domenica 29 maggio 2011
SE L'AFRICA HA IL MAL D'EUROPA
ilfatto.it/
DI MASSIMO FINI
Siamo continuamente sollecitati a versare, anche via sms, un obolo per l’Africa nera, soprattutto per i bambini che non hanno scuole, che non possono usufruire di un’educazione come si deve, che muoiono di malattie da noi curabilissime, come il tifo, o scomparse da tempo come la malaria. Alcune aziende, per accattivarsi i possibili clienti, dichiarano che uno o due euro saranno destinati ad aiutare l’Africa. Quando questi soldi arrivano a destinazione, se vi arrivano, sono maneggiati da ong che, animate dalle migliori intenzioni, li utilizzano per certi progetti in loco.
A queste ‘anime belle’ voglio raccontare la storia di Nana Konadu Yadom, una Ashanti, antichissima tribù dell’Africa nera, regina di un piccolo villaggio, Besoro, immerso nella giungla subtropicale del Ghana.
Quando è ancora principessa Nana parte per l’Italia perché vuole incontrare una suora di cui ha sentito parlare e l’ha affascinata. Al momento di partire è presa da qualche dubbio guardando i volti luminosi, gli occhi limpidi, sereni della sua gente e i mille bambini che scorrazzano allegramente. Ma parte. L’impulso alla conoscenza è più forte. Prima di raggiungere la suora, che dovrebbe stare, secondo vaghe indicazioni, in una città del Nord, si ferma in Sicilia dove, per vivere, si adatta a fare la colf. Quando raggiunge la città della suora, Schio, viene a sapere che è morta da cinquant’anni. Si ferma a Schio, sempre come domestica. Del nostro Paese non ha una percezione negativa, ne ammira le conquiste, anche se nota che tutti hanno sempre una tremenda fretta, vanno di corsa, sono ossessionati da uno strano strumento, l’orologio, tutte cose sconosciute a Besoro, anche perché a Besoro l’orologio non esiste, ci si regola con il levar del sole e quando l’ombra lambisce le radici di un certo baobab.
Nel frattempo a Besoro la regina morente, che è sua zia, l’ha nominata per la successione. Ma Nana rimane ancora un po’ in Italia. Diventa un caso: una regina che fa la sguattera! Finisce sui giornali. Per un pelo non la portano all’Isola dei Famosi. Dopo diciotto anni in Italia, Nana torna al suo villaggio, richiamata dal Consiglio degli Anziani perché adempia ai suoi doveri di regina. Ormai partecipe delle due culture Nana vuole portare qualche innovazione a Besoro, niente di grandioso: una piccola scuola, un piccolo ospedale. Costruito questo il medico, un nero pure lui, le fa notare che l’ospedale è inutile se non si costruisce anche un pozzo in modo che i bambini e gli adulti di Besoro non si abbeverino a un laghetto putrido dove si infettano. Comincia così una nota trafila da cui non si esce più. I bambini si ammalano di meno, ma Nana nota con sorpresa, che gli abitanti sono diventati tristi, non hanno più i volti luminosi, gli occhi limpidi, felici, mentre è comparsa una malattia mai vista a Besoro, l’ipertensione.
Il virus occidentale ha rotto equilibri ancestrali. Il primo a squagliarsela è il cacciatore Coio che torna nella foresta, poi altri, infine anche il tranquillo zio Ofa se ne va, mentre uno che lavora in ospedale le dice con una voce quasi infantile: “Io non posso vivere con l’orario”. L’esperimento è stato fallimentare.
Mi piace concludere questo apologo con le parole di Andrea Pasqualetto, il giornalista che ha raccolto il racconto della regina Nana Konadu Yadom per un libro che uscirà prossimamente da Marsilio: “Chi l’ha detto che l’Africa nera deve essere aiutata? Chi l’ha detto che servono scuole, ospedali, pozzi? Servono a chi? Agli africani o a noi?”.
Massimo Fini
Fonte:
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/29/se-l’africa-ha-il-mal-d’europa-siamo/114309/
sabato 28 maggio 2011
Usa,violati i piani del supercaccia F-35 Lightning II
Unknown hackers have broken into the security networks of Lockheed Martin Corp (LMT.N) and several other U.S. military contractors, a source with direct knowledge of the attacks told Reuters.
Hacker rubano i progetti dai server
I piani del Pentagono per la costruzione del caccia d'attacco F-35 Lightning II, il più costoso progetto mai affrontato dalla Difesa degli Stati Uniti, sono stati violati da misteriosi hacker. I pirati informatici sono riusciti a scaricare diversi dati sul supercaccia (conosciuto anche come JSF, Joint Strike Fighter), ma non hanno avuto accesso ai dati più sensibili. Solo perché questi sono custoditi in computer non collegati a internet.
Secondo il Wall street journal, che riporta la notizia dell'intrusione informatica citando fonti dell'attuale e precedente governo americano, non è chiaro chi siano gli hacker responsabili, anche se alcuni attacchi informatici sembrano provenire dalla Cina (ma ciò non prova nulla, perché si potrebbe trattare di identità mascherate).
Gli attacchi ai server del progetto JSF non sono nuovi: i primi risalgono al 2007, ma si sono intensificati negli ultimi sei mesi. E non tutti sono passati dal Pentagono: il problema della sicurezza, in questo caso, è molto più vasto perché le intrusioni sono avventue, per la maggior parte dei casi, nei sistemi informatici di ditte esterne o di Paesi alleati che collaborano al progetto del nuovo caccia americano (tra i quali c'è anche l'Italia). Uno degli attacchi è passato dalla Turchia, un secondo da un altro Paese che non è stato specificato.
Le nuove intrusioni hanno riportato alla luce un problema noto da tempo: l'assenza di un'agenzia governativa o di un ufficio militare preposti alla sicurezza informatica: proprio per questo l'amministrazione Obama potrebbe presto varare una nuova agenzia di cyber-007.
Il Pentagono smentisce
Il Pentagono e la Lockeed Martin hanno smentito la notizia. L'attacco, hanno di fatto spiegato i portavoce, c'è stato ma i pirati informatici (forse cinesi secondo il giornale) non sono riusciti a rubare nulla. "Non sono informato di alcun tipo di preoccupazione (sul furto)", ha spiegato il portavoce della Difesa Bryan Whitman riferendosi al progetto monstre da 300 miliardi di dollari con cui gli Usa acquisteranno 2.443 F-35.
domenica 22 maggio 2011
Un fantasma si aggira per la Spagna... e l'Europa: la crescente impopolarità dell'U. E.
Un fantasma si aggira per la Spagna...
Javier Fernández Retenaga Per concessione di Tlaxcala | ||
Tradotto da Aurora Santini |
Alla vigilia delle elezioni autonomiche e municipali, migliaia di giovani stanno occupando le piazze delle principali città della Spagna. Seguendo l'esempio delle rivoluzioni arabe, giovani e meno giovani si sono organizzati attraverso diverse piattaforme internet ed hanno deciso di scendere in strada per mostrare la propria indignazione.
“La chiamano democrazia e non lo è”, “Non è la crisi, è una truffa”, “Non siamo una merce in mano a politici e banchieri” sono alcuni dei loro motti. Si mobilitano senza sigle né dirigenti, delusi dai tradimenti delle grandi organizzazioni politiche e sindacali e dal frequente settarismo di quelle piccole. Nonostante abbiano sempre agito in modo pacifico, la stampa dominante ed i politici professionisti hanno cercato di tacciarli come "violenti", dapprima per guadagnarsi il consenso dell'opinione pubblica e poi per giustificare la repressione. Non ci sono riusciti e le mobilitazioni si stanno guadagnando le simpatie della gente. Ora, timorosi, i politici del regime dicono di “comprendere” la rabbia popolare.
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Vicenç Navarro | ||
Tradotto da Alba Canelli | ||
Editato da Aurora Santini |
L'Unione europea ha un problema serio. Stanno emergendo movimenti popolari anti-Unione Europea (UE) in quasi tutti i paesi membri di quest'entità politico-amministrativa. E' vero che l'UE non è mai stata un concetto popolare. In realtà, nacque per iniziativa di alcune élite che volevano creare un mercato comune per il quale c'era bisogno di una moneta, l'euro, che andò a sostituire le monete nazionali della maggior parte dei paesi dell'UE. Solo nel Sud Europa quei paesi che hanno sofferto dittature fasciste o fascistoidi (Spagna, Grecia e Portogallo), l'UE ha generato un certo entusiasmo, poichè l'Europa rappresentava per la popolazione di questi paesi la speranza di sfuggire alle odiate dittature e realizzare il sogno democratico comune assunto nel resto d'Europa. Ancora oggi, l'UE è il sogno di alcuni movimenti secessionisti, come il movimento indipendentista catalano, che vede nell'Europa il modo di rendersi indipendente dallo stato spagnolo. Ma, del resto, l'UE non è mai stata molto popolare e ora è fortemente contestata da vasti settori delle classi popolari. Perché?
Foto Francesco Cascioli
- In ogni paese dell'UE (e ancor di più in ogni paese dell'Eurozona), il reddito del lavoro, come percentuale del totale del reddito nazionale, è calato (passando dalla media UE-15 del 68% di reddito nazionale al 56%) mentre i redditi da capitale (soprattutto, i redditi del capitale finanziario) sono aumentati.
- La disoccupazione è aumentata nella maggior parte dei paesi dell'UE, la cui media è diventata più alta in Europa che negli Stati Uniti, invertendo una posizione precedente (1950-1980) in cui la disoccupazione era stata più bassa in Europa che negli Stati Uniti.
- Le condizioni di lavoro sono peggiorate, con l'aumento della percentuale di lavoratori che riferiscono di essere stressati sul lavoro, che ha raggiunto nel 2009 la cifra del 52% del totale della forza lavoro media dell'UE-15. Inoltre, e in relazione con ciò, l'incidenza delle malattie professionali correlate allo stress è aumentata significativamente.
- Il tasso di crescita della spesa pubblica per trasferimenti e servizi pubblici dello stato sociale è calato, mentre i tassi di crescita dei bisogni sono aumentati.
- I diritti dei lavoratori e i diritti sociali sono stati ridotti.
Per concessione di Vicenç Navarro
giovedì 19 maggio 2011
La trappola del governo italiano sui referendum
In Sardinia il 15 e 16 MAGGIO 2011 si è svolto il primo referendum al mondo sul nucleare (consultivo) dopo il disastro accaduto a Fukushima.
SARDIGNA NATZIONE (movimento indipendentista sardo) ha raccolto le 16600 firme per permettere ai sardi di esprimere il loro parere sul nucleare, 6000 firme oltre le necessarie dovute a termine di legge Regionale; l'impegno profuso per la sua riuscita è dovuta ai movimenti indipendentisti e ambientalisti sardi, hanno dato al popolo sardo questa libertà di espressione, strumento di democrazia diretta, e portato al voto oltre 860.000 elettori sardi (su un milione e mezzo di abitanti siti su un'isola di appena 24mila Kmq )
Elettori molto determinati a dire la loro, e che hanno votato espressamente contro il nucleare con un a percentuale che non lascia dubbi sul loro pensiero antinuke, infatti il 97.40% di SI per il rifiuto del nucleare ha determinato il NO alle centrali nucleari e ai suoi residuati e scorie, ponendo una pietra tombale sulle bocche dei tanti lachè e affaristi italioti;
Un grandissimo risultato raggiunto a motivo della stanchezza ed il rifiuto popolare delle servitù imposte alla Sardegna da un centinaio e più d'anni dallo stato italiota, una terra vituperata e resa colonia, martoriata dalle servitù militari, da discariche di scorie industriali delle acciaierie italiane del nord e con l'iquinamento del suo territorio a motivo di industrie collocate fuori luogo dal potere italiota negli anni sessanta e settanta, rendendo il territorio schiavo della logica del capitale USA e GETTA oltre alla umiliazione del collocare gente attiva e dignitosa in situazioni offensive per noi sardi come la cassa integrazione ecc.. (da sapere: il 60% del totale delle servitù militari in estensione territoriale dello stato italiano sono site in Sardinia) la logica di colonia a cui ci hanno relegato e imposte da centocinquanta anni di occupazione italiota, ci da molto fastidio e vogliamo fare azione di liberazione sia: dalle promesse vane dei porci servi (tzaracus) dei politicanti "italioti", che di quegli idioti-servi sardo-italioti prostarti davanti all'altare del denaro della loro vera "patria", infastidisce molto vedere la forza che questi governi di destra e centrosinistra italici esercitano per sottomettere il nostro popolo in terra di Sardinia!
Per noi sardi questo referendum consultivo sul nucleare ha significato un forte no a questa speculazione sul nucleare in terra nostra del premier italiota Berluscone, e la rivendicazione di sovranità sulla proria terra atta dal nostro essere natzione matura per la libertà e autodeterminazione, stanca di essere sottoposta da troppo tempo a queste amenità di oltre Tirreno.
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LIBERTADE PRO SA SARDINIA EST COSA GIUSTA E DEPIDA!!
A FORA IS ITAGLIANUS DE SARDINIA, LIBERTADE E JUSTITZIA PRO SU POPULU SARDU!!
Michael Leonardi
Counterpunch USA
voteranno su nucleare, legittimo
impedimento e privatizzazione
dell’acqua. La maggioranza sta
facendo di tutto per ostacolare le
consultazioni popolari
In Italia la democrazia è sempre più a pezzi. Il governo di Silvio Berlusconi e la sua maggioranza in parlamento stanno cercando di bloccare un refrendum che dovrebbe impedire la costruzione di nuove centrali nucleari sul territorio nazionale. L’Italia non produce energia nucleare dal 1990, e i recenti sondaggi indicano che più del 75 per cento degli italiani è contrario alla costruzione di questi impianti.
Il referendum è in programma per il 12 e 13 giugno, ma un emendamento presentato il 19 aprile dal governo prevede la so-spensione di un anno del progetto di rilancio dell’energia nucleare e rischia di far saltare la consultazione popolare. La campagna è stata condotta dal partito d’opposizione Italia dei valori, che ha guidato un vasto movimento di cittadini e associazioni ambientaliste riuscendo a raccogliere le 500mila firme necessarie per proporre il referendum.
L’Italia è l’unico, tra i paesi del G8, a non produrre energia nucleare. Sulla penisola non ci sono centrali attive dal 1990,anche se circa il 10 per cento dell’elettricità consumata viene da energia nucleare prodotta in Francia e Germania. Nel 1987, un anno dopo l’incidente di Cernobyl, i cittadini italiani votarono un referendum che ha sancito la diminuzione graduale e infine la sospensione della produzione di energia nucleare. In quel momento l’Italia aveva due centrali attive, e in tutta la storia del paese ci sono stati quattro reattori in funzione.
Nel 2007, durante la campagna elettorale che l’ha portato al governo per la terza volta, Berlusconi annunciò l’intenzione di voler tornare alla produzione di energia nucleare, nel quadro di una strategia energetica nazionale.
All’epoca Berlusconi non era stato l’unico a sostenere la necessità di un ritorno al nucleare. Anche alcuni importanti esponenti del Partito democratico (Pd), appena fondato, si erano espressi a favore.
Un cablogramma pubblicato da Wikileaks ha rivelato che Pier Luigi Bersani, l’attuale segretario del Partito democratico, che nel 2007 era in carica come ministro dello sviluppo economico nel governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, aveva aperto uno spiraglio al ritorno del nucleare attraverso un accordo sulla Global nuclear energy partnership (Gnep) con il segretario per l’energia statunitense di allora, Samuel Bodman. Parlando del referendum del 1987, Bersani aveva detto che il risultato della consultazione “non esclude l’Italia dalla generazione di energia nucleare, che è solo sospesa”. Inoltre, il leader del Partito democratico si augurava che l’accordo stipulato tra l’amministrazione Bush e il governo Prodi potesse “cambiare l’atteggiamento degli italiani verso l’energia nucleare”.
Anche Walter Veltroni, l’ex sindaco diRoma che nel 2008 è stato il primo candidato del Pd per la presidenza del consiglio,nel suo programma elettorale si era detto pronto a discutere l’idea di un ritorno alla produzione di energia atomica di quarta generazione.
Dopo Fukushima
Dopo l’incidente della centrale di Fukushima, in Giappone, Bersani e il Partito democratico hanno fortemente ridimensionato il loro sostegno al nucleare, schierandosi
contro il progetto del governo di costruire nuovi reattori. I democratici si sono schierati al fianco del partito dei Verdi, dell’Italia dei valori e di migliaia di cittadini italiani che hanno criticato i tentativi di Berlusconi di bloccare il referendum, accusandolo di “intralciare il processo democratico”. Fukushima ha dato nuova forza al movimento antinucleare e ha radunato intorno al no all’energia atomica un’opinione pubblica che nel corso degli anni si era gradualmente spaccata.
Dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008, il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, prima di essere costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione, annunciò che il governo intendeva costruire la prima delle nuove centrali nucleari entro il 2013. Il 24 febbraio del 2009 è stato siglato un accordo tra la Francia e l’Italia per permettere agli italiani di usufruire delle conoscenze degli esperti francesi in materia di progetazione delle centrali. Il 9 luglio del 2009 l’Italia ha approvato un disegno di legge sull’energia che prevedeva l’istituzione di
Nel 2009 l’Enel ha
concluso un accordo
con Électricité de
France (EDF) per la
creazione della joint
venture Sviluppo
un’Agenzia per la sicurezza nucleare e concedeva al governo sei mesi per individuare i siti dove costruire le nuove centrali. Siti che a tutt’oggi non sono ancora stati selezionati. Il 3 agosto del 2009 l’Enel, il gigante italiano dell’energia, ha concluso un accordo con Électricité de France (Edf) per la creazione della joint venture Sviluppo Nucleare Italia. Il compito della società è studiare la possibilità di costruire almeno quattro reattori usando un progetto dell’azienda francese Areva, la più importante del mondo in questo settore. Questi oligarchi dell’energia, con l’alto patronato di Berlusconi, stanno facendo il possibile per proteggere l’investimento multimiliardario in un futuro nucleare.
Suicidio politico
In quest’ottica si spiega la decisione del governo di rinviare di un anno tutte le discussioni sulla ricerca e la selezione dei siti destinati alle nuove centrali in Italia. Una mossa che ha suscitato immediatamente lo scetticismo del movimento antinucleare e dei partiti d’opposizione, ed è stata interpretata da molti come un goffo tentativo di bloccare il referendum di giugno. Il 26 aprile del 2011, nel giorno del venticinquesimo anniversario dell’incidente di Cernobyl, Berlusconi ha tenuto una conferenza stampa a Roma insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. In quell’occasione il presidente del consiglio ha chiarito una volta per tutte le intenzioni del governo: “Siamo assolutamente convinti che l’energia nucleare sia il futuro per tutto il mondo”, ha detto. Berlusconi ha mostrato alcuni sondaggi recenti, secondo i quali, allo stato attuale, il referendum per bloccare il ritorno al nucleare potrebbe davvero passare. Il presidente del consiglio ha ammesso poi di aver deciso di sospendere temporaneamente il programma nucleare per ritornare sull’argomento quando i cittadini italiani si saranno “calmati” e avranno compreso che le centrali nucleari sono la via più sicura e praticabile per produrre energia.
Il Cavaliere ha inoltre accusato “la sinistra e gli ecologisti” di aver manipolato le emozioni degli elettori dopo Cernobyl e di aver penalizzato i cittadini italiani, che sono costretti a pagare bollette della luce più care rispetto ai francesi, che dispongono di 58 reattori. Berlusconi si è poi detto convinto che “la situazione in Giappone abbia spaventato gli italiani”, e ha concluso garantendo che “l’inevitabile ritorno dell’Italia all’energia atomica” non sarà accantonato, e che la collaborazione tra Enel ed Edf andrà avanti. Sostenere il nucleare proprio quando la Germania e il Giappone annunciano la sospensione dei loro programmi e l’abbandono dei progetti di costruzione di nuovi reattori, potrebbe sembrare un suicidio politico. Ma non in Italia, almeno fino a quando Berlusconi sarà al potere.
Il Cavaliere controlla ormai tutte le principali reti televisive.
Questo fa sì che informare i cittadini sul voto del 12 e 13 giugno sia molto complicato, anche perché la longa manus della censura si sta facendo sentire. Al concerto del primo maggio, organizzato ogni anno a Roma dalle principali organizzazioni sindacali e trasmesso dalla Rai, agli artisti è stato chiesto di firmare una liberatoria con cui, tra le altre cose, accettavano di non parlare dei referendum, pena una multa di migliaia di euro.
Per ora il referendum per bloccare l’energia nucleare è ancora in programma.
Solo la corte di cassazione, con una sentenza dell’ultimo minuto, potrebbe decidere di cancellarlo. È quello che spera il governo, conidando nell’efetto della cosiddetta moratoria nucleare. Oltre a quello sull’energia, il 12 e 13 giugno si terranno altri tre referendum: due per annullare il tentativo del governo Berlusconi di privatizzare le risorse idriche, l’altro per abrogare il cosiddetto legittimo impedimento, una norma approvata dalla maggioranza per proteggere Berlusconi dai processi a suo carico.
Per ognuno dei quesiti i promotori hanno dovuto raccogliere 500mila firme, e i referendum saranno validi solo se andrà a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Negli ultimi dieci anni nessun referendum ha raggiunto il quorum.
La battaglia dell’acqua
Secondo alcuni il governo Berlusconi avrebbe intenzione di bloccare anche la consultazione sull’acqua pubblica. Si spiegherebbe in quest’ottica la decisione di creare una nuova authority per l’acqua. Per chi è impegnato e politicamente attivo sembra evidente che il governo Berlusconi sta tentando in ogni modo di bloccare il processo democratico. Ma la maggior parte dei cittadini riceve informazioni solo attraverso l’impero di reti televisive pubbliche e private sotto il controllo del Cavaliere, e rimane all’oscuro di tutto.
Le notizie sui referendum vengono trasmesse quasi solo a notte fonda o all’alba. Per pubblicizzare i referendum molti cittadini sono scesi in strada distribuendo volantini, ricorrendo ai social network e ad azioni creative e dirette per difondere le notizie e portare le persone alle urne. Il 9 maggio alcuni attivisti di Greenpeace hanno srotolato un grosso striscione dal balcone che Benito Mussolini usava per i suoi discorsi, a Palazzo Venezia a Roma. Sullo striscione c’è una caricatura di Berlusconi accompagnata dalla frase “Italiani, il vostro futuro lo decido io”, e da un invito ai cittadini ad andare a votare il referendum sul nucleare.
Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, ha riassunto così la situazione: “I referendum si faranno anche se i ladri di democrazia sono tornati in azione. Il governo non riuscirà a rubare il diritto degli italiani di esprimersi democraticamente contro il nucleare e la privatizzazione dell’acqua”.
Il 12 e 13 giugno il popolo italiano avrà l’opportunità di cambiare il corso del proprio futuro votando sì per dire no all’energia nucleare e alla privatizzazione dell’acqua.
mercoledì 4 maggio 2011
Geronimo EKIA (enemy killed in action). Lo stupro del diritto internazionale
Angelo Miotto
Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - senza rispetto del diritto. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione. Intervista a Danilo Zolo
Due dozzine di rambo statunitensi su due elicotteri in territorio sovrano pachistano, un blitz con armi da fuoco, un cadavere fantasma, una cerimonia su una portaerei con sepoltura in mare. In un copione da effetti speciali, raccontato come un'avvincente saga hollywoodiana, si è sancita la definitiva morte del diritto internazionale. Un insieme di regole ragionate, studiate e condivise nel corso di decenni, fredde e razionali proprio per dirimere contenziosi infuocati che vivono di tensioni drammatiche. Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - umiliando il diritto condiviso. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione.
Danilo Zolo è professore di filosofia del diritto e di filosofia del diritto internazionale a Firenze. A PeaceReporter racconta lo sdegno per le regole infrante in una comunità internazionale incapace di rispondere alle nuove sfide della guerra asimmetrica e della propagandata 'guerra al terrorismo' che ha caratterizzato fine e inizio di due secoli.
Professore, un blitz illegale dal punto di vista del diritto internazionale? Spogliamoci dell'emotività della notizia: abbiamo assistito al fulcro dello sfascio delle regole condivise (almeno sui trattati)?
Siamo in presenza di uno stravolgimento radicale del diritto internazionale, che è divenuto risibile per come viene applicato dalla comunità internazionale. È chiaro che gli Stati Uniti usano le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza come una copertura. Aggrediscono, usano armi potentissime, fanno stragi di decine e centinaia di migliaia di persone come in Iraq e poi ottengono dal Consiglio di sicurezza una accettazione di fatto della realtà. L'Onu serve a questo, a giustificare post factum crimini gravissimi. Ci sono tre crimini in atto, a carico di Obama: la guerra in Afghanistan, che continua con strage di innocenti senza nessuna fondazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite. La guerra contro la Libia, altra violazione della Carta Onu che al comma sette articolo 2 vieta qualsiasi intervento all'interno di tensioni di carattere di guerra civile di altro stato. E ora siamo in presenza di un'altra gravissima violazione, perché un gruppo di militari altamente specializzati sono stati incaricati di fare strage e di assassinare una persona in uno Stato terzo, il Pakistan. Una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto alla vita delle persone non motivata da motivi particolari. Perché che quella persona fosse bin Laden non è sicuro e d'altra parte la cerimonia di cui si parla su portaerei e poi la scomparsa in mare del cadavere dell'ucciso sono procedure vergognose sul piano del diritto e dell'esistenza delle persone.
Siamo di fronte alla necessità di riformare il diritto internazionale?
Riformare il diritto internazionale significherebbe riformare le Nazioni unite, cambiare la Carta dell'Onu. Mentre si parla di un diritto internazionale consuetudinario, ma è una chiacchiera a vuoto perché non viene rispettato. Una riforma significherebbe chiedere agli Usa di rinunciare ai propri privilegi. Il Consiglio di sicurezza, che è l'unico organo che può usare la forza nelle situazioni estreme, è dominato da cinque membri permanenti e questa la dice lunga su come sia democratico. L'assemblea non ha alcun potere decisionale. La mia opinione è che non ci sarà nessuna riforma delle istituzioni internazionali, e quindi del diritto, se non ci sarà il cambiamento profondo nei rapporti di forza economici, militari e nucleari con le potenze come Russia, India, Cina, Brasile e anche il Sudafrica. Se queste forze riescono a stabilire dei rapporti internazionali che li liberino dal dominio degli Usa. Altrimenti, nessuna riforma.
Il concetto di guerra simmetrica complica il quadro.
Le guerre scatenate dagli Usa dal 1991 contro l'Iraq sono guerre in cui c'è una asimmetria nella potenza militare e una asimmetria profonda nelle conseguenze delle guerre: le perdite militari occidentali sono risibili, mentre le strage di militari iracheni, degli afgani si contano a migliaia, con persone innocenti. Vittime della guerra o per le conseguenze di essa.
La tanto sbandierata democrazia occidentale, secondo lei, ieri con il blitz e certe rappresentazioni di giubilo che segnale ha dato di sé stessa? C'è voluto il Vaticano per richiamare alla compostezza di fronte alla morte.
È singolare che lo abbia detto il Vaticano, che questi ultimi anni non si è particolarmente schierato con la pace. Il pontefice ha spento le candeline festeggiando con Bush e facendo una dichiarazione di entusiasmo nei confronti dei comportamenti degli Usa. Meglio che lasciamo perdere questo aspetto.
Per quanto riguarda l'Occidente da oltre venti anni scatena guerre di aggressione nei confronti di una serie di stati collocati in Medio Oriente, e sono tutte guerre che violano il diritto internazionale. Stessa situazione anche nei Balcani: ricordiamo la guerra del 1999 contro la Serbia, di fatto con la motivazione falsa di carattere umanitario che ha portato alla strage di alcune migliaia di serbi e ha avuto un solo risultato umanitario; in Kosovo oggi vicino a Urosevac ci sono 7000 soldati nordamericani, armatissimi e con ordigni nucleari. L'Occidente non può avere una qualifica onoraria nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è in declino perché è una ideologia occidentale completamente falsificata dai comportamenti di fatto.
martedì 3 maggio 2011
La rapina del secolo: l’assalto dei «volenterosi» ai fondi sovrani libici
Il Manifesto
L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.
domenica 1 maggio 2011
Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi
Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi
Di Andrea Pili (esponente di SdeL-SNI)
Il 28 aprile 1794 il popolo sardo di Cagliari si rese conto, per la prima volta, che i suoi interessi erano in contrasto con quelli dei piemontesi, dominatori e invasori. Perciò in tale data ci fu il culmine di quella “emozione popolare” che, dal tentativo d'occupazione francese nel 1793, aveva persuaso non pochi sardi di poter finalmente ottenere incarichi dirigenziali fino ad allora riservati soltanto ai continentali. Tuttavia, da questo momento in poi iniziò ad essere chiaro che anche gli interessi dei sardi non erano tutti concilianti: Gerolamo Pitzolo- che pure era un comandante delle milizie sarde opposte ai francesi- e Paliaccio, Marchese della Planargia, dopo avere ottenuto dal sovrano sabaudo gli importanti incarichi di- rispettivamente- intendente generale e di generale delle armi, divennero i principali avversari del movimento riformatore sardo. Infatti, essi incarnavano il pensiero della sparuta nobiltà feudale autoctona e della borghesia cittadina retrograda; tali componenti non volevano andare oltre le cinque richieste stamentarie del '93 ed erano impaurite da altri possibili sviluppi.
Il movimento riformatore però fu presto capace di avere il controllo degli Stamenti e del nuovo vicere Vivalda, il quale era un inetto. L'intento dei riformisti oscillava dalla richiesta di una maggiore autonomia da Torino fino all'abolizione del regime feudale. Quest'ultima fu la principale aspirazione di Giovanni Maria Angioy il quale, pur estraneo agli eventi del 28 aprile, grazie alla sua importante posizione di magistrato della Reale Udienza divenne il vero capo della tendenza innovatrice. Purtroppo anche all'interno di questa le aspettative non erano comuni. Due eventi del 1795 portarono alla rottura del riformismo cagliaritano: il linciaggio di Pitzolo e del marchese della Planargia; la spedizione di Mundula e Cilocco a Sassari per sedare il tentativo di secessione del Capo di Sopra. Cosa significarono questi due fatti? Il progresso ingresso delle masse popolari- anche quelle delle campagne, finora escluse- nel processo rivoluzionario sardo; erano stati tanti gli oppressi dal feudalesimo che si associarono a Cilocco ( si parla addirittura di 13000 persone) radunate da banditori inneggianti alla rivolta contro il regime feudale. Questa marcia su Sassari del '95 fu il primo vero incontro tra il movimento riformista di Cagliari e le rivolte popolari antifeudali, frequenti ma sempre rimaste ignorate dagli Stamenti. Dalla fine del 1795 divenne chiara l'esistenza di riformisti interessati soltanto ad ottenere quei privilegi da cui erano stati esclusi (Pintor, Musso, Cabras, Sisternes) e di uomini che ormai apparvero come autentici rivoluzionari (Angioy, Mundula, Cilocco) influenzati dalle idee illuministe ed accomunati dalla volontà di portare il popolo sardo nella modernità. Così i cosiddetti moderati premettero su Vivalda per allontanare Angioy, dando a lui l'incarico di alternos a Sassari, pensando in tal modo di uccidere le velleità rivoluzionarie.
Nel 1796 Angioy a Sassari proseguì la sua battaglia rivoluzionaria, incoraggiando federazioni tra le ville contro il pagamento dei tributi feudali. Quando il vicere tentò di stroncare la sua azione, l'alternos decise di marciare su Cagliari con intenzioni ancora non chiarite definitivamente, ma di certo per imporre la fine del regime feudale. Purtroppo finì male, il bonese fu costretto alla fuga e dal 1796 al 1802 si alternarono repressioni violente a deboli tentativi insurrezionali fino a quello- per cui trovarono la morte Sanna Corda e Cilocco- più chiaramente repubblicano e indipendentista.
Gli indipendentisti del 2011 devono essere i prosecutori dei rivoluzionari di fine XVIII secolo; questo vuol dire che dobbiamo legare la volontà di indipendenza dall'Italia ad un progetto politico rivoluzionario tale da allontanare quei sardi che si avvicinerebbero alle nostre istanze nazionaliste solo per ricavarne dei vantaggi. Se i rivoluzionari di due secoli fa guardavano alla Repubblica Francese ed alle idee dell'illuminismo, noi dobbiamo invece guardare a quella parte del mondo che sta lottando con successo contro il neoliberismo in favore di una democrazia sociale e identitaria.
L'indipendentismo non deve commettere più l'errore del primo Angioy: credere che basti appartenere a questa terra per avere a cuore le istanze del popolo sardo. Per fare irrompere la Nazione Sarda nella storia occorre invece: allontanarsi chiaramente dai sardi pescecani alla Zuncheddu o alla Cualbu; denunciare l'autonomismo alla Mauro Pili (e i suoi Unidos) o alla Renato Soru, che non vuole rompere le catene con lo stato italiano ed i suoi partiti; distaccarsi dalla fazione retrograda e collaborazionista della Chiesa; puntare chiaramente all'edificazione di una democrazia sociale e partecipativa che punti all'acquisizione progressiva del potere sull'economia da parte dei cittadini, contro il neoliberismo nemico e falsificatore della democrazia.
A differenza dell'alternos e dei suoi compagni abbiamo qualcosa in più: maggiore consapevolezza storica. Infatti la storia della Nazione Sarda è la base principale per la nostra nuova democrazia, dal comunitarismo nuragico a quello giudicale abbiamo la sensazione di un percorso storico interrotto dall'imperialismo e a cui dobbiamo riagganciarci. Non mere battaglie identitarie ma rivoluzione nazionale e sociale del XXI secolo.
INDIPENDENTZIA!!!!
mercoledì 27 aprile 2011
Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 28 aprile 2011
L’incontro di Seneghe, lo scorso 25 marzo, ha compiuto il percorso storico e logico che ci ha condotto dalla ricorrenza del 150° dell’Italia a sa die de sa Sardigna. Ha avuto inizio un confronto che si è posto quale punto di partenza per una riscossa culturale e sociale, capace di elaborare strategie di mutamento. Un cambiamento che deriva da studi, da dibattiti, da una messa a fuoco dei problemi della Sardegna, per proporre indirizzi, per alimentare una partecipazione, per unire forze disperse che nella disunione non portano a progetti di crescita. C’è bisogno di promuovere una presenza combattiva e maggiormente consapevole del proprio ruolo nel contesto attuale.
La crisi sarda è innanzitutto una crisi culturale e di forza progettuale, un ritardo nel cogliere i tempi giusti per la crescita, i modi, i tempi, i luoghi più pertinenti. Senza saperi, conoscenze, progetti, il tempo ci coglie sempre impreparati: altri sono padroni del nostro tempo.
Ci siamo lasciati ragionando di Sardegna e di unità d’Italia per incamminarci verso sa die de sa Sardigna offrendo a noi stessi, e ad altri che desiderassero avviarsi con noi nel cammino, dei nuovi appuntamenti.
Non sapevamo che il Consiglio regionale non avrebbe fatto memoria di sa die, seppure il disinteresse era già chiaro nel silenzio dei programmi e nella modestissima entità delle risorse previste. Tale insensibilità ci rattrista e offende, ma non ci stupisce. Sappiamo che fa male, a chi si pone nella subalternità, proporgli la memoria del dovere e del diritto alla libertà. Ma qui siamo di fronte all’abbandono dell’unica e più importante festa del Popolo sardo!
Con le 5 domande rivolte al re nel 1793 è iniziata la fase vertenziale della Sardegna moderna e con essa la rivoluzione della nostra contemporaneità. Tante cose ci dicono però che quella fase necessita di un’evoluzione veloce. La vertenzialità da sola è al tramonto perché rimanda ogni responsabilità all’esterno di noi. Ogni giorno le strade e le piazze della Sardegna vedono un popolo che protesta, ma le risposte restano sempre lontane, non arrivano o giungono solo nella forma utile agli interessi di altri. Così rischiamo di sprecare le dure e costose battaglie della nostra gente, mentre la frustrazione per le risposte non ricevute potrebbe presto portare allo scoramento e alla definitiva rinuncia.
Il destino della Sardegna è più che mai nelle mani dei sardi. E quindi, alimentando la consapevolezza dell’urgere di scelte importanti che proseguano l’antica aspirazione alla sovranità contenuta anche nelle “cinque domande”, a noi si dà la possibilità e l’obbligo di chiederci quali siano le domande che oggi dobbiamo porre a noi stessi per trovare le giuste risposte: al livello istituzionale, sociale, economico, culturale, politico. Come nel triennio rivoluzionario (1793 – 1796), ma apprendendo le lezioni della storia. Queste possono essere le nostre cinque domande dell’oggi, 28 aprile 2011.
1). E’ del tutto evidente la debolezza istituzionale e politica delle rappresentanze della Sardegna. Le cause non sono solamente da ricondurre ai limiti dello Statuto ma anche all’incapacità di affermare i propri diritti istituzionali. Nella prospettiva immediata non si intravvede come le forze politiche sarde possano mutare questo quadro desolante: non c’è un progetto condiviso e fermo di Statuto che risponda alle esigenze dei sardi, resta ancora tutta da costruire una forza contrattuale per sostenerlo nell’ambito del Governo e del Parlamento, l’esclusione dal Parlamento europeo è già essa stessa manifestazione ed effetto di tale debolezza. I sardi hanno perduto quella primogenitura federalista che i loro migliori uomini avevano difeso lungo tutto il Novecento, dopo che le stesse proposte erano state sconfitte nell’Ottocento a seguito della ‘fusione perfetta’ e dei modi con cui si concretizzò la formazione dello Stato italiano. Questa proposta si chiama ‘federalismo’. Quello che poche e inascoltate voci richiamano negli ultimi decenni a partire dalla grande crisi della fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Quello stesso federalismo che, riproposto oggi dalle regioni settentrionali, sembra configurarsi, invece che come una forma di condivisione della sovranità, come una forma di neocentralismo che rischia di rendere ancora più dura la dipendenza della Sardegna.
Quale la risposta a questa situazione? Dobbiamo forse prendere atto che l’impossibilità di esso a causa degli interessi settentrionali, e il sistematico boicottaggio dello Stato all’affermazione del nostro diritto alla sovranità e alla presenza in Europa, ci lasci quale unica alternativa la debacle di una nuova ‘perfetta fusione’? L’unica atto da compiere a breve non è forse quella della volontà e dell’iniziativa popolare nella forma dell’Assemblea Costituente?
2). Circa la questione sociale non mancano certamente le lotte, gli scioperi, i viaggi della protesta a Roma né le manifestazioni sindacali a Cagliari. Il fatto è che questa protesta e le risposte politiche regionali e nazionali non si misurano con obiettivi precisi di sviluppo, si vive nel contingente senza un piano preciso e dunque senza risultati, anche parziali, concreti.
Cresce nei comuni dell’interno la consapevolezza del proprio spopolamento ma tanti segnali ci manifestano i messaggi della non rassegnazione. E’ fondamentale la protesta cosciente e organizzata dei giovani come dispositivo di pressione e di orientamento politico.
Un piano B per le zone industriali deserte (Isili, Ottana tra le prime, quindi Porto Vesme e Porto Torres) e la bonifica integrale delle zone industriali, non rappresentano, oramai degli atti dovuti e delle scelte indilazionabili? Cosa ci proponiamo per il futuro dei piccoli comuni? Quale azione per verificare il significato e gli effetti dell’abnorme crescita di Cagliari e di Olbia, con la nuova spinta alla conurbazione delle coste, con lo spopolamento dei comuni dell’interno? Quale proposta per un futuro occupativo dei giovani dei paesi e delle città?
3). Le risorse locali – territoriali a vantaggio dei sardi. C’è l’urgenza di un protagonismo economico che ponga le risorse territoriali al centro della crescita: ambiente, turismo, agro-alimentazione, pastorizia, agricoltura, piccola industria, artigianato. E’ proprio il prodotto identitario che trova sbocco nel mercato mondiale.
L’eolico e il fotovoltaico sono in mano alle imprese multinazionali: alla Sardegna il degrado ambientale, i capitali a favore degli sfruttatori. Con la questione della Tirrenia permane e si aggrava la dipendenza nei trasporti.
Ma ciò che è più grave è la povertà delle risorse culturali: ultimi in Italia per livello di studio, con una grave dispersione scolastica e la crisi della scuola e dell’università.
E’ una debolezza che ci condanna sia nel campo di un moderno investimento delle risorse locali, sia per quanto riguarda gli investimenti tecnologici di imprese esterne. In questa prospettiva di crescita può darsi una risposta alla sfiducia dei giovani che non vedono orizzonti possibili e si adagiano in una condizione passiva.
Non è ormai urgente un confronto serio e propositivo che coinvolga le varie forze produttive, per dare loro uno spazio di parola e di progettualità, per formare soggettività che credono nel proprio ruolo? Non dovremmo rivalutare a fondo tutti coloro che, con il lavoro delle braccia e della mente, producono beni e ricchezza?
4). Mai come oggi nella realtà sarda è fondamentale il ruolo degli intellettuali. E’ necessaria una produzione culturale che riguardi l’economia e tutte le scienze umane e tecnologiche, riaffermando con fermezza l’importanza della lingua sarda nel processo della crescita. Una produzione culturale come produzione di senso, come informazione e formazione pubblica per una presa di coscienza. Produzione culturale come produzione materiale: scrittura, film, tv, teatro, musica, arti visive, che facciano da fermento per una presenza combattiva dell’opinione pubblica.
Oggi ogni produzione culturale è necessariamente produzione materiale e sociale, e viceversa.
Ogni prodotto materiale è un prodotto culturale: l’artigiano è un produttore di cultura materiale e simbolica. Si producono segni non oggetti, messaggi, non solo merce! Perciò la mobilitazione deve investire tutte le diverse attività produttive.
Non si impone forse un nuovo legame tra l’intellettualità delle città e quelle dei paesi, tra gli esperti dell’accademia e della scuola e le diffuse competenze, che riproponga il senso e il segno di un comune destino in questa Isola, con queste risorse umane ed economiche, con i doni della natura e quelli della nostra umanità? Non è forse giunto il tempo di fare il punto sul complessivo stato della cultura in Sardegna?
5). Noi tutti tocchiamo ogni giorno con mano i limiti della politica sarda, vediamo chiaramente che la Sardegna è abbandonata dallo Stato e mal governata. Ciò è dovuto alla modesta incidenza dei parlamentari sardi nel Governo e nel Parlamento italiano, nonché alla scarsa autorevolezza, anche personale, degli uomini politici sardi, sia nell’ambito dei diversi partiti, sia nei giuochi di potere. Per non parlare della debolezza politica della Giunta e del Consiglio regionale rispetto alle decisioni economiche e finanziarie del Governo centrale. Le responsabilità di questa situazione sono tante e vengono anche da lontano. Ma non ci interessa ora soffermarci sulle mancanze dei protagonisti della politica. Siamo pronti a riconoscere dei limiti al nostro non sufficiente operare. I discorsi che al momento ci appaiono pressanti sono i programmi e le azioni capaci di portarci al di là della presente situazione.
Potremmo porre ai Consiglieri regionali una domanda sul senso e le modalità del loro ruolo nella più importante istituzione della Sardegna. Dovremmo anche noi interrogarci se, in assenza della necessaria assunzione di impegno, non sia urgente un’azione che provenga dalla società, dalla cultura, dalle forze economiche e dagli enti locali per assumersi anche le responsabilità dolorose che una verificata insufficienza e latitanza delle rappresentanze istituzionali comporta.
Chiunque sia in grado di provare queste esigenze e di mettersi con noi in cammino sulla strada delle possibili soluzioni è un nostro compagno di viaggio. Ci incontreremo di nuovo a Seneghe, nella Casa Aragonese, sabato 21 maggio 2011, a partire dalle ore 9,30.
Sa die de sa Sardigna 2011
COMUNICATO STAMPA
Presso la Casa Aragonese del comune di Seneghe si svolgerà, sabato 21 maggio, un incontro e un dibattito sui temi più urgenti della Sardegna. Esso si pone in continuità con l’incontro del 25 marzo scorso, svolto anch’esso a Seneghe, che è stato ricco di elaborazioni storiche e di interferenze tra la ricorrenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e le questioni poste da sa Die de sa Sardigna. E’ nata così l'esigenza di proseguire la riflessione e di orientarla verso i temi più urgenti della realtà sarda nella prospettiva di approfondire l'analisi e di rinforzare sia la speranza progettuale e sia le proposte programmatiche.
In riferimento alla festa dei Sardi del 28 aprile, si è pensato di formulare cinque domande in analogia con le cinque domande rivolte al re nel 1793 che ha iniziato, per così dire, la fase vertenziale della Sardegna moderna.
Sono cinque domande che investono l'aspetto istituzionale, sociale, economico e culturale per come le questioni si presentano nell'attuale momento storico con i propri caratteri di urgenza.
Questione istituzionale che ci interroga sull'elaborazione dello statuto sardo e sulla forza contrattuale con lo Stato.
Questione sociale che pone il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile, lo spopolamento dei piccoli comuni dell'interno, la drammaticità della crisi industriale.
Una domanda fondamentale riguarda il modello di sviluppo: valorizzazione delle risorse locali, calcolato investimento nell’eolico e nel solare a beneficio dei sardi, questione dei trasporti che condiziona anche lo sviluppo turistico.
Come interrogarsi sul ruolo degli intellettuali come impegno sociale e come produzione culturale che investa l'economia e l'innovazione tecnologica delle forme produttive? E quale ruolo esercitano essi nella formazione dell'opinione pubblica e nella riformulazione radicale della scuola sarda?
La domanda conclusiva ci interroga tutti gli sulla qualità della politica sarda e sulla incidenza dei politici sardi nei confronti dello Stato a difesa degli interessi della Sardegna.
Queste sono le questioni che saranno introdotte da studi specifici e arricchite da molteplici contributi e da liberi interventi.
I sottoscritti si danno appuntamento a Seneghe, presso la Casa Aragonese del Comune, sabato 21 maggio 2011, alle ore 9,30. I cittadini sono invitati a ragionare e discutere con noi, in continuità con Sa die de sa Sardigna.
Firma: Bachisio Bandinu (antropologo, giornalista), Antonio Buluggiu (insegnante), Luciano Carta (storico, dirigente scolastico), Vittoria Casu (docente universitario, già consigliere regionale), Placido Cherchi (antropologo) , Alberto Contu (storico), Gianfranco Contu (storico) , Mario Cubeddu (storico, insegnante), Salvatore Cubeddu (sociologo), Giuseppe Doneddu (storico, docente universitario), Federico Francioni (storico, insegnante), Gianni Loy (docente universitario), Piero Marcialis (attore, insegnante), Piero Marras (cantautore,già consigliere regionale), Luciano Marrocu (storico, docente universitario), Alberto Merler (sociologo, docente universitario), Nicolò Migheli (sociologo), Maria Antonietta Mongiu (archeologo, insegnante, già assessore regionale), Giorgio Murgia (già consigliere regionale), Michela Murgia (scrittrice, insegnante), Paolo Mugoni (insegnante), Maria Lucia Piga (sociologo, docente universitario), Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore), Paolo Pillonca (giornalista, scrittore), Mario Puddu (insegnante, scrittore), Vindice Ribichesu (giornalista), Andrea Vargiu (docente universitario).
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