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E’ in libreria “Fuori da questa crisi, adesso!”. In questo libro fresco di stampa per Garzanti, Paul Krugman, premio Nobel per l’economia 2008 e docente a Princeton, illustra in modo chiaro e conciso cosa sta andando storto nell’interpretazione e nella gestione della crisi economica che sta colpendo USA ed Europa (due crisi con cause diverse ma di natura simile) e cosa a suo avviso si dovrebbe fare per porre fine subito alla deriva economica a cui ci stiamo abbandonando a forza di false interpretazioni (eccesso di debito pubblico) e conseguenti false ricette (austerità fiscale).
Lucido e indipendente come pochi suoi colleghi, Krugman riconosce i limiti propri dell’economia (disciplina che non ha la possibilità di verificare le sue teorie con approccio sperimentale) che stanno alla base dell’opinabilità delle affermazioni di ciascun economista.
Quando le opinioni diventano dogmi e chi sta nella posizione di decidere li prende per buoni, finiamo in situazioni come quella attuale in cui un approccio “moralistico”, come lo definisce lo stesso Krugman, porta a vedere come giusto imporre rigore e sofferenza a chi ha sbagliato in passato indebitandosi oltre le proprie capacità. L’esempio più lampante è la Grecia, ma anche noi italiani inizieremo presto ad essere altrettanto bersagliati se non cambia qualcosa a livello europeo. Questo genere di politiche impedisce al motore dell’economia di riavviarsi e di rendere quindi i debiti ripagabili attraverso la produzione ed il lavoro.
L’aver spostato l’attenzione dalla disoccupazione all’ordine dei conti pubblici è per Krugman il peccato originale da cui dobbiamo liberarci quanto prima: ogni giorno che passa, la crisi è più difficile da invertire.
In definitiva, questo libro merita di essere letto e diffuso il più possibile in un momento come questo in cui è molto importante che i cittadini siano informati e proattivi nel richiedere le politiche più giuste per tutti e non solo per alcuni (da Liquida del 6 luglio).
Ecco ora la presentazione del libro pubblicata sul retro della copertina.
La Grande Recessione è iniziata nel 2008 negli Stati Uniti. Ha immediatamente contagiato l’economia mondiale e continua ad aggravarsi. Tra fatalismo e paura, aspettiamo l’evolvere degli eventi - verso il peggio, ci assicurano gli esperti. Ma come siamo finiti in questo vicolo cieco? E perché, chiede Krugman, “i cittadini dei paesi più avanzati del mondo, paesi ricchi di risorse, talenti e competenze - gli ingredienti che assicurano prosperità e un tenore di vita dignitoso per tutti - stanno ancora soffrendo”? Con l’abituale lucidità e forza polemica, il Premio Nobel per l’Economia individua le origini della crisi finanziaria, economica e politica che stiamo attraversando. E spiega quale strada dobbiamo intraprendere per superare le attuali difficoltà. “Fuori da questa crisi, adesso!” si rivolge prima di tutto a chi sta soffrendo di più: a chi ha perso il lavoro e a chi non lo trova, soprattutto i giovani che rischiano di pagare più di tutti, oggi e nel futuro. Per Krugman, la soluzione per uscire dalla Grande Recessione esiste ed è a portata di mano: ma è necessario che i nostri leader politici trovino la lucidità intellettuale e la determinazione necessarie.
Infine un approfondimento da Economia&Finanze del 26 maggio scorso, dove compare un’intervista di Federico Rampini al premio Nobel diventato un “guru” per la nuova sinistra americana.
”Calma, calma, sono solo un economista”. Paul Krugman è divertito, un po’ imbarazzato, ma anche abituato: una sua apparizione in pubblico a New York suscita le ovazioni e urla di approvazione degne di una rockstar.
La scena si ripete quando sale sul placoscenico del centro culturale 92Y sulla Lexington Avenue per discutere il suo nuovo libro. Ressa da stadio, folla in delirio. In fondo il tifo popolare se l’è meritato, questo premio Nobel dell’economia trasformatosi in opinionista del New York Times (e Repubblica), censore dei tecnocrati dell’eurozona, keynesiano a oltranza, guru della nuova sinistra americana. Si è conquistato questa “base di massa” perché osa spingersi dove altri non vanno.
Il suo blog è uno strumento di battaglia politica contro l’egemonia culturale della destra. Il suo nuovo libro, nell’edizione americana promette o intima “Fuori da questa depressione, subito!”. Depressione? Addirittura? L’editore italiano Garzanti, che lo pubblica a fine mese, non se l’è sentita di usare un termine che evoca gli anni Trenta, le code dei disoccupati alle mense dei poveri, il nazifascismo. E così il titolo italiano suona un po’ più tradizionale: “Fuori da questa crisi, adesso”.
Perché Krugman non esita invece a usare un termine ben più drammatico? “Quella che attraversiamo - risponde - la chiamo la Depressione Minore, per distinguerla dagli anni Trenta. La differenza è meno sostanziale di quanto si creda. Anche allora ci fu una prima recessione, poi una ripresa inadeguata, poi la ricaduta. I tassi di disoccupazione reali di cui soffriamo non sono tanto inferiori a quelli di allora. E se guardiamo al numero di disoccupati a lungo termine, che qui in America restano oltre i 4 milioni, siamo proprio a livelli da anni Trenta”.
Il messaggio che questo libro martella con insistenza è che il male va combattuto, oggi come allora, con un deciso intervento statale. “Abbiamo bisogno che i nostri governi spendano di più, non di meno - sintetizza il 59enne docente alla Princeton University - perché quando la domanda privata è insufficiente, questa è l’unica soluzione. Assumere insegnanti. Costruire infrastrutture. Fare quello che fu fatto con la seconda guerra mondiale, possibilmente scegliendo spese utili”.
Quell’avverbio “subito” che tuona nel titolo del suo libro, Krugman lo esplicita senza esitazioni: se l’Occidente applicasse la ricetta giusta, potremmo essere fuori da questa crisi in 18 mesi. Un anno e mezzo! Attenzione: questa non è una promessa da comizio elettorale. Il bello di Krugman, quello che ti affascina nel personaggio, è l’impegno con cui tiene insieme il suo “ruolo pubblico”, di opinionista schierato e aggressivo, con il rigore scientifico del teorico che macina grafici e statistiche come un computer. Capace di passare dall’uno all’altro in pochi istanti, per rispondere all’obiezione politica principale: la sua ricetta oggi appare inascoltata, inapplicabile, impraticabile, perché siamo terrorizzati dal livello del debito pubblico.
Non è solo un problema europeo. Anche qui negli Stati Uniti 15.300 miliardi di dollari di debiti, quasi il 100% del Pil, sembrano un ostacolo insormontabile per la sua terapia keynesiana. “Falso, falso - risponde secco - anzitutto dal punto di vista storico. In passato gli Stati Uniti ebbero un debito ancora superiore, durante le seconda guerra mondiale; la Gran Bretagna per quasi un secolo. Il Giappone ha tuttora un debito statale molto più elevato in percentuale del suo Pil eppure paga interessi dello 0,9% sui suoi buoni del Tesoro. Quindi non esistono soglie di insostenibilità come quelle che ci vengono propagandate. Inoltre è dimostrato, e lo vediamo accadere sotto i nostri occhi, che in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema: accentuano la recessione, di conseguenza cade il gettito fiscale, così in seguito ai tagli il debito aumenta anziché diminuire”.
Resta però il problema politico, e non solo in Europa dove c’è un ostacolo che si chiama Angela Merkel. Anche qui, Barack Obama non ha osato sfidare i repubblicani con una seconda manovra di spesa pubblica anti-crisi. “Anzitutto perché all’inizio Obama sottovalutò la gravità di questa crisi - risponde Krugman - mentre adesso sta cambiando posizione. Il fatto è che a lui conviene battersi fino in fondo per le sue idee, tenere duro, non cercare compromessi. Se Obama vince a novembre, io credo che governerà meglio nel suo secondo mandato”.
Un’altra obiezione frequente alla sua ricetta keynesiana, riguarda la qualità, l’efficacia, la rapidità della spesa pubblica. La macchina burocratica è spesso inefficiente, non solo nell’Europa mediterranea ma anche qui negli Stati Uniti. Krugman ha una risposta anche a questo. “La prima cosa da fare - spiega - è cancellare l’effetto distruttivo dei tagli di spesa. Per esempio, qui negli Stati Uniti, bisogna cominciare col ri-assumere le migliaia di insegnanti licenziati a livello locale. Queste sono manovre di spesa dagli effetti istantanei. In Europa, la manovra equivalente è restituire le prestazioni del Welfare State che sono state ingiustamente tagliate”.
Veniamo dunque al malato più grave del momento: l’eurozona. A questo paziente in coma, Krugman sta dedicando un’attenzione smisurata. Spesso i suoi editoriali sul New York Times sono duri attacchi all’austerity d’impronta germanica, appelli ai dirigenti europei perché rinsaviscano prima che sia troppo tardi. “Guardate cos’è accaduto all’Irlanda - dice - cioè a un paese che si può considerare l’allievo modello, il più virtuoso nell’applicare le ricette dell’austerity volute dal governo tedesco. L’Irlanda ha avuto una finta ripresa e poi è ricaduta nella recessione. All’estremo opposto ci sono quei paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, e così hanno evitato la crisi”.
Krugman considera probabile l’uscita della Grecia dall’euro, ma lo preoccupa di più il “dopo”. Denuncia il rischio di un “effetto-domino, se la Germania non cambia strada”. Avverte che le conseguenze di una disintegrazione dell’Unione “sarebbero perfino più gravi sul piano politico che su quello economico”. I suoi modelli, oltre ai paesi asiatici, sono la Svezia e perfino la piccola Islanda: “Perché dopo la bancarotta ha avuto il coraggio di cancellare tutti i propri debiti con le banche, negare i rimborsi, ed è ripartita dopo una svalutazione massiccia”.
Uno schiaffo nei confronti della finanza globale, che il premio Nobel considera legittimo e benefico (per l’Islanda). E su questo conclude toccando una questione scottante: perché anche la sinistra quando va al potere diventa succube dei banchieri? Perché Obama all’inizio del suo primo mandato nominò così tanti consiglieri legati a Wall Street? La risposta di Krugman è fulminante: “Perché danno la sensazione di sapere. Sono davvero impressionanti, quelli di Wall Street: danno a intendere di capirne qualcosa, anche dopo avere distrutto il mondo, o quasi”.
Qualcuno già punta su Krugman come prossimo segretario al Tesoro, se Obama viene rieletto a novembre. “Si vede che non hanno mai visto il caos che regna sulla mia scrivania e nel mio ufficio”, scherza l’economista più influente e controverso d’America. Poi chiude: “A me piace il mio ruolo attuale, che definirei così: il castigatore delle idee sbagliate”.
La proposta di Krugman per uscire dalla crisi è realmente di sinistra?
29 Ottobre 2012
Gianfranco Sabattini
Abbiamo chiesto al Prof. Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano, un’opinione sulla formula del Nobel Krugman per uscire dalla crisi, esposta nel suo recente libro, di cui abbiamo pubblicato una recensione sabato. Ecco le considerazioni dell’economista sardo.
La tesi che Krugman sostiene nel suo ultimo libro (Fuori da questa crisi, adesso!) è antica; per come la ripropone ha il difetto di essere insufficientemente contestualizzata. La tesi com’è noto è di derivazione keynesiana e la sua validità sul piano della politica economica ben si adattava alle condizioni del tempo e al perseguimento dell’obiettivo per cui era stata formulata. Inoltre, Keynes era un liberal nel senso anglosassone, per cui a ragione, considerate le implicazioni anti-crisi della sua famosa “Teoria”, poteva essere ritenuto un “liberal di sinistra”. Questa qualifica, dal punto di vista della tradizione dell’Europa continentale, può essere estesa anche a Krugman? Per rispondere non è sufficiente condividere la proposta antidepressiva del premio Nobel, solo perché nell’immediato è percepita a supporto dell’alleggerimento delle condizioni di vita di chi sta peggio e, in particolare, del suo possibile contributo alla “lotta” contro la disoccupazione. Occorre anche e soprattutto entrare nel merito riguardo al modo in cui Krugman la giustifica.
Sin dall’Introduzione al libro, l’ecomista di Princeton “scopre le carte”, mettendo in chiaro i limiti istituzionali e temporali del suo discorso; egli non intende mettere in discussione il modo capitalistico di produrre e non considera affatto, come non dovrebbe fare un’opinion leader meritevole d’essere considerato “di sinistra”, il problema del come evitare che in futuro possano verificarsi altre crisi sistemiche del tipo di quelle da lui paradigmaticamente indicate (La Grande Depressione del 1929-1932 e quella attuale che ha preso il via negli USA nel 2007-2008 con la crisi dei mutui subprime).
Krugman non si chiede come sia potuta accadere la “catastrofe attuale; si chiede invece cosa si possa fare adesso, dato che al presente la terapia costituisce l’aspetto che maggiormente preoccupa: la ripresa perciò deve essere la priorità numero uno.
Per Krugman, sfortunatamente, molte persone che contano hanno scelto di dimenticare le lezioni della storia e le conclusioni di un’analisi economica ormai consolidata; queste persone, con comodi pregiudizi ideologici e politici, avrebbero dimenticato il dettato di Keynes: “l’austerità va praticata nella fase di espansione, non in quella di crisi”. Nella fase attuale, invece, sono adottate politiche di austerità che distruggono posti di lavoro e impongono sacrifici inutili.
La disoccupazione è alta e la produzione è così bassa, afferma Krugman, perché le imprese ed i governi nel loro insieme non spendono abbastanza; si può pertanto uscire da questa situazione incrementando l’offerta monetaria, per ridare così lavoro ai disoccupati. Operando in questo modo si è sempre usciti dalle crisi depressive; questa volta però l’offerta di moneta non funziona, a causa del persistere della “trappola della liquidità”, che impedisce alle misure antidepressive di risultare efficaci perché, nonostante l’alta disponibilità di mezzi monetari, la domanda complessiva resta bassa.
Per uscire dalla crisi occorre allora un rilancio della spesa pubblica per stimolare le imprese ed il pubblico ad indebitarsi, approfittando della larga disponibilità finanziaria che rende possibile un’alta propensione da parte del sistema delle banche a concedere credito. Per Krugman, l’idebitamento non rende più povero un sistema sociale nel suo complesso, in quanto il debito di uno non è altro che il credito di un altro, per cui la ricchezza totale non viene minimamente intaccata. Krugman però riconosce che questa condizione d’indifferenza vale per l’economia nel suo complesso e non per i singoli soggetti che la compongono e, mutatis mutandis, per i rapporti di debito e credito tra i singoli sistemi economici integrati nell’economia mondiale. Tuttavia, lo stesso Krugman riconosce che un indebitamento elevato crea molti problemi, sia per i singoli che per i sistemi economici, quando accade qualcosa di imprevisto come, ad esempio, lo “scoppio di una bolla speculativa”.
La spesa pubblica avrebbe, perciò, lo scopo di rompere lo stato di quieta e di inerzia del pubblico (imprese e famiglie), in quanto per effetto della trappola della liquidità i debitori a causa della crisi non possono spendere e i creditori non vogliono spendere. E’ quanto accade nei Paesi dell’UE: i Paesi che si sono indebitati negli “anni buoni” sono ora tutti vittime di una profonda crisi finanziaria che li costringe ad adottare “duri programmi” di austerità, mentre i Paesi creditori, preoccupati per i rischi del debito, adottano anch’essi identici programmi, anche se meno “duri” di quelli adottati dai Paesi debitori.
La spesa pubblica, perciò, nella prospettiva della proposta di Krugman avrebbe solo lo scopo di consentire il superamento degli effetti della trappola della liquidità; egli infatti manca di prospettare, a causa della preferenza riservata al momento presente, la necessità che il superamento della trappola della liquidità sia accompagnato da opportune trasformazioni del modo capitalistico di produrre, utili ad evitare che le “crisi cicliche” catastrofiche e non possano ancora verificarsi.
La sua preoccupazione per l’immediato è senz’altro giusta e condivisibile; le misure di austerità sono certamente penalizzanti, anche perché mancano d’essere giustificate in funzione della rimozione o del contenimento della cause di crisi future del tipo di quelle sinora sperimentate. Per questo motivo, la proposta di Krugman, finalizzata solo a rilanciare il sistema economico in assenza delle necessarie riforme strutturali e delle regole utili alla stabilità economica e sociale, è insufficiente per attribuirgli la qualifica di opinion-leader“ di sinistra