domenica 17 giugno 2012

Prof Paolo Savona: «L'euro? Una rovina per l'Italia: bisogna tornare alla vecchia lira»

di GIORGIO PISANO
www.unionesarda.it



Fuggire dall'euro. Quella del professor Paolo Savona è certamente una proposta-choc ma ben argomentata, seria, rigorosa, sofferta. Dice che è l'unica via di salvezza per l'Italia e gli italiani, compreso l'infernale futuro che nella primissima fase ci aspetterebbe. Sbaglia clamorosamente oppure ha ragione?

Gli ha risposto un boato di silenzio. A cominciare dal premier Mario Monti (che conosce molto bene) per proseguire con gli editorialisti più quotati e concludere con i leader di partito. Silenzio assoluto. E se fosse imbarazzo?
Aggiustandosi il pince-nez di tartaruga sul naso, Savona allarga le braccia e propone un sorriso vagamente afflitto. Detesta il melodramma, le parole forti, il vocabolario da mercato televisivo. «Perché non rispondono? Non so». Pur essendo uno dei più autorevoli economisti italiani, un made in Italy di garanzia in Europa e nel mondo, avverte da tempo un'arietta fetida. Parlare di ghettizzazione è probabilmente eccessivo ma di sicuro l'establishment lo snobba. Come mai? «Me lo sono chiesto tante volte. La sola risposta che riesco a darmi è che do fastidio per la mia insistenza a non tollerare che le cose vadano male. Mi giudicano, credo, incapace di adattarmi al sistema». Poco elastico. Insomma uno di quelli che in piena cerimonia di regime grida che il re è nudo.

Cagliaritano, 76 anni, due figli, Paolo Savona abita a Roma da mezzo secolo. Si definisce un emigrante di successo e confessa di aver mantenuto intatta la sua sarditudine. Fino a farla diventare protagonista nell'arredo delle sue due case, nella collezione di artisti sardi che mostra con soddisfazione insieme al debole - felice e conclamato - per le pietre sonore di Pinuccio Sciola. 
La sua carriera divora intere pagine di giornale: ha esordito in Bankitalia e da lì ha spiccato il volo. Docente universitario di Politica economica, co-fondatore della Luiss, ministro negli anni '90, presidente della Banca di Roma, di Impregilo, degli Aeroporti di Roma, vice dell'Aspen Institute e molto altro ancora. Studi e specializzazioni alla Federal Reserve di Washington. Su suggerimento di Francesco Cossiga, uno dei suoi due punti di riferimento (l'altro è Ugo La Malfa), ha riscritto il Piano di Rinascita della Sardegna, collaborato con giunte di centrodestra e centrosinistra. Racconta tuttavia che il suo incontro con la politica è stato «salvo eccezioni, deludente: molta impreparazione e troppa voglia di pensare solo a se stessi». 
Rifiuta l'etichetta di conservatore, giura d'avere «nel sangue» grande capacità reattiva e preferisce dirsi progressista anche se «questa definizione non coincide con la destra o la sinistra di oggi». È per questo che quando scrive sui giornali, lo ha fatto l'anno scorso sul Foglio annunciando la disfatta d'Italia, preferisce qualificarsi economista indipendente .

Abbiamo uno spaventoso debito pubblico: di chi è la colpa?«Ora è facile dare la colpa ai gruppi politici. L'indebitamento pubblico è stata una corrente di pensiero che ha investito l'Italia degli anni '70 e che ha trovato negli economisti il viatico per farlo».
I colpevoli, quindi, sono molti.«Ricordo un dibattito con tutti i numeri uno dell'economia italiana, Mario Monti compreso. L'unica controvoce sull'indebitamento è stata la mia. Avevo imparato sui libri che l'indebitamento non è altro che una tassa differita. Prima o poi si paga. Non lo dico io ma Ricardo, Inghilterra del diciottesimo secolo».
Gli economisti non lo sapevano?«Gli economisti hanno una grave responsabilità. Avevano deciso che il debito pubblico, in piena crisi petrolifera, era assolutamente sostenibile. Abbiamo visto i risultati».
Diciassette anni di governo Berlusconi hanno portato l'Italia allo sfascio?«Non do un giudizio così duro. La colpa di Berlusconi è che, investito di una carica fondamentale per lo sviluppo e il prestigio del Paese, ha avuto un atteggiamento troppo superficiale nei rapporti internazionali. C'è una frase di Giolitti, anno 1898, che sembra descrivere l'Italia di oggi: a riprova che la crisi parte da lontano».
Gli rimprovera la mancanza di requisiti per fare lo statista?«Non intendo dire questo. Il peccato originale di Berlusconi è politico: una coalizione con Fini da una parte e Bossi dall'altra non poteva funzionare. Il programma era giusto, l'elettorato gli ha dato fiducia ma lui non poteva in alcun modo realizzarlo».
Dicono che quello di Mario Monti sia un team di rianimazione. Giusto?«Magari fosse. Per la prima volta nella mia vita coltivo la speranza di avere torto, di sbagliarmi. Ma se io ho torto e Monti ragione, le cose nel Paese andrebbero diversamente. Il governo dei tecnici, e lo sono stato anch'io nella veste di ministro con Carlo Azeglio Ciampi, non funziona».
Perché?«Se funzionasse, vorrebbe dire che la gente ha perso fiducia nella democrazia elettiva. E sarebbe gravissimo. Se funzionasse, acquisirebbe in via definitiva fiducia nella tecnocrazia. E sarebbe terribile: è il popolo che deve decidere chi deve governarlo».
Stiamo a Monti: dove ha sbagliato?«C'è un problema che viene prima di lui: l'Europa che non funziona. E noi ci siamo legati, mani e piedi. In assenza di un'unione politica, quella monetaria non può andare avanti. Ci era rimasto un minimo di sovranità fiscale ma ci hanno levato anche quello».
Che significa?«L'Europa è un'unione monetaria ma non politica. Tanto è vero che gli inglesi si sono sfilati e conservano la loro sterlina».
D'accordo, ma l'errore di Monti?«Ha scelto la via della tassazione. Bisognava invece avviare la cessione del patrimonio pubblico, rotta che ha imboccato tardivamente e parzialmente solo ora. Speriamo che serva a contrastare la speculazione e a dare fiato a consumi e investimenti. È un bel pasticcio».
Di positivo, nulla?«Ha restituito l'immagine internazionale che Berlusconi aveva appannato».
L'Imu, come sostiene qualcuno, si poteva evitare?«Certo. Il gettito sulla prima casa è di cinque miliardi di euro, cifra che poteva essere recuperata cedendo patrimonio pubblico. Manterrei l'Imu su seconde e terze case ma sulla prima non ce n'era affatto bisogno».
Il 90 per cento della manovra-Monti colpisce pensionati e lavoratori dipendenti.«I pensionati non li ha colpiti, li colpirà. Questo per dire che la riforma era necessaria ma c'era tutto il tempo per studiarla più seriamente di come hanno fatto».
E il resto?«La scelta di tassare anziché cedere porzioni di patrimonio pubblico non è un disegno premeditato per colpire i poveri e favorire i ricchi. È semplicemente un modo sbagliato di gestire l'economia del Paese».
Intanto pagano i più poveri.«Come insegnava Guido Carli, non esiste tassazione che non colpisca anche i più piccoli. Ma, visto com'è stata congegnata, è evidente che la manovra venga percepita come socialmente ingiusta».
Ha detto che l'euro è un cappio al collo dell'Italia: perché?«Quando abbiamo creato l'euro, noi economisti sapevamo che avrebbe avuto conseguenze nei Paesi più deboli. È un sistema che funziona arricchendo sempre più chi va bene e impoverendo sempre più chi va male».
Allora?«Se l'euro fosse stato preceduto dall'unione politica, avremmo avuto un governo sovrannazionale che avrebbe dovuto occuparsi di tutti, compresi i più deboli. La sola unità monetaria non garantisce questa protezione, che è poi l'essenza della democrazia. Le cosiddette politiche compensative si sono rivelate insufficienti a sanare le disparità».
Le intenzioni erano diverse.«Lo so. Difatti il loro slogan era Money first , prima la moneta. Erano convinti che poi tutto si sarebbe aggiustato e l'unione politica sarebbe diventata l'ovvia conseguenza. Peccato che non sia andata così».
E ora?«Si tratta di decidere che fare. Avrebbero dovuto, come ho suggerito a Carli, stare fuori dall'euro e nel frattempo investire in cultura, cioè preparare gli italiani al grande salto verso la moneta unica. C'è chi dice che aspettando aspettando avremmo finito per non entrarci mai nell'euro. Beh, pazienza: significa che non era fatto per noi».
Oggi siamo vittime di decisioni che vengono prese sull'asse Berlino-Parigi.«Purtroppo sì. Abbiamo prestato il fianco aumentando il debito pubblico e rendendoci quindi vulnerabili. Il nostro è un sistema di piccole industrie, abbiamo necessità della flessibilità del cambio quando le cose vanno male».
Invece?«Pian piano la situazione è degenerata. Non solo: senza una vera politica di compensazione, non siamo in grado di attivare misure corrette per riprendere la rotta».
Tornerebbe alla lira, vero?«Primo: io non sarei entrato nell'euro. Secondo, sarei tornato alla lira l'anno scorso sulla scia del fallimento della Lehman brothers . La gente non ha capito la portata del disastro finanziario internazionale. Ci siamo comportati come se la faccenda non ci riguardasse».
E se fossimo usciti dall'euro?«Ma non eravamo affatto pronti per quello che io chiamo il piano B. Essere pronti significa innanzitutto che devi avere idee molto chiare, sapere ad esempio come riconvertire il debito pubblico, come trasformare le passività finanziarie del sistema e avere infine le alleanze internazionali giuste».
Sono stati compiuti errori strategici.«Certo. Che stiamo pagando ora. Mi rendo conto che sto salendo in cattedra, e non ne ho gran voglia. Vorrei fosse chiaro però che queste sono le cose che io penso, non necessariamente la verità».
Ci sono vantaggi immediati nel ritorno alla lira?«In questo momento, no. Ho fatto calcoli grossolani: ritengo che nella fase iniziale ci sarebbe un'inflazione del 30 per cento legata alla svalutazione euro-dollaro, crollerebbero le rendite dei titoli e si deprezzerebbe il resto. Oggi come oggi tornare alla lira sarebbe una soluzione disperata e molto rischiosa».
Sbagliato definire il sistema bancario un'associazione a delinquere legalizzata?«Fortemente sbagliato. Se stiamo al gioco delle accuse reciproche non salviamo nessuno. La responsabilità delle banche è una parte della responsabilità collettiva: che è della politica e di chi l'ha scelta (cioè degli elettori), degli economisti e delle imprese. Troppo facile sparare sulle banche dimenticando che finora sono riuscite a stare in piedi da sole, senza l'aiuto del governo».
Però si guardano bene dal sostenere gli investimenti.«Il capitale oggi rende due punti e mezzo, cioè meno di quanto non diano i titoli pubblici. Il governo chiede alle banche di assumersi più rischi ma le banche non possono farlo, sarebbe folle».
L'antipolitica è la conseguenza del crollo di fiducia nei partiti?«Dire antipolitica fa pensare che la politica, quella vera, non sia più amata da nessuno. Sbagliato. L'antipolitica è soltanto una reazione alla cattiva politica, un preciso messaggio che bisogna raccogliere».
Quale messaggio?«A differenza di altri Paesi, noi italiani abbiamo la curiosa abitudine che dopo ogni crisi le facce dei politici restano quelle di sempre, immutabili. Altrove succede esattamente il contrario: i partiti restano, i politici che hanno sbagliato se ne vanno».
Crescita. Arriverà?«Io batterei il pugno sul tavolo dell'Europa per liberarmi dalle strette fiscali imposte a Bruxelles. Lo scopo? Creare centomila posti di lavoro per i giovani. È l'unica strada, insieme alla cessione del patrimonio pubblico, che può farci arrivare, sia pure faticosamente, alla salvezza».
pisano@unionesarda.it

sabato 16 giugno 2012

SARDINYA: Sovranità, opera in Progres; «Ora atti concreti di autodeterminazione»


Esponenti del movimento in molte giunte: «Ora atti concreti di autodeterminazione»


Sovranità, opera in Progres

Indipendentisti alla prova di governo delle realtà locali
Giuseppe Meloni
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Adesso hanno la bicicletta. Gli indipendentisti volevano essere messi alla prova del governo locale: la prima occasione arriva dopo le elezioni amministrative. Specie per quelli di Progres-Progetu Republica, che piazzano alcuni eletti nei Comuni di seconda fascia (nelle grandi città l'appuntamento è ancora rimandato). E ora si candidano a ruoli di responsabilità nelle giunte.


GLI ELETTI
 Non sono grandi exploit, più che altro un'avanzata graduale. Progressiva, verrebbe da dire. Però riguarda un partito che fino a sedici mesi fa neppure esisteva. Due consiglieri eletti a Lanusei, nella lista del nuovo sindaco: uno è il leader di Progres, Salvatore Acampora, l'altro è Nadir Congiu. A Terralba c'è una performance personale clamorosa: Stefano Siddi, con 613 preferenze, è il più votato in assoluto tra i consiglieri eletti nei 62 Comuni che non andranno al ballottaggio. Solo ad Alghero qualcuno ha superato quella soglia, neppure sfiorata invece in centri come Oristano e Selargius: e dire che Terralba non arriva a 10mila elettori.
Nel centro dell'Oristanese, Progres dovrebbe avere addirittura due assessorati su quattro: oltre a Siddi toccherà anche ad Alessandro Murtas, che ha ottenuto 174 preferenze. La buona prestazione degli indipendentisti, nella lista del sindaco Pietro Paolo Piras, è completata dai 63 voti di Federico Putzolu.
C'è il marchio Progres a Oniferi, con Maurizio Caddori e Daniela Daga, mentre in liste civiche sparse qua e là ci sono nomi vicini al partito ma non ancora ufficialmente tesserati. E Frantziscu Sanna è il più votato di “Aristanis noa”, che a Oristano ha riunito le varie anime dell'indipendentismo fermandosi però poco oltre il 4 per cento.


LA RIVOLUZIONE 
È l'esito della svolta di un gruppo accusato, in passato, di essere troppo snob, non volendosi mescolare con altri partiti. Stavolta invece Progres non ha fatto liste in solitario, con propri candidati sindaci, ma ha disseminato i propri esponenti in progetti “civici” capaci di proporsi per amministrare le comunità locali.
In fondo è stata una presa d'atto di una realtà evidente: almeno per ora, l'indipendentismo di testimonianza da solo non vince. Omar Onnis, presidente del partito, la spiega così: «Noi non facciamo politica per il partito, ma per i sardi. Abbiamo scelto, scientemente, di partecipare come cittadini a progetti condivisi a vantaggio delle nostre città e dei nostri paesi».
Onnis parla di «contaminazione», ed è chiaro che contaminarsi comporta anche qualche problema. Per esempio le critiche per le intese con i partiti «italiani». «È proprio perché non crediamo all'indipendentismo settario», riflette il presidente di Progres: «Per cambiare la Sardegna bisogna partire dalle realtà locali. Vogliamo costruire pratiche di sovranità reale, per dimostrare che l'indipendentismo è in grado di assumersi responsabilità di governo e per creare la nuova classe dirigente che dovrà farsene carico».


LE PROPOSTE 
Aver partecipato «da cittadini» alle liste civiche non vuol dire, spiegano dal partito, che non si siano sviluppate linee comuni. «Tutti i candidati - precisa il segretario Acampora - hanno nei programmi gli incentivi per i prodotti a chilometri zero, a partire dalle mense scolastiche, in una filiera corta dell'agroalimentare; e poi l'esaltazione delle risorse storico-culturali dei territori, il turismo sostenibile, il plurilinguismo. Ora gli eletti, come primo atto concreto, proporranno il ritiro delle deleghe a Equitalia per il recupero dei crediti», altro impegno enunciato in campagna elettorale.
Ci sarà comunque un confronto continuo col partito tramite l'Istituzione nazionale sarda, cioè l'assemblea degli eletti di Progres. Che si affianca, nella non semplice articolazione interna, all'assemblea degli attivisti: questi ultimi sono 157 e a loro volta si distinguono dai circa 200 sostenitori perché hanno superato il percorso formativo che dà diritto a pagare i ben 60 euro dell'iscrizione («un modo per evitare che qualcuno compri pacchetti di tessere», spiega Acampora).
Regole bizzarre? Può darsi, ma Progres è un esperimento molto originale, quasi una democrazia diretta interna. Un po' la trasposizione politica dell'opera prima di un romanziere americano, Joshua Ferris, “E poi siamo arrivati alla fine”: scritta tutta alla prima persona plurale, con un “noi narrante” anziché un “io”. Anche Progres punta sul collettivo, in rifiuto del leaderismo: scommessa non facile da vincere, nel terzo millennio, e forse ancora più complicata da gestire dopo i successi elettorali. Ma hanno fortemente voluto la bicicletta, e sanno di dover pedalare assai.

mercoledì 13 giugno 2012

Sardinya: Michela Murgia «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»

Celestino Tabasso
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La scrittrice di Cabras racconta per Einaudi uno scorcio di infanzia sullo stagno «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»
 Michela Murgia e “L'incontro”, da oggi nelle librerie
Un'estate allo stagno. Tre preadolescenti che vanno, sotto il solleone di Cabras, alla scoperta dell'amicizia e dell'appartenenza a un gruppo, a un quartiere, a una parrocchia. A una comunità.
E intanto si divertono, scherzano e si spaventano come dei Tom Saywer aromatizzati alla bottarga.
Si intitola “L'incontro” (112 pagine, 10 euro) il libro di Michela Murgia che Einaudi manda oggi nelle librerie e che l'autrice presenterà venerdì a Cagliari insieme a Francesco Abate nella biblioteca provinciale di Monte Claro, «perché è giusto andare nelle biblioteche, che oggi vivono un pessimo momento».


Michela Murgia, abbiamo consumato ettari di carta e fontane d'inchiostro per raccontare al mondo che il sardo è un solitario, un individualista, e lei scrive un romanzo su un ragazzino isolano che scopre il fascino del pronome “noi”.«Quella dell'individualismo è una leggenda nera e falsissima: la cultura sarda è coesa e comunitaria. Certo, ci piace molto descriverci come degli orsi delle caverne, ma è l'opposto della realtà. Giusto per fare un esempio: in nessun'altra regione d'Italia esiste un'associazione di librai, categoria di “singoli” per eccellenza. A volte non ce ne rendiamo conto, ma da noi regna il presente plurale».


Che cosa è?«Un verbo specifico che ho inventato per indicare quel fenomeno tipicamente nostro... che so, mi fallisce l'azienda e dico:“Eh, noi sardi non siamo imprenditori”, litigo con qualcuno e commento: “ Siamo sempre i soliti, pocos, locos y malunidos”, Marco Carta vince a Sanremo e andiamo tutti in estasi per il nostro trionfo. Insomma: il disastro del singolo è un fallimento collettivo, e il successo del singolo è il riscatto di un popolo. Dopo che ho vinto il Campiello, per strada i lettori italiani mi dicevano “brava”, i sardi mi dicevano “grazie”».


E dopo aver scoperto il “noi”, i tre amici del racconto arrivano a definire il “loro”: gli altri, gli estranei. È una metafora della misteriosa e vessatissima questione dell'identità sarda? Il sardo che si definisce a contrario, in quanto non romano, non italiano?«Il punto è quello, ma non è in questi termini che lo porrei. È pacifico che il sardo non è romano né italiano. La categoria dell'alterità è chiara, perfettamente comprensibile. Il problema è quando l'altro viene da dentro, non da fuori. Alla fine del libro dichiaro il mio debito verso l'antropologo Benedetto Caltagirone per il suo “Identità sarde”. La sua inchiesta lo porta a girare per il Barigadu - e non a caso sceglie un'area meno definita, meno nitida della Barbagia o del Campidano - alla ricerca del Cab'e Susu, il Settentrione. Nel primo centro gli spiegano che per arrivare al Cab'e Susu deve andare pochi chilometri più a Nord: è lì che comincia quella famosa area. Ma una volta arrivato gli spiegano che il Cab'e Susu comincia un po' più su, deve salire ancora un po'. E va avanti così, all'inseguimento di questo Altrove che è sempre altrove, fino a quando una vecchia gli spiega con più precisione degli altri: il Cab'e Susu è dove noi non siamo . È da questa scintilla che nasce il mio racconto».


Il differenziarsi.«Sì. Dentro una comunità si può essere tutti diversi ma il confine, il distinguo, non si nota finché qualcuno non si incarica di evidenziarlo».


Nel libro non c'è solo un'analisi, metaforica, dell'identità sarda e dei meccanismi di circoscrizione di una comunità. Il suo libro per qualche pagina fa resuscitare gli acquisti fatti su Postal Market, il ghiacciolo Lemonissimo, la benda di Capitan Harlock... Sembrava impossibile avere nostalgia degli orridi anni Ottanta.«Sono stufa di sentir dire che gli Ottanta furono orridi: sono stati anni meravigliosi che oggi vengono ingiustamente criticati, perché tutti attribuiscono a quel periodo pecche e guai nati in altri momenti. Io chiedo ufficialmente il riscatto degli Anni Ottanta».


Vabbè. E comunque per essere un'autentica estate Anni Ottanta, manca un elemento fondamentale.«Sarebbe?».
La tivù.«Perché, lei nelle estati degli Anni Ottanta guardava la televisione?».


Non si usava?«Ma quando mai. L'estate '80 funzionava così: compiti fino alle tre, massimo tre e mezza, e poi via in strada. C'erano da organizzare gli agguati con le cerbottane, bisognava scegliere il posto sui gelsi per gli appostamenti... Aveva voglia Bimbumbam a trasmettere cartoni animati: eravamo noi, i cartoni animati, e non c'era Paolo Bonolis capace di tenerci in casa».


Si dice che per far funzionare un racconto vanno benissimo il sesso e/o la violenza. Ma anche i topi, un bel branco di topi in agguato nel buio, funzionano alla perfezione.«Non so. Di sicuro è stata un'esperienza molto forte da vivere, più che da raccontare. Ma non ho sviluppato la fobia, ed è già qualcosa».


“L'incontro” si legge di slancio. Significa che è stato laborioso scriverlo?«È stato così. Anche perché, come dire, questa storia ha una storia. La trama l'avevo in testa da molto tempo, e quando il Corriere della Sera, più o meno un anno fa, mi chiese un racconto per una collana di inediti decisi di raccontare le vicende di quell'estate. Il fatto è che una volta arrivata al numero di cartelle che mi chiedeva il Corriere, mi resi conto che non avevo né il tempo né lo spazio per raccontare molte delle cose che avevo in mente. A quel punto ho consegnato quel che avevo scritto, anche se a malincuore, ma ho tenuto i diritti e dopo averne parlato con Einaudi ho ripreso in mano il testo e in qualche settimana ho reso giustizia ai personaggi scomparsi nella prima versione».

lunedì 11 giugno 2012

Sardinya: Accordo Podda-Granarolo .. addio ad un'altra eccellenza sarda

Sa Defenza pubblica due articoli "sull'esproprio" di una un'altra azienda sarda: il gruppo Podda, azienda di qualità, fagocitata da una società emiliana il gruppo agro-industriale  Granarolo; 
stessa sorte  a quella del Banco di Sardegna già fagocitato  anni fa da un'altro gruppo emiliano il gruppo bancario: Banca Popolare Emilia Romagna.

Enrico Pilia
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Nasce una nuova società per la distribuzione dei formaggi realizzati a Sestu; 
Accordo Podda-Granarolo Latte, intesa commerciale con il colosso bolognese
Oggi alle 15, in uno studio legale al centro di Cagliari, la famiglia Podda e il direttore generale della Granarolo, Giampietro Corbari, si ritrovano per fondare una nuova società. Se l'accordo si dovesse chiudere positivamente, oggi sarà il primo giorno della Casearia Podda, la nuova compagnia del settore lattiero-caseario che sarà controllata al 65 per cento dalla Granarolo - il colosso nazionale del latte - e al 35 dalla Ferruccio Podda spa, la seconda società sarda del settore dopo la cooperativa di Arborea.
Nessuna cessione dell'azienda, nessun passaggio di consegne o di quote, tantomeno un passo indietro dei Podda: «Siamo felici per questa trattativa, pronti a firmare se riterremo che l'accordo sia vantaggioso per tutti», dice Sandro Podda, amministratore delegato della storica società del latte, nata nel 1952 grazie al padre Ferruccio. Quella piccola rivendita di latte sfuso oggi è un'azienda che fattura 15 milioni di euro, con una produzione di formaggi e un'elevata qualità dei prodotti che hanno suscitato l'interesse della Granarolo, che di milioni ne fattura 850 all'anno.

LE CRITICHE 
In un documento diffuso ieri pomeriggio, gli indipendentisti di A Manca hanno espresso forti critiche sull'accordo, chiamando in causa la classe politica che - secondo il testo diffuso via mail dal direttivo politico di A Manca - assiste senza muovere un dito allo shopping nell'Isola delle grandi compagnie nazionali: «Un colosso italiano dell'economia ci porta via uno dei prodotti di eccellenza della nostra economia».
Secondo Sandro Podda «niente di più sbagliato, la nostra azienda non perde pezzi né cede quote, l'accordo con Granarolo - se dovesse andare in porto - permetterà a noi di poter utilizzare nuovi canali commerciali e a loro di commercializzare il nostro formaggio pecorino, visto che oggi non è un prodotto che realizzano».

I DETTAGLI
 Ferruccio Podda e il figlio Sandro restano al comando della società sarda, mentre è proprio della “newco” Casearia Podda che si parlerà questo pomeriggio nell'incontro decisivo con il manager della Granarolo. Alla fine della cena, prevista in un ristorante di viale Regina Margherita, potrebbe esserci anche il brindisi alla neonata società. L'accordo commerciale prevede che l'immobile di Sestu rimanga alla famiglia Podda, che lo affitta nella nuova società. «La Granarolo non entra nella Ferruccio Podda». sottolinea l'amministratore delegato, «saranno i nostri prodotti a viaggiare di più». La produzione per “alimentare” il nuovo marchio cagliaritano spetterà ai Podda, mentre sarà la Granarolo a mettere a disposizione la sua imponente struttura logistica e le reti di distribuzione, sia per la Sardegna che per il resto d'Italia. La lettera d'intenti è stata già firmata, il faccia a faccia di oggi prelude a un'intesa storica.



GRANAROLO ACQUISISCE STABILIMENTI PODDA. ARBOREA SI ESPANDE. QUALI CONSIDERAZIONI?


Di Corda M. & Bomboi A. – Ass.ne U.R.N. Sardinnya.
http://www.sanatzione.eu/

Economia: 11 giugno, si chiude l’accordo Granarolo-Podda. La società italiana dovrebbe incorporare il 65% degli stabilimenti Podda SPA, lasciando ad Alessandro e Ferruccio Podda il 35% della seconda azienda lattiero-casearia dell’isola nata nel 1952.

La Podda conferirà la rete commerciale e di produzione alla Granarolo, mentre quest’ultima fornirà il servizio logistico e di distribuzione regionale all’impresa Sarda.

Partiamo da un presupposto, quando un’azienda locale diventa appetibile ad una più grande significa che ha ben operato e consolidato la propria rete commerciale nel territorio. I Podda hanno creato un eccellenza del settore che per qualità e fatturato (15 milioni di euro annui) si pone al secondo posto del mercato locale, dopo la 3A di Arborea.

Le fusioni e le acquisizioni vanno dunque valutate positivamente -a prescindere dalla nazionalità- quando puntano ad incrementare il proprio fatturato nel mercato (e possibilmente salvando tutti gli operatori coinvolti nella filiera). Ma una politica commerciale si valuta in base ai contenuti ed agli effetti che produce. Sotto questo punto di vista la linea dei Podda appare ben diversa dal gruppo 3A. Infatti, mentre la 3A nel 2012 ha avviato un piano di espansione commerciale nel nord Italia e quindi verso un nuovo mercato, i Podda hanno realizzato un accordo di segno inverso, perché sarà la Granarolo ad introdursi nel nostro mercato, con tutto ciò che consegue in termini di fatturato a vantaggio dei nuovi investitori italiani rispetto agli imprenditori Sardi.

Sarà inoltre opportuno valutare quali effetti avrà questo accordo nelle produzioni locali dell’ovicaprino, anche alla luce dell’acquisizione da parte del gruppo 3A di Arborea delle Fattorie Girau di San Gavino avvenuto a fine 2011, inedita partnership oltre il latte vaccino con le quali l’azienda arborense punta ad integrare il proprio fatturato annuo superando i 140 milioni di euro.

Quale politica commerciale si riserverà di adottare la Granarolo nei confronti dell’ovicaprino Sardo? E come intenderà porsi la Arborea nei confronti del colosso italiano appena entrato nel nostro mercato? Riteniamo sempre più attuale l’ipotesi di creare un Antitrust Sardo a garanzia della trasparenza, della libera concorrenza e della tutela degli operatori commerciali e degli utenti presenti sul territorio, al fine di evitare zone d’ombra che rischiano di danneggiare i generali interessi economici della Sardegna. Non è pensabile che il nostro sistema economico divenga preda di gruppi esterni senza trarne il minimo vantaggio in termini di espansione commerciale e solidità occupazionale. Elementi di cui la politica Sarda dovrebbe tenere conto in ragione del fatto che “essere italiani” per noi Sardi non significa nulla in termini di ricaduta economica per il territorio nel momento in cui il fatturato di un determinato settore esce dal nostro tessuto economico. Anche la zona franca avrebbe aiutato non poco.

Persino la 3A di Arborea, nonostante sia occupata ad espandere la sua penetrazione in nuovi mercati, risente dell’italianizzazione del suo brand rispetto al valore aggiunto della tipicità Sarda. Un esempio? Nella sua nuova politica commerciale, la Arborea non ha esaltato il “made in Sardinia” (peraltro inesistente sul piano formale), ma il “made in Italy”, e contrassegnando il suo restyling con il motto: “L’isola felice delle mucche”.

Chi ha illustrato il nuovo payoff aziendale? Luciano Negri, valido direttore di marketing ma che dimostra l’assenza di una imprenditorialità locale diffusa e dedita alla promozione del nostro valore aggiunto (anche in termini linguistici Sardi).
Naturalmente i responsabili di questo deficit di valorizzazione territoriale nel campo della formazione, del management e del marketing vanno ricercati nelle università Sarde, anzi, nelle università italiane di Sardegna.
L’assenza di una seria formazione territoriale è la punta dell’iceberg di un tessuto socioeconomico incapace di valorizzare e di incrementare l’efficacia della sua performance, consentendo dunque situazioni nelle quali l’imprenditore -in questo come in altri settori- non solo non è protagonista ma è subordinato al rango di chi è obbligato dal contesto ad accodarsi.

domenica 10 giugno 2012

SARDINYA: Maria Marongiu, Una vita per l'indipendentismo

Cristina Cossu
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 Maria Marongiu, titolare dell'Alfa editrice: vorrei rifare Sa Republica sarda 


 Una vita per l'indipendentismo 


«Per la lingua sarda servirebbe una battaglia unitaria»




Maria ha ricordi bellissimi e una missione: difendere l'identità del popolo sardo. Per quasi quarant'anni ha combattuto accanto al suo uomo, con le parole, gli scritti, le manifestazioni, il teatro, l'attività nelle scuole, i festival. 


Poi lui se n'è andato, abbattuto dal cancro, e lei ha continuato a lottare. «Perché non possiamo affrontare il futuro se non partiamo dalle radici». 


Porta avanti, praticamente da sola, l'Alfa editrice, da un ufficio pieno di carte e di quadri all'ingresso di Quartu, stampa i suoi libri a Ortacesus, «dove c'è una bella tipografia», sta pensando seriamente di rifondare, almeno on line, Sa Republica sarda , giornale bilingue uscito dal 1977 al 2009, che ha ospitato articoli di Francesco Masala e Ugo Dessy, Giovanni Lilliu e Eliseo Spiga. Punto di riferimento politico per le idee nazionalitarie e indipendentiste, strumento di denuncia contro il colonialismo e la globalizzazione, sostegno alla diffusione della lingua sarda e alle battaglie per le minoranze, l'autodeterminazione, i diritti civili, l'emarginazione. 


Maria Marongiu è nata a Osilo cinquantotto anni fa, ha tre figli, suo marito, Gianfranco Pinna, è morto nel 2003 e la guarda serio da una grande fotografia appesa alla parete. Vicino, un ritratto di Bettino Craxi. «Collaborava con noi, usava lo pseudonimo di Edmond Dantes. Nel '93 Gianfranco pubblicò una serie di pezzi critici sull'operato della magistratura, contattò l'ex leader socialista che, secondo lui, rappresentava il simbolo dell'accanimento moralizzatore e dello strapotere delle procure rosse. Forte di queste convinzioni, diede vita a numerose iniziative che miravano a sensibilizzare l'opinione pubblica e a riportare l'Italia sulla via della giustizia e della verità. Poi, per la scomparsa di Craxi, l'editoriale si intitolava: “Ucciso come Matteotti”, un crimine di Stato». Posizione discutibile, ma tant'è, devozione pura.


Gianfranco. Lo ha seguito sempre e in tutto.«Era un giornalista e un editore eccezionale. Ma sopra ogni altra cosa era un attivista, ribelle e libertario».


Come vi siete conosciuti?«A Sassari, grazie ad amici comuni. Io ero giovane, avevo 21 anni, lui dieci di più. Gravitava nell'area della sinistra, poi si è avvicinato al pensiero di Antonio Simon Mossa ed è rimasto folgorato. Ci siamo sposati poco dopo, a Nuoro, nella chiesetta dell'Ortobene, i testimoni di nozze erano Bainzu Piliu e Giannino Guiso. Avevamo chiesto una cerimonia in sardo, il vescovo non l'ha concessa e il parroco ha dovuto dire messa in italiano. Allora il sardo, ufficialmente, nelle scuole, era tabù, se non si era criminalizzati poco ci mancava»

E così avete fondato il mensile “Sardigna”.«Alla fine del '76 uscì il numero zero della rivista, diretta da Gianfranco Pintore. Fu il prologo di Sa Republica sarda , pubblicata dal maggio '77, il direttore era Gustavo Buratti, intellettuale democratico e sensibile. L'obiettivo era di radunare sotto la testata, personalità della cultura, della politica, dell'economia».


Poi vi siete trasferiti a sud.«Sì, perché avevamo problemi di tipografia. Qui abbiamo iniziato a stampare a Tutto quotidiano , la tiratura media era di duemila copie, ma in alcune occasioni siamo arrivati a quota centomila». 


A quel punto, a Cagliari, è nata la casa editrice Alfa.«Pubblicavamo anche periodici indipendentisti, Iskra , Boge , e libri, come ora. Tanti libri, tre, quattro all'anno, saggistica etnica, romanzi, volumi di storia, manuali per gli studenti».


Ci racconti la militanza politica.«Nel 1982 Gianfranco, con Angelo Caria, Giampiero Marras e Bore Ventroni, promosse a Bauladu la riunione di tutte le organizzazioni politico-culturali anticolonialiste, nazionalitarie e indipendentiste dell'Isola, dalla quale scaturì il movimento Sardinna e Libertade . Al congresso costitutivo c'erano Fabrizio De André e Simone De Beauvoir».


E oggi, quale indipendentismo? Lei per chi vota?«Io sono amica di tutti, purtroppo la nostra maledizione sta nel personalismo. Ho apprezzato per le comunali di Cagliari la candidatura a sindaco di Claudia Zuncheddu, mi piace Cappellacci quando fa la flotta sarda e la messa in mora dello Stato in lingua sarda, usate per la prima volta in una rivendicazione. Queste battaglie devono diventare patrimonio di tutti: per l'uso della lingua dobbiamo fare quello che abbiamo fatto per le servitù militari».


Vive bene a Quartu?Ci sono tante Quartu diverse. Purtroppo il vuoto culturale è desolante, un tempo il fermento esisteva. La città è ricca di tradizione e di feste meravigliose, eppure non si riesce a promuoverle. C'è una sola libreria e la biblioteca non è considerata un servizio essenziale».

Sardinya; Su matessi de Catalunya: «Indipendenza, non finisce qui Il popolo sardo si pronuncerà»


Giuseppe Meloni 
www.unionesarda.it



«Indipendenza, non finisce qui; Il popolo sardo si pronuncerà» 


Spunta l'idea di consultazioni autogestite come in Catalogna 


Sarà un referendum alla catalana (ma senza cipolla, a differenza dell'aragosta). 
Nonostante la bocciatura del quesito proposto da Doddore Meloni, gli indipendentisti non rinunciano a chiedere ai sardi di pronunciarsi sull'ipotesi di una repubblica autonoma nell'Isola.
 E contano di prendere ispirazione da quel che hanno fatto a Barcellona e dintorni: dei referendum autogestiti, non ufficiali, organizzati da forze politiche e attivisti per portare la popolazione a pronunciarsi in favore dell'indipendenza o contro. 


L'IDEA 
È l'intenzione annunciata dallo stesso Doddore Meloni subito dopo che l'Ufficio regionale per i referendum ha respinto la sua richiesta di una consultazione sull'argomento. Ed è anche l'idea, seppur ancora embrionale, di altri movimenti indipendentisti. «Il referendum, in un modo o nell'altro, si farà», prevede Omar Onnis, presidente di Progres-Progetu Republica. Ovviamente, un'iniziativa autogestita - avendo un valore puramente politico - avrebbe successo solo con una grande affluenza popolare. In Catalogna hanno fatto così, hanno messo su banchetti e urne artigianali e chiamato a raccolta i cittadini. I voti in favore dell'indipendenza hanno superato il 90%, ma a dare grande forza alle consultazioni è stata la partecipazione straordinaria. Anche nell'Isola, una mobilitazione limitata a pochi manipoli di attivisti resterebbe velleitaria. Altro impatto avrebbe una folla in fila ai seggi. 


SENTIMENTI DIFFUSI 
Da questo punto di vista, Onnis è ottimista: «C'è forte interesse per questo tema. Lo dimostrano il recente sondaggio dell'Università di Cagliari, le 30mila firme raccolte dal Fiocco verde su una proposta di sovranità fiscale, e la stessa iniziativa di Doddore». Progres aveva espresso dubbi sull'opportunità della scelta di Maluentu, «ma la bocciatura di quel referendum - riflette il presidente - è opinabile anche sotto il profilo giuridico. Lo stesso Ufficio regionale non aveva obiettato alcunché ai dieci quesiti per cui si è votato un mese fa, eppure alcuni aprivano forti dubbi di legittimità: come quello contro le Province storiche previste dalla Costituzione e dallo Statuto speciale». L'ipotesi di referendum autogestiti sarà presto valutata dalle varie forze indipendentiste: «Ancora nulla di definito», precisa Onnis. «Comunque se i sardi vorranno l'indipendenza, prima o poi ci arriveranno, a meno che non siano bloccati con la repressione. La comunità internazionale riconosce il diritto ad autodeterminarsi». 


«SERVE UN PROGETTO» 
Qualche dubbio in più da parte di Salvatore Melis, segretario dei Rossomori: «Non crediamo all'indipendenza fatta coi colpi di mano. Non abbiamo firmato il referendum di Doddore perché riteniamo che, prima, vada costruito un progetto politico-istituzionale». A partire da atti di governo concreti: «Molti strumenti già sanciti dallo Statuto speciale», riprende, «come le zone franche e non solo, non sono stati mai attuati e non per colpa dello Stato, ma per nostre incapacità. Iniziamo ad appropriarci delle competenze su scuola ed energia, o di quelle dell'Anas, che assurdamente gestisce soldi regionali». 


«LIBERTÀ VIGILATA» 
Invece Claudia Zuncheddu (Sardegna libera) è d'accordo con chi guarda alla Catalogna o alla Scozia: «Il processo di condivisione sui temi dell'autogoverno e dell'indipendenza è democratico e popolare, comporta un ampio coinvolgimento di coscienze, persone e organizzazioni che promuovano una trasformazione culturale e politica». Ma la bocciatura del referendum di Maluentu «rappresenta un gravissimo attacco al diritto di espressione dei cittadini sardi. È una situazione di libertà limitata e vigilata». Anche dalla Zuncheddu arriva un richiamo al «diritto internazionale all'autodeterminazione. Di fronte alla crisi economica che vede la Sardegna sempre più piegata, impoverita e vilipesa, la classe politica italiana dimostra di aver paura che noi sardi possiamo fare a meno dell'Italia e autogestire le nostre risorse, creando benessere e prosperità per famiglie e imprese».

sabato 9 giugno 2012

Rivoluzione d'ISLANDA a RE-AZIONE


ISLANDA
By Deena StrykerDaily Kos
http://www.dadychery.org/2011/12/18/iceland-ongoing-revolution/



"Ci hanno detto che se abbiamo rifiutato le condizioni della comunità internazionale, si sarebbe divenuti la Cuba del Nord. Ma se avessimo accettato, ci sarebbe diventati la Haiti del Nord. "

Bandiere del Che e l'Islanda a proteste anti-austerity.

La storia di un programma radiofonico italiano, sulla rivoluzione in corso l'Islanda è un meraviglioso esempio di quanto poco i nostri media ci racconta il resto del mondo. 


Gli americani possono ricordare che all'inizio della crisi finanziaria del 2008, l'Islanda è andata letteralmente in bancarotta. I motivi sono stati citati solo di sfuggita, e da allora, questo poco conosciuto membro dell'Unione europea ricadde nel dimenticatoio. 


Da quattro anni in Islanda - quell’isola glaciale attribuita all’Europa, che riposa in mezzo all’Atlantico del Nord, con appena 300.000 abitanti - succedono cose interessanti e nuove che non appaiono sui media corporativi dell’Occidente, confermando la manipolazione inesorabile di cui l’umanità è oggetto per il controllo che, sui mezzi di stampa mondiali, esercitano la super-potenza e le oligarchie ad essa legate. 


 In Islanda non ha avuto luogo una rivoluzione sociale, ma è successo qualcosa di quasi altrettanto grave per l’alta gerarchia della finanza: una rivoluzione contro la tirannia delle banche capitaliste in un mondo globalizzato con radici che portano inesorabilmente a Wall Street. 


 Anche se, grazie alle sue centrali geotermiche, l’Islanda gode di grande indipendenza energetica, il paese dispone di scarse risorse naturali e la sua economia, dipendente per un 40% dalle esportazioni della pesca, è per questo molto vulnerabile. 


Come gli altri paesi europei, si era indebitata con la speculazione bancaria per vivere al di sopra delle sue possibilità reali nel sistema finanziario neoliberista spinto dagli Stati Uniti, ai quali ora l’economia reale sta presentando il conto 


Per far fronte agli effetti di una crisi devastatrice, quattro anni fa il suo governo nazionalizzò le principali banche del paese e, per rappresaglia, Londra congelò tutti gli attivi di 300.000 clienti britannici e 910 milioni di euro investiti nelle banche islandesi da amministrazioni locali e enti pubblici del Regno Unito. 


L’isola dovette investire 3.700 milioni di euro di denaro pubblico per rimborsare quei clienti. Con un debito bancario islandese equivalente a parecchie volte il suo PIL, la moneta perse valore, la Borsa sospese le sue attività e il paese andò in bancarotta. Proteste di massa davanti al Parlamento a Reykjavik, la capitale islandese, obbligarono nel 2009 a convocare elezioni anticipate che, a loro volta, provocarono le dimissioni del Primo Ministro conservatore e di tutto il suo governo in blocco. 


Un progetto di legge, ampiamente dibattuto in parlamento, ipotizzava di scaricare su tutti i cittadini dell’isola il rimborso alle banche britanniche e danesi del debito di 3.500 milioni di euro, che avrebbero dovuto essere pagati mensilmente per i prossimi 15 anni. La popolazione scese nelle strade chiedendo di sottoporre a referendum tale legge. 


Il Presidente non lo accettò e non la ratificò, nonostante che il progetto contasse su 44 dei 66 voti in Parlamento. Venne convocato il referendum e il NO al pagamento ottenne il 93% dei voti. 


Davanti ad una tale vittoria della rivoluziona pecifica islandese, il Fondo Monetario Internazionale congelò ogni aiuto all’Islanda finchè non si fosse risolto il problema del pagamento del debito. 


 Il governo dispose un’inchiesta per accertare le responsabilità della crisi e cominciarono gli arresti dei banchieri e degli alti dirigenti. L’Interpol emise un ordine di cattura e tutti i banchieri implicati abbandonarono il paese. 


In questo contesto viene eletta un’assemblea per redarre una nuova Costituzione, che raccolga le lezioni apprese dalla crisi e che sostituisca quella attuale. Per questo si ricorre direttamente al popolo sovrano, rappresentato da 25 cittadini senza affiliazione politica eletti tra 522 candidati proposti. 


L’assemblea costituente lavora dal febbraio 2011 ad un progetto di Charta Magna a partire dalle raccomandazioni raggiunte in varie assemblee celebrate in tutto il paese. Il progetto dovrà poi essere approvato dal Parlamento attuale e da quello che si costituirà dopo le prossime elezioni legislative. 


 La ripresa economica sperimentata dall’isola dopo essersi liberata dal carico parassitario del debito con le banche viene vista dalle cupole capitlistiche europee come un esempio pericoloso per paesi chiamati “morosi” come la Grecia e l’Irlanda. 


Soprattutto perchè i recenti successi che l’Islanda ha avuto hanno portato molti economisti a ritenere che sia stato proprio il collasso delle banche ciò che più ha favorito tali successi. Non solo perchè l’economia islandese non è crollata con la soluzione alla crisi del non pagamento del debito, ma perchè il 2011 si è chiuso con una crescita del 2,1% che diventerà dell’1,5% nel 2012, cifra che triplica quella dei paesi della zona euro. 


Gran parte di questa crescita si basa su incrementi produttivi, principalmente nel settore turistico e nell’industria della pesca. Ciò contrasta con il quadro che mostrano altre economie europee, rallentate o in declino. 


L’Islanda ha dimostrato che, con il recupero della sua sovranità, giustizia e dignità sono andate di pari passo. Politici e banchieri corrotti sono stati processati. E, quale riaffermazione della sua indipendenza, l’Islanda è diventata – lo scorso ottobre – il primo paese europeo a riconoscere la Palestina come nazione indipendente, qualcosa che nessun paese sottomesso al giogo della banca internazionale capitalista ha potuto fare.

Bustianu Cumpostu: «Non era il momento giusto»

Bepi Anziani
www.unionesarda.it


Per il leader di Sni, Bustianu Cumpostu, l'iniziativa referendaria era prematura «Non era il momento giusto» 
 Ma per Sardigna Natzione è l'ennesimo sopruso ai sardi
«L'indipendentismo sta diventando un concetto collettivo, un qualcosa di accettabile. Ora è il momento di fare un salto in avanti e farlo diventare un concetto delegabile, la vera alternativa ai partiti italiani». Bustianu Cumpostu ha appena lasciato la scuola nuorese dove insegna ed era impegnato nei primi scrutini di fine anno ma si ferma senza indugio a parlare di Sardegna, indipendentismo, zona franca e della dichiarazione di non ammissibilità della proposta di referendum della Repubblica di Malu Entu da parte dell'ufficio regionale.
«Noi non eravamo d'accordo con Doddore Meloni -dice il leader di Sardigna Natzione - non nella sostanza naturalmente ma perché non era il momento per proporre il quesito referendario. L'indipendenza è un lavoro collettivo, dove è necessario il coinvolgimento di tutto il popolo sardo. L'iniziativa di Doddore ci è sembrata pericolosa per l'indipendentismo, sbagliata nella forma e nei tempi».
Quindi alla fine è meglio che l'iniziativa non sia andata avanti...«Non dico questo. Dico solo che oggi non si poteva aspirare a raggiungere il risultato sperato che è poi quello di allargare la schiera di coloro che ci credono. Ciò non toglie che la mancata ammissibilità del referendum sia l'ennesimo sopruso dello stato italiano nei confronti del popolo sardo che non è nemmeno libero di esprimere un parere su un tema così importante».
Come è possibile oggi immaginare di conquistare per la Sardegna l'indipendenza dall'Italia?«È possibile solo attraverso quella grande invenzione che si chiama Europa. I sardi non devono trattare con l'Italia, ma porsi come interlocutori delle altre nazioni europee. Tutto ciò che un tempo era guerra oggi è politica. Tutto ciò che prima si conquistava in battaglia oggi si conquista attraverso la possibilità data al popolo di esprimersi tramite i suoi rappresentanti nelle istituzioni. La Sardegna è più Europa che non Italia. L'Italia è per noi una gabbia che ci separa dall'Europa e dal Mondo. L'indipendenza della Sardegna non arriverà da una contrattazione con l'Italia. L'Europa deve portare la questione delle nazioni senza stato sullo stesso tavolo dove si risolvono pacificamente le questioni tra stati-nazione».
«Se si vuole costruire un'Europa moderna» riprende Cumpostu, «basata sulla libera adesione e condivisione dei popoli che ne fanno parte sarà necessario riconoscere le rivendicazioni d'indipendenza delle nazioni senza stato e riconoscere loro una soggettività indipendente».
Ma se la politica non è stata capace nemmeno di mettere in piedi un modello di zona franca o di vantaggi fiscali per la Sardegna come è possibile che ora possa favorire una spinta indipendentista?«Guardi, io penso che un modello tradizionale di zona franca applicato dallo stato italiano alla Sardegna possa essere addirittura improduttivo per il nostro popolo. Noi siamo più per un sistema misto di zona franca e punti franchi attraverso il quale possano essere superate le molte disparità che esistono fra la Sardegna e l'Italia e fra le diverse zone della Sardegna. Un punto franco in una zona agricola dell'interno porterebbe una fiscalità di vantaggio enorme. Pensate se potesse produrre esclusivamente per l'industria turistica costiera. Quel poco di ricchezza che esiste nell'isola è concentrato vicino al mare. Le zone dell'interno devono quindi essere aiutate a superare questo gap con l'introduzione di uno strumento come il punto franco».
Una battaglia per la quale l'appoggio del Consiglio regionale e della Giunta sarebbe indispensabile.«Sì. Ma non ci possiamo contare troppo. Noi con la Regione abbiamo solo rapporti di carattere istituzionale. Abbiamo avuto piacere che il presidente Cappellacci abbia condiviso con noi la battaglia per il referendum sul nucleare ma per il resto non ci sentiamo coinvolti. Per noi che alla guida della Regione ci sia il centro destra o il centro sinistra è assolutamente indifferente. L'indipendentismo non può essere che laico, qualsiasi forma di indipendentismo confessionale è incompatibile con gli interessi della nazione che dell'indipendentismo vuole fare strumento di liberazione nazionale».
Di conseguenza siete anche indifferenti al dibattito di questi giorni in Consiglio regionale che vede duramente contrapposte le diverse anime del Pdl ed il Presidente Cappellacci?«È un teatrino. Tentano di far cadere la giunta Cappellacci per poter votare ancora con la legge elettorale in vigore, in modo da non perdere nessuno dei privilegi legati al vecchio schema a cominciare dalla spartizione delle poltrone».

Commenti :
ProgReS

«Allarme democratico nell'Isola»

La bocciatura del referendum di Maluentu è «negativa», e «deve suscitare un allarme democratico nei sardi». È la posizione di Progres, che pure aveva «a suo tempo espresso dubbi sull'opportunità» dell'iniziativa, ma aveva anche «preso atto con soddisfazione della riuscita della raccolta firme. Preoccupa la denegata democrazia da parte dell'Ufficio dei referendum, che ha agito in termini politici».


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