sabato 1 giugno 2013

SARDINYA: Atobiu CASTEDHU 01/06/013 de is ghjerradoris po sa "ZONA FRANCA"

 Francesco Scifo.


Grazie a tutti che avete affrontato centinaia di chilometri per venire e vi siete alzati alle 5 per poter essere puntuali: per fortuna la Sardegna non è Cagliari che passivamente subisce il declino. La Sardegna siamo noi che combattiamo anche per chi sta a casa e sembra disinteressarsi del suo futuro e di quello dei suoi figli.
Cagliari dove eri oggi? I Cagliaritani hanno perso l'ennesima occasione per partecipare ad un processo storico. Nemmeno il sindaco di Cagliari che ha dimenticato la cortesia è venuto a rappresentare la sua città, scelta legittima ma discutibile. La zona franca ormai non la fermerà nessuno neppure chi vuole gestire la povertà.

Ex Funz Int Fin M. R. Randaccio  Avv. F. Scifo

Questo è il mio pamphlet, chi crede nella zona franca lo può leggere, stampare e divulgare.

Sono passati molti mesi da quando abbiamo iniziato questo lungo cammino, insieme con la dottoressa Randaccio e con i comitati spontanei che si sono gradualmente formati, per far attuare la normativa sulla zona franca in Sardegna. 


Siamo partiti dal disposto del decreto legislativo n.75 del 98 che, in attuazione dell’art. 12 dello statuto sardo, prevede l'istituzione delle zone franche nei porti di Cagliari, PortoVesme, Arbatax, Olbia, Oristano e gli altri porti o aree industriali collegate o collegabili. Si tratta, in sostanza, di una norma aperta che consente l'estensione del beneficio della zona franca a tutta l'area geografica della Sardegna: non è un caso che una delibera del consiglio regionale del 31 ottobre del 2012, resa dalla prima commissione, abbia previsto l'estensione del regime di zona franca doganale fino a 120 km da ogni porto indicato espressamente nella legge e impegnato la Giunta regionale a procedere in tale senso. 


Purtroppo, il nostro percorso ha dovuto fare fronte ad ostacoli assolutamente imprevisti e, alcune volte, insormontabili: una classe politica assolutamente impreparata, sia dal punto di vista culturale che da quello della gestione dei fenomeni sociali, ha ostacolato il percorso della nostra proposta, volta a determinare semplicemente una diminuzione dei costi del lavoro e della produzione nell’Isola. 


Questo è il punto: l'applicazione delle zone franche in Sardegna, qualsiasi sia il contenuto con il quale si vuole riempire questa scatola, denominata zona franca, è rivolta esclusivamente a diminuire il costo della produzione, a rendere conveniente il lavoro, a trasformare la Sardegna in una realtà competitiva con le altre regioni italiane ed al passo con gli altri paesi europei. 


Si tratta, in sostanza, di garantire non solo la coesione tra i vari Stati membri prevista dal trattato dell'unione, ma di garantire anche l’attrattività dell'Isola: il fatto che la popolazione rimanga nell'isola e non sia costretta a emigrare per mancanza di lavoro e di opportunità: che le persone e le imprese vengano attirate dagli altri paesi in Sardegna. 


Si vive e si resta solo se si rende conveniente vivere e produrre nell'Isola per crearvi attività produttive e se si creano posti di lavoro ed investimenti. Nessuno può ragionevolmente negare l’efficacia della istituzione di una zona franca quale strumento di politica economica: i dati favorevoli e relativi alle zone franche esistenti nel mondo sono inconfutabili. 


L’istituzione regionale deve utilizzare l’idea di una zona franca per incidere sul tessuto economico della regione ed accelerare un progetto di sviluppo: non si può più pensare che questa regione possa continuare ad affidarsi ai trasferimenti statali, all'assistenza, ai contratti di solidarietà o a qualsiasi altra forma di clientelismo che non le garantiscono la possibilità di produrre da sola la propria ricchezza. E’ per questo che abbiamo pensato che sarebbe stato necessario formare un'opinione pubblica, una coscienza collettiva e consapevole, che potesse conoscere e scegliere le potenzialità incredibili che lo strumento della zona franca consente di realizzare. 


La Sardegna ha una lunga tradizione di agevolazioni e leggi speciali basta ricordare il mantenimento dei suoi privilegi che furono garantiti dal trattato internazionale quando passò, nel 1718, dall'Austria al ducato di Savoia; trasformandolo così in regno di Sardegna nel 1720: al re di Sardegna furono imposti i privilegi che la Sardegna aveva ricevuto dalla Spagna a pena di retrocessione dell’isola e del regno. 


La Sardegna mantenne, infatti, una posizione federata con lo Stato sabaudo alla quale facevano capo finanze e bilanci propri: inopinatamente, l’isola rinunciò a questi privilegi con il trattato sulla fusione del 1847. Tuttavia, questa rinuncia fu fatta perché la popolazione e la classe dirigente sarda ritennero erroneamente di poter migliorare la propria condizione fondendosi con uno stato unitario. 


La testimonianza della condizione particolare dell’Isola fu che il neonato Stato italiano nel 1897 promulgò una legge speciale che serviva a colmare il divario che già divideva la Sardegna dal resto del regno. 


Questa legge fu integrata nel 1902 e, infine, estesa nel 1907 con “la legge sui provvedimenti speciali per l’isola del 10 novembre 1907 n.844”, un testo unico che raccoglieva tutte le norme speciali che dovevano garantire lo sviluppo della Sardegna. 


Fu un piano di rinascita ante litteram, che consentì bonifiche e che permise di creare centrali elettriche, dighe, laghi artificiali, d’irregimentare i fiumi, di potenziare l'agricoltura; ma non bastò: si fallì perché si scelse una via che doveva essere basata esclusivamente su trasferimenti statali e su finanziamenti esterni e non si scelse di mettere in condizione la società sarda di produrre da sola la propria ricchezza. 


Questo errore fu ripetuto con i piani di rinascita che vennero dopo lo statuto autonomistico del 1948. Piani di rinascita garantiti anche con leggi speciali che fecero affluire enormi risorse, ma non crearono nell'opinione pubblica l'idea che si dovesse sviluppare un tessuto imprenditoriale autonomo e sano, in grado di riprodursi e non un’imprenditoria corsara che prendeva i soldi e scappava. Invece, così fecero i grandi industriali venuti dal Nord: crearono un tessuto industriale artificiale che desertificava e sfruttava l’ambiente e le persone. 


E’ mancata l’idea che creare in loco una zona franca avrebbe creato posti di lavoro ed una ricchezza autopropulsiva: creare imprese che sarebbero venute non per afferrare soldi a fondo perduto, ma esclusivamente perché era conveniente venire a fare impresa e lavorare nell’Isola. 


Nello statuto autonomistico, all'articolo 12, si prevedeva l'istituzione di punti franchi e si prevedevano anche altre agevolazioni doganali nei commi successivi per quanto attiene alle macchine agricole e la creazione di nuove imprese. 


Tuttavia, i punti franchi non furono realizzati né le agevolazioni doganali originariamente previste consolidate, come invece era nell'idea della consulta che scrisse lo statuto. 


In realtà, la Sardegna ha sempre avuto paura della sua autonomia, paura che la sua indipendenza economica facesse venire meno gli aiuti dello stato centrale: per questo l’Isola non volle che le si applicasse direttamente lo statuto siciliano, così come invece la stessa assemblea costituente, incaricata di redigere la costruzione italiana, aveva suggerito. 


Purtroppo, si volle redigere uno statuto sardo, che era meno efficiente ed autonomo di quello siciliano, nella speranza che una minore autonomia dallo stato italiano sarebbe stata compensata da maggiori trasferimenti economici e assistenza: così si permise, per quanto attiene ai tributi, che si facesse riferimento soltanto ciò che veniva prodotto nell'isola e, quindi, tassato nell'isola e non a ciò che veniva tassato anche altrove, ancorché, in qualche modo, prodotto nell'isola, non c'è nello statuto sardo un articolo simile all'articolo 37 dello statuto siciliano e la nuova formulazione dell’art.8, non ha affatto migliorato questa situazione. Così siamo arrivati al decreto legislativo del 1998 numero 75. 


Vediamo dunque che tipo di zona franca prevede il decreto legislativo 75 del 98, questo decreto si rifà esplicitamente ai regolamenti doganali dell'unione europea 2913 del 1992 e 2454 del 1993. Si tratta di due regolamenti che disciplinano la materia doganale. Ma è stato il regolamento comunitario n. 2504 del 1988, seguito poi dai suddetti regolamenti comunitari, che ha dettato la disciplina delle zone franche e dei depositi franchi.


Al di là della varia terminologia utilizzata a livello nazionale: punti franchi, porti franchi, zone franche, il codice doganale dell'unione europea, riformato nel 2008 con il regolamento 450/2008, prevede esplicitamente solo le zone franche e i depositi franchi. In particolare inquadra questi istituti nelle destinazioni doganali speciali. In sostanza, secondo il codice doganale, le merci possono avere la destinazione dell'immissione libera pratica nel territorio dell'unione, oppure quella dell'esportazione, oppure quella dei regimi doganali speciali, tra i quali rientrano la zona franca e depositi franchi. 


E’ chiaro quindi che nella visione del legislatore comunitario la zona franca viene ad essere un vero proprio regime doganale, cioè una condizione nella quale si trovano stabilmente determinate merci che vengono di fatto ad essere introdotte nel territorio dell'unione, ma si fa finta che queste merci siano rimaste all'esterno dei relativi confini. 


Tutto ciò, per una finzione giuridica, che attribuisce alle merci, che si trovano in zona franca o nel deposito franco, lo status giuridico di merci che non sono ancora state immesse all'interno dei confini doganali dell'unione.

Tuttavia, la disciplina doganale del codice dell'unione è diversa dalla disciplina doganale italiana; vi sono delle notevoli difformità tra le due normative: in primo luogo, perché il testo unico doganale italiano assimila le zone franche ai territori extradoganali, i quali, per l'Italia, sono tra gli altri, Livigno e Campione d’Italia. 


La normativa italiana quindi crea un regime di extraterritorialità che si va ad affiancare a quello previsto dalla finzione giuridica delle zone franche di diritto doganale europeo comunitario. In sostanza, noi abbiamo un quadro, delineato dalla normativa italiana, che è più ampio di quello prospettato dalla normativa comunitaria: la normativa comunitaria non prevede infatti, di per sé, per le zone franche anche il requisito dell'extraterritorialità effettiva. 


Tale extraterritorialità è invece prevista dal testo unico doganale italiano, che va quindi coordinato con il codice doganale comunitario. Per la normativa italiana l'area destinata zona franca dovrà avere non solo i limitati benefici doganali previsti dal codice comunitario, ma anche i benefici strettamente e direttamente connessi con l’effettiva extraterritorialità. 


Si tratta, non solo delle esenzioni da diritti di confine, dazi doganali e misure di politica commerciale di effetto equivalente, ma anche dalle imposte indirette, come l'iva e le accise; nonché da tutti i tipi d’imposizione fiscale che abbia come presupposto la territorialità. Il concetto di zona franca integrale altro non è che una sola franca doganale alla quale si aggiungono tutte le agevolazioni di tipo fiscale connesse all’extraterritorialità, come abbiamo esemplificato prima.


Una zona franca è per il testo unico doganale italiano una zona extraterritoriale perché vi è un'assimilazione espressa nell'articolo 2 del testo unico doganale n.43 del 73 ma, ancor prima, vi era un'assimilazione espressa nell'articolo 2 del d.p.r. 18 del 1971, nel quale addirittura si assimilavano espressamente le zone franche istituite con leggi speciali alle aree extraterritoriali ed extradoganali. 


Inoltre, deve ricordarsi anche la direttiva Iva infatti la direttiva del duemilasei ha elencato tutta una serie di territori che sono considerati al di fuori territorio dell'unione, definite quindi aree extraterritoriali, tra le quali appunto Livigno e Campione d'Italia, questo testimonia che il legislatore comunitario ha sempre tenuto conto di quelle che erano le agevolazioni storicamente riconosciute a determinate aree del territorio dell'unione; sempre, ovviamente, su sollecitazione degli Stati membri: sollecitazione che l'Italia però ha omesso sistematicamente di fare per la Sardegna. 


E’ giunto dunque il momento che l'Italia si attivi per ottenere che per la Sardegna venga previsto un regime analogo a quello in vigore in altre aree dell'unione, che hanno le stesse caratteristiche di insularità, che hanno le stesse caratteristiche di spopolamento, che hanno le stesse difficoltà dei collegamenti e nei trasporti, ed infine, che hanno gli stessi costi di produzione e del lavoro. 


In sostanza, ciò che si applica ad altri territori dell'unione deve essere applicato anche alla Sardegna per il principio di uguaglianza che afferma la necessità di disciplinare in modo uniforme le situazioni uguali: la Sardegna ha sicuramente tutti i requisiti previsti dall'articolo 158 del trattato di Maastricht e poi dall'articolo 174 del trattato sul funzionamento dell'unione europea successivo. 


Non possono essere misconosciuti e negati i fatti: sappiamo bene che tra Sardegna e l'Italia ci sono 200 miglia di acque internazionali, per cui nessuno può discutere dell'isolamento della Sardegna e nessuno può discutere nemmeno dello spopolamento della Sardegna che ha una densità di popolazione tra le più basse d'Europa; un situazione analoga per densità di popolazione più a quella della Groenlandia che si trova in un regime di extraterritorialità, che a quella di altri paesi dell’unione. 


Non si può dimenticare nemmeno che la Sardegna ha un costo della produzione superiore del 30% a quello degli altri territori dell'unione e che, quindi, il principio di coesione sul quale si fondano i trattati europei, non può che imporre un trattamento specifico per la Sardegna; un trattamento agevolato che non può che essere quello previsto dalla normativa del suo statuto, ovvero la possibilità di usare lo strumento di politica economica della zona franca, che consenta di attrarre investimenti stranieri, che consenta di creare posti di lavoro, che consenta di sviluppare un programma concreto di politica economica regionale: la stessa autonomia della regione autonoma della Sardegna determina l'idoneità dell'istituzione regionale a chiedere l'applicazione di queste agevolazioni direttamente, in via di sussidiarietà, anche saltando lo Stato italiano inadempiente. 


Quanto sopra, anche con lo strumento del ricorso in carenza, qualora l'Unione Europea non recepisse le richieste della regione. La sentenza sulle Azzorre emessa dalla corte di Lussemburgo C88/2006 prevede proprio l'ipotesi che sia proprio dall'autonomia regionale che parta che debba partire la richiesta dei benefici fiscali e, quindi, non solo questa sentenza ci dice che sono legittime queste richieste locali, se provengono da una regione quale diretta espressione della sua autonomia e non da uno scambio con altri benefici statali concessi dallo Stato membro a cui la regione appartiene. 


Per questo la regione Sardegna deve agire direttamente nei confronti dell'unione in via di sussidiarietà, saltando l'inerzia dello Stato italiano che mai si è attivato nei confronti della commissione nemmeno per notificare le zone franche già istituite col decreto legislativo numero 75 del 1998 attuativo dell’art. 12 dello statuto autonomistico.


Siamo a questo paradosso: lo Stato italiano nel 1998 istituisce le zone franche in Sardegna ma omette di notificare dal 1998 alla Commissione Europea l'esistenza di questa legge. Tale comportamento omissivo viola palesemente la normativa europea che impone invece allo Stato membro, secondo l'articolo 802 del regolamento n.2454 del 93, di notificare alla Commissione Europea l'istituzione di ogni zona franca: qui siamo di fronte a una situazione di totale illegalità. Ciò avviene perchè lo Stato italiano non ha notificato la legge che lui stesso ha promulgato.


Di fronte a questa situazione d’illegalità abbiamo adito il tribunale amministrativo regionale della Sardegna con un'azione collettiva proposta ai sensi dell'articolo 1 del decreto legislativo 198 del 2009, la cosiddetta azione collettiva pubblica: abbiamo chiesto che il tribunale amministrativo ordinasse alla regione sarda, all'autorità portuale di Cagliari, al Comune di Cagliari, su cui insiste la zona franca di Cagliari, di attuare disposto delle leggi sopra citate. 


A questo coraggioso tentativo, di sollecitare l'autorità giudiziaria, la regione ha risposto con due delibere del 7 e del 12 febbraio 2013 nelle quali la giunta, anche in forza della legge regionale n.10 del 2008 e delle delibere di oltre 250 enti locali, sulla base dell’art. 1 della Costituzione, dava espresso mandato al presidente della regione, di estendere a tutta la Sardegna il regime di zona franca integrale. 


Successivamente, il Presidente della Regione, attivandosi in virtù del principio di sussidiarietà, comunicava alla Commissione Europea, allo Stato italiano e a tutti gli enti preposti queste decisioni adottate dalla giunta regionale. Tuttavia il procedimento si bloccava, nel senso che, a queste formali comunicazioni, non faceva seguito l'applicazione del nuovo regime attivato.


Questo prevede non solo agevolazioni di un tipo doganale, quali sono quelle previste dal diritto doganale comunitario, ma anche quelle fiscali proprie dell’extraterritorialità. 


Tale status di extraterritorialità comporta l'esenzione dei servizi, delle merci e dei prodotti da Iva e accise e da tutte le imposte che hanno quale presupposto la territorialità. Inoltre, l’esistenza dei sopracitati provvedimenti comporta l’applicazione alla Sardegna della legge 762 del 1973, sui diritti speciali, perché essa disciplina il regime giuridico di tutte le zone franche d’Italia: tale corpo normativo consente il consumo, a prezzo agevolato sul territorio regionale, di una certa quantità di prodotti in franchigia che deve essere predeterminata su base annua con decreto del ministero dell’economia e finanze.


Solo creare un'opinione pubblica consapevole dei propri diritti può determinare l'attuazione della zona franca in Sardegna, perchè l'effettiva applicazione e utilizzazione di questo strumentò di politica economica non può che essere frutto di una decisione politica: non è un problema puramente giuridico.


Fino ad ora è stato scelto di non utilizzare questo strumento efficace, ma non è stata proposta alcuna politica alternativa idonea a creare una leva di sviluppo autopropulsivo della regione. Dunque, la principale obiezione, che noi facciamo a chi non vuole utilizzare la zona franca, è di formulare una proposta alternativa, idonea a poter sollecitare gli investimenti stranieri ed a diminuire il costo della produzione ed aumentare l’occupazione.


Nessuno certo può richiamare la politica assistenziale svolta fino adesso perché i soldi da spendere in deficit sono finiti: il principio della parità di bilancio, che dal 1 gennaio 2014 avrà rango di norma costituzionale, con le modifiche intervenute con la legge costituzionale n. 3 del 2012, esclude che si possa confidare in altri finanziamenti statali del tenore di quelli ricevuti fino ad oggi.
In conclusione 


Vi sono alcune considerazioni che dopo mesi di incontri e di convegni relativi alla zona franca possono essere tratte: la prima considerazione è che quando si tenta di trasformare lo status quo, cioè quando si tenta di modificare una situazione consolidata nel tempo, si incontrano delle resistenze veramente notevoli ed insormontabili. 


In particolare, la questione dell'utilizzazione di questo strumento di politica economica sta sviluppando un dibattito non più basato sul merito della questione, cioè sul fatto che la zona franca sia conveniente, oppure che l'adozione di questo istituto giuridico sia una fonte di sviluppo per la regione, quanto piuttosto un discorso basato su meri pregiudizi ideologici. 


Alcuni partiti hanno deciso di osteggiare l'utilizzazione di questo strumento esclusivamente perchè in questo momento storico la giunta regionale è formata da un partito avverso al loro: questi soggetti politici non si confrontano più sul merito delle questioni ma si limitano ad attaccare chi porta avanti questa battaglia. 


Tutta questa la campagna denigratoria dimostra che questa classe politica non ha ancora capito la situazione economica in cui è precipitato il sistema Sardegna. Un area socio-economica nella quale i costi del lavoro e della produzione sono enormemente superiori al resto dell’Unione e del resto d'Italia.

Questi partiti dimenticano che uno dei pilastri e dei fondamenti dell'Unione Europea è la politica di coesione che viene violata in maniera costante della Commissione Europea e che la situazione economica della Grecia e di altri paesi del sud dell'Europa dimostra in maniera ampia e inconfutabile che le istituzioni europee stanno consapevolmente violando i trattati stipulati. 


Ciò avviene in maniera palese perché la Commissione ed il consiglio Europeo stanno assoggettando una serie di territori dell'unione a degli oneri e obblighi insopportabili che allontanano così questi territori degli obiettivi di coesione fissati dal trattato di Roma e dai successivi.


Tale politica è volta a rendere queste terre periferiche aree di conquista della speculazione finanziaria e di povertà, di fame e degrado per la popolazione che vi abita. 


Per evitare questo destino alla Sardegna è necessario attuare la zona franca quale meccanismo virtuoso che consente di abbassare i costi di produzione; quale meccanismo che consenta alla regione di attirare investimenti stranieri; quale strumento che consenta la regione di abbassare il tasso di disoccupazione e di sviluppare un progetto di sviluppo economico.


Solo la zona franca potrebbe aiutare a riportare la regione tra i protagonisti della politica economica della sua area territoriale.


Tuttavia, questo non sembra compreso da alcuni uomini politici. Il sistema di potere consolidato osteggia la zona franca perché in qualche modo metterebbe in discussione la sua attività volta a gestire i trasferimenti statali: poter manovrare una sacca di povertà nella quale distribuire assistenza e aiuti clientelari con la zona franca non sarebbe più possibile. La buona politica è quella che trasforma una società assistita in un'economia che produce e che rende la dignità ai lavoratori.


Noi vogliamo restituire alle persone quella dignità che molti uomini politici hanno rubato: dunque questo scritto non è altro che un manifesto per sollecitare l'opinione pubblica a prendere coscienza del fatto che è arrivato il momento di reagire a questo stato di cose; ognuno si deve prendere le sue responsabilità e sottoporre a una pressione costante propri sindaci, i propri consiglieri comunali, i propri uomini politici regionali, nazionali ed europei.


Chi deciderà di votare alle prossime elezioni dovrà tenere conto di tutto ciò, altrimenti questa regione non avrà speranza: la legge costituzionale numero 3 del 2012 ha modificato gli articoli della costituzione italiana che prevedono la possibilità per le regioni e per lo stesso Stato italiano di operare in deficit, il principio della parità di bilancio significa che nei prossimi anni nessuna operazione sociale, nessun trasferimento di fondi potrà avvenire senza una totale copertura finanziaria e senza la promessa di restituire la somma che viene destinata a questi scopi benefici con gli interessi.


Non c'è più la possibilità per lo Stato centrale di distribuire soldi a fondo perduto e nemmeno per la regione, tutto quello che verrà distribuito dovrà essere ripagato con gli interessi al mercato o alla BCE.


Neppure si potrà contare sui trasferimenti dell'Iva e delle accise analoghi a quelli che siamo abituati a conoscere, perché tali incassi crolleranno col crollo della produzione: è già successo negli anni 2011 e 2012.


Nuove tasse, pagamenti sempre più onerosi e intollerabili per l'impresa e per i singoli, verranno imposti da questi partiti politici che osteggiano la zona franca: essi non si rendono conto di voler condannare a una schiavitù perpetua la propria popolazione, i propri elettori e, infine, se stessi.
Viva la Sardegna.


Cagliari 31 maggio 2013 Avv. Francesco Scifo

SARDINYA: Cagliari, avanti tutta sulla zona franca integrale

 Francesco Scifo.


Grazie a tutti che avete affrontato centinaia di chilometri per venire e vi siete alzati alle 5 per poter essere puntuali: per fortuna la Sardegna non è Cagliari che passivamente subisce il declino. La Sardegna siamo noi che combattiamo anche per chi sta a casa e sembra disinteressarsi del suo futuro e di quello dei suoi figli.
Cagliari dove eri oggi? I Cagliaritani hanno perso l'ennesima occasione per partecipare ad un processo storico. Nemmeno il sindaco di Cagliari che ha dimenticato la cortesia è venuto a rappresentare la sua città, scelta legittima ma discutibile. La zona franca ormai non la fermerà nessuno neppure chi vuole gestire la povertà.

Ex Funz Int Fin M. R. Randaccio  Avv. F. Scifo


Cagliari, avanti tutta sulla zona franca integrale
La 
 battaglia di tutti i sardi per l'Isola


Di zona franca in Sardegna si parla da oltre mezzo secolo. La Regione ha compiuto i passaggi necessari nei confronti dello Stato e dell'Unione Europea. Quest'ultima richiede ora un pronunciamento del governo nazionale: è quello il tassello più urgente e necessario se la Sardegna vuole davvero arrivare ad essere una “zona franca integrale”. Se ne è parlato anche oggi nel corso di un incontro alla Fiera di Cagliari, che ha visto la partecipazione di oltre mille persone.
“Il movimento Sardegna Zona Franca si prepara a sbarcare a Roma e Bruxelles”, è stato l’annuncio, insieme monito e auspicio. Monito al Governo perché “dia risposte serie e veloci all’Isola”, ha detto Maria Rosaria Randaccio, esperta in materia doganale. Auspicio, perché solo così la Sardegna diventerà una piattaforma logistica al centro del Mediterraneo per la transazione di beni e servizi per l'economia reale”, ha continuato Fabrizio Fadda, tra i fondatori del movimento per la zona franca.


"LA PARTITA" - La zona franca integrale è necessaria, ha tuonato il Governatore Cappellacci. Di certo, "l'operazione" sarebbe in grado di essere un grande attrattore di investimenti esterni, fermo restando che la zona franca deve essere negoziata con lo Stato (e da questo con l'Unione europea). E' per questo motivo che la sua non applicazione, è stato il ragionamento degli organizzatori della convention cagliaritana, sarà da addebitare all’inerzia della classe politica nazionale.


IL GOVERNATORE - "L'Agenzia delle dogane ha risposto alla comunicazione della Regione sulla zona franca della Sardegna", ha annunciato Cappellacci durante il suo intervento alla manifestazione. "Noi saremo presenti a quel tavolo, con il contributo dei movimenti e con il sostegno di chi ha a cuore questa battaglia. Non é la battaglia di un singolo o di una fazione politica ma di tutti i sardi”.


E per questo, ha concluso il presidente "insieme ai sindaci, ai movimenti e a tutti coloro i quali condividono questa giusta rivendicazione dobbiamo esercitare la pressione necessaria ad ottenere questo giusto riconoscimento. Spesso le ragioni dei sardi vengono negate dallo Stato centrale perché siamo pochi e perché ci dividiamo. Non dividiamoci e coinvolgiamo anche coloro i quali sono scettici circa la possibilità di raggiungere questo obiettivo. Portiamo a Roma - ha concluso il presidente - una sola voce, un solo urlo: quello del popolo sardo".


FADDA (MOVIMENTO ZONA FRANCA) - Quella di oggi è, secondo Fabrizio Fadda, responsabile in Sardegna del Movimento AntiEquitalia e fra i fondatori di quello per la zona Franca, "una tappa fondante di un percorso intrapreso da tempo". Una battaglia che, avverte Fadda, "ci vedrà protagonisti di ulteriori iniziative nelle sedi istituzionali, non solo Comuni e Province ma anche Consiglio regionale, Parlamento italiano e sedi europee".


L'affollata assemblea di certo ha rappresentato un nuovo punto di partenza dopo la raccolta di consensi in tutta l'Isola. "La Sardegna, da zona franca integrale, può diventare una piattaforma logistica al centro del Mediterraneo per la transazione di beni e servizi per l'economia reale", ha sottolineato Fadda. "Il che significa mettere le basi per una importante ripresa economica e per sottrarre quote a quella che è la grossa economia che ci sfugge, cioè la finanza speculativa. Noi sogniamo di ripristinare una legalità nelle transazioni di beni e servizi che servono, per esempio, ai paesi emergenti del continente africano, come scavatori e mezzi d'opera, per avere in cambio materie prime e risorse che noi non abbiamo ma siamo bravi a lavorare, essendo la nostra un'economia di filiera".


La storia della zona franca in Sardegna
Viaggio nel diritto, dallo Statuto in poi


Ecco tutti i riferimenti normativi che fissano la storia della zona franca in Sardegna.
Sono stati rielaborati dal Centro Studi L'Unione Sarda in un report dedicato.

Lo statuto speciale per la regione Sardegna approvato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, all’art. 12, comma 2, prevedeva l’istituzione nella Regione di punti franchi.

Secondo il Decreto Legislativo 10 marzo 1998, n. 75, in attuazione dell'articolo 12 dello statuto speciale per la regione Sardegna e successive modificazioni, sono istituite nella regione zone franche, secondo le disposizioni di cui ai regolamenti Cee n. 2913/1992 (Consiglio) e n. 2454/1993 (Commissione), nei porti di Cagliari, Olbia, Oristano, Porto Torres, Portovesme, Arbatax ed in altri porti ed aree industriali ad essi funzionalmente collegate o collegabili.

Il D.P.C.M. 7 giugno 2001 stabilisce ulteriori disposizioni per l’operatività della zona franca doganale di Cagliari, nella delimitazione territoriale del porto di Cagliari (rif. D. Lgs 75/98).

In questa zona è autorizzata qualsiasi attività di natura industriale o commerciale o di prestazione di servizi così come previsto dalle disposizioni del codice doganale comunitario e dalle relative norme di applicazione, dalle quali restano disciplinate le operazioni di introduzione, deposito, manipolazione, esportazione e riesportazione delle merci.

Secondo la L. 296/2006 (all’art. 1, comma 340) per favorire lo sviluppo economico e sociale, anche tramite interventi di recupero urbano, di aree e quartieri degradati nelle città del Mezzogiorno, identificati quali zone franche urbane, è istituito nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico un apposito Fondo con una dotazione di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009. La legge finanziaria 2008 (L. 244/2008, commi 561, 562 e 563) ha confermato tale stanziamento e definito in maggiore dettaglio le agevolazioni fiscali e previdenziali che, in ogni caso, troveranno la loro definizione particolareggiata in un decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze.

Le aree bersaglio individuate dal CIPE nella seduta dell'8 maggio 2009 per la prima sperimentazione del dispositivo ZFU si collocano in 22 città italiane e tra queste: Cagliari, Quartu Sant’Elena e Iglesias.

(Ricostruzione a cura di Lucia Schirru e Franco Manca)



Extradoganale, doganale, urbana
e fiscalità di vantaggio: ecco cosa sono

Le principali tipologie attualmente disponibili sono quattro: zona franca extradoganale, zona franca doganale, zona franca urbana, fiscalità di vantaggio. zona franca urbana fiscalità di vantaggio
E' il Centro Studi L'Unione Sarda, in un report dedicato, a esaminare i quattro tipi di zona franca nel dettaglio. A partire dalla prima tipologia.


ZONA FRANCA EXTRADOGANALE - È territorio extradoganale quella parte di una nazione posta fuori dalla linea doganale in cui i beni in vendita non sono gravati dall'Iva e/o da altre tasse, imposte e accise. In considerazione delle imposte sui beni di consumo risulta particolarmente conveniente l'acquisto in tali zone di alcolici, tabacchi, profumi, zucchero e soprattutto carburanti. Le zone extradoganali sono accessibili generalmente attraverso posti di controllo doganali, nei quali viene verificato a campione che i viaggiatori non trasportino con sé merci eccedenti le quantità consentite e indicate in apposite tabelle (riferite in particolare ai beni di consumo di cui sopra).


DOGANALE - La zona franca doganale è caratterizzata dall'applicazione a un determinato ambito territoriale di un particolare regime di esenzione doganale, genericamente configurato come finzione giuridica di estraneità della porzione territoriale costituita in zona franca rispetto al territorio doganale dello Stato. La finzione di extraterritorialità non comporta, però, la reale esclusione dall'ordinamento doganale dello Stato del territorio franco, ma significa solo che quest'ultimo, sebbene di fatto situato entro il territorio doganale, agli effetti dell'imposizione tributaria è considerato fuori dalla linea ordinaria, per essere assoggettato a un regime speciale che sostanzialmente consente di introdurre, depositare e, manipolare, trasformare e consumare le merci estere nella zona franca in esenzione da tributi e da formalità doganali.


ZONE URBANE Le zone franche urbane (Zfu) sono aree infra-comunali di dimensione minima prestabilita dove si concentrano programmi di defiscalizzazione per la creazione di piccole e micro imprese. Obiettivo prioritario delle Zfu è favorire lo sviluppo economico e sociale di quartieri e aree urbane caratterizzate da disagio sociale, economico e occupazionale, e con potenzialità di sviluppo inespresse.


FISCALITÀ DI VANTAGGIO La fiscalità di vantaggio fa riferimento agli interventi in favore di determinati enti, zone o fasce della popolazione, che vengono effettuati tramite l'abbassamento della tassazione. La fiscalità di vantaggio quindi può andare in favore di studenti universitari, famiglie, enti religiosi, regioni in via di sviluppo, eccetera.



Consumo dunque sono

Consumo dunque sono
 imprenta dae rainews24

 
Zygmunt Bauman è un attentissimo interprete ante litteram dei social network come Facebook e più in generale della socialità così come si sviluppa attraverso la Rete. E’ stimolante e fulminante per la chiarezza espositiva la sua capacità di analisi e di racconto delle modalità di relazione contemporanee. 

 Nello scenario che Bauman descrive, caratterizzato dalla fragilità delle relazioni affettive (descritte già in Amore liquido , Laterza, 2003), l’uomo senza qualità protomoderno – descritto dal romanzo di Musil - si è trasformato in un uomo senza legami. 

Un homo oeconomicus che abita con disinvoltura l'economia di mercato, mutuandone, per effetto di un'abnorme legge osmotica, i criteri validi anche per la sua sfera personale. Per cui un rapporto, proprio come un prodotto, deve avere caratteristiche di convenienza, di sostituibilità in ogni momento, di risposta a un desiderio, o magari a una più disimpegnata ‘voglia’. 

In questa ottica le emozioni sono delle trappole per loro natura 'diseconomiche', perché poi possono dare ‘dipendenza’. In una società ferocemente individualistica, le relazioni esprimono nel modo più netto l’odierna ambivalenza, tra sogno e incubo, tra libertà appagata, e schiavitù frustrata. 

Si vuole vivere l’ossimoro dell’esserne dentro e fuori allo stesso tempo; l’amore non è più «consegnarsi in ostaggio a un destino», accettare l’incognita che sempre l’Altro rappresenta, ma diventa l’arte di alimentare la «relazione tascabile», pronta all’uso, e sulla quale esiste un controllo totale. 

 La teorie esposte nel suo ultimo saggio (Consumo, dunque sono , Laterza 2008) rafforzano la saldatura persona/consumatore e vita sociale/ vita elettronica. Anche il soggetto diventa una merce. In questo consumo continuo si è spinti dalla ricerca di una felicità “istantanea e perpetua” che somiglia di più ai premi di una lotteria che al frutto di creatività e dedizione, e che è tutto un fare e disfare, un perseguire ‘nuovi inizi’. 

Questo processo è imbattibile perché si autoalimenta: mantiene sempre forte l'insoddisfazione, che è il motore essenziale del consumismo. La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l’acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l’altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. 

Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento. Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l’etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev’essere il rimanere insoddisfatti. (...) 

Una legge che viene ribadita paradossalmente anche in questo tempo di crisi economica, dove non si hanno soldi da spendere eppure ‘si deve’ spendere, altrimenti la macchina economica si ferma (e la 'colpa' è imputabile al consumatore negligente). 

 In una società di consumatori e in un’era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l’economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». 

Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione. In questo scenario la cosa peggiore è che si consuma anche la sostanza del nostro desiderio. 

Da qui il senso di impotenza, l’alienazione frustrante e l’insoddisfazione. Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. 

Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c’è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l’Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...) 

Lo sguardo di Bauman ha il solo limite di una sorta di manicheismo che contrappone la società 'solida-moderna' a quella 'liquida-postmoderna', una perduta età dell’oro a una incongrua giungla di consumi, che siano di di merci o di relazioni. Si perde così la positività di un presente che si può dire anche ‘finalmente fluido’, dove le persone non restano inchiodate per sempre alla loro cerchia di conoscenze e saperi. 
(Cristina Bolzani)

giovedì 30 maggio 2013

TRIVELLAZIONI GAS METANO SARAS NEL PROGETTO ELEONORA; La Sardegna cosa ci guadagna? Nudha sceti una tzerachia in prus, e guadangius po is meris de SARAS is Moratti!

TRIVELLAZIONI GAS METANO DELLA SARAS E IL PROGETTO ELEONORA; 
http://www.unionesarda.it/

La Sardegna cosa ci guadagna?  Gas metano, le speranze e i timori
http://www.videolina.it/video/servizi/45638/arborea-clima-rovente-per-la-presentazione-del-progetto-sul-gas.html
Primo confronto a tutto campo tra Saras, comitato del No e istituzioni


La Saras sostiene che nel sottosuolo della Sardegna centro-occidentale ci siano idrocarburi che possano tornare utili nel mercato energetico. E per questo ha chiesto (e ottenuto) alla Regione il permesso di effettuare delle esplorazioni sotterranee ad Arborea. A opporsi, già da un anno e mezzo, è un comitato di cittadini che ha promosso diverse iniziative pubbliche, contestando il progetto e presentando alcuni rilievi agli uffici regionali. Da allora, presso l'assessorato all'Ambiente, è partita la procedura di Valutazione d'impatto ambientale. 

Cos'è il progetto Eleonora e perché sta incontrando tante resistenze nella popolazione? E le istituzioni pubbliche cosa ne pensano?

Dario Scafardi: «Il nostro è un progetto datato 2006, che è entrato nella sua fase operativa lo scorso anno. Abbiamo ottenuto l'autorizzazione per realizzare un pozzo esplorativo, alla ricerca di idrocarburi. Le licenze ce le ha date la Regione, in considerazione della nostra convinzione di trovare materie prime che possono rivelarsi preziose dal punto di vista energetico. La prima concessione, per un permesso di ricerca, è arrivata nel 2006 (presidente Renato Soru, assessore Concetta Rau), quella per il permesso di esplorazione è stata prorogata nel 2011 (presidente Ugo Cappellacci, assessore Alessandra Zedda). È sbagliato dire che abbiamo fatto tutto di nascosto: i nostri camion giravano per i campi di Arborea e nessuno si è mai lamentato. Anzi, abbiamo sempre incontrato la massima collaborazione». 

Paolo Piras: «L'azione fondamentale del Comitato è stata quella di divulgare e informare la popolazione su che cosa in realtà prevede questo progetto. La domanda da cui bisogna partire è questa: quale modello di sviluppo si vuole creare in Sardegna? Vogliamo ancora insistere sull'industria estrattiva petrolchimica? A questo è necessario rispondere prima ancora di parlare di pozzo. La Saras dice che quando i tecnici giravano per i campi e le aziende di Arborea per sondare la presenza di idrocarburi nel sottosuolo, nessuno si è lamentato. A me invece risulta che in quell'occasione i mezzi pesanti crearono un forte impatto nel territorio, furono distrutte strade e spesso molte famiglie si ritrovavano nei campi alcuni tecnici con macchinari senza che nessuno li avesse autorizzati. E non è neppure corretto parlare di una contrarietà al Progetto Eleonora da parte di un gruppetto di persone. Tutto il territorio si oppone».
 
Giampaolo Diana: «Finora non c'è stato un confronto adeguato. Col Galsi forse seppellito per sempre, la mancata metanizzazione lascia il sistema economico sardo in condizioni di insufficiente competitività. Il metano serve per produrre non energia elettrica ma termica, utile anche per i processi dell'industria agroalimentare e della trasformazione del latte. Non dico che il progetto Eleonora vada sicuramente bene: anch'io ritengo che dall'inizio non ci sia stato il necessario coinvolgimento del territorio, e questo rischia di produrre posizioni radicalizzate. Un progetto simile non può non essere condiviso con il territorio. Da un lato non dobbiamo guardare con ostilità alla possibilità di verificare se nel sottosuolo ci siano giacimenti importanti: sfruttarli sarebbe un interesse collettivo. Dall'altro lato non si possono imporre scelte economiche con arroganza e tracotanza. Ci sono sentimenti popolari da interpretare e rispettare: non credo alle guerre sante, bisogna convincere. Mi chiedo se ci si possa magari spostare appena per saggiare l'esistenza del giacimento. Certo, se si scopre che estrarre quel metano equivale a compromettere la vocazione economica dell'Oristanese, dico fin da ora un netto no».

Stefano Tunis: «Dobbiamo partire da una premessa fondamentale: il metano serve alla Sardegna o non serve? Evidentemente serve. È una risorsa utile perché è un'energia più economica e più pulita. Ha una utilità immediata sia nell'attività aziendale che nella micro economia delle famiglie. L'accesso al metano ha contribuito al benessere dell'Italia e può contribuire senz'altro alla crescita dell'Isola. Su questa base la Regione investì decine di milioni, in vista anche del progetto Galsi, per creare nell'Isola un consumo di metano e quindi avere ricadute positive. E così venne realizzata tutta la rete di canalizzazione per il consumo del metano. La Saras è intervenuta in questa fase. Una società che è nell'Isola da decenni e che, a differenza di altre realtà imprenditoriali, ha sempre dialogato con il territorio. Ora però non possono restare solo questi due soggetti, portatori di interessi di parte, il privato e il territorio. La responsabilità politica della Regione è evidente. Occorre cerare un terreno di dialogo tra le parti. Non possono esserci solo le ragioni ingegneristiche come, di contro, non può ridursi tutto a una rigida posizione emotiva». 

Giulio Casula: «La potenzialità nella zona dell'Oristanese è di circa 3 miliardi di metri cubi e il metano può costituire un elemento di sviluppo perché il resto dell'energia in Sardegna rischia di avere costi insostenibili per le imprese. L'impianto che abbiamo pensato per Arborea è stato progettato con tutte le migliori tecnologie possibili. Non ci saranno danni per l'ambiente e per le realtà produttive del territorio. Lo studio d'impatto ambientale che abbiamo realizzato è trasparente e riteniamo che l'attuale contrapposizione possa essere superata col dialogo e con una più approfondita conoscenza tecnica del progetto. Abbiamo effettuato i primi “assaggi” sul terreno senza utilizzare micro-cariche e ogni danno ai privati, anche piccolo, è stato risarcito».

Giorgio Locci: «La politica regionale non si è ancora fatta carico del problema. Quella locale ha invece espresso pareri, rispettabilissimi, che devono essere di stimolo a una valutazione che guardi comunque agli interessi regionali. Ho gli stessi timori dei comitati di cittadini, ma credo ci siano i metodi per verificare se possono esserci impatti negativi sull'ambiente e sulle attività economiche del territorio. Del resto anche l'attività zootecnica, come sappiamo, pone problemi di impatto ambientale. E anche quel settore, come ogni altro, condivide la sofferenza per i costi elevati dell'energia. Ma se guardiamo all'Emilia-Romagna, vediamo che a margine della Food Valley, comparto dell'agroalimentare che possiamo paragonare alla zona di Arborea, sussistono più di 200 pozzi di gas».
 
l'ambiente dove la SARAS vuol fare le trivellazioni  gas ad arborea vivono gli aironi rosa "SU POPULU ARRUBIU"

Michela Murgia: «Mandare i camion in giro per Arborea e annotare che nessuno ha nulla da ridire non equivale a sostituire il processo partecipativo. Il progetto andava spiegato per stimolare domande e partecipazione. La popolazione che oggi si lamenta non può dunque essere rimproverata di fare un'obiezione tardiva. Bisogna invece ammettere che non c'è stato nessun processo partecipativo. Ho sentito parlare di Food valley e paragonare il distretto di Arborea a quello di Reggio Emilia ma ci si dimentica che i prodotti della pianura padana vanno soprattutto sul mercato internazionale e col marchio Made in Italy. Arborea ha invece un mercato locale e il suo nome equivale alla sua immagine come paese, dove da sempre c'è un sistema integrato».

Antonello Liori: «Le reazioni della popolazione vanno tenute nella giusta considerazione. Però il problema dell'energia è strategico, in una regione che è l'unica rimasta senza metano: e non sappiamo se si farà mai il Galsi. Penso che non si possa dire di no a tutto, e che non ci si possa muovere in base all'emotività: ora è in corso la Valutazione d'impatto ambientale, che è l'unico strumento tecnico che ha la classe politica per certe valutazioni. Se da quella verifica emergerà che non ci sono pericoli sarà sicuramente un punto a favore della Saras. Però aspettiamo di vedere anche quanto gas c'è, se valga la pena estrarlo». 

Emanuele Cera: «La Provincia, in piena sintonia con quello che è il sentimento del territorio, si è espressa all'unanimità contro il progetto di estrazione di idrocarburi nella piana di Arborea. Ma non solo di Arborea. L'intervento coinvolge quasi l'intero territorio provinciale per oltre 44 mila ettari. Ci preoccupano gli aspetti ambientali e l'impatto di tipo socio-economico. Progetto Eleonora andrebbe a compromettere il comparto agroalimentare e tutta l'attività primaria fondamentale per l'economia del territorio, che è un'eccellenza in campo regionale: il sistema Arborea con i suoi 35 mila capi bovini altamente selezionati, e una produzione giornaliera di oltre 500 mila quintali di latte. Ma c'è anche l'ortofrutta, il comparto viticolo e il sistema avicolo. Tutte eccellenze di produzioni che saranno compromesse dalla realizzazione di un pozzo per l'estrazione di metano». 
Se il progetto andasse a buon fine la Sardegna cosa ci guadagnerà?
Dario Scafardi: «I prezzi non li facciamo noi ma il mercato. Oggi con l’olio combustibile e domani, se tutto andrà per il meglio, con il metano. Una cosa è certa: l’olio combustibile non è conveniente, costa mediamente circa il 30% in più del gas. E in futuro il suo prezzo è destinato a crescere, mentre quello del metano calerà. Ora viene formato, per convenzione, prendendo a riferimento il punto di consegna virtuale, un po’ come accade nel mercato dell’energia. A beneficiare del minor costo della produzione di energia sarebbero le grosse aziende come Eurallumina e Alcoa, ma non solo.Voglio precisare che Saras si limiterebbe ad estrarre il metano, ma a commercializzarlo sarebbero altri soggetti. Sulle royalties il discorso è aperto: c’è una previsione di legge (10%) ma ci sono anche esempi di altre realtà in cui, a seguito della contrattazione con le istituzioni, si è raggiunto un accordo per percentuali più alte».
 Michela Murgia: «La politica sarda è di fronte a una scelta strategica per i prossimi 20 anni. Deve scegliere se continuare con l’industria pesante, che si è rivelata fallimentare, o se puntare su tecnologia e altre forme innovative. Le scelte energetiche andranno di pari passo. Ma il piano di sviluppo dell’Isola non può essere dettato da Saras o altri privati che, legittimamente, sono portatori di interessi diversi da quelli generali. Loro cercano di fare utili, com’è giusto che sia per un imprenditore. Noi, ad esempio, vorremmo sentire parlare di prezzi. Già oggi, con i prodotti della sua raffineria, la Saras non fa sconti ai sardi, anzi. Perché dovrebbe farli col metano? Se ci aggiungiamo che i giacimenti di cui stiamo parlando sono piccoli e rischiano di estinguersi entro pochi anni, non è nemmeno certa l’economicità dell’operazione». 
Giampaolo Diana: «Non voglio pensare che, nel 2013, non si possa estrarre gas in modo compatibile con altre attività economiche. Se ci fosse l’occasione di avere energia termica a costi bassi, non dovremmo sciuparla. Due esempi: per i costi energetici, le ceramiche di Sassuolo con materia prima prelevata nell’Isola costava no il 27% in meno delle stesse pianelle prodotte qui, malgrado il trasporto. E nell’Isola non si produce più una sola bottiglia di vetro,per il costo di sfruttamento delle sabbie silicee. Pure la serricoltura, la viticoltura e il settore lattiero-caseario soffrono il fatto di pagare l’energia il 30% in più che nel resto d’Italia. Perciò auspico un confronto al livello più alto possibile». 



Antonello Liori: «Io sono un po’ critico con la Saras, e pure con la Regione. Si parla di un risarcimento del 10% per le casse comunali, che a me sembra insussistente. In Africa hanno tolto da tempo l’anello al naso e per progetti simili impongono ricadute del 25-30%. In Danimarca creano società col 20% di azionariato locale. Qui, se il giacimento fosse di un miliardo di metri cubi, applicando il 10% a un prezzo di 35 centesimi di euro per metro cubo la Regione incasserebbe 350 milioni. Non può essere questa la compensazione». Il progetto è suscettibile di modifiche dopo il confronto con Regione e territorio, o è “blindato”?
Dario Scafardi: «Il gas che c’è nel sottosuolo è di proprietà della Regione, che deciderà cosa farne. Bisogna anzitutto capire se ce n’è, in quale quantità e di quale qualità. Poi occorrerà negoziare una concessione e capire quali siano le possibili condizioni del rapporto tra pubblico e privato. Partiamo da Arborea, ma abbiamo un progetto simile per il Campidano, perché secondo le prime evidenze quella è la zona in cui potremmo trovare più metano. Se lo dovessimo trovare credo che questo rappresenterebbe un vantaggio anche per le aziende zootecniche di quel territorio. Non mi pare che nemmeno a loro convenga pagare l’energia il 30% in più di quel che sarebbe possibile grazie al metano».
Paolo Piras: «Lo studio diimpatto ambientale prodotto dalla Saras è carente in molte parti. Liquida in poche pagine la parte che riguarda l’impatto sulla salute dei cittadini, non è corretto neppure per quanto riguarda la produzione di Idrogeno solforato che è un gas altamente tossico presente nell’attività estrattiva. Ma soprattutto non fa riferimento a nessuna bibliografia scientifica. Lo abbiamo fatto noi. Abbiamo due studi che parlano delle conseguenze sulla salute non solo dai pozzi estrattivi ma anche dall’attività esplorativa. Si fa riferimento anche alle alterazioni genetiche nei bambini».
Giorgio Locci: «Vorrei che Saras approfondisse meglio alcune criticità evidenziate dai comitati. Bisogna capire bene qual è l’impatto dell’impianto, quando fosse operativo e a regime. Se riusciamo a essere sicuri che non ci saranno impatti negativi, e se la Regione avrà la possibilità di controllare questi aspetti, allora la politica dovrà valutare la questione in termini di interesse regionale: in caso di rischio ambientale pari a zero, credo che l’indotto per la Sardegna sarebbe positivo».
Giulio Casula: «L’autorizzazione di cui disponiamo è quella per un pozzo esplorativo. Se il progetto andasse a buon fine noi vorremmo occuparci dell’estrazione, mentre la distribuzione e la commercializzazione del metano sarebbe affidata a un altro soggetto. Non ci sarà alcun danno né per le attività produttive presenti sul territorio né per il settore della pesca. Utilizziamo tecnologie che hanno un impatto minimo e il nostro studio ambientale lo dimostra».
Stefano Tunis: «Serve un dialogo che superi il terreno tecnico e quello dell’emotività. Dopo l’esito della Via, se sarà positivo, a quel punto non sarà più possibile tenere la discussione solamente su un livello tecnico, ma neppure su un piano condizionato dall’emotività. Se questo non avviene, il rischio è quello di avere un conflitto come è avvenuto per la Tav. La Regione deve moderare e fare da intermediaria in questo confronto». Come si può favorire il confronto? Sareste favorevoli a un referendum?
Antonello Liori: «Non sono assolutamente contrario a un referendum. È anche vero, come dice Giampaolo Diana, che potrebbe apparire un fallimento della politica: ma se una Provincia intera dice che lo vuole, io essendo un democratico ne prendo atto. Nel caso però dovrebbe esprimersi tutta la Sardegna, perché riguarda lo sviluppo di tutta l’Isola».
Giampaolo Diana: «È un problema di democrazia. Bisogna guardare all’interesse collettivo: non può certo rappresentarlo Saras, che è un privato e giustamente fa i suoi conti. L’interesse collettivo è avere il metano: dal Galsi, da Saras o da altri, non importa. Come costruire un processo partecipativo per decidere? Il referendum può essere una scorciatoia per una politica che non riesce ad assumersi la responsabilità delle decisioni. Non vorrei arrivarci: è un momento di rottura, sarebbe il fallimento della politica. Se fossi il presidente della Regione, proverei a provocare un confronto proficuo tra le parti».
Michela Murgia: «Sento parlare di referendum, che non è certamente il massimo del processo di partecipazione. Ma se fosse l’unico strumento in campo non ci spaventerebbe di certo. Continuo a battere sul punto della convenienza per i sardi: non abbiamo certezze che i prezzi del metano per i consumatori sarebbero competitivi, non registriamo impegni sulla questione delle compensazioni ai cittadini che subirebbero un oggettivo danno dalla localizzazione di una centrale estrattiva e non abbiamo nemmeno mai avuto risposte da Saras a proposito della recente ricerca che certifica come i bambini vissuti vicino alla raffineria di Sarroch presentino una mutazione del Dna. Oggi i privati sono portatori di interessi soggettivi e non possono regalarsi da soli la comprensione delle popolazioni dell’Oristanese. Per ora abbiamo solo capito che, estraendo il metano, la Saras abbatterebbe di circa 20/30 milioni la sua bolletta energetica. Sento addirittura di progetti che puntano a trasformare in piana estrattiva il Campidano, dove c’è la maggiore concentrazione di terre fertili dell’Isola. Saras è legittimata a pensarlo, la Regione cosa risponde?».
Emanuele Cera: «Noi siamo portatori degli interessi della comunità e abbiamo delega per esprimere la nostra contrarietà al progetto. Chiediamo alla Regione che si faccia garante di tutto questo».
Dario Scafardi: «I dettagli economici del nostro progetto devono ancora essere esplicitati e valutati. La Sardegna ha una indubbia ricchezza nel suo sottosuolo, occorre capire se la vuole utilizzare o se voglia continuare a comprare l’energia da fuori, mettendosi di fatto in condizioni di non competere. Noi per primi abbiamo interesse a rispettare l’ambiente e siamo certi di poter dimostrare che il progetto di esplorazione da noi proposto non comporta nessun impatto permanente.Anzi, il camping che è presente nell’area interessata potrà continuare a lavorare, visto che la nostra trivella non rimarrà sul territorio per più di sei mesi. Siamo disposti a mettere a disposizione di chiunque voglia analizzarla tutta la documentazione tecnica in nostro possesso. Un nuovo caso Furtei? Non conosco nel dettaglio quanto accadde in quella zona mineraria, ma posso assicurare che i luoghi verranno ripristinati immediatamente dopo la fine dell’esplorazione. Ripeto: vogliamo dare a tutti l’opportunità di dissipare i dubbi. Il dialogo dev’essere vero e costruttivo: noi siamo certi di poter dimostrare le nostre ottime intenzioni. E vogliamo porre con forza un tema: la questione del metano da estrarre va posta, Saras o non Saras».
Michela Murgia: «Il no al progetto è giustificato da pochi ma chiari dati di fatto: il prezzo del metano non sarebbe più conveniente per i sardi perché tutto sarebbe rimesso al mercato, non ci sarebbero ricadute occupazionali ma tutto verrebbe rimandato all’indotto, non ci sono sostanziose royalties da versare alla Regione, che potrebbe poi metterle a disposizione di tutti i sardi, ma c’è solo la certezza di un forte impatto ambientale. Non può essere un’azienda privata e tantomeno i tecnici della Regione a stabilire il futuro di quest’Isola».

mercoledì 29 maggio 2013

Perché una taglia unica non va bene per tutti - Il caso dell'Italia

La solidarietà europea di fronte alla crisi dell'Eurozona
Perché una taglia unica non va bene per tutti - Il caso dell'Italia
Claudio Borghi 
Tradotto da  Henry Tougha


Gentili Signori,
vorrei offrirvi un breve viaggio che comincia qui e termina in Italia, il mio paese, e al termine di questo viaggio spero sarà chiaro che tavolta ci sono matrimoni che sarebbe molto meglio non celebrare. Un brillante economista italiano, il professor Alberto Bagnai, ha perfino scritto un racconto: "Il romanzo di Hans Centro e di Maria Periferia", prevedendo ciò che avverrà in futuro se dovessimo insistere nel mantenere questo fidanzamento troppo a lungo, e le conseguenze sono assai cupe. Non c'è niente di male nell'amicizia, talvolta può sfociare in un matrimonio, ma il più delle volte è meglio restare solamente amici. E per l'Europa è proprio il caso.




Cominciamo dagli anni novanta: lo SME era un precursore dell'Euro, con tassi di cambio pressoché fissi. Questa situazione iniziò ben presto a generare in Italia un pesante deficit della bilancia commerciale, e il deflusso di denaro fu contrastato esattamente con gli strumenti sbagliati che stiamo utilizzando oggi: un forte aumento delle tasse (il governò tassò addirittura i depositi bancari durante la notte, prelevando una percentuale a qualsiasi Italiano avesse un saldo attivo sul suo conto corrente), un aumento dei tassi d'interesse fino al 18%, ed esattamente la stessa retorica che stiamo sentendo oggi, a proposito del disastro di un'uscita dallo SME. Come forse ricorderete, dopo che la Banca d'Italia ebbe bruciato tutte le riserve di valuta estera, alla fine l'Italia fu costretta ad abbandonare lo SME e la lira svalutò di circa il 20%.

Come potete vedere in questa tabella, l'effetto sulla bilancia commerciale fu pressoché immediato e aprì la strada all'ultimo "miracolo italiano" degli anni novanta, ossia l'ultimo periodo di crescita che l'Italia ricordi. 


Notate la bilancia commerciale dei paesi dell'Eurozona: l'Italia era in surplus, la Germania in deficit. Tutto un altro mondo. Considerate che il debito pubblico italiano non era diverso da oggi, ma non era oggetto di preoccupazione. Lo shock si rifletteva sul tasso di cambio, nessuno avrebbe pensato di vendere i titoli del debito pubblico sotto la parità. Notate anche che molte delle tremende conseguenze prefigurate in caso di uscita dallo SME, esattamente dagli stessi nomi (uno dei più rumorosi fu proprio Mario Monti) che ora mettono in guardia sulla catastrofe di un'uscita dall'Euro (crollo del sistema bancario, iperinflazione, impossibilità di comprare petrolio e materie prime) non si verificarono neanche lontanamente. L'inflazione addirittura scese dello 0,5% a confronto con l'anno precedente.

Poi venne l'Euro e l'Italia fu attirata con successo nella stessa trappola. Dopo aver bloccato di nuovo il naturale strumento di equilibrio rappresentato dal tasso di cambio variabile, il fantasma del deficit commerciale ritornò con moltiplicata potenza, e stavolta su scala europea. 
Penso che questa tabella non abbia bisogno di commenti. Si potrebbe scavare a fondo sulle ragioni del boom tedesco. E' evidente che si tratta del risultato di un'aggressiva compressione salariale che ha ampliato il gap di competitività con l'euro-periferia, i cui deficit venivano riempiti da enormi flussi di capitali investiti dall'Europa core nei paesi ormai "senza rischio di cambio". L'arrivo dei flussi di capitali ha spinto in alto l'inflazione, allargando sempre più il gap di competitività e alimentando un debito privato fuori controllo, che ha finito per schiacciare la maggior parte dei paesi dell'euro-periferia. Guardate il grafico seguente: dal 1999 al 2007 la variazione del debito privato è in rosso e quella del debito pubblico in blu, e questo è quanto per un altro dei miti di questa crisi: quello che recita "la colpa è del debito pubblico".
Cos'è andato storto? Nulla di strano, in realtà un esito diverso sarebbe stato alquanto improbabile visto che l'Eurozona violava apertamente i più basilari requisiti per un'Area Valutaria Ottimale, e alla fine l'Euro si è rivelato nient'altro che la solita trappola dell'aggancio valutario per i paesi deboli, portando al classico ciclo di Frenkel. L'aumento delle imposte in un paese già martoriato di tasse come l'Italia ha schiacciato l'economia, e il gettito aggiuntivo è finito ai creditori dell'Europa del Nord via fondo salva stati e prestiti alla Grecia e ad altri paesi della periferia. L'Italia aveva un'esposizione praticamente nulla verso il debito dei paesi periferici.

Si può capire la pericolosità della situazione se solo pensiamo che in condizioni normali uno shock in un paese fa scendere il valore della sua moneta, che così aiuta la sua economia. Nell'Eurozona siamo riusciti a costruire il mostro di un sistema che peggiora le condizioni di un'area sotto shock, facendo aumentare il costo del suo indebitamento.

Ora passiamo alle soluzioni e vediamo perché l'opzione "più Europa" viene negata dall'esempio dell'Italia.

Quasi tutti concordano che ci sono solamente tre vie per uscire da questa situazione: una rottura dell'Euro, una rapida deflazione via tagli salariali nella periferia (possibilmente accompagnata da un aumento dei prezzi in Germania), e il mantra "più Europa". Da Krugman in giù esiste un qualificato consenso sul fatto che una profonda deflazione non sarebbe realistica, né socialmente e nemmeno economicamente, a causa del peggioramento del peso del debito se il PIL dovesse crollare ancora. Diamo dunque uno sguardo a ciò che l'esempio dell'Italia ci può raccontare sull'integrazione forzata di aree economicamente differenti.

L'Italia è un caso di studio estremamente interessante sull'integrazione, perché comprende aree estremamente diverse in termini di potenza economica. Possiamo dire che la moneta unica "Lira" ha unificato un Nord Italia Tedesco, un Centro Francese e un Meridione Greco, con il vantaggio di una lingua comune. Com'è stato ottenuto l'equilibrio? Nel solo modo possibile in un'area valutaria non ottimale, cioè via importanti trasferimenti fiscali interni. Ciò significa che per poter replicare il "modello italiano" la Germania dovrebbe pagare per gli altri nello stesso modo in cui il Nord Italia fa per il resto del paese, ma anche se questa situazione fosse politicamente gestibile (ed io sospetto che non lo sia), non sarebbe affatto desiderabile, ed esattamente per via di ciò che è andato storto in Italia.

Per rendere l'idea: immaginate che la forza economica e industriale del Nord Italia sia "10" e che lo stesso valore debba essere dato ad un'ipotetica valuta del Nord, mentre il valore per il Sud è "2". La valuta "Lira" sarebbe scambiata a una media delle due aree, diciamo "6". Il risultato è che il Nord ottiene una valuta più debole rispetto alla sua forza, mentre il Sud ne ha una più forte. Le industrie del nord diventano così molto competitive ed esportano con successo sul mercato mondiale ed anche sul mercato interno, mentre nel giro di poco tempo le fabbriche del Sud chiudono e rimangono in vita solo i settori al riparo dalla competizione (turismo, cibo di qualità), non abbastanza per essere autosufficienti. Ben presto è risultato evidente che la situazione del Sud era insostenibile e che i programmi per "rilanciare" l'economia del sud drenavano soldi dal Nord, portandosi via molto del suo surplus commerciale. La pressione fiscale ha cominciato a salire in modo rapido e progressivo, mirando a colpire le industrie di successo del Nord e raccogliere risorse per finanziare le necessità di un Sud alla fame, e così l'equilibrio è stato ripristinato.


Capite il ciclo? Il Nord è competitivo grazie a una moneta debole, accumula extra profitti e questi profitti vengono drenati per pagare un Sud la cui crescita è resa impossibile da una moneta troppo forte. Posso immaginare che molte industrie tedesche vedano solo il lato competitivo delle industrie del Nord Italia, non sapendo che dall'altra parte esse sono gravate da un carico di tasse e di limitazioni, senza alcun aiuto dallo Stato, senza infrastrutture decenti, perché molto del denaro viene portato via per riaggiustare lo squilibrio interno.

Cosa è accaduto del denaro mandato al Sud? Sono stati fatti molti tentativi di creare industrie, con forti incentivi ad avviare attività commerciali, ma se non c'è un "reale" interesse economico a mantenere un impianto aperto e l'unica ragione sono i finanziamenti pubblici, il risultato è che non viene fatto nessun serio investimento, perché il flusso di denaro che arriva dallo Stato potrebbe interrompersi in qualsiasi momento, ed è stabilito anno per anno con la legge finanziaria.

In molti casi la risposta è stata semplicemente quella di creare lavoro dal nulla, con un numero sproporzionato di dipendenti pubblici. Molti analisti fanno notare situazioni ridicole, come il fatto che a quanto pare in una piccola regione come la Calabria ci sono più guardie forestali che nell'intero Canada. Lo Stato ben presto diventa il principale datore di lavoro del Sud. La sgradita conseguenza di avere un flusso costante di denaro (circa cinquanta miliardi all'anno in media, ma anche di più se si considerano i servizi) intermediato dallo Stato dal Nord al Sud, è la creazione di una rete di corruzione di politici e manager pubblici che mirano ad ottenere profitti dall'immenso potere di decidere l'allocazione delle risorse. Lo scambio di "voti per lavoro" si è radicato rapidamente nella cultura del Sud Italia nel momento in cui è diventato chiaro che non c'era alcuna realistica possibilità di competere in attività economiche "normali".

Inutile dire che anche questo difettoso equilibrio è andato in frantumi con l'Euro. Una volta che l'intero paese ha ricevuto la stessa moneta forza "10" del resto d'Europa la competitività delle industrie del Nord Italia è immediatamente crollata, ma la loro forza sarebbe stata sufficiente a mantenerle sul mercato, se non che sfortunatamente il peso dei trasferimenti fiscali interni era ancora saldamente in atto, e così per quanto la cosa sia stata mascherata per un po' di tempo da flussi di capitali in arrivo a basso costo, la debolezza alla fine le ha fatte saltare. Naturalmente se per un'economia del Sud a forza "2" la difficoltà a raggiungere la Lira a forza "6" era quasi insormontabile, la difficoltà ulteriore a raggiungere un Euro a forza "10" ha definitivamente cancellato ogni pur minima speranza di successo.

Dovrebbe essere chiaro che diventare una grande economia  Italiana non è conveniente per l'Europa, né dal punto di vista di quelli che dovrebbero pagare, né da quello di coloro che sarebbero costretti a ricevere gli aiuti. Una "mezzogiornificazione" dell'Europa è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno: è inefficiente, apre la strada alla corruzione e fomenta l'odio tra i popoli, i quali vedranno solo il loro denaro portato via senza poter afferrare l'intero quadro della situazione. L'unica via di uscita realistica è quella di stabilire delle aree valutarie conformate meglio, dove le economie siano libere di salire o scendere in base alle loro forze, e non per un sistema dirigistico di trasferimenti interni. Dividere l'area Euro in due potrebbe essere il primo passo verso una più profonda amicizia futura tra gli Europei, senza cadere nell'abisso di odio che spesso si crea in un matrimonio fallimentare.

Per concessione di Voci Dall'Estero
Fonte: http://european-solidarity.eu/ClaudioBorghiAquilini.pdf

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