che il rapporto con lo Stato è ai minimi termini, come il gradimento dei partiti, lo è in modo ancora più convinto. «Per riscrivere lo statuto e liberare canali di collegamento, oggi ostruiti, tra partiti istituzioni e società ci vuole una forte legittimazione popolare», dice. Un'altra ragione è connessa alla necessità di far sì che lo Statuto venga rivisitato anche attraverso la partecipazione delle forze sociali ed economiche che sono in prima linea per rilanciare i temi dell'economia e del lavoro.

RIEQUILIBRARE I POTERI Per Medde: «Il nuovo Statuto può essere incisivo se saprà riequilibrare i rapporti e poteri e se rinegozierà le risorse che spettano alla Sardegna e questo sarà possibile solo se ci sarà una spinta totale dei sardi». Nel merito, il primo punto da rivedere sarebbe l'articolo otto, modificato alcuni anni fa in virtù dell'accordo, per ora inattuato, raggiunto in conferenza Stato-Regione sulla percentuale delle tasse versate dai sardi che spettano all'Isola. «Ci spetta una percentuale maggiore delle entrate fiscali e occorre che vengano riscosse direttamente dalla Regione, non più dallo Stato, a traverso un'agenzia delle entratea carattere regionale». Per Medde «serve un'autonomia finanziaria reale» e gli incrementi accordati dallo Stato e inseriti nel novellato articolo 8 «sono irrisori soprattutto alla luce del fatto che contestualmente sono state assegnate alla Regione le competenze sulla Sanità e sulla Continuità territoriale di cui prima si faceva carico Roma. Il fatto che quell'articolo sia stato decostituzionalizzato e inserito in un articolo della Finanziaria dello Stato la dice lunga sull'atteggiamento dello Stato nei confronti dell'Isola». A giudizio del segretario regionale della Cisl, agire sulla leva fiscale è fondamentale per allineare la Sardegna alle altre regioni, compensando gli svantaggi dell'insularità.

L'ISTRUZIONE REGIONALE Altra competenza da assegnare statutariamente alla Regione, per Medde è l'istruzione. «Oggi abbiamo solo la formazione professionale ma se vogliamo agire sulla dispersione scolastica e sulle drammatiche condizioni dell'edilizia scolastica dobbiamo avere la competenza su tutta la filiera dell'istruzione».

SOBERANIA EST INDIPENDENTZIA

 Gesuino Muledda 
Segretario natzionale RossoMori


Per molte delle cose che dirò posso essere chiamato in causa almeno come corresponsabile. E’ giusto che così sia.
Non è però giusto che qualcuno usi atteggiamenti censori per quanto uno pensa. Vale per tutti l’etica della convinzione e per tutti l’etica della responsabilità.
Concordo con Marcello Fois quando pone al mondo indipendentista la necessità di superare lo schema per cui tutti, o gran parte dei mali, derivano dall’esterno.
Perché è pur necessario, per l’etica della responsabilità, che si dia un giudizio sulle responsabilità dei governanti della Regione, in primo luogo, della lunga stagione della Autonomia; in secondo luogo, del ceto dirigente della società sarda, del quale, in fin dei conti, il ceto politico è espressione. Sto chiamando in causa l’intellettualità sarda, gli imprenditori, i formatori delle giovani generazioni, il sindacato e le rappresentanze di impresa. Fatta salva la principale responsabilità dei dirigenti politici e degli amministratori regionali.
Responsabilità per lo stato attuale della Sardegna.
La quale si è trovata ad affrontare la stagione della globalizzazione senza la pur possibile attrezzatura.
In primo luogo senza una intellettualità impegnata nella elaborazione di un progetto di modernità che avesse, contemporaneamente, una forte elaborazione identitaria, una consapevolezza degli strumenti necessari per la sua affermazione, una visione istituzionale capace di piena rappresentanza per la affermazione degli interessi del popolo sardo.
E una attività di governo che avesse orizzonti larghi e visioni lunghe. Le due cose si intrecciano, evidentemente.
Non si è realizzata in Sardegna la necessaria e possibile accumulazione di forza democratica per deficit nella accumulazione dei saperi, dei poteri, delle produzioni, delle innovazioni e di giustizia sociale
Sinteticamente, c’è stato un deficit di sardismo.
Intendo il sardismo come soggettività politica di un popolo che pretende di affermare contemporaneamente giustizia e libertà. Questo era l’azionismo originario dei padri fondatori del P.S. d’Az., coniugato con la forte determinazione a conquistare i poteri necessari per l’autogoverno del popolo sardo.
E collocavano, i padri fondatori, la Sardegna in un orizzonte europeo, proponendo, già allora, l’unità dell’Europa dei popoli, federale, solidale, e specialmente per Lussu, socialista.
Intorno all’obiettivo della conquista dello statuto di Autonomia si è realizzata una forte mobilitazione di consapevolezze e di popolo.
Come pure, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto si è realizzata una battaglia rivendicativa della rinascita che, pur con limiti, ha conquistato impegno di risorse e ha consentito una importante implementazione dei poteri, per qualche parte normativa, per altre parti di esercizio di fatti di altri poteri.
Valga per tutti la limitazione dei poteri della Cassa per il Mezzogiorno, allora onnipotente.
Ma è stato scelto un modello di sviluppo incentrato sulla industria di base, poi fallita, che non ha portato all’accumulazione della produzione, nè alla nascita e affermazione di un sistema di imprese sarde del settore industriale. E in quel frangente storico non si è realizzata la necessaria e possibile apertura verso le innovazioni che nel mondo si andavano realizzando.
La carica identitaria si è indirizzata prevalentemente verso un rivendicazionismo e una vertenzialità economica e istituzionale durante la quale però, alla fin fine, lo stato italiano, i suoi governi si sono sottratti all’impegno per la Rinascita, progressivamente riducendo la presenza delle partecipazioni statali, introducendo la pratica tutta assistenzialistica della cassa integrazione a vita per la giovane classe operaia.
In gran parte della Sardegna non si è conosciuta la seconda generazione operaia. Responsabilità, certo, dello stato italiano e dei suoi governi. Ma responsabilità, anche dei governi regionali e del ceto dirigente tutto. Ciascuno per quanto gli compete.
E nel frattempo è nata la società dell’informazione. E la quantità della nostra scolarizzazione e la qualità della nostra formazione, non sono state adeguate. Non perché non si siano spese risorse: è mancata la finalizzazione a un progetto di sviluppo adeguato ai tempi. Che anzi i fatti innovativi che si sono proposti sono stati osteggiati perché mettevano in discussione gli equilibri di potere. Lo stesso fenomeno del turismo è nato come corpo sostanzialmente esterno e la nascita e la crescita delle imprese turistiche sarde hanno tardato e non hanno costituito ancora oggi sistema. E le tematiche ambientali sono state vissute come ostacolo all’imprenditoria e le questioni dell’acqua e dell’energia sono state vissute come fatti non combinabili come occasione per organizzare un nuovo modello di sviluppo.
E la riforma agropastorale estesa fin in tutte le zone irrigue ha dato importanti risultati nel settore primario, abbandonato però alla logica predatoria degli industriali del latte; ma di fatto ha orientato gli investimenti e le attenzioni quasi esclusivamente verso la pecora e non per le colture ortofrutticole per le quali siamo rimasti completamente dipendenti.
La Regione Autonoma aveva i poteri per fare questo o altro. Non è stato fatto l’altro necessario e possibile. E’ stato creato un sistema regionale centralistico e ministerializzato. Ma la Regione, di norma, avrebbe dovuto operare attraverso gli Enti locali. E’ stato creato un sistema di bilancio finalizzato alla gestione centralistica che non ha consentito agli amministratori locali di esercitare la propria autonomia, riducendo in questo modo la possibilità di ricambio del ceto politico regionale. Si potrebbe continuare.
L’etica della responsabilità vuole che chi ha avuto ruolo politico, per la parte che gli compete, se ne assuma le responsabilità. Anche senza assolvere lo stato italiano, l’Europa, e i relativi governi.
Nel 1975 il Consiglio Regione ha nominato una commissione speciale per riscrivere lo statuto di Autonomia. Non è stato riscritto. E’ stato solo delegittimato lo statuto esistente non è stato elaborato e adottato il nuovo. Siamo a questo punto.
Una visione sovranista, indipendentista, autonomista, oggi non può sostanziarsi di passato.
Ne si può lontanamente pensare che non si debba prendere atto di quanto di nuovo è sopravvenuto.
Esiste l’Unione Europea che decide sulla gran parte dei nostri interessi. Gli stati nazione di stampo ottocentesco sono finiti e le ultime feroci resistenze messe in campo per tenerli in vita in quella forma stanno solo facendo danno all’idea di Europa e ai cittadini tutti.
I migranti che cercano condizioni di vita migliore, mantenendo la propria identità culturale e religiosa, sono una realtà della quale bisogna prendere atto positivamente.
La finanziarizzazione dell’economia, e la impossibilità e incapacità degli stati nazione a contrastarla rende necessaria altre culture rispetto a quelle che abbiamo ereditato e conosciute.
Le relazioni con questa nuova realtà pretendono che la consapevolezza di essere popolo e nazione (nobile eredità sardista) si trasformi in scelte e atti che consentano a questo popolo e a questa nazione di essere riconosciuti dagli altri popoli e dalle altre nazioni.
E ben per questo serve oggi affermare che l’identità del popolo sardo, oltre le radici e la cultura ereditata è costituita e sostanziata per quello che siamo.
E per quanto, materialmente, è necessario fare va detto che la sovranità si conquista, per intanto, esercitandola.
Servono partiti di Sardegna, sovrani. Servono governi e parlamentari sardi non subalterni a chicchessia.
Serve uno statuto di sovranità, costituzionalmente riconosciuto in Europa e in Italia.
Serve una costituzione Europea per l’esercizio della sovranità del popolo europeo, federalista.
Serve una costituzione italiana federalista.
Serve che la costituzione federalista europea e italiana prevedano il principio di allargamento interno che possa consentire la politica pacifica della autodeterminazione.
E serve dire con chiarezza che la Sardegna ha come orizzonte politico e istituzionale permanente l’Europa.
Serve anche che nella congiuntura non breve della battaglia per la sovranità i ceti dirigenti di questo popolo sardo sappiano coniugare la pratica dello statuto come fatto costituito e la innovazione di una consapevole fase costituente.
Democratica, partecipata, generosa.

domenica 29 aprile 2012

Il tesoro della Sardinya si chiama campagna

Parla il presidente del Fai (Fondo Ambiente) regionale Maria Grazia Piras 

 Caterina Pinna

unionesarda.it

Il tesoro dell'Isola
si chiama campagna

«Ritorno all'attività agricola contro la crisi» 

 

C'è un tesoro in Sardegna e si chiama campagna. Un azzardo in tempi così duri? Una formula poco praticabile in una regione dove la terra si sposa con abbandono? Tutt'altro. «Un ritorno all'attività agricola non è solo una moda - spiega Maria Grazia Piras, presidente regionale del Fai (Fondo Ambiente italiano) - ma un programma serio e necessario per dare una concreta risposta al bisogno di lavoro nella nostra isola e assolvere contemporaneamente alla funzione di presidio del nostro paesaggio. Il paesaggio non è solo valore astratto ma una risorsa preziosa tanto da spingere la comunità Europea a destinare cospicui fondi a questo obiettivo. Si spera che la proposta contenuta nella PAC 2014- 2020 che vincola il 30 per cento del pagamento unico aziendale al mantenimento di almeno il 7 per cento della superficie agricola ad aree naturali possa essere confermata. In Sardegna l'agricoltura deve essere riconsiderata attività primaria dalla quale partire per avviare la spinta al secondario e terziario e persino alla ricerca scientifica».

Il concetto “il futuro è il nostro passato” è più che mai vero? «Sì, oggi più di ieri il paesaggio è un bene vitale, fruibile, sul quale far rivivere la nostra storia ma anche la nostra economia. Non un paesaggio museo. Pensiamo al nostro patrimonio nuragico e pensiamo a una qualsiasi strada di campagna, magari dopo una pioggia. Oppure con le ombre di giugno tra mille sfumature di verde. In quel paesaggio all'improvviso spunta un nuraghe. Ecco, non pensiamo mai che il nuraghe è legato a quella campagna ed è lì perché è legato proprio a quel specifico paesaggio. Intendo dire che in ogni altro posto quel nuraghe non avrebbe senso. Perciò il luogo da tutelare non è più il bene archeologico circoscritto, ma tutto l'ambiente nel quale esso ha la sua ubicazione, la sua storia e il suo significato. Quanti percorsi potremmo disegnare nella nostra isola coniugando archeologia e paesaggio? Quello che serve è tracciare un forte legame tra mondo culturale ed economico con la nascita di piccole iniziative».

Il 24 e il 25 marzo il Fondo ha rinnovato l'iniziativa della Giornata FAI di Primavera e Cagliari, dove si poteva visitare la necropoli punica, ha registrato il record di visitatori. «L'attenzione su Tuvixeddu è in parte figlia del lungo dibattito, polemiche e contrasti che in questi anni si è sviluppato intorno all'aerea e al suo destino. Questo ha indubbiamente creato una mobilitazione, non solo a Cagliari ma in tutta la Sardegna. Oltre questa spinta credo davvero si stia facendo strada, soprattutto nei giovani, una coscienza nuova, una maggiore consapevolezza del valore di un bene archeologico e ambientale».

Da un record positivo a uno negativo. Negli ultimi 60 anni in Sardegna c'è stato un incremento del suolo urbanizzato del 1154 per cento. È come se avessimo mangiato tre ettari di terra al giorno. Sassari, per esempio, ha visto ridursi la corona di oliveti spagnoli che la circondava. «Purtroppo è così. La Sardegna è la regione che ha consumato più suolo con una variazione pro capite 10 volte più alta rispetto agli anni Cinquanta. Questo dato in Sardegna è naturalmente molto legato alle attività turistiche. Il fenomeno delle seconde case che ha dominato sino a oggi sta cambiando e richiede un nuovo modello anche per chi crede come me nella forza propulsiva dell'attività turistica ma, ormai, soprattutto i giovani vogliono anche altro. Solo un ripensamento complessivo può impedire che nel frattempo continui a crescere la percentuale di terra non coltivata e la moria di aziende agricole . Qualcosa inizia a muoversi e i dipartimenti di agraria a Sassari guardano con interesse un paese come Ittiri che si è mobilitato per il recupero e la fruizione dei suoi uliveti».

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha confidato a Giulia Maria Crespi, infaticabile anima del Fai, che la Sardegna è un giacimento culturale di valore universale. Ma perché lo sanno gli altri e noi no? Perché nel resto del mondo sanno calamitare turisti intorno a beni infinitamente meno belli e suggestivi dei nostri. L'ultimo esempio viene dal bacino della Ruhr, diventato capitale della Cultura europea? «Abbiamo avuto nel passato poca consapevolezza dell'importanza della nostra storia e della nostra cultura. Questo per fortuna sta cambiando. I giganti di Monte Prama sono la scoperta che più ci ha costretto a riflettere sulla nostra storia e che ci dice che i Sardi hanno avuto momenti di grande splendore non solo culturale ma anche economico. Una grande lezione di autostima. Sempre per rimanere su ciò che abbiamo di bello dobbiamo ricordarci dei nostri parchi che rappresentano un altro aspetto della tutela paesaggistica. Purtroppo se ne parla sempre meno. La maggior parte dei parchi non sono decollati, non sono appieno godibili dai visitatori. Il salto culturale da fare è trovare il giusto punto di equilibrio tra uso della risorsa e della sua tutela senza cadere nell'eccesso opposto, cioè imbalsamarla. È il rischio che corrono anche alcuni centri storici dove tutto è perfetto e dove però non c'è più vita».

Buoni segnali per il futuro? «Fortunatamente sì, ci sono stati soprattutto con il piano paesaggistico. Perciò bisogna evitare che venga stravolto mantenendolo ancorato al codice dei beni culturali. Non bisogna abbassare la guardia. Questo è possibile perché si fa strada una nuova coscienza che è la garanzia affinché alcuni errori commessi nel passato non possano più ripetersi».

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